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acrificio, l'olocausto de' suoi soldati ai codardi rancori, alle insaziate cupidigie delle genti nuove necessarie a sorreggere il governo in quell'ora, e ricusando con nobile orgoglio le offerte del ministro promise non già l'opera propria, ma in nome stesso di Garibaldi, che il Generale si sarebbe un'altra volta sacrificato sull'altare della patria. Così fu, Don Giovanni raccontò a Garibaldi il suo abboccamento con Cavour; forse sospirarono assieme sulla viltà di quell'ora, e l'eroe abbandonò al re la sorte dei soldati che gli avevano conquistato più che la metà del regno.
Ma Don Giovanni, incapace per indole e per studi di comprendere i viluppi del problema nel quale era stato chiamato, conservò sempre del Cavour una spiacevole impressione. La viltà parlamentare e l'egoismo monarchico gli si erano soli mostrati nel grande statista, che pure aveva pianto di rabbia all'annuncio del trattato di Villafranca.
Quindi nel 1866 l'Italia monarchica fu vinta miseramente sugli stessi piani, che diciotto anni prima avevano veduto la sconfitta del Piemonte. La tradizione di Emanuele Filiberto era cessata per sempre nella casa di Savoia, ma l'astro aspettato vanitosamente da Carlo Alberto sul suo ultimo e fantastico scudo di re medioevale brillava sulle alture del Tirolo espugnate da Garibaldi.