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tesimo, e tornò a predicarlo in Italia agli stipendi della società biblica, non ascoltato dalla borghesia, spregiato dal popolo, che stima poco coloro che mutano e non crede mai alle conversioni fruttanti danaro.
Don Giovanni, sacerdote al pari di essi, non li seguì nella breve e tempestosa predicazione. Differenze di indole e più ancora di testa glielo impedirono, salvandogli l'originalità oggi ancora più sentita che compresa.
Come Don Giovanni giudicò la rivoluzione del 48? Che cosa pensava dei principi e del popolo? Di Carlo Alberto e di Pio IX acclamati primi, di Mazzini e di Garibaldi arrivati ultimi?
Il suo pensiero non è rimasto scritto, ma la sua vita lo ha chiaramente rivelato.
In tutto quel periodo, come prima e come dopo, seguitò la vita di cacciatore ascoltando forse sulle cime dei monti nell'aria trepida il rombo immaginario delle battaglie infelici, che si combattevano per l'Italia. Intorno a lui tutto era calmo. I contadini non s'occupavano che dei ladri infestanti per la mancanza di un qualunque governo, mentre giù nel paese invece la grossissima maggioranza assisteva alla rivoluzione come ad una avventura della quale era già previsto lo scioglimento. Nessuna fede, nessuna idea netta; qualche sentimento generoso fra molti avari, una certa smania di novità frammezzo