Antico sempre nuovo/La poesia epica in Roma
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LA POESIA EPICA IN ROMA1
L’Epos è la poesia degli anni «migliori»2.E quali questi anni? Gli anni passati e lontani. Noi diamo al tempo biasimo e mala voce, perchè scolora, per usare le parole di Servio3, la virtù umana: a torto; poichè esso invece colora ogni cosa d’una patina inimitabile che rende tutto bello, venerabile, augusto. Non le cose presenti scolora, ma colora le passate, sì che quelle al paragone di queste paiono pallide e smorte. Nel brevissimo giro della nostra vita, ognun di noi ha il suo epos, e volentieri dice, o direbbe, quando la dea che dà il bene e il male, gli fosse presente: «L’uomo narrami, Musa»: l’uomo che fu e non è, in noi; l’uomo che molto errò, che molto sofferse ὅν κατὰ θυμόν, che era bello, grande, forte, destro, simile a un dio. Era veramente? A noi pare che fosse, e per la poesia basta. E quando comincia a parere? dopo quali traversie e disinganni? Ma lasciamo l’uomo per gli uomini. Io credo che tutti i popoli in tutti i tempi trovino nel passato della loro storia ciò che a mano a mano le singole persone nel passato della loro vita: qualche cosa di bello, o di meglio, che allora però non appariva quello che ora. Ma perchè un popolo abbia il suo epos, e l’abbia tale quale è quello di Omero, occorre ben altro. Occorre, oltre un fondo di miti ricchissimo e una agilità d’imaginazione straordinaria, oltre una lingua così duttile come la greca e un verso così potente come l’esametro, occorre che quel popolo sia, per così dire, come il Nestore omerico: che gli si siano bensì consumate due generazioni d’eroi, ma che tra i terzi viva ancora e regni. Dice il vecchio4: «Chè già una volta io pur con migliori che voi Uomini vissi insieme, e non mai me essi spregiavano. Chè non mai tali vidi uomini nè potrò vedere Quale e Peirithoo e Dryante, pastore di popoli, E Caineo e Exadio e il pari a un dio Polyphemo.... Fortissimi in vero erano quelli tra quanti uomini terreni furono nutriti: Fortissimi erano e con fortissimi combattevano.... e con loro nessuno Di quelli che ora mortali sono terreni, combatterebbe». Nestore non è più quello d’una volta, «Nè più salde membra gli sono i piedi nè più le mani Dagli omeri di qua e di là gli si avventano snelle»5; come quando uccise egli, il più giovane di tutti, Ereuthalione detto il clavigero, là dove quel torrente impetuoso, tutta voce, si getta nell’Iardano6; come quando, giovinetto, razziava le mandre e le greggi degli Elei e inseguiva gli Epei simile a «scuro uragano»7: come quando al seppellimento di Amarynceo, vinse al pugno Clytomede, alla lotta Ancaio, alla corsa Iphiclo, alla lancia Phyleo e Polydoro, e solo ai cavalli fu superato; ma erano due fratelli gemelli: «uno teneva forte le briglie, Forte teneva le briglie e l’altro col pungetto via aizzava»8; allora spiccava tra eroi, allora viveva tra uomini9; non «quali ora sono mortali10. Ma via! codesti mortali del dì d’oggi, non sono poi da disprezzare; e Nestore, il vecchio brontolone, esagera: esagera l’ignavia o debolezza presente, perchè ama il passato eroico, ed esclama ogni tratto: Ὢ πόποι, ἦ μέγα πένθος...11 Chè poi, gli uomini presenti quali sono rispetto ai passati? Tali che due di essi farebbero a stento quello che uno di quelli eroi faceva agevolmente. «Ed egli un masso prese con la mano, Il Tydeide, gran fatto, cui non due uomini porterebbero, Quali ora mortali sono; ed egli lo palleggiava agevolmente anche solo»12: «Cui (una pietra) non due uomini del popolo più forti Facilmente sul carro da terra caricherebbero, Quali ora mortali sono; ed egli lo palleggiava agevolmente anche solo»13. Altra volta il confronto, anzi, è d’uno a uno: «nè agevolmente lo Terrebbe con ambedue le mani un uomo nemmeno ben giovane, Quali ora mortali sono; ed egli dall’alto lo gettò, alzatolo»14. Tempo da questa poesia non è più quando il poeta senta di dover fare un paragone più meraviglioso. Iasone, nelle Argonautica, «Afferrò dal piano un grande rotondo pietrone Terribile disco dell’Enyalio Ares: non uomini Robusti cinque da terra l’avrebbero sollevato un pochino»15; Turno, nell’Eneide, vede un gran sasso, come quelli di Omero, cui «a stento due volte sei uomini scelti porterebbero in collo, Quali corporature d’uomini produce ora la terra; Egli lo prese con man frettolosa e lo palleggiava contro il nemico»16. Ebbene: e Iasone e Turno son ben di quel quarto genere, dei felici eroi che ora abitano ai confini della terra, nelle isole dei Beati e a cui tre volte l’anno porta la terra il florido frutto17; ma i loro poeti e quella poesia sono già troppo da loro lontani. Sentono essi, e specialmente il secondo, il compianto di quel «troppo desiderabile tempo»18; ma si accorgono anche che è troppo diverso dal loro, e paiono diffidare continuamente che agli uditori o, ahimè, lettori, esso non abbia a sembrare ora vero, ora mirabile.
È dunque il tempo «troppo desiderato». Il canto è in fiore, e col canto anche la virtù eroica: αἰχμά τε νέων θάλλει καὶ μῶσα λίγεια 19. Quando Achille prese la città di Eetione, padre della soave Andromache, dalle spoglie ammucchiate non scelse tripodi o lebeti, nè dalle prede allineate e aggruppate un pingue gregge o una donzella ben cinta, ma prese per dilettare il suo animo, una cetra arguta, bella, ben fatta, e sopra vi era d’argento il giogo. Ora in una notte assai dolente per gli eroi sotto Ilio (i ceryces in silenzio erano andati a chiamare a uno a uno nelle loro capanne i capi, e il capo di tutti aveva proposto di lasciar l’impresa, e un giovane guerriero si era opposto, e Nestore il vecchione aveva, dopo il convivio che appaga il cuore, consigliato a cercar di placare il Pelide), in quella notte dolorosa dopo la rotta, tre anactes seguìti da due ceryces si dirigevano lungo la fila delle capanne alla capanna dell’irato solitario. Essi andavano, brontolando voti: a tale andavano. Da una parte la pianura scintillante di fuochi, come un cielo sereno di stelle (i Troiani erano all’aperto in faccia alla loro grande città, e mille fuochi ardevano, e a ogni fuoco erano cinquanta guerrieri, e i cavalli stavano presso i cocchi, stritolando tra i denti l’orzo bianco e la spelta, e attendevano l’aurora); dall’altra il mare tutto rumori o bisbigli. Giunti alle capanne e alle navi dei Myrmidoni, giunti a quella capanna, udirono un canto. Era Achille, che accompagnandosi sulla cetra predata, cantava le glorie dei guerrieri20. Quali i canti di Achille, che tali fatti compieva e pativa! Egli nel momento dell’ira sanguinaria, in cui traeva la grande spada dalla guaina, si sentiva afferrare per i rossi lunghi capelli e vedeva, egli solo, i due occhi fiammeggianti della Dea: egli, nell’ora dell’indignazione dolorosa e disperata, in cui in disparte da tutti piangeva (egli piangeva ma in disparte), tendeva le mani al mare e parlava alla nebbia che dal mare sorgeva, che era sua madre e veniva e gli premeva il duro collo: Creatura, che piangi? Egli, così nobile era d’animo, così alto, che serviva d’esempio e modello a Socrate, quando esprimeva la religione del dovere21 che vince l’amor della vita; cui non solo la divina madre aveva detto il suo fato «dopo Hector pronta la morte», ma, quando già spirando battaglia, nelle armi nuove di Hephaesto che gli erano come ali e lo sollevavano in aria invece di tirarlo a terra, saliva sul cocchio, persino uno dei cavalli, il procelloso Xanto, gli parlava, chinando la testa sì che la criniera fluiva a terra; gli parlava, ammonendolo di nuovo del suo destino breve; ed egli: «Xantho, a che morte mi annunzi? non ne hai bisogno, Bene, sì, lo so da me che mio destino è qui di morire, Lontano dal caro padre e dalla madre: pure Non cesserò finchè i Troiani non siano saziati di guerra. Disse, e tra i primi con grida dirigeva i cavalli solidungoli». Che nei primi tempi eroe e aedo fossero la medesima persona, che cantava e faceva le grandi imprese? Non dice Odysseo al cieco Demodoco: «tu canti... quanto faticarono gli Achei Come o forse tu ci sia stato o da altro l’abbia udito?»22. Nell’Iliade non è altro aedo che Achille e forse Paride23, aedo forse d’amori; oltre Thamyris Thrace (nella Boiotia, che è la parte più recente del poema) e i cantori di threnoi nei funerali di Ettore, anch’essi in parte non primitiva dell’Iliade24. Thamyris errava di corte in corte: veniva dall’Oechalia, dalla corte di Euryto Oechalieo (un valentissimo saettatore cui Apollo uccise perchè da lui sfidato all’arco); giunto a Dorio s’imbattè nelle Muse. Egli professava che avrebbe vinto esso, se pur anche le Muse cantassero, figlie di Zeus Aegioco: or quelle adiratesi cieco lo fecero, e pur il canto divino gli tolsero, e gli fecero obliare l’arte della cetra25. Ma non è dunque Thamyris di quei primi tempi, perchè prima di lui è l’aedo dell’Odyssea, Demodoco, che fu bensì privato degli occhi dalle Muse, ma ebbe il dono del canto. Nella più antica Iliade oltre Achille, cantano solo le Muse accompagnate dalla bellissima cetra di Apollo26: quelle Muse, che l’aedo incontrava nei luoghi deserti e montani, tra il sussurrìo vocale di fontane e correnti; e che gli eroi Danai sentirono alternare con la bella voce il threno di Achille morto. Achille giaceva sulla pira, dimentico delle carriere sul cocchio da guerra, e la pira era sul lido, sola e grande; e un gran fragore sorse per il mare e le onde schiumavano, rompevano, sonavano a’ piedi della catasta; e i Danai, presi da terrore, sarebbero fuggiti nelle navi, se il vecchio Nestore non li avesse trattenuti: era giunta la trista novella alla madre e la madre veniva con le sorelle immortali marine a piangere, e piangevano invisibili perchè vestite di vesti immortali, piangevano il bellissimo figlio di Thetide, cresciuto come un rampollo d’albero, come un albero venuto su l’altura, destinato a vivere tristo e morire giovane. E allora i Danai sentirono tutte le nove Muse che cantavano il lamento funebre... O era il risucchio sonoro del mare che si ritirava dopo la tempesta notturna, esprimendo dalli scogli un murmure di voci e di tintinni?27.
Ma, come dice il savio Polidamante28, ad altri diede un dio le opere guerriere, ad altri la danza, a un altro la citharis e il canto; e se, nel principio, gli eroi erano anche aedi, poi ci furono gli eroi per fare e gli aedi per cantare. Erano essi in assai minor grado che i guerrieri, pur questi a quelli rendevano onore e li chiamavano pure eroi nè li disprezzavano i re. Dice Odysseo29: «Per tutti gli uomini terreni gli aedi Hanno parte d’onore e riverenza, poichè in vero loro La Musa insegnò le canzoni, e amò la tribù degli aedi». Molti essi erano, sì che spesso tra loro dovevano sorgere rivalità e invidie. In qual remoto tempo furono costruiti i due dedalei versi, che non sono vecchi nemmeno ora, «E vasaio vasaio odia e fabbro fabbro, E pitocco invidia pitocco e cantore cantore»? Forse nei tempi in cui l’aedo divino, onorato dalle genti, cantava al convivio dei re, poggiato alla colonna lunga, e il mendico errante dal brutto vestimento aspettava nel vestibolo, sulla soglia, il pane e la carne da empire la bisaccia. Ma il cantore era di quelli artefici che si vanno a chiamare, come indovino, o medico di malanni, o fabbro di legno, o anche divino cantore che diletti cantando; il mendico invece nessuno vorrebbe chiamarlo perchè lo consumasse. Sebbene, anche il pitocco può dire parola che sembra solo propria dei cantori: Io te posso celebrare per l’immensa terra30. Erravano, poeti e pitocchi, nello stesso modo. Pure l’aedo poteva anche affermare di non recarsi ai banchetti per bisogno, χατίζων31, sebbene non potesse non gioire in cuore, quando per la sua canzone (οἴμη) riceveva in dono una fetta tagliata dal tergo di cignale dai bianchi denti, con florido grasso intorno32. Erravano gli aedi, non da altri ammaestrati nelle loro canzoni, che dalla Musa, da una divinità che nel loro interno seminava canzoni d’ogni genere; e agli dei e agli uomini cantavano33. Ma il bene la Musa compensava spesso con un male: li privava degli occhi, ma loro dava soave canto34. La cecità era comune tra loro: cieco, come Demodoco, come forse Thamyri, imaginavano gli antichi Omero stesso, anzi affermavano che il suo nome sonava in eolico come πηρός35. Cieco era di Chio un buon cantore, che inneggiando ad Apollo in Delo, si volgeva alle fanciulle e diceva: «Or su, propizio sia Apollo con Artemide, Salvete voi tutte e di me anche per l’avanti Ricordatevi, quando alcuno dei terreni uomini Qui, straniero misero venuto, domandi: O fanciulle, e chi è per voi il più soave dei cantori, Che per qui s’aggiri, e di chi il più vi dilettate? E voi bene tutte rispondete da voi [?]: Un cieco! e abita in Chio rocciosa, Di cui tutte poi le canzoni avranno il pregio. E noi la nostra gloria porteremo, per quanto sulla terra Ci volgiamo a città d’uomini ben situate»36. E Daphnis, l’aedo pastorale, fu acciecato dalla ninfa, cui aveva rotto fede, e Stesicoro, poi, il grande maestro di cori, fu pure privato dalla vista per avere calunniata la Beltà, Helena, di cui nemmeno Priamo si lagna, nemmeno Priamo che la chiama a sè e le dice, «cara creatura», e la rassicura: «Di nulla mi sei causa tu, gli dei mi sono causa»37. Or come così sovente un tanto male con un tanto bene? Non basta, mi pare, rispondere che i ciechi sono spesso anche oggi musici. Io ricordo l’oraziano: Ut pictura poesis e il detto di Simonide, riportato poi dall’autore di Rhet. ad Herennium, che la pittura è poesia silenziosa e la poesia pittura parlante, e mi pare che gli antichi meravigliati di vedere rappresentare e colorire con le parole, che non vedono e pur fanno vedere, questo medesimo tribuissero al cantore: fa vedere e non vede. E a ciò erano invitati forse dal suono della parola ἀϝοιδός e ἀϝοιδή in cui pareva inclusa l’idea di «non vedere». E certo le parole εἶδος e εἰδύλλιον mostrano quanto il ravvicinamento di poesia a pittura fosse comune; e forse attestano una continuità inconsapevole in tempi più recenti con la falsa etimologia di quei tempi antichi: l’eco che suona dopo che la voce è estinta38. Ma che che sia di ciò, gli aedi erano volentieri imaginati ciechi, ed erravano cantando le oimai che un dio aveva loro seminate nel cuore, d’ogni genere. Qualche tratto della loro esistenza si può desumere, oltre che dall’Odyssea, dalle graziose storielle, in cui, dopo, fu posto come attore l’aedo divino sopra tutti: Omero. L’aedo dunque viaggia per l’Hellade divina e per le isole. Si aggira spesso lungo il molto rumoroso mare per trovare una nave bene arredata, che lo tragitti: egli paga i nocchieri con dolci versi, se è accolto: «Odi Poseidaone potente, scotiterra, Signore di Helicone spazioso e divino, Da’ brezza bella e vedere il ritorno senza guai Ai marinai che della nave guide e capi sono...». Ma se è respinto, maledice: «Marinai, passatori del mare, simili all’odiosa Ate, Che fate una vita non invidiabile agli smerghi paurosi, Venerate la divinità di Zeus ospitale, che impera dall’alto: Chè grave è la vendetta di Zeus ospitale, contro chi l’offende». Così a tutti si rivolge l’aedo, chè a tutti canta, uomini e dei: entra come nella casa dei re, così nella capanna del capraio; chiede con la maestà del sacerdote sì ai pescatori che tornano con le reti, sì ai vasai che accendono la fornace; e canta. Qualche volta dorme sotto un pino della campagna; qualche volta, sorpreso dalla neve, vede risplendere in una casa ospitale la bella fiammata, che orna la casa come i figli l’uomo, le torri la città, i cavalli la pianura, le navi il mare. Ma presso i capi o re o nelle grandi solennità religiose era la sua fermata solita e utile. Il ceryx, se egli era cieco, lo conduceva in mezzo dei convitati, lo appoggiava ad una colonna, lo faceva sedere sullo sgabello e gli appendeva a un chiodo sopra la testa la phorminx squillante, mostrandogli come prenderla con la mano, quando fosse venuta l’ora: intanto gli collocava avanti la bella mensa e un canestro, una coppa di vino, che ne bevesse quando volesse il suo cuore. E quando era sazio il desiderio del bere e del mangiare, allora la Musa (dea invisibile) lo eccitava a cantare le glorie dei forti, κλέα ἀνδρῶν, o gli amori e i dolori degli dei. Come imparava egli le sue oimai? Egli era o si professava αὐτοδίδακτος, e aveva necessità di «trovare» e non ripetere, chè «quella canzone più celebrano gli uomini, La quale a chi l’oda più nuova risuoni»39. Ora certo per la sua vita errabonda, specialmente per il mare che è comodo ponte tra terre molto diverse e uomini assai stranieri, gli era facile recare il nuovo di fuori; pure, per il grande numero di tali aedi erranti come lui, gli era forza portare del nuovo anche di suo, trasformando e allargando il vecchio: chè inventare dal nulla non sarebbe stato nè possibile a lui nè agli uditori dilettevole, chè gli uditori vogliono udire particolari bensì nuovi, ma di fatti noti e intorno a noti eroi. Perciò sopra tutto gli aedi recavano novità intorno a quel grande avvenimento, che non fu mai, come la meteora dei deserti, vicino a chi lo vide, e che forse, come quella meteora dipinge nel cielo una mirabile scena della terra, non fu se non un dramma del cielo veduto nella terra, con un’illusione così forte che il riflesso celeste si solidificò, per così dire, in una città vera e sventurata e s’incarnò in guerrieri e donne che veramente furono e vissero la loro vita d’amore e battaglia.
Di questi eroi quelli di cui più si chiedeva agli aedi erano Achilleus, la forza giovanile destinata a breve vita, perchè trova la morte nella esuberanza di se stessa, e Odysseus, il senno maturo che scampa per la sua accortezza ai più grandi e insoliti pericoli di battaglie e di procelle, di inimicizie atroci di uomini e dei. Erano un’antitesi perfetta: l’uno la sua ardente vita la gittava volenteroso, mentre persino l’ozio lontano dal grido della pugna gli era concesso; l’altro passava venti anni a ingegnarsi di conservarsela, la sua vita cauta e ragionevole, ἀρνύμενος, e ci riusciva e tornava, ultimo sì ma ricco d’esperienze e di tesori, in patria. Di loro si chiedeva sopra tutti: nell’Odyssea, oltre il νόστος λυγρός degli Achei, canzone, per così dire, collettiva e voluta dall’economia del poema, oltre l’inganno di Hephaesto, che è come poesia di danza, si cantano xλέα di soli due forti, di Achille e di Odysseo, e così proprie di loro, che dell’eroe della μῆνις si canta un νεῖκος, e del πτολίπορθος, del πολύμητις e quanti altri epiteti sono a significare questa sua stessa qualità, si celebra il δόλος del cavallo di legno. Quando e come le oimai di questi due eroi conversero in sè tutto l’interesse degli uditori, sì da involgere intorno al punto capitale e patetico delle loro azioni e vicende tutta la poesia della guerra d’Ilio e del ritorno da Ilio? Chè della saga di Achille il perno è la morte immatura di lui invincibile, che è fatalmente condotta dalla μῆνις, la quale è provocata dal più immeritato oltraggio di Agamemnon e degli Achei, e produce l’ira contro Hector e i Troiani, non tanto a loro quanto a lui funesta; e di quella di Odysseo il senso non è tanto nella distruzione di Ilio, di cui egli è l’autore principale, quanto nella sventura che a lui ne séguita (la virtù all’uno e all’altro porta male), e dalla quale egli pur riesce a salvarsi. Si comprende, mi pare, come questa contradizione «dolorosa» nel loro destino, tra ciò che avrebbe dovuto essere e ciò che fu, attraesse singolarmente aedi e uditori; ma quando e come si formarono una primitiva Μῆνις Ἀχιλλέως e una primitiva Ὀδύσσεια? Non è da me parlarne nè questo il luogo: Ὅμηρος fu l’aedo divino al quale gli antichi attribuirono tutti e due i poemi, o almeno l’Iliade, quali li abbiamo. Ma certo quali li abbiamo non sono essi quali un aedo, se uno fu, li costrusse da principio: in essi è certo l’opera dei ῥαψῳδοί, col qual nome intendiamo appunto i cantori, non più αὐτοδίδακτοι, non più pieni la mente di oimai d’ogni specie seminatevi dalla Musa, ma di canti altrui e specialmente dell’Iliade e dell’Odyssea.
Il perchè del loro nome e il modo della loro arte si può, non dico desumere ma imaginare, da un leggendario «Contrasto di Homero ed Hesiodo». Al funerale di Amphidamante, re dell’Euboea, convengono in Chalcide chiari personaggi, non solo in forza e prestezza ma anche in sapienza, a un agone: tra gli altri Hesiodos e Homeros. Sedevano gravi giudici i più illustri de’ Chalcidesi e Paneide, il fratello del morto. Si fa avanti l’aedo d’Ascra, e interroga:
O Melesigene Homero, che sai da’ Celesti le cose
O mi di’ sulle prime: che è pei mortali il migliore?
E l’altro rispondeva:
È per il primo ai terrestri non essere nati il migliore;
Nati, poi, quanto più presto passare le porte dell’Ade.
hesiodo
O mi di’ pur codesto, ai Celesti simile Homero,
Che credi tu che al mortale il meglio nell’animo sia?
homero
Quando la gioia e la pace nel popolo domini tutto,
Quando i convitati ascoltino in casa l’aedo,
L’un dopo l’altro seduti, e presso, le tavole piene
Siano di pane e di carni, e il vino attingendo al cratere
Portilo intorno il coppiere e versilo dentro le coppe:
Questo a me pare che sia nel cuore la cosa più bella.
Or bene: questi ultimi versi sono veramente dell’Odissea (ι 6-11), mutata Ἢ ὅτ’ἄν del 6 in Ὁππόταν, e gli altri o sono, con lievi mutazioni, rifoggiati da versi omerici o composti di parti e cadenze di essi. Riprende Hesiodo, indispettito del successo di Homero, rivolgendosi a domandare difficoltà ed enigmi:
Musa di ciò che a me è presente, futuro, passato,
Nulla cantare di ciò: ma tu ricorda altro canto.
Il primo verso è calcato sul celeberrimo 70 di A, frequentemente ripetuto, e l’altro ha la cadenza dell’ultimo verso degli Inni Omerici: Αὐτὰρ ἐγὼ καὶ σεῖο καὶ ἄλλης μνήσομ᾽ ἀοιδῆς. Risponde Omero:
Non alla tomba di Zeus i cavalli dall’unghia sonora
Infrangeranno i cocchi gareggiando per la vittoria.
Passano poi alle anfibolie:
hesiodo
Poi la carne de’ buoi mangiarono e il collo a’ cavalli
homero
Sciolsero, tutto sudor, poi che furono sazi di guerra.
E così continuando: il primo verso, essendo accavalcato al secondo, ha un senso strano o contradittorio o anche turpe, modificato poi dal secondo verso; come, per darne anche due esempi:
hesiodo
Questo guerriero è nato e di padre forte e non forte
homero
Madre; poichè la guerra è dura per tutte le donne.
hesiodo
Per tutto il giorno così banchettarono, senz’aver nulla
homero
Dalla lor casa: imbandiva il sire dei forti Agamemnon40.
È un’esercitazione graziosa fatta quando si voglia e da chi si creda, tardi per certo; ma mi pare che mostri la maniera propria degli artefici che vengono dopo i poeti: Ὁμηρίδαι ῥαπτῶν ἐπέων... ἀοιδοί41. A me pare che ῥαψῳδός prima di significare recitatore, sì dei poemi Omerici sì d’altri carmi, indicasse l’aedo che, venuto già quando le oimai erano da tempo vulgate e trite, si adoperasse a rinnovarle qua e là per gli uditori accostumati, adornandole di particolari tratti ora dal suo umore, ora da un’ispirazione o esigenza locale. Il suo nome veniva dall’abilità sua di cucire alle oimai primitive il suo «panno». Certo, se rhapsodo avesse sempre significato recitatore, non troveremmo tale nome attribuito a Omero stesso, e agli aedi che sono nell’Odyssea, Phemio e Demodoco. Do un esempio di questo lavorìo dei rapsodi. Uno d’essi voleva di Achille, di cui i suoi uditori conoscevano tante imprese eroiche, dare la novità più meravigliosa: rappresentare questo simile agli Dei, questo gigante, questo cuor di leone, questo frangi-schiere e distruggi-città, rappresentarlo bambino, cui, non la madre (la madre di Achille dimorava nella profondità del mare), ma un aio imbocca con la carne tagliata prima accuratamente e col vino; ed il bimbo, sulle ginocchia dell’aio, spesso rigetta e ne spruzza le vesti. Il rapsodo prende l’oime dell’ambasceria ad Achille, che in origine era fatta da due: Aias e Odysseo, come si vede nell’Iliade, quale noi abbiamo, dai versi 182 e ’3, 192 e altri ancora, in cui è usato il duale: «E quei due andarono lungo la riva del molto sonante mare»; prende quell’oime e aggiunge ai due ambasciatori Phoinix, contro ogni verosimiglianza, perchè esso doveva già essere con Achille, se non era a Scyro col figlio d’Achille; e lo fa parlare a lungo, alla maniera di Nestore, con quei miti ricordi dell’infanzia, all’Implacabile; e con essi ricordi e col tratto di Achille che fa rimanere con sè il buon vecchio, ottiene tanto di grazia, che tutto il luogo è rimasto come parte integrante dell’Iliade. E che sia aggiunta, resta dunque chiaro il segno in quei duali, e la commessura è evidente nel verso 223:
νεῦσ’Αἴας Φοίνικι· νόησε δέ δῖος Ὀδυσσεύς,
Zeus che nell’alto dimora spirò la paura in Aiante;
Perso ristè si gettò sulle spalle, il settemplice scudo,
Esterrefatto guardò nella turba, e pareva una fiera,
Mentre voltavasi a tratti, scambiando di rado i ginocchi:
Come un ardente leone che via dal recinto de’ bovi
Seguono a furia i cani e gli uomini della villa,
Che non gli lasciano prender la grassa carne de’ bovi
Vegliano tutta la notte ma esso che agogna le carni,
Lanciasi invano; però che spesse le freccie
Svolano in faccia a lui, lanciate da mani animose,
Svolano fiaccole accese: egli arretrane pure nel lancio;
E coll’aurora lontano ne andò, con il cuore dolente;
Aias allora così da’ Troiani, dolente nel cuore,
Ben contra voglia andava, perchè temea per le navi.
E come quando in un campo fece forza un asino ai bimbi,
Pigro, cui molti in vero bastoni si ruppero intorno,
Ma egli tosa entrato la folta maggese; ed i bimbi
Picchiano pur coi bastoni, ma la lor forza è bambina;
E lo cacciarono a stento poi che s’empì di foraggio:
Così d’allora Aiante il gran Telamonïo figlio,
I fieri in cuore Troiani e i lungi-noti alleati
L’aste avventandogli a mezzo lo scudo seguivano sempre42.
Ora che l’asino sia stato introdotto poi e da altri, si vede chiaramente dal fatto che l’azione espressa ne’ versi seguenti quelli che ho tradotti, non è corrispondente all’ultimo paragone ma al primo. E qui è ancora possibile trovare il luogo della cucitura. Il verso 556 comincia 225 Ὧς Αἴας τότ᾽, e il verso 566 Αἴας δ᾽ ἄλλοτε μέν. È questo esempio unico di correlazione ἄλλοτε μέν... ὁτὲ δέ che segue nel 568. Forse l’oime preventiva recava:
566Ως Αίας δτὲ
556μὲν μνησάσκετο θούριδος ἀλκῆς
Facile è imaginare che da tale lavoro fatto da questo o quello, senza che l’uno sapesse dell’altro, dovevano risultare contradizioni; e sono infatti nell’Iliade e nell’Odissea, nè tutte si possono spiegare con la distrazione del poeta. Ma con questa in vero la spiegavano i Romani, se a ciò si riferisce il noto verso d’Orazio (AP. 359): quandoque bonus dormitat Homerus. Di tali contradizioni ricordiamo Pylaimene, capo dei Paphlagoni ucciso già da Menelao (Ε 576-9), che segue poi il suo figlio morto, versando lagrime (Ν 643-59); Schedio, figlio di Perimede, ucciso da Ettore (Ο 515), che poi, Phoceo bensì ma figlio di Iphito, è ucciso novamente da Ettore (Ρ 306). Questi sono scorsi ben leggieri, anzi per il secondo caso si può trattare di due Schedii. Più gravi altri. Un esempio. Quando il Pelide, preso dalla terribile collera, sta per trarre la spada, alcuno l’afferra per i capelli rossi: Athene, cui aveva mandata Here che Achille e Agamemnone amava di pari amore (Α 194-6, 208-9); ma sappiamo poi da Thetide, la quale accorre al figlio piangente e gli promette di chiedere vendetta a Zeus, che Zeus il giorno avanti si era portato al banchetto degl’incolpevoli Aethiopi e che gli dei «tutti» erano andati con lui (Α 423-4). Più infine l’arte rapsodica che l’inspirazione aedica, spiega la ripetizione frequente di emistichi, cadenze, versi e passi, e le variazioni sul medesimo paragone e sul medesimo episodio. Come si trovano talvolta cenni di canti anteriori dimenticati (conchiglie fossili testimoni di acque ora lontane), così più spesso ci imbattiamo in altri cenni a canti noti, e che pure sarebbero posteriori. Siano esempio i due epiteti ποδώκης, πόδας ὠκύς e πτολίπορθος. Il primo di questi epiteti accompagna quasi sempre Achille. In quale episodio dell’Iliade campeggia questa velocità del fulvo eroe? Ce n’è appena un ricordo in Ψ 792, quando Antilocho dice che con Odysseo difficilmente contenderebbero alla corsa gli Achei, «se non Achille». La corsa dietro Ettore non lo mostra più veloce del suo avversario. Ora Pindaro attesta un’oime intera su questa dote dell’eroe43 nelle sue caccie in casa di Philyra. L’altro, πτολίπορθος, oltre che della dea Enyo, di Ares e di eroi anteriori come Oileo e Otrynteo, è l’epiteto pure di Achille che quattro volte è così chiamato, l’eversore di città. Nè a torto, chè in Ι 328 e seg. egli dice: «Dodici in vero città d’uomini devastai con le navi Ę a piedi (per terra) undici, io dico, per la Troade zollosa». Ma nell’Odyssea questo diventa il proprio aggiunto di Odysseo, nè già perchè egli solesse prendere e distruggere le città, ma perchè, col suo ἵππος δουράτεος ne prese e distrusse una: Troia:
ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσεν.
Ora quando tale è detto nella Iliade, noi ci meravigliamo, perchè la città, la cui distruzione gli darà l’aggiunto, è ancora in piedi. Due volte in vero troviamo l’epiteto a lui attribuito: in Β 278, in Κ 363 nella Dolonea. In questi due luoghi dunque l’Iliade presuppone l’Odyssea.
Al tempo di Pisistrato, almeno, l’Iliade e l’Odyssea esistevano come esistono ora, con le loro contradizioni e ripetizioni, con la loro lingua varia e discordante; ma, come in un antico edifizio, il tempo aveva già stesa la sua patina venerabile e smorzava i rilievi e dissimulava gl’incavi: tutto pareva in esse ragionevole e bello. I primi critici doverono ben sentire dentro sè la battaglia del sentimento con la ragione, della consuetudine col giudizio, quando cominciarono l’analisi dei due portentosi monumenti! Non era forse peculiare dell’arte del poeta quello che pareva difetto o errore alla ragione dei critici? Ma, prima che questi venissero, i rapsodi, ora costretti al semplice uffizio di recitatori, non trovavano negli uditori se non ammirazione e diletto, quando loro si presentavano declamando l’Iliade, in veste rossa, e l’Odyssea, in veste viola. E da un pezzo gli aedi non erano più. C’erano invece de’ poeti detti cyclici, che lavoravano attorno al grande monumento epico, accontentando gl’insaziabili che volevano sapere e il principio e la fine. E anche questa poesia perdè pregio, quando a sostenere il peso del carme epico sottentrò la lira di Stesichoro. I poeti epici continuarono a scrivere dottamente genealogie e mitologie, ma quelle erano gli ultimi languidi echi del tetracordo nei luoghi dove già squillavano i flauti dell’elegia e tinniva la pactide di Sappho, quando sulla phorminx già dominavano come re gl’inni, e gli eroi d’Omero vivevano nuovamente avanti la thymele del teatro. Quando i grammatici Alessandrini tornarono con grande acume e dottrina su tutta la produzione letteraria del passato e furono spinti a risuscitare ora questo ora quel genere, anche la poesia epica ebbe un guizzo di vita. E Apollonio Rhodio scrisse le Argonautica. In esso poema dal contrasto di due necessità, l’una di essere antico e fedele a norme e leggi non mai prima così note come allora, e l’altra di essere nuovo e tale apparire a chi sapeva l’antico come prima d’allora nessuno, sprizza spesso una scintilla: la poesia; poesia, che meraviglia più che non appaghi, che suona da fuori più che non echeggi da dentro; che trova e non scopre44.
II.
Noi troviamo la storia antica di Roma piena di leggende eroiche, di oimai. Chi le aveva portate nei colli a cavaliere del Tevere? Erano stati marinai, che prima le avevano narrate nelle più antiche città del litorale tirreno, donde erano passate nella più giovane e più potente Roma? Par certo. Ma forse alcune erano venute coi plaustri lenti, nel grande viaggio delle tribù Arye dall’Asia; e poi si riscontrarono con quelle, che tornavano loro dal mare, modificate, abbellite, le stesse e pur altre, e talora non si ravvisavano e talora sl. Per esempio, come ebbero i Latini la loro Helena? di prima o di seconda mano? Non si può dire; ma l’ebbero, e con varii nomi e successi. Si chiamava Lavinia o Launa; in Lavinio, città presso il litorale. Era figlia di Giove anch’essa, come Helena: del Iuppiter Latiaris, che in forma umana era detto Latinus45; ma un giorno in una battaglia, non si vide più: era tornato dio. La madre era Amata, che è quanto dire Vesta o Rhea, poichè tal nome si conservò in Roma, e con esso il Pontefice Massimo chiamava la prima Vestale. Helena greca invece era nata o da Leda o da Nemesi, o da Leda che si chiamò poi Nemesi. Il suo padre è Tyndaro, in apparenza; in realtà, Zeus. Per il suo concepimento avvenne una trasformazione, secondo i più dei poeti, del padre in cigno; secondo Stasino nelle Cypria, della madre (Nemesi) in ogni specie di animali terrestri e marini. Nulla di ciò nell’Helena italica; però tra i suoi progemitori (e nella mitologia si sa che spesso i figli e i nepoti sono la duplicazione dei padri e degli avi) è Picus, che fu converso in uccello dalle ali variopinte. La leggenda italica noi la dobbiamo recuperare dall’adattamento che se ne fece poi ad altre leggende greche; e ogni traccia è preziosa. Vediamo, per esempio, che come Helena, così Lavinia aveva due fratelli e una sorella. La sorella comparisce in una pittura d’un colombario nell’Esquilino, illustrata da Edoardo Brizio come egli sa illustrare: due donzelle siedono; una parla con un giovine che è in piedi e in atto di allontanarsi. Or l’una è Lavinia, come indica il residuo del nome Lavini scritto sul suo capo, e l’altra è la sua sorella, se ben si argomenta dalle lettere (di cui l’ultima mezza) sor, che il Brizio lesse pure sopra il capo di questa, e che sono il principio della parola soror46. Il che è confermato anche da altre analogie che vedremo. Dei due fratelli è questa oscura testimonianza in Servio47: Amata enim duos filios voluntate patris Aeneae spondentes... interemit... hos alii caecatos a matre tradunt, postquam amisso Turno Lavinia Aeneae iuncta est. Or qui mi pare sia una mirabile concordanza con un passo dell’Iliade dei più dramatici48. Helena parla, dopo avere indicato i principali eroi degli Achei: «Or bensì vedo tutti gli altri Achei dagli occhi fulgidi, Cui bene conoscerei e il nome ne direi; Ma i due non posso vedere ordinatori di genti Castore domator di cavalli e il buono al pugno Polydeuce, Miei proprii fratelli, che una madre partorì con me. O non vennero da Lacedaemone amabile? O qui bensì vollero venire nelle navi che passano il mare, Ma poi non vogliono entrare nella battaglia dei forti, Gli obbrobrii temendo e i biasimi molti, che io ho? — Così diceva, ma quelli già teneva la nutrice terra Là in Lacedaemone, nella cara patria terra». Non è con questi versi accennato un effetto tragico nella sua famiglia, e appunto ne’ suoi fieri fratelli, della fuga di Helena? E un tragico effetto segue pure nelle nozze di Lavinia con lo «straniero»; perchè il punto capitale della somiglianza è appunto nel farsi Lavinia moglie a Enea; donde la guerra. Che Enea resti in Italia con Lavinia mentre Paride torna in Asia con Helena, si spiega con la sopraposizione del mito che i Latini conservavano da tempi antichissimi, sul mito che fu poi importato dai Greci. Che lo possedessero da loro, si fa probabile dal trovarlo ripetuto con atteggiamenti diversi più volte. È un’Helena casta Lucrezia, un’Helena virginale Virginia. In Ardea è una terza Helena, face di guerra anche essa tra ottimati e plebei49. Nè basta: i personaggi del drama antichissimo si sdoppiano, si sciolgono, e in altre forme vivono per un pezzo. Chi è Rhea Silvia, chiamata poi Ilia, se non l’Amata, la Vesta che concepisce da Giove Laziale? Ella concepisce invece da Marmar: ma c’era differenza in antico tra Iuppiter e Marmar? E concepisce in sogno. Così va inteso il passo di Ennio50 riportato da Cicerone, ricordando il fatto che nei monumenti figurati ella è sempre rappresentata dormente51. È un concepimento meraviglioso come quello di Leda. Non ne nasce, è vero, la donna fatale (la donna fatale è, per quelle mirabili incongruenze dei miti, essa, e ha appunto una sorella, secondo Ennio); ma due gemelli sì, nascono, belli e forti come i Dioscuri. Ma unus erit, che Marmar potrà portar con sè nel cielo e fargli vivere la vita immortale; l’altro, il Castore, morrà. Che fa, se dei figli italici di Marmar l’uno uccide l’altro (il che non è poi nemmeno affermato per sicuro), mentre nei Dioscuri greci, Castore è ucciso da altri che dal fratello? La somiglianza c’è lo stesso. Eppure io direi che l’antichità del mito fosse meglio conservata nel nostro racconto che in quello dei Greci. Perchè, se nei due gemelli, che vivono e muoiono alternamente, è espresso il succedersi del giorno e della notte, par naturale che originariamente si concepisse l’uno come uccisore dell’altro, allo stesso modo che Hermeias, il Sole, è fatto uccisore di Argos, il cielo stellato, ed Oedipus è parricida e incestuoso. E a ciò fa pensare anche più l’acciecamento ricordato da Servio. Non diventa cieco anche Oedipus? Ma qui tutti e due i fratelli sono acciecati, e dalla madre. Contaminiamo le due coppie mitiche, sopraponiamo la storia dei due figli di Amata (che si uccide come Epicaste o Iocaste) su quella dei due figli di Rhea (che si inimicano come Eteocle e Polynice); e avremo uno d’essi, solo uno, cieco o ucciso, che per il senso del mito è la stessa cosa. E io penso ai Tyndaridi nei quali la primitiva perdita della luce è bensì conservata, ma con tale trasformazione che in essi è attivo ciò che negli altri è passivo: acciecano (Stesichoro lo sa), non sono acciecati. Or questo mito dei due gemelli nelle tradizioni Romane ritorna più volte: Amulio e Numitore, Romolo e Tazio; e questi ultimi, in cui si ripete il fatto di Romolo e Remo, presso a poco (Tazio non è ucciso da Romolo, ma questi si compiace della sua uccisione: T. Liv. I xiv), mostrano come un mito si possa adattare a un senso nuovo, storico. E i due consoli, di cui imperava uno un giorno, l’altro l’altro, non sono essi la riproduzione, diremo così, politica di quel mito celeste? Aveva dunque il popolo Romano (si può sospettare, se non credere) il suo fondo epico in comune coi Greci, non preso a prestito da questi; ma esso non gli servì se non a rendere più facile l’introduzione delle modificazioni e delle interpretazioni greche: non mise e fiorì, in Italia, nè crebbe, per i suoi semi nuovi, a cespuglio, a bosco, a selva. Perchè, dove sono gli aedi italici?
Gli aedi pare che ci fossero, e si chiamavano vates e carmentes52. Si credè poi che essi non facessero che predire il futuro, ma certo narravano anche il passato. È inutile aggiungere parola per confermare l’affinità tra il poeta e profeta: così cieco-veggente è Tiresias come Demodoco; e chi può dire, quando l’aedo canta il troppo desiderabile tempo, se egli dipinga con la parola il passato o l’avvenire? Si chiamavano dunque, gli aedi Romani, vates e carmentes, e non scrivevano essi, come appare dalla notizia di Servio, i loro canti. Si recavano, come Phemio e Demodoco, ai conviti, se poniamo mente a ciò che diceva Catone nel «Carmen de moribus» Poeticae artis honos non erat, si quis in ea re studebat aut sese ad convivia applicabat, grassator vocabatur53. Il passo non è di facile interpretazione; ma par certo che la frase sese ad convivia applicabat, analoga alle altre se ad studia, se ad philosophiam applicare, debba mettersi in relazione con la notizia che dalle «Origini» di Catone trasse M. Tullio che molte generazioni avanti lui in epulis si solevano cantare a singulis convivis canti in lode di chiari personaggi o eroi54. Il convivio nell’espressione Catoniana è, per così dire, una solennità musica e poetica, e la sua frase vale quanto «ai canti conviviali», che sappiamo essere stati eroici o epici. Ma Catoné affermava qui, come Cicerone conferma anche in altri libri55, che erano i commensali che cantavano, l’uno dopo l’altro, al suono della tibia; non cantori di professione. Notiamo in primo luogo che i commensali diventano in Varrone56 pueri modesti. Non è probabile che Catone questa circostanza, che i convitati stessi cantavano, la imaginasse, non piacendogli ciò che al suo tempo, tuttora al suo tempo, vedeva, che i cantori erano propriamente artisti che cantavano lodi di eroi per loro quasi stranieri; artisti, pueri (che non è detto che valga «fanciulli») o no, che forse avevano cominciato a cantar d’altro, ad tibiam, che de clarorum virorum laudibus? Certo sarebbe, da chi non accettasse questo modo d’intendere, da spiegare, come mai Catone approvi che si chiamassero grassatores quelli che in ea re, ossia nell’arte poetica, si affaticavano. Perchè quei convivae per cantare tali glorie di forti, dovevano pure industriarsi d’impararle a cantare, specialmente con l’accompagnamento della tibia. Il biasimo insomma che dagli altri passi riportati da Gellio del carme intorno ai costumi, risulta che Catone dava a questi chiamati grassatores, non si accorda col tono di lode, che era certo nella notizia riportata da Cicerone; lode a cui Cicerone stesso riferisce contrastare un’orazione del severo censore, il quale, secondo lui, si contradice57. Diciamo dunque che tali clarorum virorum laudes erano cantate da aedi, che Catone dice esser chiamati grassatores, come le lamentazioni funebri o naeniae, lodi anch’esse di morti, erano cantate da donne, che si pagavano58, da prefiche. Ma perchè grassatores? Interpretano «adulatores», il che sarebbe ben detto e dei cani che scodinzolano per aver l’osso, e dei parassiti che blandiscono per essere invitati a cena; ma come potrebbe riferirsi a quelli che in ea re, cioè nell’arte poetica, studebant? Prendiamo in un autore antico, che riferisce cosa antica anche per lui, della parola il significato primitivo: gradi, riferisce Festo, vale, ambulare, e grassari è il suo frequentativo; sì che grassator e nel senso proprio e nel senso translato a biasimo, vale quanto il nostro «vagabondo», quanto l’altra parola Catoniana ambulator: vilicus ne sit ambulator59, ossia non faccia quello che il buon poeta Floro, rimbeccato da Hadriano: ambulare per tabernas60. Era dunque una parola d’insulto come quella che il superbo Antinoo dice dei simili a colui che egli crede un pitocco, ed è il divo Odysseo: ἀλήμονες... πτωχοὶ ἀνιηροί, δαιτῶν ἀπολυμαντῆρες; ai quali l’inclito porcaio Eumaco ammette, con un fuggevole cenno (ἢ καί), che assomigli il divino aedo61. E somigliava in fatti per la vita errante e per il frequentare i conviti. Così dunque noi troviamo anche in Italia e in Roma, in quel tempo remoto, gli aedi, che si chiamavano vates e carmentes, e che cantavano le clarorum virorum laudes, κλέα ἀνδρῶν62. Il malcontento di Catone parte dalla medesima ragione per la quale aveva rimbrottato il Nobiliore di aver condotti «poetas» nella provincia; dal timore, cioè, che i singoli cittadini usurpassero la gloria del Comune. Come agli aedi successero i rapsodi, così dopo i Carmenti venivano i Carmentarii, che scrivevano i canti di quelli. Or facile è imaginare che col tempo i Carmenti stessi scrivessero questi canti senza bisogno di librarii, e che prendessero il nome di scribae. Il fatto è che avevano già questo nome, quando per la benemerenza d’uno di essi, fu a loro, come agli istrioni, concesso il tempio di Minerva nell’Aventino, quale luogo di fermata, di ritrovo, di adunanza. Ciò nella seconda guerra Punica dopo che Livio Andronico ebbe scritto l’inno a Giunone Regina, cantato da tre volte nove fanciulle, inno che parve avere virtù deprecatrice e propiziatrice; di che grato il popolo fece tale dono e grazia scribis histrionibusque, in onore di Livio, quia is et scribebat fabulas et agebat, era cioè nel tempo stesso scriba e istrione63. Dalle quali ultime parole non si può ricavare legittimamente se non questo, che già a quel tempo, 547 di R., il genere poetico più in fiore era il dramatico; e non che scriba significasse soltanto scrittore di fabulae, cioè tragedie, comedie e sature. Poichè per vero Livio stesso già in quell’inno non è autore dramatico, sì lirico e anche epico, perchè in un inno a Giunone, in tale circostanza, doveva aver luogo il ricordo della memore ira di lei, e perciò qualche tratto epico, che, in ben altra forma, troviamo nell’Eneide64; e a ogni modo, fu egli poeta epico, anzi il primo, appunto esso, che si ricordi.
III.
Che polloni della stessa sementa la quale germinò nella Grecia i poemi omerici, fossero anche nell’Italia e in Roma, a me par probabile; certo è peraltro che molte pianticelle già adulte vi furono trapiantate poi. Da Servio65 è ricordata un’antica pittura del tempio di Ardea, che rappresentava Capaneus con le tempie trapassate dalla folgore. Altre storie, oltre le Omeriche, penetravano dunque nel Lazio, da’ poemi cyclici, da cori e tragedie; e questa di Capaneo penetrò certo in tempi bene antichi, se fu il modello della morte di Hostilio. Ed estranea ai poemi omerici è pure la favola di Salmoneo, che si può congetturare fosse assai presto introdotta, se la troviamo nella storia dei re di Alba: «Dopo Agrippa, regna Allodio, una specie di tiranno, nemico degli dei, per 19 anni. Egli, nel suo disprezzo per la divinità, aveva combinato imitazioni di folgori e rimbombi simili a tuoni, coi quali voleva, come un dio, spaventare gli uomini. Ora essendo cadute pioggie e folgori sulla casa sua, ed il lago, presso cui abitava, avendo fatta un’insolita inondazione, egli con tutta la casa affondò e morì. E anche ora, e trasparendo il lago, in una parte, quando l’acqua è piana e tranquilla, si vedono rovine di portici e altre traccie di abitazioni»66. E di questo genere non omerico si può considerare la giunta (se non si vuol credere parte originaria) alla saga dei due gemelli, che Servio ricorda fuggevolmente essere stati acciecati dalla madre. La novella di Stesichoro, acciecato dai due Dioscuri per l’oltraggio da lui fatto ad Helena; oltraggio che egli poi ricantò, e riebbe la vista; raccontata confusamente, può avere suggerito questo acciecamento, non più attivo, ma passivo. Passaggio che io sospetto sia avvenuto in Marica, che trasforma (trasformò ella Pico in picchio), dalla Nemesi delle Cypria, che si trasforma. Ma, a ogni modo, troppe più sono le infiltrazioni dei miti omerici. Nella leggendaria storia di Roma primitiva, a me par di vedere, per esempio, un ricordo di Briseide nelle Sabine; forse (ma qual mutamento!) un ricordo di Ettore trascinato dalla biga di Achille, in Metto Fuffetio squartato dalle quadrighe di Hostilio. Nè a caso, forse, Coclite ha qualche tratto di Aiace il Telamonio. Ma i ricordi omerici è più naturale che si trovassero nelle città marittime e che fossero dell’Odyssea. Quando le folte selve che ombravano la casa di Circe, furono trovate nel promontorio Circeo? quando a Odysseo e a Circe furono dati tre figli, Romo, Antia, Ardea, donde le tre città Ardea, Antium, Roma? Questa è la notizia di Xenagora, riportata da Dionysio67; e non è più che un cenno, ma molto significativo, della diffusione nel Lazio degli errori e avventure d’Ulisse. Della qual diffusione e dell’interesse, con che esse erano accolte, noi abbiamo il più grande degli argomenti nel fatto che al principio del secolo quinto di Roma l’Odyssea appunto ebbe veste latina.
E l’ebbe da un Lucio Livio Andronico. Che egli fosse preso nell’espugnazione di Taranto e di lì condotto prigioniero a Roma, si vuol indurre da Cicerone che riferisce, correggendola, una notizia di Accio68: Accius... a Q. Maximo quintum consule captum Tarento scripsit Livium. La qual data Cicerone prova sbagliata. Taranto fu presa due volte: la prima nel 482 di R. sotto il consolato di Papirio Cursore e Spurio Carvilio Maximo, la seconda nel 545 nel quale anno Q. Fabio Maximo era console la quinta volta. È chiaro che se Livio (come Cicerone lo chiama, senz’altro) fu prigioniero in un’espugnazione di Taranto, questa fu quella di Papirio, nel 482. Nell’anno 514, sotto il consolato di C. Claudio e M. Tuditano, rappresentò per primo un drama, primus fabulam... docuit69: fosse questa fabula una tragedia o una comedia. Nel 547, sotto il consolato di M. Livio Salinatore e C. Claudio Nerone, ebbe dai pontefici l’uffizio di comporre l’inno (carmen) a Giunone Regina, che fu cantato da tre volte nove vergini e parve ottenere dal cielo la fine delle disfatte e il principio della vittoria in quella terribile guerra70. Quando morisse, non si sa e mal si può congetturare da ciò che ha Cicerone nel «Catone Maggiore», che Livio durò in vita sino all’adolescenza di Catone71, poichè codesta adulescentia era età assai indeterminata e può estendersi al quadragesimo quinto anno. Se ne induce solo che morì vecchio. Egli fu messo sovente in relazione con M. Livio Salinatore e con la sua gente e famiglia. Prima di tutto, Accio, abbiamo detto, lo diceva preso nella espugnazione di Taranto fatta da Fabio Maximo. Ora è noto come il Salinatore credesse e dicesse che per opera sua Fabio aveva recuperato quella città, perchè egli ne egli ne aveva conservata l’arce, e come Fabio lo rimbeccasse: «E come non ricorderei io che per tua opera l’ho ripresa? Non l’avrei ripresa se tu non l’avessi perduta»72. Perchè Accio pensò che il nostro Livio fosse preso in questa piuttosto che in quella espugnazione se non per la parte che in essa, negativa o positiva, nel perdere la città o nel riaverla, aveva avuto M. Livio? Hieronymo poi riferisce che per il suo ingegno egli fu fatto libero da Livio Salinatore, di cui istruiva i figli73. Il qual Livio Salinatore, pure accogliendo per un momento la notizia, non può essere Marco, poichè ben prima dell’anno indicato da Hieronymo (1830 - 567), da quando rappresentò il suo primo drama, cinquanta anni addietro presso a poco, Andronico doveva già essere liberto. Ora piuttosto che ricorrere all’ipotesi d’un Lucio Livio sconosciuto, che avrebbe dato il pileo e il nome al Tarentino Andronico, io preferisco ritenere la notizia di Hieronymo originata dal medesimo fatto che quella di Accio. E in vero, oltre che poco probabile per il tempo e per i costumi, è anche inverosimile per altri motivi, che questo Livio scriba ed istrione facesse il pedagogo, sebbene, in qualche modo, ciò sembri affermare anche Suetonio74. È troppo facile imaginare come tale particolare potesse inventarsi; poichè l’Odissia di Livio andava per le scuole anche ai tempi di Orazio, quando Orbilio la dettava a suon di ferula. L’idea di scuola e di maestro era associata da un pezzo al nome di Livio; tanto più che egli aveva interpretato, cioè aveva tradotto, il che pare uffizio d’insegnante anche in senso ristretto e speciale, come è, ma in senso generale e largo. E poi, non fu attribuito tale uffizio persino al divino cieco Omero? Certo: «venne a Glauco pastore; il quale vedendolo destro e pratico di molte cose, lo persuase a fermarsi lì e a prendersi la cura de’ suoi figli. Or egli fece questo, e i Cercopi e la Myobatrachomachia etc.» παίγνια insomma per divertire quei ragazzi75. Una terza volta poi si trova il nome di Livio poeta mescolato al nome di Livio Salinatore, a proposito della prima tragedia e comedia che rappresentò. Poichè Accio, nel luogo di Cicerone già ricordato, dice, e a torto dice, che Livio la rappresentò undici anni dopo la presa di Taranto per opera di Fabio Maximo, nell’anno dunque 556 o 557 di Roma, sotto il consolato di C. Cornelio e Quinto Minucio, ludis Iuventatis, quos Salinator Senensi proelio voverat76. Ma i ludi Iuventatis, di cui aveva fatto voto il Salinatore alla battaglia del Metauro, furono celebrati nel 56377. La quarta volta infine i due Livii si trovano congiunti nel fatto del carme a Giunone, il qual carme fu composto e cantato nell’anno del consolato del Salinatore e fu seguìto dalla sua vittoria su Asdrubale. E quest’ultima è la sola vera, forse. A Livio il poeta fu dato il carico di scrivere un inno che impetrò dagli dei la vittoria di Livio il console; ebbene Accio accostò, seguendo questa traccia, il Livio poeta al Livio console anche nelle date più importanti della vita sua; in quella della venuta a Roma, in quella della rappresentazione del primo drama. Or come credere a scrittori venuti molto dopo, che seguendo o Accio o la sua via, fanno il nostro Livio schiavo e liberto dell’altro Livio o maestro de’ suoi figli? perchè correggere anzi che rigettare l’affermazione di Accio che Livio fosse preso nell’espugnazione di Taranto, quasi che essa affermazione fosse basata su altro che sulla parte che il Salinatore ebbe nel perdere o riavere quella città? E si noti che il nome Andronicus non apparisce nè in Cicerone nè in Tito Livio nè in Suetonio; sì in Gellio, Hieronymo, Festo, nel glossatore Salomone. E quel nome vittorioso del primo che facesse in Roma tragedie e comedie e iniziasse la guerra della Graecia capta contro il suo selvaggio vincitore significa troppo... Vogliamo credere che Cicerone, nel suo luogo del Bruto, pur negando che fosse preso nel 545, che fosse captum Tarento o semplicemente captum dove che sia, affermi? L’avrebbe detto in quel luogo dove, con tanto garbo, sfoggia il suo studio illustrium hominum aetates et tempora persequendi. In somma per me è assai dubbio che L. Livio fosse Tarentino e fosse preso nella presa della sua patria. Già le conseguenze che se ne vogliono ricavare, sanno di poco. Si vuole in fatti spiegare con la sua origine come egli potesse introdurre in Roma il drama e l’epos greco. Ma se egli era molto fanciullo, male poi potè ricordare la lingua nativa; se già adulto, male potè imparare quella straniera. Si prende la via di mezzo, dieci o dodici anni, con qual vantaggio di verosimiglianza, altri dica. Crediamo piuttosto che Livio sapesse, alla meglio, il greco, come lo sapevano non troppo tempo dopo di lui, non dico il Campano Naevio, il Rudino Ennio, il Brundisino Pacuvio, ma il Romano Fabio Pittore, ma il Sarsinate Plauto. Donde era in verità il primo traduttore di Omero? chi era? Ragionevolmente è da dire, che ne sappiamo quanto del suo autore, e che dell’uno e dell’altro furono tramandate a noi favole molte; delle quali alcune rassomigliano tra loro, come quella per cui l’uno e l’altro è fatto maestro di fanciulli e l’altra per cui Omero fu, dato come ostaggio degli Smyrnei ai Colophonii e Livio fu da Taranto portato prigioniero a Roma. Quello che si sa è che l’uno era aedo, se pur non era rapsodo; e che l’altro fu scriba e histrio.
Or questo scriba tradusse l’Odyssea. Per i fanciulli, per gli scolari? Sì: come Omero scrisse per gli scolari e per i fanciulli la guerra dei topi e delle rane e le furberie dei Cercopi. È una supposizione, anzi un’imaginazione, anzi una fantasticheria strampalata. Perchè Livio avrebbe adoperato il rozzo metro saturnio, se il suo insegnamento mirava a istradare i discepoli nella greca arte e cultura? Non sono da dimenticare i tre esametri riferiti da Prisciano come di Livio (fr. xxvi e xxxvii e xxxix); non è da dimenticare che Livio nelle sue tragedie, e comedie usò pure metri greci. Ma l’esametro non avrebbe egli saputo comporlo. Non voglio rispondere osservando, per es. che a proposito del fr. xxxvii il verso saturnio raffazzonato dallo Zander,
Cocles socios quom nostros inpius mandisset,
con l’iperbato di quom, con la separazione di Cocles da inpius e di socios da nostros è assai più artificiato, che l’esametro tramandato da Prisciano,
Cum socios nostros mandisset inpius Ciclops;
non voglio rispondere così: affermo soltanto che è puerile ritenere che l’introduzione del «verso lungo» fosse ritardata sino ad Ennio per la difficoltà stessa del metro (i bacchiaci e cretici sono più facili?) e non perchè il posto era preso. Chè, notando come la Comedia e Tragedia greca si presentassero subito al pubblico romano coi loro trimetri o tetrametri, coi loro cantici in peonii, mentre trovavano pure una satura indigena che doveva avere i suoi saturnii, e fossero così gradite e così trionfassero; noi dobbiamo credere che il saturnio fosse più radicato nell’epos, ossia nelle laudes clarorum virorum, che nella satura o in altro; e che quest’epos era per i suoi uditori e cultori più inviolabile nella sua forma consacrata dal tempo. Di che si deve ricavare che il traduttore dell’Odyssea non tradusse per nobili giovinetti, ma per il nobile popolo Romano che avendo già nelle sue laudes qualche avventura di Ulixes, di Circa, del Cocles o che so io, e credendo ancora che non estraneo alla fondazione di Roma fosse l’avventuroso navigatore amante di Circa o Marica, portò al cielo il buono scriba, che non essendo più dei Carmentes, sì dei Carmentarii, e avendo qualche cognizione del greco, ridusse meglio che traducesse, per loro, ridusse nella lingua, nel metro, nelle consuetudini religiose loro, il poema di Ulisse. Per tanto, come sarebbe assurdo attribuire a Livio la forma latina Ulixes o Ulisses per Odysseus (da Ὀλυσσεύς), a lui che poneva dacrimas per lacrimas78, a lui che inscrisse il poema forse Odissia e non altrimenti Olixea o Olyxea; così è soverchio dargli tutto il merito (peggio poi il biasimo) del volgarizzamento e adattamento dei nomi greci di dei, cominciando dalla Musa che diventa Camena. Gli altri sono: Moneta per Mnemosyne, Morta per Moira, Saturnus per Cronos, Mercurius per Hermes, Latona per Leto79. Che questi adattamenti Livio trovasse già, può argomentarsi dal fatto che altri forse già c’erano, de’ quali non pare che egli profittasse, come Cocles per Cyclops, Telamon per Atlas, Marica per Circa80. In ciò è tuttavia un argomento nuovo, che egli scriveva per il popolo, non per discepoli. Nè forse egli conservò così il tono e il carattere del testo, che la sua non paresse piuttosto un’opera nativa, più simile alle naeniae o laudes o come si vogliano chiamare, latine, che al poema greco. Vediamo invero nei pochi frammenti rimasti una tal quale fedeltà anche nei particolari (non si parli di qualche abbaglio, come nel fr. xxxii); ma possiamo credere che l’Odissia fosse nella sua riduzione un libro solo. Due volte, da Prisciano, si cita una divisione: il I odissiae, nel riportare il frammento v, verso secondo e il VI (o VII, ma l’indicazione è, certo, errata a ogni modo) nel riferire il xxv. E l’aria tutta paesana e popolare dell’opera, si conferma dal fatto che fu adoperata nelle scuole81, per insegnare a leggere e scrivere ai bimbi; dal fatto che Orazio ne parla come di carmina, e di lui come di scriptor82: le quali parole, in quel contesto, disterminano chiaramente lo scriba dal poeta, e le naeniae dal poema. Era quell’opera un idolo, rozzo, ma venerabile, di legno: opus aliquod Daedali83; ma la scuola onorò l’idolo a lungo. Ai fanciulli fa bene l’antico: la testimonianza che tutto non comincia con loro, reca il conforto che tutto con loro non morrà. L’infanzia ama la voce grave e memore dei vecchi. Il presente non ha autorità su loro, perchè il presente sono essi stessi. Così dunque la scuola Romana venerò il rozzo idolo annerito, come il popolo e i padri, che vissero al suo tempo, onorarono lo scriba, l’istrione che aveva narrato, sulla scorta dell’aedo greco, le avventure di quell’Ulisse, che forse era il padre di Roma; lo onorarono, commettendogli di placare la dea avversaria di Roma con un suo canto di vergini: poi, quando le ventisette vergini ebbero ottenuto con quel canto deprecatorio la disfatta di Asdrubale e la salvezza della città dalle armi unite dei due terribili fratelli, onorarono i prima disprezzati scribi e istrioni. L’arte poetica, o il mestiero di poeta, come si hanno a interpretare le parole di Catone, non cominciava allora ma da allora tornava a essere in onore.
IV.
Odysseo non era il solo eroe di cui si novellasse nel lido occidentale d’Italia. Egli ebbe, secondo ciò che è già nella Theogonia, da Circe, Latino con Agrio; «Agrio e Latino incolpevole e forte... I quali ben molto lontano nel seno delle isole sacre Di tutti i Tyrseni gloriosi furono re»84. Secondo Xenagora, ho già detto quali figli ebbe. Ma un altro da tempo (da quando?) gli disputava queste glorie di figli: Aineias, un nemico, un Troiano. Ma questo Troiano era figlio di Aphrodite, la dea marina, e, con la madre detta Αφροδίτη Αἰνειάς, fece molto viaggio nelle navi greche anche il figlio. Nei luoghi di approdo e di commercio più loro consueti, i Greci edificavano un tempietto alla loro dea. Ce n’erano a Cythera, a Zacyntho, a Leucade, a Actio, a Eryx, uno infine anche ad Ardea. Ma Alvetάs significa veramente «madre di Aineias»? No, certo; e qualunque cosa significhi, è anteriore al mito che fa Aphrodite madre di Aineias. Non la madre ha tale aggiunto dal figlio; ma il figlio ha il suo nome da quell’aggiunto della madre. Il quale, se si vuole spiegare, bisogna forse risalire ai Fenici e alla loro Astarte. Ora Aineias ha la sua parte nella guerra Iliaca. Egli dovrebbe essere presso i Troiani quello che Achille presso i Greci; figlio di Dea, come lui; come lui, hạ nel re, in Priamo esso, come l’altro in Agamemnone, un nemico geloso85; come lui, è veloce86: come di lui, ne prendono cura gli dei, e oltre Aphrodite, accorre in suo aiuto Apollo, accorre Poseidone87. E di fronte ad Achille è posto due volte; ed è notevole ciò che Apollo, per istigarlo ad opporsi al terribile eroe, gli dice comparando88: «Eroe, orsù, e tu anche gli dei sempiterni Prega; e pur di te dicono che da Aphrodite figlia di Zeus Sei nato, e colui da inferiore divinità è; Chè l’una è da Zeus, l’altra da un marino vecchio»; e notevole è che Here mostri timore non soggiaccia al paragone Achille. Con tutto questo, la parte di Enea è così secondaria, che noi dobbiamo sospettare o che ella sia aggiunta per rispetto a una posteriore glorificazione di questo figlio di Aphrodite, o che sia appena un avanzo di più larghe narrazioni anteriori. Sopra tutto fermano il nostro pensiero le parole che dice di lui Poseidone89: «Chè già di Priamo la gente ha in odio il Cronione, E d’ora certamente di Aineias la forza sui Troiani signoreggerà E dei figli i figli, i quali poi nascano: τοί κεν μετόπισθε γένωνται». Poniamo che quest’ultima espressione, già di per sè solenne, sonasse anche più magnifica per un leggiero mutamento di lezione quale forse aveva avanti sè Vergilio, che traduce Et nati natorum et qui nascentur ab illis (ed egli nel verso antecedente leggeva forse anche πάντεσσι, non Τρώεσσι: «su tutti signoreggerà», non «sui Troiani»); poniamo questo: non sono quei tre versi la testimonianza che si cercava dagli antichissimi il regno del figlio della dea marina, dove mai avesse a essere, e non erano l’invito a cercarlo altrove che a Troia, perchè a Troia o nella Troade non era traccia di regno di Eneadi?90 Insomma, o l’aedo di quei versi sapeva che i marinai greci congiungevano in qualche modo il nome del figlio di Aphrodite alle loro navigazioni piene di promesse e di sogni (e quali navigazioni se non verso l’Hesperia?); o da esso presero i marinai ispirazione a congiungervelo. Certo erano versi che fermavano, e li troviamo ripetuti nell’Inno ad Aphrodite91. Il fatto è che il continuatore lirico dell’epopea omerica, il grande Stesichoro, cantò nella sua «Distruzione d’Ilio», di Aineias che coi suoi cercava la terra del tramonto92. Il trovarsi primamente in un Siceliota così interpretata la predizione del dio, fa vedere, mi pare, che ella non fu mai interpretata diversamente, o che almeno già dagli antichi navigatori che portavano le prime colonie greche nelle coste della Magna Grecia e della Sicilia, era interpretata così. Come il figlio di Aphrodite, il modesto ma promettente eroe dell’Iliade, era fatto fermare in Occidente? Di Stesichoro non è più che quel cenno. Ma da scrittori che vennero dopo è narrato un fatto degno di attenzione. Donne che erano sulle navi, donne Troiane anzi, per il tedio del mare, bruciarono le navi, e così fu necessario fermarsi. Ciò avvenne, secondo Conone che è molto autorevole in argomento di antiche colonie, in Thessalia, e l’autrice dell’incendio fu Aethylla (nome significativo d’incendio), sorella di Priamo93; secondo altri, riferiti da Strabone, presso Neaetho, fiume sopra Crotone94; e ciò perchè quel nome fu fatto derivare da Nabatos; o meglio, perchè non molto lungi scorre il fiume Crimiso, che si confuse con l’altro Crimiso siciliano non lungi da Aegesta, presso cui Vergilio, seguendo non sappiamo qual autore, pose l’incendio delle navi. Sicchè la tradizione, che lo pone presso Neaetho, sembra attestarne un’altra che lo poneva sulla Sicilia occidentale. Finalmente, secondo Aurelio Victore che cita Cesare e Sempronio, l’incendio avvenne a Caieta, e fu opera d’una donna Troiana, nutrice di Enea, che ebbe appunto quel sopranome, non nome (Caieta ἀπὸ τοῦ καίειν), da quel fatto95. Ma Aristotele, in Dionysio, narra invece: «Alcuni Achei di quelli che venivano dall’impresa di Troia, doppiando Malea, furono presi da una violenta burrasca, e per un in balìa dei venti errarono per il mare, e all’ultimo vennero a quel luogo dell’Opice (il paese meridionale d’Italia di lingua Osca), che si chiama Latinio (Kiessling emenda in Lavinio), posto sul mare Tyrrhenico. Veduta con piacere la terra, tirarono là in secco le navi e passarono la stagione invernale preparandosi a salpare al principio di primavera. Ma essendo state loro bruciate a notte le navi, non avendo come partirsi, per necessità, mal loro grado, stabilirono la sede in quel luogo dove avevano approdato. E ciò loro accadde mediante le donne prigioniere, che conducevano da Ilio. Or queste bruciarono le navi temendo di andare a casa degli Achi, per esservi schiave»96. E in Dionysio leggiamo anche un’altra versione, secondo la quale Enea dal paese de’ Molossi venuto in Italia dopo Odysseo (μετ´Ὁδυσσέα secondo il cod. Urbinate, secondo gli altri μέτ´Ὁδυσσέως «con Odysseo») fu il fondatore di Roma che così chiamò dal nome di una Troiana, Rome, la quale, seccata dall’andare in volta, consigliò alle altre donne di bruciare le navi. Secondo Callia, storico di Agatocle, questa Rome, Troiana sì e venuta in Italia con gli altri Troiani, ma non distruggitrice delle navi (se il silenzio è buon argomento), fu sposa a Latino re degli Aborigini e ne ebbe tre figli Romo, Romylo e Telegono (come si ricava da Syncello); e questi edificata una città le posero il nome della loro madre. Che cosa si ricava da queste leggende? L’ultima, di Callia, mostra la confusione e fusione di Odysseo con Latino, cui è attribuito il figlio di Odysseo; come un’altra, riportata pur da Dionysio97, confonde e fonde lo stesso Enea con Odysseo e con Latino, attribuendo a Enea, oltre Ascanio ed Euryleonte, per figli anche Romylo e Romo, de’ quali il secondo è da altri fatto figlio di Odysseo e Circe. Questa incertezza tra Odysseo ed Enea si mostra anche meglio nella storia dell’incendio delle navi; perchè le donne Troiane sono dette da Aristotele prigioniere degli Achei, da altri compagne e seguaci d’un Troiano, Enea. Ora se anche Aristotele non credeva che il condottiere di quei tali Achei che approdarono al Latinion, fosse appunto Odysseo, chi si può imaginare che credessero che fosse, se non lui, quelli donde Aristotele trasse il suo racconto e quelli che lo trassero da lui? Non vediamo anche nella leggenda che fa venire Enea in Italia dal paese dei Molossi, nominato Odysseo?
Or quale delle due leggende è più antica? quella delle prigioniere o quella delle compagne? quella di Enea o quella di Odysseo? A me pare che Aristotele abbia l’aria d’interpretare, di accomodare, di ragionare una leggenda per lui assurda e di estrarne il suo nocciolo di verità, piuttosto che di riferire una vera tradizione. La religione del critico si scorge nel suo tacere il nome di Odysseo e nel sostituirgli Ἀχαιῶν τινας. A me pare che mal si potesse raccontare l’incendio avvenuto nel Lazio prima che il medesimo racconto non avesse preso a teatro gli altri luoghi già riferiti. A me pare insomma che il racconto che ha per attrici le compagne di Enea sia anteriore e che solo dopo, quando il racconto dalla Thessalia si trasportò in Sicilia e nel Bruttio e di lì a Caieta e da Caieta al Lazio, si preferisse Odysseo ad Enea. Del lavorìo per sostituire l’eroe Greco al Troiano, sarebbero testimonianze, non forse le parole di Aristotele, ma le narrazioni di Callia e di Xenagora istorici, che fanno, come ho già detto, l’uno Rome Troiana moglie di Latino e madre di Romo, Romylo e Telegono, l’altro Circe e Odysseo genitori di Romo, Antia e Ardea. Ma il fatto è che ben presto tale doppia versione dovè penetrare nel Lazio e in Roma. Ora nel Lazio e in Roma, come furono accolte le due leggende a paragone l’una dell’altra? Fu accolta, anzi, quella che faceva di Odysseo il padre del fondatore di Roma? e, se mai sì, fu accolta prima o più volentieri dell’altra? A queste due domande è difficile o impossibile rispondere. Tuttavia è sempre un buon indizio che fosse ricevuta e ancora che fosse preferita, se non altro, a sbalzi, in certi tempi, da certe persone, se non sempre e continuatamente e da tutti, è buon indizio, dico, il fatto del volgarizzamento popolare dell’Odyssea a preferenza dell’Iliade dove era pure glorioso combattente Enea. Ma a ogni modo è più prudente non affermare nulla di ciò. Ciò che si può affermare è che l’altra leggenda, quella di Enea, non conquistò subito il popolo Romano, per quanto noi possiamo congetturare che ella fosse già in Roma, sin dalla metà del secolo quinto. Poichè Pyrro nel 473 accogliendo la domanda di soccorso e alleanza dei Tarentini, ricordava l’inimicizia del suo progenitore Achille contro i Troiani progenitori di Roma98. E Timeo di Tauromenio di quei tempi, raccontava la leggenda presso a poco come noi la sappiamo. E un anno prima del 473, anzi, sebbene la data sia messa in dubbio, gli Acarnani, domandando a Roma soccorso contro gli Aetoli, portavano, come argomento della loro domanda, che essi, unici dei Greci, non avevano preso parte alla guerra contro Ilio99. Ma a sentir Dionysio che accenna ai ricordi della leggenda conservati nelle sacre cerimonie100, l’introduzione sarebbe avvenuta in tempo ben più remoto; il che è contradetto dal non trovarsi nelle feste più antiche di Roma alcuno di tali ricordi. In verità, anche credendo che fosse introdotta più anticamente, credere non si può che fosse accolta, per una grave difficoltà, per una forte repugnanza che doveva ispirare la leggenda stessa. Chè, per non cercare altro, leggiamo subito in Tito Livio quali dubbi dovessero essere intorno al punto scabroso della leggenda; l’uscita di Enea da Troia; e basta ricordare quanto i poeti Augustei insistessero per lavare da ogni macchia il nome del pio Enea. Nè è da credere che il ricordo di Pyrro fosse destinato a riuscire dolce come omaggio cavalleresco, e non amaro come insulto di nemico. Solo dopo le disfatte della seconda guerra punica, quando Roma domandò ai Pessinuntini la statua della Madre degli Dei, ricordando che ella aveva progenitori Phrygi, solo, quando trattando con Antiocho, ella stipula ia libertà di Ilio, della sua madre Asiatica, solo allora noi possiamo credere, che la leggenda di Enea aveva in Roma trionfato. Prima io la imagino in lotta con l’altra, sì che Catone stesso diceva Roma aver preso il nome da Rome sorella di Latino, di Latino figlio di Ulisse e Circe101; e non posso non vedere nei due primi poeti epici di Roma due campioni delle due tradizioni che si oppugnavano. Perchè a breve distanza da Livio autore dell’Odyssea latina, sorge Cn. Naevio col suo Bellum Poenicum, il quale consacra poeticamente (vate sacro, ricorda in Orazio!) l’origine di Roma da Enea. Nè tuttavia affermo, che Livio consacrasse l’altra, che attribuiva tale origine a Odysseo; perchè anzi dai soggetti delle sue tragedie tra le quali è l’Equos Troianus e dall’inno che egli compose a Giunone, in cui è verosimile che trattasse di Giunone avversaria a Venere e ai Troiani, si può argomentare che la leggenda di Enea avesse anch’egli accolta. Ma certo è innegabile che traducendo l’Odyssea per il popolo, egli soddisfaceva a un desiderio, che era nel popolo, di sentir più vive e vere notizie intorno a un eroe prediletto. Ora Naevio sottentrò in favore del Troiano.
Egli era della Campania. Si deduce dalle parole con cui Gellio accompagna il noto epigramma, che egli crede di Naevio e che è invece di Varrone. Gellio lo dice plenum superbiae Campanae. Per quanto Cicerone saetti illam Campanam adrogantem atque intolerandam ferociam, per quanto dica della superbia, nata inibi (cioè a Capua) esse haec ex Campanorum fastidio videtur102, non è verosimile che questa superbia, questa ferocia, tutta politica e nativa, uno potesse attribuirla a chi non fosse di quei paesi. La frase di Gellio vale che Naevio, con quell’altezzoso epigramma (che non fece esso; esso che non poteva prevedere l’elogio di Cicerone: cum audio... Laeliam — facilius enim mulieres incorruptam antiquitatem conservant... — ... sic audio ut Plautum mihi aut Naevium videar audire103, si mostrava invero quel Campano che era. Nacque avanti l’anno 496 di Roma, se si pensa che egli militò nella prima guerra punica (490-513) e che per militare, bisognava avere diciassette anni almeno. E poichè Cicerone dice che egli giunto alla vecchiaia godeva del suo poema104, e Cicerone non dice vecchio se non chi avesse almeno sessant’anni, così se Nevio morì nel 550 di Roma, dobbiamo porre la sua nascita nel 490 o avanti quell’anno; se dopo, nel 555 per esempio, lo diremo nato nel 495 o prima. Militò dunque nella prima guerra punica, secondo Varrone citato da Gellio, e nel poema suo lo diceva105. Rappresentò, sempre secondo Gellio, fabulas nell’anno di Roma 519; che in quell’anno per la prima volta, dal contesto di Gellio è possibile indurre106; probabile almeno che Gellio non sapesse di rappresentazioni avvenute prima. Non fu certo attore, come era autore: se militò legittimamente, non poteva essere istrione, perchè gl’istrioni erano deminuti capite. Tito Livio, parlando di Lucio Livio il primo autore di drami, osserva: idem scilicet, id quod omnes tum erant, suorum carminum actor107. Ma nota nel medesimo periodo il passaggio ab saturis al vero drama. Lucio Livio conserva anche nelle fabulae il costume delle saturae, ed è anche attore: con Naevio la separazione è netta. E coi suoi drami lo scriba o histrio divenuto poeta e cittadino, esercita subito i suoi diritti di critica e di censura. Naevio assalì l’Africano per la sua mollezza, biasimò i tempi nuovi e l’introduzione della garrulità greca108. Per la sua libertà di parola, anzi, ob assiduam maledicentiam et probra in principes civitatis de Graecorum poetarum more dicta109, fu messo in carcere; e Plauto si figura il povero poeta barbaro (non greco, cioè) che puntella il mento col braccio e pensa pensa, tra due guardie110, o meglio con due catene. Più che di Scipione ancora egli fu nemico dei Metelli, e resta ancora il verso saturnio contro la loro fortuna che è la sfortuna di Roma: Fato Metelli Romae consules fiunt. Al che i Metelli risposero che il malanno l’avrebbero dato a lui. E lo diedero, se fu opera loro la cacciata del poeta, che morì a Utica, pulsus Roma factione nobilium ac praecipue Metelli111. Quando morì? Sotto il consolato di M. Cornelio Cethego e P. Sempronio Tuditano; dice M. Tullio, ossia nell’anno 550. Ma egli stesso riferisce che Varrone lo faceva vivere longius112. L’autorità di Varrone ha gran peso; però Cicerone, così ossequente a lui sempre, qui mantiene la sua asserzione ricavata da «antichi commentari». Se si pensa che in quell’anno 550 Utica era invano tentata da Scipione, si può congetturare con qualche verosimiglianza che in quel fatto appunto (...hiems instabat) il fiero vecchio, tornato milite, morisse per gli strapazzi e per la stagione, e così la sua morte fosse registrata in una pubblica memori113.
Da vecchio114 si diede a comporre un poema epico. Scelse a soggetto la guerra di cui era stato parte, la prima guerra punica. Forse le disfatte della seconda guerra ispirarono all’animoso poeta l’idea di recare al popolo le glorie della prima, ad augurio ed incoraggiamento. Egli usò il verso popolare, perchè parlava al popolo. Lo intitolò Bellum Poenicum; lo lasciò senza distinzione di versi e di libri115. Ottavio Lampadione poi lo divise in sette libri. Cominciava col narrare la leggenda di Enea.
Anchise, prima dell’eccidio di Troia, vede, come augure che egli è, un segno divino, per il quale la famiglia predestinata esce piangendo dalla condannata città ed è seguita da molti. S’imbarcano gli esuli in una nave, scampano per l’aiuto di Venere da una tempesta (suscitata forse da Giunone che è l’aria), e vengono in Italia. La nave costeggia il litorale Campano, e qui Nevio, secondo ogni probabilità, dava le ragioni mitiche come del nome di Prochyta e di Aenaria, che è certo, così, è probabile, di altre località, Palinuro, Miseno, Caieta, Il che, sia detto di passaggio, può confermare che Naevio era Campano. Egli introduceva ancora la Sibylla Cimmeria, che forse predice i fati di Roma116 e le sue instituzioni; e forse descriveva il tempio d’Apollo in Cume e la porta di esso117 . Narrava poi di Enea, che sposava la figlia del re d’Alba, e ne aveva Ilia, la quale da Amulio, suo fratello o suo zio, era fatta precipitare nel Tevere coi due figli gemelli. Questi salvati, adulti e gloriosi, furono riconosciuti da Amulio e ne ebbero licenza di edificare una nuova città118. Narrava anche dei due fratelli intenti all’augurio, uno dall’Aventino, l’altro dal Balatio119. Dopo aver parlato dell’origine di Roma, nei due primi libri, egli forse passava nel terzo a narrare quella di Carthagine120, e poi raccontava la guerra, cominciando dalla rituale dichiarazione e finendo alle condizioni della pace. Il poema pareva a M. Tullio, grande ammiratore della lingua pura, ingenua, fresca .di Naevio, una statua di Myrone; un’opera quindi tutt’altro che legata e fasciata, come la lignea Odissia di Livio, anzi di movenza arrischiata, anzi piena di vita e di agilità e di energia; ma un po’ magra. L’anima è nuova, ma il corpo è arcaico121.
V.
La guerra d’Annibale è sul finire. Tra non molto, tra un anno, il terribile Titano accampato nel Bruttio salperà, tra le grida de’ suoi guerrieri italici che egli fa sgozzare, salperà per l’Africa e per la sconfitta. Il rude Fauno che ha intanto narrata al popolo la prima guerra punica, è per morire. Egli è forse malato e scorato sulle quinqueremi di Scipione; egli ha sentito il clamore di quel ben augurato imbarco, clamore che fece cadere a terra gli uccelli volanti nell’aria. Non è più il tempo de’ brontolìi e mormorìi. Roma ha vinto o sta per vincere. Quel giovine, che da giovinetto vestiva il greco pallio, stava per avviare infine Roma alla conquista del mondo. È il tempo della gioia e della gloria. E allora la poesia entrò nella grande famiglia bellicosa di Romolo. Venne con passo di volo: pinnato gradu122. Quale fu lo strepito del suo volo! Fu come se venisse uno stormo di gru dall’alto mare, con gli aerei squilli di tromba che manda il nero triangolo di tra le nuvole. Fu anzi come riga candidissima di cigni, da’ cui lunghi flessibili colli esce una musica di chiarine, che echeggia su fiumi e stagni. ☐ no: fu una schiera lucida di bronzo, una schiera di guerrieri, il cui cuore si bea bensì della pace, la quale, come è nel peane di Bacchylide, germina i fiori delle canzoni, miele dell’anima; ma si volge ancora, quando è necessità, alle armi; una schiera ben allineata di guerrieri a cavallo, che si avanza cantando dietro un re, cui non tocca il fuoco e il ferro, che passa inviolabile in mezzo alla battaglia e alla barbarie. Chi fu questo re, che condusse a Roma lo scintillante squadrone dei versi che cantano in lunghe uguali righe, aequati numero?123 Fu veramente non re, ma discendente di re: antiqua Messapi ab origine regis124, un ποιητὴς Μεσσάπιος125, Ennio.
Nacque nel 515, un anno dopo quello in cui Lucio Livio rappresentò il suo primo drama126; a Rudiae (ora Rugge) in quella che gli antichi chiamavano Calabria, presso Lupiae (ora Lecce)127. Militò coi Romani nella guerra Annibalica. Nel 550 era in Sardegna, dove Porcio Catone questore di Scipione lo conobbe. L’austero Tusculano condusse con sè in Roma il poeta guerriero, che aveva tre anime, come esso diceva, cioè parlava tre lingue, il latino, l’osco, il greco128. A Roma visse sottilmente, nell’Aventino, e ne’ luoghi sacri alla dea Tutilina, contento ai servizi d’un’ancella sola129. Fu caro a Scipione Nasica, quello della graziosa storiella raccontata da Cicerone130. Picchia Nasica alla porta di Ennio. Risponde l’ancella che Ennio non è in casa; ma Nasica comprende che esso c’è e ha comandato all’ancella di dir così. Giorni dopo bussa Ennio da Nasica. Risponde Nasica in persona, di non esserci. «O che ora non conosco la tua voce?» «Ah! io credo alla tua serva e tu non credi a me?». Era parco Ennio, tuttavia non sdegnava il buon vino; e soffriva di gotta131. Sereno sopportò povertà e vecchiaia: pareva che se ne dilettasse132. Tra i suoi amici era Fulvio Nobiliore, che fu console nel 565 e condusse con sè il poeta in Aetolia, come poeta delle sue vittorie. E la vittoria che riportò, magnifica di per sè, fu abbellita dal poeta amico, il quale ci guadagnò una clamide, una clamide sola della preda Aetolica, e in comune con Fulvio i rimbrotti di Catone: condurre nella provincia poetas! non s’era mai veduto133. Il figlio però di quel Fulvio, nel 570 essendo triumviro coloniae deducendae, assegnò al poeta una porzione della terra da dividersi e gli diede la cittadinanza Romana134. Ben la meritava egli che aveva fatta Romana la poesia omerica! Nel 585 secondo Cicerone, nel 586 secondo Hieronymo, morì di gotta135. Morì mentre si celebravano i ludi di Apollo. La sua statua era nel sepolcro degli Scipioni, fuori di porta Capena, con quella di Publio e Lucio136. Quelle volevano dire Africa e Asia domate; questa significava invece vinto il Latium ferox. Alla vigilia dell’assoggettamento dell’Oriente, Roma mostrava che avrebbe vinto con le armi e si sarebbe lasciata vincere dalle arti.
Ennio, oltre Tragedie, Comedie e Sature o Miscellanee, con le quali ultime introdusse nuovi generi poetici nel Lazio, compose la sua grande opera epica in versi esametri o lunghi. La quale un grammatico trovava inscritta o Annales o Romais137. Quando cominciasse non è dato sapere; non è però assurdo supporre che quegli che poi scrisse le Origines, lo consigliasse e incitasse a quel lavoro. Non pareva ad esso che agli eroi Romani fosse data parva laus al confronto dei Greci?138. Idem benefactum quo in loco ponas, nimium interest. Non è quindi improbabile che appena venuto in Roma si dedicasse al suo poema; tanto più che la morte, avvenuta in quel torno, di Naevio, può avere attratto l’attenzione, come degli altri così di Ennio, sul Bellum Poenicum. Certo il Rudino ebbe il pensiero al Campano e già nell’inizio del suo poema. Nel fatto si può tenere che egli componesse e mandasse fuori primamente i primi sei libri. Ebbene questi sei libri sono evidentemente un’Antenaeviana, comprendendo la storia di Roma appunto sino al Bellum Poenicum, che è il soggetto del poema di Naevio. È vero che l’uno si doveva trovare a trattare una parte dell’argomento già trattata dall’altro, le origini mitiche di Roma, ma era necessità, non elezione. Avesse Ennio voluto venir proprio a paragone di Naevio, avrebbe appunto narrata poeticamente quella guerra, che era, si può dire, il tutto dell’opera Naeviana, e non si sarebbe invece fermato avanti essa. Il consiglio di Ennio era rispettoso del vecchio e pugnace vate, poichè anche svolgendo ciò che forse era appena abbozzato nel Bellum Poenicum, l’origine di Roma, egli, come vedremo, ne accettava la sostanza dei fatti: il che non faceva, per esempio, Catone. Nè è assurdo pensare che Ennio componendo i primi sei libri avesse pensiero di fermarsi lì. De’ due titoli, che anche dopo conservò il poema, non è detto quale gli fosse dato prima dal suo autore. Non è possibile, per non dire probabile, che Ennio ponesse il titolo Annales solo quando cominciò davvero a scrivere annali, ossia libri che singulorum fere annorum actus contineant?139. Solo dunque negli ultimi libri, de’ quali, per esempio, il XV conteneva la guerra d’Aetolia ossia i fatti del solo anno 565 di R. Io penso per ciò che Romais fosse il primo titolo del poema Enniano, quando si limitava ai soli primi sei libri. E come è adattato! Poichè, considerando che termina con la guerra di Pyrro, noi possiamo imaginare che nella mente di Ennio si formasse il drama di Roma in modo organico e pieno, con il suo prologo, i suoi episodi e la sua conclusione. Enea scampato all’Aeacide, fondava il suo regno in Italia e l’Aeacide veniva a ritorglielo e perseguitava le reliquie di Ilio sino nella terra dell’esilio: invano. Di ciò è indizio un frammento attribuito indubbiamente al libro VI, e che fa parte d’un concilio di dei140. Tum cum corde suo divum pater atque hominum rex Effatur. Un concilio degli dei? perchè? quando? Parrà invece al suo posto se lo connettiamo al prologo del poema, alla fuga da Ilio, Cum veter occubuit Priamus sub Marte Pelasgo.
Questo primo gruppo, adunque, questa Romais, trattava l’origine di Roma dalla distruzione di Ilio, e la sua vittoria di poi contro i vincitori d’allora. Ennio restava, in certo modo, nella regione del mito, illuminata dalla poesia: dove «una serenità si stende senza nuvole e vi scorre una candida luce», come nell’Olympo. Invocava a principio le Muse. Poi raccontava un sogno. Omero nel sogno gli appare. Omero sparge salse lagrime. La sua essenza vitale (anima) soffre, poichè è in balìa d’una forza, che, per purificarla, la tramuta da corpo a corpo. Ora essa è in lui, Ennio, figlio di re. Canti, secondo l’antico costume, canti essa anima nel corpo italico, ciò che avvenne dopo quelle mirabili avventure che ella già cantò quando era nel corpo greco. Canti Ennio i paralipomeni d’Omero! dopo la distruzione di Troia, la nascita di Roma; dopo la vittoria dell’Aeacide sui Troiani, la vittoria dei Troiani sull’Aeacide! E il simulacro di Omero greco (già in Ennio Vergilio trovava la differenza tra il simulacro e l’anima: Omero è in Ennio: eppure a lui apparisce come un altro) svanisce e l’Omero italico si volge agli ἄνδρες divenuti cives e comincia col tono sublime di chi ha dentro di sè l’ispi razione del grande poeta, e avanti sè le mirabili storie della grande città,
est operae, cognoscite, cives.
Quando riprese Ennio il suo poema, riducendolo ad Annales? Notando che in tre libri, VII, VIII e IX, sono comprese la prima e seconda guerra punica, con altre ancora nel VII, mentre la guerra Macedonica e la liberazione della Grecia occupano due e forse tre libri, si può congetturare che lo inspirassero a continuare il poema questa guerra e questa liberazione, che dovevano avere assai commosso due dei tre cuori del poeta; tanto più che con questi due fatti egli poteva riprendere il concetto mitico della prima Romais143. Si sarebbe adunque il poeta sbrigato delle due terribili guerre puniche con una certa rapidità, la quale è osservabile, in quanto alla prima, per altra ragione ancora. Riprendendo il suo poema, Ennio si trovava avanti l’argomento del poema di Naevio. Egli aveva composto il primo gruppo I-VI quasi per adempiere il desiderio che dal poema Naeviano restava al Romano: ora, dovendo trattare ciò che Naevio aveva trattato, si scusa con una ragione nuova, che non avrebbe allora detta. Ora può dirla, ora che il suo poema e il verso «lungo» ha conquistato i cuori e le orecchie Romane. Sì, questa guerra è stata cantata da altri, ma coi saturnii dei Fauni e dei Vati, col rozzo metro ámetro del popolo. Per «dire», ci vuole primamente l’inspirazione intima (sono le Muse? è una vita d’antico poeta che ditta dentro?), poi lo studio. Questi (Ennio indica sè con un gesto che ha ragione di essere altero), questi ha superato li scogli, nei quali l’altro, quello, è rimasto lè una mia congettura, per cui vedi nota a Naev. fr. i); questi ha per il primo attinto alle sacre fontane della poesia. Dopo tale proemio, egli tuttavia, pur trattando la prima guerra punica, se ne passa con più brevità del solito: relinquit, per dirla con Cicerone144; se pure... se pure Cicerone non parla in relazione con la larghezza usata da Ennio negli ultimi libri; nel qual caso egli si sarebbe ingannato sulla causa della maggiore ristrettezza nel VII e forse nell’VIII e nel IX. Certo, per ammettere con me che Ennio riprendesse il poema nel 558 o giù di lì, alla conclusione della guerra Macedonica e alle sue conseguenze, bisogna tenere errata l’indicazione in Gellio di XII annale, che egli avrebbe scritto nell’età di 67 anni, nel 582. Ed errata è di certo. Come avrebbe Ennio aspettato a dopo il 582, per scrivere la guerra di Aetolia avvenuta nel 565? come in tre anni di vita avrebbe compiuti i sei ultimi libri? E notiamo che gli ultimi tre libri cominciavano, secondo ogni verosimiglianza, con un accenno alla vecchiaia del poeta145, col quale accenno benissimo sta ciò che Gellio riporta da Varrone146.
Ridotti gli annales a dodici, il poeta aspettò ancora. Il successo dell’opera indusse probabilmente Fulvio Nobiliore a menar seco il poeta nell’Aetolia, animandolo a continuare il poema. Ciò dunque nel 565. Egli aggiunse ancora tre annali: due per la guerra di Antiocho, il terzo (XV) per la gloria di Fulvio. Catone fu malcontento che il suo poeta sottraesse al Comune per dare alle persone. In vero, un libro alla guerricciola Aetolica e all’assedio di Ambracia, e due, due soli alla guerra di Annibale! Se poi egli aggiungeva147 una lode magnifica di Fulvio, e concludeva
Moribus antiquis res stat Romana virisque.
oh! sì, forse Catone non era dalla parte del torto nel rimbrottare Fulvio e nel pluralizzare Ennio, facendo poetas il poeta. I mores antichi erano in fatto: «tutto per la repubblica»: Commune magnum.
Vecchio, tormentato dalla gotta, nel 582 (si può credere) aggiunse ancora tre libri. Era vecchio, ma della vecchiaia, tutta fremiti e nitriti, del cavallo già vincitore nelle gare. Vecchio il poeta consacra alla fortezza dei militi di Roma i suoi ultimi versi. E nel libro XVI il tribuno, per il quale Ennio emula Omero che descrive Aias148. O vecchiaia di battagliero! Questi ultimi annali erano pieni di suon di ferro e di scalpitìo di cavalli e di lotte di venti in tempesta. E ne usciva l’ammonimento che già anni prima, nel cominciare l’arditissima impresa, dava ai cittadini di Roma il buon Rudino: Audire est operae pretium149. Egli attingeva alle fonti sacre e voleva l’arte e lo studio; ma si proponeva anche un nobile fine: il fine che non doveva dispiacere al suo primo protettore e amico, che lamentava l’oscurità di Caedicio tribuno al confronto del re Leonida:
Noenu decet mussare bonos, qui facta labore
Nixi militae peperere150.
Non si direbbe che Ennio faceva ammenda delle lodi troppo particolari al Nobiliore? Egli professava di dirigersi a quelli che volevano il bene di Roma e del Lazio: Remque Romanam Latiumque, ripete da Ennio Orazio nella festa secolare di Roma151.
VI.
Per valutare equamente i meriti del grande Ennio, prendiamo una che può parere piccola cosa a quelli che sanno fare star ritto l’ovo... dopo che hanno veduto come si fa: prendiamo l’esametro Enniano. Io credo bensì che Livio e Naevio avrebbero potuto usare il verso lungo, se fosse convenuto ai motivi e fini della loro arte; che essi l’avessero potuto presentare alle orecchie Romane perfetto, oh! non credo davvero. Ricordiamo quante parole della lingua latina, non nata, come si può dire della greca, Minerva armata del suo verso eroico, quante parole non quadrino alla misura dattilica: imperator, e simili, tutti i vocaboli come terminus, advena, debitor, victoria e simili, che solo in due casi entrano nell’esametro, altri come silentium, somnium, altri che hanno solo il plurale come induciae, nuptiae, molte forme verbali come prodeunt etc. Troppo poco ci è rimasto di Ennio; pur da quel poco vediamo, che i modi ingegnosi di Lucrezio, di Vergilio, di Ovidio, per introdurre o quelle parole o i loro concetti, sono già spesso in Ennio. Non dico degli arcaismi che rivendica al suo diritto di poeta, come induperator, induperantum, virgnes, prodinunt, ma Ennio ha preceduto tutti nell’uso di perifrasi e sineddochi, senza le quali mancherebbero a noi alcuni de’ migliori versi dei già nominati. Eccone alcune: genus altivolantum = alites; somno sepulti = dormientes; Romana iuventus = milites; Volsculus = Volsculi; ilex, fraxinus, abies = ilices, fraxini, abietes; horridus miles = horridi milites; veles = velites; ungula = ungulae. Nè è da tacere l’uso ingegnoso della tmesi (non credete alle calunnie dei grammatici: IS. 100 e 101) e della sinizesi: conque fricati = et confricati, de me hortatur = me dehortatur, adiuero, eorundem. Si deve ad Ennio l’uso ora di fognare, ora di solidificare l’i ed il v; semianimes; sam sos e simili, insidjantes, avjum. Egli fissò la prosodia dove fluttuava incerta; conservò per esempio la lunghezza dell’ultima nelle parole iambiche che tendevano ad abbreviarla, come in homo, domo, viri, manu, loco, loci; e fu esempio ai posteriori. Anche le sillabe, usate da lui lunghe perchè lunghe, cui però la forma dell’accento poi abbreviò, si trovano qua e là con la misura Enniana: aquilā, agoeā, conlegā (?) dederītis, ponebāt, tinnīt, ponīt, infīt, sorōr, genitōr, Imbricitōr. Rimasero a lui fīere, adnūvit, fūimus, morīmur. Nè con lui cessò l’elisione finale dell’s. Egli era ben sottile giudice, il Rudino dai tre cuori; e a lui si deve la consuetudine di geminare le consonanti, che erano prima scritte scempie152. Quisquilie di grammatico? No: il grande artista che già della mente vede nel blocco la bella statua, ha bisogno per scoprirvela che siano buoni il mazzuolo e lo scalpello e le raspe e le lime.
Da questo lavorìo attento e minuzioso uscì perfetto il verso. Non solo; ma lo stile poetico ne uscì bello e formato. Fu veramente come se Omero cantasse nella lingua di quel poeta barbaro, di cui Plauto vedeva l’os columnatum. Tutto ciò che doveva parere di Omero più esclusivamente proprio, più irriducibile in altra lingua, il poeta Rudino lo rende così che qualche volta pare che in Italia siano nate quelle forme e formule. Siano ad esempio queste unioni tipiche di parole, unioni che Ennio salda a volte o con l’allitterazione o con l’omeoteleuto: vires vitaque, clamque palamque, dictum factumque, noctesque diesque, divumque hominumque. Chi direbbe che siano, come sono, la traduzione delle endiadi omeriche ψυχή τε μένος τε, ἢ ἀμφαδὸν ἠὲ κρυφηδόν, ἔργον ἔπος τε, νύκτας τε καὶ ἥματα, ἀνδρῶν τε θεῶν τε? Nè meno felici sono, sebbene non parimenti native, murosque urbemque, malaque et bona, veteresque novosque, vita seu mors, si vivimus sive morimur, ferro lapique, iubet horiturque. Vediamo poi che egli ha saputo latinizzare (nè dimentichiamo che pochi frammenti ci sono rimasti della grandiosa opera) certi trapassi e certi riassunti, così necessari alla narrazione epica, come il vivagno alla tela: Haec ecfatus, Olli respondit, Tum coepit memorare, Est locus, Ecfudit voces, Talia commemorat lacrimans, Sed quid ego haec memoro? e simili. Vediamo che egli rende quelle ridondanze, quelle circoscrizioni, quegli epiteti ornanti, che sono il sale che dà il sapore alla narrazione epica: precibus orat, voce vocabam, corde cupitus, corde suo trepidat, animus cum pectore latrat, in pectore fixa, meum cor = ego, corpora avium = aves, Graium genus, genus Aeacidarum, aetheris oras, luminis oras, oras belli, pietas animi, suavis sonus Egeriai, aequora campi, superbia Poeni, Vestina virum vis, aquae vis, caeli templa, porta caeli, lumen solis, belli postes portasque, manus vi, sola terrae, genus altivolantum, spiritus austri, ponti prata; bonus Ancus, bona femina, cordatus homo, catus Aelius, Romulus pulcher, horridus miles, magnum Olympum, somno leni, intempesta nox, veter Priamus, stellis fulgentibus, caeruleum sale, foedus firmum, blanda voce, flumine sancto, fici dulciferae, candida lux, praepes avis, calido sanguine, caerula templa, navibus pulcris, densis pinnis, tempestate serena, abies alta, ferratos postes, litora lata, cautibus celsis, validae vires, mare salsum, malo cruce, aequora cana, teneras auras, manu magna, crateris auratis, cava ungula, uncta carina, e altri. Più difficile era con la poco malleabile lingua latina foggiare i flessibili composti; eppure anche in ciò Ennio riuscì ardito e geniale, e, che noi sappiamo, fornì alla poesia questi: bipatens, altisonus, altivolans, suaviloquens, altitonans, velivolus, dentifaber, laetificum, dulcifer, frugifera, e altri. Che se nell’uso dei composti fu preceduto da Naevio, che ha bicorpores, arquitenens, silvicolae, egli fu il primo a introdurre i patronimici Greci, di cui abbiamo un esempio in Aeacidas Burrus. Più latino è l’altro, Saturnius, mentre Livio, che pure ha Laertie, e Naevio dicono sempre con goffa lungaggine Saturni filie, Saturni filia, Atlantis filiam, filius Latonas, Monetas filia il primo; Iovis filiae, filii Terras, Cereris puer il secondo. Nè è da tralasciare che con Ennio cominciano le variazioni di forma, di cui tanto poi si usò per esprimere la paternità, che con filius e il genitivo riesce spesso impossibile nel metro dattilico: egli dice Eurudica prognata, Assaraco natus, Saturno create. Non meno felicemente derivò Ennio da Omero formule poetiche. Eccone esempi: recessit in infera noctis οἴχεθ´ὑπὸ ζόφον (γ 335); Cum superum lumen nox intempesta teneret = νὺξ δὲ μάλα δνοφερή κατέχ᾽ οὐρανόν (ν 269 e spesso), Bellum aequis manibus nox intempesta diremit, νὺξ ἐλθοῦσα διακρινέει μένος xἀνδρῶν; e altre molte, come fretus manus vi, viribus fretus, virtutis egentem, vino domiti, laetanteis vino, somno revinctus. E come Omero, Ennio la sua formula armoniosa ripete, quando gli occorre quatit ungula terram, concutit ungula terram, Labitur uncta carina, Romana iuventus, che troverete ripetute, più quelle accennate come Olli respondit e simili. Ricordiamo le metafore, fauces, flos populi, hasta induvolans, micant oculi, spargere hastas, Suadae medulla, cortina (= cielo), crudeli sepulcro (lo stomaco dell’avvoltoio), ferreus imber, fax (= il sole), lactantes fici, flumen vomit, sese somno siccat.
Ricordiamo le personificazioni Terra corpus dedit, capit; semita nulla pedem stabilibat, cura coquit, nox volabit, vires contutudit hiems, sonus aere cucurrit, clamor vagit e altre; le metonimie, come ferrum per spada, Romulus per Romani, arma per guerra, lumina per vita, aes per tromba, carbasus per vela e altre: le sineddochi, come sanguine per vita, pectora per uomini, ungula per cavalli, carina per nave; Volsculus per Volsci, quadrupes eques per cavalieri, Opscus per Osci; scamna per trono, diem per tempo, rem per cosa pubblica. Quanto alla sintassi basti un accenno: chi non sa quale largo uso sia nella poesia latina dei verbi passivi, specialmente al participio, con lo stesso accusativo dell’oggetto, che avrebbero all’attivo? Il modello di tale costruzione è in Ennio: perculsi pectora Poeni, succincti corda machaeris.
L’efficacia di Ennio in tutta la poesia romana non si deve misurare dalla sua, per quanto grande e durevole, fama. L’efficacia fu ben maggiore, ma non sempre diretta. Si prese spesso da Lucrezio e da Vergilio ciò che era d’Ennio. E d’altra parte è destino che il perfezionatore valga più dell’autore. Ben presto gli Annali entrarono nelle scuole. Intorno alla morte di Ennio, Crates Mallote introdusse in Roma lo studio della grammatica secondo la scuola Pergamena. Non molto dopo Q. Vargunteio leggeva avanti un uditorio affollato gli Annali, come Lampadione di lui più vecchio si occupava del Bellum Poenicum153; prima dell’età di Cicerone il syro M. Pompilio Andronico, un molle Epicureo, aveva fatto gli elenchi degli Annali, cui Orbilio pubblicò154, e M. Antonio Gniphone, la cui scuola frequentava Cicerone stesso, pare che ai medesimi avesse fatto un suo commentario155. Poi Cicerone non solo lo chiama summum epicum poetam156, ingeniosum157, ma lo cita spesso e a lungo e con ammirazione. Nel tempo d’Augusto il culto di Ennio trovò una tal quale opposizione in Orazio, che non amava il soverchio e odiava l’eterno vezzo degl’invidi che detraggono a chi invidiano, più lodando altri, specialmente se morti, che biasimando loro. Tuttavia se egli vuol portare un esempio di elocuzione poetica, grave non solo per il verso ma per le parole, porta un esempio di Ennio158. Nè Vergilio fece dimenticare il padre della poesia Romana. Vitruvio scriveva che chi aveva l’animo alla poesia, doveva avere nel cuore il simulacro di Ennio consacrato come quello di un nume159. Al tempo di Gellio si leggeva in teatro, al popolo, tra le acclamazioni160; Hadriano imperatore lo preferiva a Vergilio161; solo più tardi, Macrobio deplorava che il suo tempo rifuggisse da quella salubre lettura162. Ma nessuno gli fece così grande onore, come Vergilio con la sua allegoria di guerrieri musici; nessuno lo dipinse meglio che Quintiliano, col suo gusto squisito, paragonandolo a un bosco sacro, in cui le maestose antiche quercie sono più venerabili che ‘appariscenti163. Del bosco sacro a noi non resta, cui adoriamo, se non qualche ceppo e molti infiniti rampolli, trapiantati qua e là e cresciuti ad alberi bellissimi come quelli che meglio furono educati dalle mani diligenti dei coltivatori. Ma come non rimpiangere la solenne penombra della selva nativa e quell’odore di antico e quel murmure di sogno?
VII.
E quanti imitatori e continuatori ebbe egli! Di che tempo fu quell’Hostio, che scrisse almeno due Annales della guerra Histrica? E tale guerra fu quella già cantata da Ennio, del 576, o l’altra del 629? Prisciano viene a chiamare vetustissimum questo poeta164. La parola non ci licenzia a porlo poco dopo Ennio? Ma come e perchè volle trattare lo stesso argomento di Ennio? Properzio165 lo chiama «dotto». Volle egli allungare e sdoppiare il libro di Ennio, condendolo di maggiore dottrina? Libero è il campo all’imaginazione. Poco prima o poco dopo Hostio, scrisse annali L. Accio nato il 584 a Pisauro (Pesaro)166, autore di molte tragedie, grandioso e sonoro, autore d’una storia della poesia greca e romana inscritta Didascalica, autore di libri Pragmaticon di argomento storico letterario, autore d’un’opera di argomento rustico, intitolato Praxidica o Parerga, autore finalmente di Annales, di cui è citato il libro XXVII, che si corregge in VII. Era in essi fatta larga parte a erudizione mitologica e rituale, se possiamo giudicare dai frammenti167. Morì molto vecchio168.
Familiare di Lutazio Catulo, console nel 652 e morto nel 667, il quale a lui mandò un commentario, nello stile di Xenophonte, sul suo consolato, fu Aulo Furio169 poeta, il quale è certo il Furio Anziate di cui A. Gellio riporta sei versi ex carminibus, versi ripresi da Caesellio Vindice per certe strane invenzioni, secondo lui, di parole, lutescit, noctescunt, virescit, purpurat, opulescere, dal che Gellio lo difende. Di che trattassero questi carmina o questi poemata, non sappiamo. Del suo tempo era Cn. Mazio che compose mimiambi a imitazione di Heronda o Heroda, e tradusse l’Iliade; un poeta che da Gellio è detto doctus vir, homo impense doctus, vir eruditus; un poeta dotto che della grecità gustava sì i più antichi, sì i più recenti frutti. E del suo tempo era l’inafferrabile Ninnio Crasso che avrebbe tradotto e l’Iliade e le Cypria, o avrebbe fuso l’una e le altre in un solo poema di ventiquattro libri? Nulla se ne sa. Anche più oscuro è Gannio, citato tre volte da Prisciano per l’incertezza della prosodia di ador.
Sin dai suoi giovini anni scrisse versi M. Tullio Cicerone (648-711). Di lui giovinetto si conservava anzi un poemation in tetrametri intitolato Pontios Glaucos170. Admodum adulescentulus, dice egli stesso171, tradusse i Φαινόμενα di Arato; più tardi i Προγνωστικά del medesimo. E via via compose i poemetti, Halcyon o Halcyones, Uxorius, Limon (il prato, di cui l’argomento era critico-letterario), un’elegia (Thalia maesta?), epigrammi172. Come di Aeschylo, Sophocle, Euripide e altri, così tradusse, citando, luoghi di Omero: otiosi convertimus173. Nel 694 probabilmente componeva i tre libri del suo consolato, li componeva, ne quod, come egli stesso scriveva, genus a me ipso laudis meae praetermittatur174. Il quale fine, da lui non dissimulato, fece spiacere a molti i suoi versi175. Intorno al 699 componeva, pure in tre libri, un altro poema de temporibus meis176. Nel 700 scriveva poema ad Caesarem come vincitore della Britannia, suave, mihi quidem uti videtur, epos ad Caesarem177. E dello stesso tempo è probabilmente il Marius, e scritto colla stessa mira di propiziarsi Cesare affine al guerriero Arpinate e continuatore della sua opera politica. Ahimè, scrivendo in versi, non par troppo necessario, come seguire verità, così secondare coscienza! Ma allora, i versi vengono (nulla più facile); la poesia non viene. E Cicerone non era poeta: egli scambiava, sbaglio frequente in tutti i tempi e frequentissimo nei nostri, comune a tutti i popoli ma comunissimo nei popoli latini, la retorica con la poesia; arti, se pure arte si può chiamare la poesia, che hanno certi strumenti uguali, ma dissimigliantissimo il fine, poichè l’una vuol convincere e persuadere di cose e a cose cui l’anima si suppone contraria e repugnante, l’altra non vuole se non scoprire all’anima ciò che ella ha in sè e non sa di avere. Ma l’una per ghermire l’assenso e l’altra per snebbiare gli occhi, adoperano tropi e figure, e pure in modo assai diverso, poichè facendo tutte e due luce maggiore che la solita, questa l’usa a chiarire, quella ad abbagliare. Cicerone dunque fu poeta mediocre, ossia non poeta (mediocribus esse poetis con quel che segue), mentre era oratore sommo: Ciceronem eloquentia sua in carminibus destituit178. Giudicò per altro bene di poesia, se non bene poetò? Anche per questo punto non gli si può dar lode intera. Giudicò bene, dove al pregio intrinseco della poesia si aggiungeva quello estrinseco che ad essa dà il tempo e la morte: giudicò bene Ennio e Lucilio. Dove il senso critico non era aiutato dal senso poetico che emana sempre dall’opera passata, allora per quanto ai poeti contemporanei fosse benevolo179, per quanto nel difendere il greco Archia paresse dare la civitas alla poesia tutta, anche a quella meramente artisticà, pure, lasciando il giudizio che egli diede di Lucrezio, che non riesce chiaro, ma non è in fin dei conti favorevole180, egli non apprezzò al loro giusto valore i giovani poeti, quelli che egli chiamava νεωτέρους e novos, quelli che chiamava cantores Euphorionis181. Questi nuovi, questi finissimi poeti (quando non erano, come Cinna, raffinati), anche avendo il torto di attingere al fiume necessariamente un poco impuro piuttosto che alla purissima fonte, e di imitare dagli imitatori e di voler rendere in una letteratura ancora novellina, in cui tutto era ancora da svolgere, i prodotti ultimi d’una letteratura già vecchia (parlo dei tempi di Cicerone o dei nostri? e di quali Alessandrini, di quali νεώτεροι parlo?); toglievano però le ultime incertezze alla prosodia, arricchivano la lingua e lo stile poetico, preparavano Vergilio.
Di loro era Marco Furio Bibaculo. Egli nacque in Cremona, secondo Hieronymo, nel 652; ma la data è certo errata182. Era probabilmente degli amici e fu degli imitatori di Catullo. Pure, seguendo l’esempio di Ennio, scrisse Annales, dei quali si trova citato sino il libro XI. Che trattassero della guerra Gallica di Cesare si fa probabile da parole di Acrone183. È da notarsi però che gli Annales belli Gallici sono citati senza il suo nome, e che gli Annales senz’altro sono citati col nome di Furio senza il cognome Bibaculo. Di che, incertezze e confusioni. Per me è probabile che il Furio sia Bibaculo e che gli Annales belli Gallici siano suoi; perchè vera credo l’attribuzione dei versi messi in ridicolo da Orazio a quell’opera e a quell’autore; e vera la credo, perchè verosimile mi pare che Orazio scegliesse a bersaglio de’ suoi strali un superstite di quelli amici di Catullo e Calvo che egli non amava. E mi pare ancora che Bibaculo sia quel Turgidus Alpinus, che scanna Memnone e male descrive caput Rheni184; poichè l’arguto Venusino avrebbe appunto foggiato quel cognome da quel verso Furius hibernas cana nive conspuit Alpes, come o esso o il popolo diedero (o confermarono in senso burlesco?) il nome di Capitolinus a Petillio per il suo furto della corona d’oro 185. Al qual proposito è da osservare che la satira dove è menzione di Alpino, sebbene nel libro primo, non è probabilmente anteriore all’altra dove è lo strano sputo di Furio, che è del secondo. Quella è la difesa del giudizio dato da Orazio intorno alla satira Luciliana, e par certo composta dopo che quel giudizio, fatto pubblico, ebbe contradizioni e censure: dunque fu aggiunta in una, diremmo noi, seconda edizione del libro subscribe libello186. Ma come l’uomo i cui carmi erano pieni di contumelie per Cesare187, cantò le guerre di Cesare? Cesare attrasse Catullo e attrasse Calvo, ricordiamoci188; e il primo forse con le benemerenze che il grande conquistatore ebbe coi Transpadani189. Non può essere stato il medesimo con Bibaculo cremonese? E poi Bibaculo visse a lungo e forse egli mirava col suo poema ad acquistarsi le grazie non di Cesare più, ma di Ottaviano. Certo al tempo delle prime satire di Orazio quel poema doveva essere fresco e nelle mani di tutti, quando il poeta gallico, dalla pancia piena di trippa (pingui tentus omaso), era vecchio, vecchio mentre lo scriveva e mentre lo pubblicava.
Le guerre di Cesare inspirarono, oltre Cicerone e Bibaculo, un altro poeta, Gallo anch’esso come l’ultimo, ma Transalpino: P. Terenzio Varrone di Atace nella provincia Narbonense, nato nel 672190. Egli fu prima della scuola o, vogliamo dire, dell’indirizzo dei νεώτεροι che non piacevano a Cicerone: scrisse elegie, un’Ephemeris, una Chorographia, gli Argonautae, sempre avendo innanzi modelli Alessandrini. Scrisse poi satire191 e un Bellum Sequanicum; nel che si vede, come si può arguire per Bibaculo, una specie di conversione letteraria, un proposito di entrare nel cerchio nazionale Enniano e Luciliano. Ottimi sono i versi che di lui rimangono e tali riconosciuti pur dagli antichi192. Egli è il vero precursore di Vergilio. Però Orazio, quando scriveva la satira già accennata nella quale deride il gonfio Alpino, la palma della poesia eroica dava a un altro, a L. Vario Rufo (680?-740?), e a lui passava l’invito, fattogli da Agrippa, di cantare le sue imprese193. E scrisse in fatti epicamente intorno alla morte di Cesare e scrisse il Panegirico di Augusto, oltre la famosissima tragedia Thyeste e forse elegie. Orazio aveva certo giudicato bene di Vario; ma non sapeva che quello a cui, secondo il parer suo, le Camene paesane e contadine avevano assentito l’epos molle atque facetum, sarebbe stato il grande poeta delle gesta di Roma, un Ennio meno la rozzezza, un Vario più l’inspirazione.
VIII.
Nel tempo in cui Orazio componeva la satira X del primo libro, tempo che è piuttosto dopo che prima del 720, P. Vergilio Marone attendeva alle Georgiche. Nato il 15 ottobre del 684 ad Andes (Pietole) presso Mantua (Mantova), dal 712 al 716 aveva scritto le dieci ecloghe. Tanto con queste quanto con quelle, egli seguiva modi e autori Alessandrini; e nelle poesie giovanili (catalepton) aveva mostrato amore a Catullo. Questa predilezione delle eleganze Alessandrine tocca, credo io, Orazio, quando paragonando i suoi due amici dice:
forte epos acer
Ut nemo Varius ducit; molle atque facetum
Vergilio adnuerunt gaudentes rure Camenae194.
Invero Quintiliano spiega l’aggettivo facetum così: decoris hanc magis et excultae cuiusdam elegantiae appellationem puto195. Exculta elegantia: la qualità opposta al venerando orrore del lucus Enniano. Nè è da credere che Orazio avesse in mira le sole ecloghe, già pubblicate, e non le Georgiche ancora, che il poeta andava scrivendo. Dice bene egli nelle Bucoliche che quella sua Musa è rustica196, ma rustica è pur lì in un senso che male interpreterebbe l’espressione gaudentes rure Camenae e male si accorderebbe con molle e facetum. Alla quale meglio si possono comparare queste altre delle Georgiche
Interea Dryadum silvas saltusque sequamur
Intactos.
e
Haec super arvorum cultu pecorumque canebam
Et super arboribus,
Carmina qui lusi pastorum;
e giova ricordare il proemio personale all’Eneide197. Orazio insomma dava all’amico la gloria dell’elegante genere Alessandrino, sì negli idillii Theocritei e sì nelle didascaliche di Nicandro, di Euphorione, di Arato, di Parthenio, di Eratosthene. Nè il giudizio del Venusino era sbagliato, nè altri poteva ragionevolmente aspettare il forte epos dal poeta dei pastori e anche da quello degli agricoltori; sebbene... sebbene già nel primo libro delle Georgiche era un passo che possiamo imaginare più presto noto che il rimanente, i segni della morte di Cesare (464514), di colorito eroico; sebbene anche nelle Bucoliche, nella quarta ecloga, egli si mostrasse capace di cantare maiora; sebbene, prima di accingersi alle ecloghe, egli disegnasse un poema epico: cum res romanas incohasset offensus materia ad bucolica transiit, dice Donato198; e Servio: significat (con le parole cum canerem reges et proelia) aut Aeneidem aut gesta regum Albanorum, quae coepta omisit, nominum asperitate deterritus. Dal che si deve ricavare che se Orazio tra le due candide anime di Vario e di Vergilio spartiva l’epos, assegnando il forte a Vario, il molle atque facetum (per me sono aggettivi di epos anche questi) a Vergilio, agli altri e specialmente a Vergilio stesso la spartizione non doveva garbare. Non mancavano quindi al modesto poeta sollecitazioni a comporre epicamente, come non mancavano a Orazio stesso. Perchè Vergilio non ubbidiva? È verosimile che più che l’asprezza dei nomi de’ re Albani, più che la selva selvaggia (così presso a poco si può rendere materia nel luogo di Donato) dell’argomento, lo distogliesse la ripugnanza a modificare il suo piano. Egli aveva il suo piano prestabilito ed era amplissimo: res Romanas; un rifacimento, diremmo, degli annales Enniani: non voleva forse adattarsi a restringere il magnifico soggetto al panegirico d’una persona, alla narrazione di una guerra Aetolica, d’una presa d’Ambracia. Quindi si diede a un genere affatto opposto, pure mostrando in esso quale sarebbe il suo spirito di poeta nell’altro, e pure accontentando Varo, Pollione, Ottaviano; e poi scrisse il poema della pace, seguendo sì in esso il consiglio di Mecenate, perchè questa volta il consiglio gli pareva degno, e rispondeva anzi ai voti del gran poeta paesano e agricoltore, del poeta che malediceva le guerre civili e ne aveva tanto sofferto. Quando Vergilio potè riprendere il suo disegno giovanile? e dovè allora modificarlo?
Egli lo riprese dopo la battaglia di Actio avvenuta nell’autunno del 723. Il poeta diede l’annunzio del prossimo grande poema nel proemio al terzo libro delle Georgiche (10-39), le quali, quando Augusto ritornò da quella guerra, potè leggergli in Atella compiute199. Quel proemio egli scrisse, dunque, mentre Ottaviano era ancora in Oriente. Le sue ripugnanze erano vinte dal grande fatto compiuto, dell’unità restituita all’impero, della sicurezza della pace tanti anni bramata. Egli accolse l’invito di Augusto: ab Augusto Aeneidem propositam scripsit200. Non era dunque il poema disegnato da giovane? Era sì, perchè questa Aeneis era chiamata ancora gesta populi Romani: quanto a dire res Romanae201. Ma dunque le res Romanae che lasciò da parte, avrebbero dovuto essere l’Eneide quale poi fu? Crediamo per certo che le avventure di Enea avrebbero dovuto esservi comprese, come nel Bellum Poenicum di Naevio e negli Annales di Ennio: ma non si può dire se il resto della storia di Roma doveva esservi trattata, come a me pare probabile che fosse trattata in Naevio, in forma di vaticinio, e come poi fu veramente trattata nell’Eneide, con la νεκυία e lἀσπιδοποιία, o come fu esposta da Ennio continuatamente e per ordine di tempo. Si può imaginare verisimilmente che l’invito d’Augusto fosse determinato dal fatto che egli si teneva ed era tenuto diretto discendente di Iulo figlio di Enea, e che tale fatto determinasse il poeta ad assegnare nel suo poema la prima parte ad Enea, il quale «forse» nel disegno giovanile non aveva maggior parte di quella che avesse nel Bellum Poenicum e negli Annales. Questo si può imaginare, non altro; non per esempio, che l’invito di Cesare fosse a cantare le sue vittorie e che Vergilio lo accettasse, sulle prime facendo di esse la parte centrale e sostanziale del poema, e poi modificasse il suo pensiero, e mettesse come episodio ciò che prima voleva porre come somma dell’opera. Perchè, su che si fonda codesta seconda imaginazione che io tengo inverosimile? Sui versi202
Mox tamen ardentis accingar dicere pugnas
Caesaris, et nomen fama tot ferre per annos,
Tithoni prima quot abest ab origine Caesar.
Ora, lasciando che in questi versi è indirettamente accennato che il poeta intende di esporre la storia della gente Iulia sin da Tithono (figlio di Laomedonte) ossia sin dai suoi progenitori Iliaci, vediamo, un poco tutto il luogo. Il luogo (10-48) è una sublime allegoria. Abbiamo veduto come Vergilio esprime e rappresenta l’epos Enniano: qui rappresenta il suo. Il poeta vuol dalla vetta Aonia condurre nella sua patria le Muse, primo, primo offrire a Mantua le palme della vittoria. Si interpreta che egli darà a Mantua la gloria d’aver generato il poeta delle Georgiche, delle Georgiche quando, modo vita supersit, le avrà compiute. A torto s’interpreta così: egli dice poi:
Interea Dryadum silvas saltusque sequamur
Intactos, tua, Maecenas, haud mollia iussa.
Altra gloria è dunque quella che il poeta prepara; per ora ubbidisce a Mecenate e continua il poema campestre. Il poema che promette sarà de marmore: un tempio nel cui mezzo sorgerà la statua di Cesare. Il poeta farà turbinare intorno, lungo il fiume, cento quadrighe. La Grecia, lasciando Olympia e Nemea, verrà a quelle gare. Esso, cinto della sacerdotale ghirlanda di olivo, porterà i doni ai templi con lunghe pompe, dopo molti sacrifizi, e darà ludi scenici. Di oro e avorio saranno scolpite nelle imposte del tempio le guerre di Cesare (Vergilio lo chiama Quirino, precorrendo, pare, quello che proponeva per lui il nome di Romulus) in Oriente, le vittorie di Actio e la conquista dell’Egitto, i successi ottenuti in Armenia e da ottenersi sui Parthi, sui Cantabri, sui Britanni, sui nemici insomma più lontani e più opposti. Non solo: vi saranno statue che rappresenteranno gli avi Troiani di Cesare; e Apollo: Apollo, di cui Ottaviano voleva essere creduto figlio203. Nè mancherà l’inferno con i suoi supplizi. Così Vergilio concepiva il suo poema. «Intanto si continui il poema agricolo: tra poco saremo alle promesse battaglie di Cesare». Era invero tutto in lode dell’Augusto, che teneva il mezzo del tempio; eppure assomigliava in verità all’Eneide quale la possediamo. Sì: assomiglia. Ma se Enea non vi è pur nominato! Non vi è nominato, ma vi si parla del Tartaro, vi è insomma promessa una νεκυία. Questo è ragionevole supporre, se pur non si voglia intendere che con questi tre versi
Invidia infelix Furias amnemque severum
Cocyti metuet tortosque Ixionis anguis
Inmanemque rotam et non exsuperabile saxum
egli alluda al breve cenno nell’ἀσπιδοποιία (VIII 666-70). Ma se parte del poema designato da Vergilio doveva essere una discesa agli inferi, è gran necessità ammettere che la favola non doveva scostarsi troppo da quella che noi leggiamo. E considerando il rapporto che è tra i versi 46 e 47 e i 26-33, dobbiamo anche persuaderci che le pugnae Caesaris dovevano nel poema avere una parte episodica, analoga a quella che hanno i bassorilievi della porta e le colonne del vestibolo nel tempio. Pure in medio Caesar erit. Sì, sarà il tempio della sua gloria il poema che canterà i principii remotissimi di Roma per opera del progenitore di Augusto, il quale Augusto è il nuovo Romolo, il nuovo Iulo; e avrà ancora, ma non più che come ornamenti, le guerre guerreggiate da lui nella sua terza, diciamo così, incarnazione. In che dunque Vergilio si può sospettare che modificasse il suo disegno giovanile? In questa sola consacrazione del poema ad Augusto, di cui allora intuiva la futura grandezza, sperando senza potere indovinare, che egli sarebbe stato vincitore di tutti i nemici interni ed esterni e il pacificatore del mondo. E questa consacrazione lo determinò, se prima non vi era ancora risoluto, a far di Enea l’eroe.
Vergilio si ripose alle res Romanae o gesta populi Romani o alla Aeneis o allo Aeneas, come egli stesso chiama il poema in una lettera ad Augusto204. Stese prima tutto il poema in prosa dividendolo sin d’allora in dodici libri; e ne verseggiava questa o quella parte secondo l’inspirazione del momento. Ogni tanto lasciava qualcosa d’incompiuto per non perdere la vena, e poneva, come diceva egli, dei puntelli, tibicines, nel luogo dove avevano poi a essere le colonne massiccie: ne quid impetum moraretur quaedam imperfecta transmisit, alia levissimis verbis veluti fulsit, quos per iocum pro tibicinibus interponi aiebat ad sustinendum opus donec solidae columnae advenirent205. Nel che non isfugga quanto consueta fosse a Vergilio l’imagine che abbiamo veduta, del tempio, a designare il poema. Componeva pochi versi al giorno, come raccontava Vario in un libro che forse scrisse con Tucca ed altri amici e familiari di Vergilio, de ingenio moribusque eius206; e faceva come l’orsa che riduce poi leccando gli orsatti suoi, molto goffi sulle prime207. Il lavoro dunque procedeva lentamente, con grande passione di Augusto. Nel 729, questi che si trovava alla guerra cantabrica, domandava ogni tanto che sibi de Aeneide... vel prima carminis hypographe vel quodlibet colon mitteretur208. Ed a Vergilio pareva di essersi messo a tale impresa paene vitio mentis209, e studiava e studiava. Il poema aveva a riuscire pieno di dottrina antica: vi doveva aver luogo il ius pontificum, il ius augurale, l’inferorum deorum cultus, l’astrologia, la philosophia210: doveva, in una parola, essere veramente il tempio della idealità religiosa di Roma. Nello stesso tempo doveva riuscire un’opera non inferiore ai capolavori greci. E ben difficile era prendere un verso ad Omero! Più che ad Ercole la clava211.
Solo, dunque, molto dopo le istanze scherzevoli, ora supplici ora minacciose di Augusto, il poeta perfecta demum materia potè recitare all’impaziente principe tre libri in tutto: il secondo, il quarto e il sesto212. Così ha Donato, cioè così aveva Suetonio. Servio213 dice invece recitavit primum libros tertium et quartum: che si emendava in libros primum tertium et quartum e si emenda in primum et quartum. Un libro, che non è tra questi, fu certo noto prima dell’opera intera: l’VIII. Si desume dal confronto di questo libro col primo di Tito Livio, nel quale appariscono chiare, dopo l’acuto e diligente studio di R. Sabbadini, le traccie dell’imitazione Vergiliana214. Queste, oltre che nella narrazione che riguarda Euandro ed Ercole e Caco, anche in altri luoghi. Ora il libro di T. Livio fu composto, come si vede dalla menzione che vi si fa nel cap. xix 3 del tempio di Giano chiuso da Augusto per la seconda volta dopo Numa, prima, dunque, che egli lo chiudesse la terza volta, il che fu nel 729; dopo che egli fu chiamato Augusto, ossia dopo il 727. Dunque il libro VIII dell’Eneide era noto tra gli amici di Vergilio prima di questo tempo che va tra il 727 e il 729. Ma anche in Vergilio Cesare è chiamato Augusto (678); dunque il libro di Vergilio fu composto dopo il gennaio del 727, e il libro di Livio è posteriore a questa data. Così si riprova dall’esame dell’elegia di Properzio xxxii del libro III, nella quale si celebra Vergilio con queste parole (61-66).
Actia Vergilium custodis litora Phoebi
Caesaris et fortes dicere posse rates,
Qui nunc Aeneae Troiani suscitat arma
Iactaque Lavinis moenia litoribus.
Cedite, Romani scriptores, cedite, Grai:
Nescio quid maius nascitur Iliade.
L’elegia essendo stata scritta non molto dopo la morte di Gallo (modo... Gallus Mortuus 91 e seg.), e Gallo essendo morto nel 728, si può concludere che Properzio non molto dopo il 728 conosceva il libro VIII dove è la descrizione della battaglia di Actio; la qual descrizione egli imita nell’elegia x del IV, come imita la narrazione di Ercole e Caco nella ix del V, come nella i pur del V mette a confronto il Pallanteo d’Euandro con la Roma d’Augusto, sempre a imitazione di questo incantatore libro VIII215.
Di un altro libro, non compreso tra quelli ricordati da Servio, sappiamo pur da questo commentatore che fu recitato da Vergilio stesso: del libro VI. Note sono le lagrime di Ottavia e di Augusto nell’udire l’epitaphion del giovine Marcello: constat hunc librum tanta pronuntiatione Augusto et Octaviae esse recitatum, ut fletu nimio imperarent silentium: nisi Virgilius finem esse dixisset, qui pro hoc aere gravi donatus est, i. e. massis. Così Servio216. Marcello morì nel 731. Abbiamo dunque queste date il libro VIII fu noto non molto dopo il 728, il libro IV, almeno (prendiamo questo che è comune alle affermazioni di Donato e Servio), dopo la guerra cantabrica fu recitato ad Augusto; ossia dopo il 729; il libro VI, cui fu aggiunto per l’occasione l’episodio del giovinetto mesto, fu recitato dopo il 731. Che ne dobbiamo ricavare? Questo: poichè il libro IV è in relazione con le guerre puniche, tanta parte della storia di Roma, come quello che ne assegna le cause remote o mitiche; poichè il libro VI e il libro VIII, l’uno nella vexvia l’altro nella àσлɩdorotia, contengono una rassegna delle grandi geste di Roma; non senza aggiungere che l’uno e l’altro hanno altri ricordi dei riti successivi e in genere dell’avvenire della Roma ancor non nata, come del tempio di Apollo Palatino e dei libri sibyllini (vi 65-74), come del dio Tiberino (viii 74-77), dell’ara massima e del culto d’Ercole dei Salii e dei Luperci (ib. 184-305), e della futura grandezza della città (ib. 314-365); poichè in somma in questi tre libri è la maggior impronta del carattere storico dell’Eneide, e sono quelli che egli prima lesse e, probabilmente, prima compose; possiamo argomentare che il poeta, riprendendo il suo disegno giovanile, conservava ad esso la sua nota di res Romanae. Noi invero possiamo accettare le parole di Servio: Nam qui bene considerant, inveniunt omnem Romanam historiam ab Aeneae adventu usque ad sua tempora summatim celebrasse Virgilium217. Solamente, egli la tratta da poeta. Ma chi non trova da una semplice paroletta, aliquis, apparir fuori la terribile figura di Annibale, meglio che dalle lunghe filze di versi di Silio?
Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor,
Qui face Dardanios ferroque sequare colonos,
Nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires.
Litora litoribus contraria, fluctibus undas
Inprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque218.
Nè importa moltiplicare esempi. Ma giova tener presente una cosa: che per i Romani o per gli antichi la storia d’un popolo non era tanto nelle sue guerre, quanto nei suoi riti, e che ciò che sommamente interessava era la conoscenza dell’origine e delle vicende di questi. La storia della sua anima voleva il popolo, non quella delle sue avventure, per così dire, corporee e materiali. Aveva torto?
Per dare l’ultima mano all’Eneide Vergilio si volle recare in Grecia. Vi era andato forse un’altra volta, molti anni prima, ed Orazio aveva salutato la metà della sua vita che si allontanava219. O forse aveva soltanto divisato di andarvi, poi se ne era astenuto. Ora già cinquantenne si esponeva ai rischi d’una navigazione e ai disagi d’un viaggio. Prima di partire aveva trattato con Vario, che in caso di disgrazia (si quid ipsi accidisset), bruciasse l’Eneide220. Vario si era rifiutato. Là in Grecia visitava Megara, sotto lo stellone. Si ammalò. Lo trovò malato in Athene Augusto, e lo persuase a tornare. S’imbarcò in fatti: a Brundisio approdò peggiorato.
Sentendosi morire domandava la cassetta, scrinia, (¹) (2) (3) dove era il poema, per bruciarlo. Non gliela portarono ed egli nulla dispose. Ma nel lasciarne copia a Vario aveva ingiunto, come abbiamo detto, che la bruciasse, si quid ipsi accidisset; il che nel testamento era forse espresso con parole coperte ma equivalenti: ne quid ederent (l’ingiunzione era diretta anche a Plozio Tucca) quod non a se editum esset221. Morì pochi giorni dopo essere sbarcato, XI Kal. Oct. C. Sentio Q. Lucretio coss. nell’anno 735. Le sue ossa furono traslate a Neapoli (Napoli). L’Eneide Augusto che interpretò come a lui, fortunatamente per il mondo, piacque, il testamento e quelle parole, volle che si pubblicasse da Vario: summatim emendata, ut qui versus etiam imperfectos sicut erant reliquerit222. Hieronymo riferisce che da Vario e Tucca i libri dell’Eneide furono emendati con la condizione che nulla aggiungessero223, e Servio224 afferma che Augusto li diede ad emendare a Tucca e Vario con il patto che togliessero il superfluo, senza però aggiungere nulla.
Nell’anno 737, come si può sospettare dalla data di Hieronymo (nel 737 Vario e Tucca poetae habentur inlustres — anche Tucca? — qui... postea ecc.); nell’anno dei ludi secolari, come si può arguire dall’eco viva che dell’Eneide risuona nel canto di Orazio, fu pubblicato il poema di Roma, la cui incompiutezza non nuoceva all’effetto: dalle lacune pareva affacciarsi al popolo, come a dire cose alte e grandi, il volto del poeta morto e immortale. E da tutto il complesso della grande opera usciva la preghiera al Sole, ad Apollo, la quale squillava così sublime dalle bocche dei tre volte nove fanciulli e fanciulle:
Alme Sol, curru nitido diem qui
Promis et celas, aliusque et idem
Nasceris, possis nihil urbe Roma
Visere maius!225
IX.
Avanti il tempio di marmo rimasto incompiuto, ogni anima è presa da uno di quei desideri tanto più forti quanto meno adempibili: non la vedrò io dunque l’opera, come l’avrebbe compiuta il morto artefice? Non la vedremo. Tuttavia possiamo ingannarlo, il desiderio vano.
Però bisognano molte cautele. Prima d’ogni altra considerazione, dobbiamo cercare d’intendere come Vario e Tucca adempirono il mandato di Augusto: ut superflua demerent, nihil adderent tamen. Tolsero essi, noi sappiamo di certo, i quattro versi, che sono in questa come nelle altre opere di Vergilio, il ritratto di Phidia messo nello scudo della Parthenos: i primi quattro Ille ego etc.226. Servio riferisce al verso 204 del libro III tre versi che furono trovati extra paginam in mundo, e furono dagli emendatori circumducti: Hinc Pelopis gentes Maleaeque sonantia saxa
Circumstant, pariterque undae terraeque minantur.
Pulsamur saevis et circumsistimur undis.
Il medesimo dice circumductum il verso 226 dello stesso libro
Harpyiae et magnis quatiunt clangoribus alas.
che sonava, dice esso,
Harpyiae: resonant magnis stridoribus alae.
Il medesimo riporta al 289 del libro VI quattro versi, qui ab eius emendatoribus sublati sunt; e sono:
Gorgonis in medio portentum immane Medusae,
Vipereae circum ora comae cui sibila torquent,
'Infamesque rigent oculi, mentoque sub imo
Serpentum extremis nodantur vincula caudis.
Furono tolti da Tucca e Vario i versi 567-588 del libro II227. Furono poi da essi i due ultimi versi del V fatti principio del VI: di che è vero solo che Probo e altri non intendevano (oh! i grammatici!) lasciare quella esclamazione dolorosa scompagnata dalla menzione di chi la pronunziava228. Notiamo ora che sì i primi quattro versi proemiali, sì i 22 versi espunti del libro II sono Vergiliani (senza questi invero il senso non corre): che dobbiamo concludere? Dobbiamo concludere che dell’Eneide andavano attorno edizioni secondo quella di Vario e Tucca, e altre che comprendevano anche i passi, religiosamente conservati, che in essa non avevano avuto luogo. Ora quando noi troviamo mancare in codici, siano pure i più autorevoli, anzi appunto in essi che è ragionevole supporre emanati dalla διόρθωσις Variana, qualche verso, o perchè ripetuto o per altro, noi dobbiamo credere più volentieri e più legittimamente che siano stati tolti dai due che avevano uffizio di togliere il superfluo, di quello che siano stati aggiunti o ripetuti da altri. Tanto più che tali ripetizioni erano certo nel gusto di Vergilio. E come?
Così. Egli intendeva l’arte epica, come forse non Vario, come forse nessun altro Romano, in un modo tutto suo e degno di lui e della sua anima di poeta. Egli aveva avanti i poemi di Omero. Egli sentiva la poesia di Omero quale emana in gran parte da quelli che un antico avrebbe chiamato difetti dell’autore e che noi crediamo inconvenienti derivati dalla composizione dei poemi stessi, varia e diversa. Credeva egli che la Musa che insegnava i μύθους (ricorda Platone nel Phaedone) non insegnasse i λόγους? Credeva egli che dopo l’inspirazione e l’invasamento del nume, fosse necessario il dormitare che Orazio trova in Omero? Può essere. Nel fatto esaminiamo il concilio degli dei nel libro X (1-117). In esso Giove vieta agli dei di prendere parte al combattimento dei mortali: rex Iuppiter omnibus idem, Fata viam invenient. Benissimo: ma Giove viola poi la legge da lui posta, lasciando che Giunone sospenda la morte di Turno con un suo artifizio, ammonendo Mezentio di entrare nella battaglia (606-32, 689-90). E Venere viola quella legge, scansando le freccie dal corpo di Enea (331-2), e la viola Iuturna, eccitando Turno ad assalire Pallante (439-40). Contradizioni? negligenze involontarie? Non pare, perchè Vergilio invece imitava Omero che dopo aver fatto tenere un simile discorso a Zeus (Θ 1-40), racconta che prende parte alla lotta (133-4), e fa che Apollo salvi Hector (311) e che Hera consigli Agamemnone (218). Un altro esempio: nella rassegna delle navi Etrusche egli nomina guerrieri che più non compariscono (X 166-214). Oblio? disegno di modificazioni ulteriori? Non pare: egli imitava Omero che nella Boiotia nomina anch’esso tanti guerrieri che altro non fanno in tutto il poema. Noi sappiamo perchè nella Boiotia così fosse; ma Vergilio non lo sapeva: vedeva soltanto nella cosa solo un tratto di naturalezza, un sentore epico229. Da ciò discendono le ripetizioni di versi e d’emistichi e di passi interi. Si metteva forse egli nella persona d’un aedo antico? E perchè no? Egli aveva l’anima veggente. Un solo verso, un suo verso delle Georgiche, ci dice tante cose! Agricolae: hiberno laetissima pulvere farra (I 101). Si annota: est carmen rusticorum antiquum: Hiberno pulvere, verno luto, grandia farra, camille, metes230. Non voleva egli che si sentisse nel suo poema, quello che egli sentiva in quello Ascraeo, la voce di poeti più antichi, di proverbi e di canti anonimi? E a questo si deve attribuire lo spesso ricorso di versi d’Ennio e d’altri passati, persino di contemporanei come Varrone Atacino e Vario, nella sua Eneide. Ricordiamoci che è a dirittura puerile, di grammatico che vive fuori della poesia come il cenobita fuori della vita, credere a furtarelli tali, che nemmeno noi, nemmeno noi piccini piccini, saremmo dalla povertà del nostro ingegno obbligati a fare; e non piuttosto credere a generose astensioni, a generosi gettiti dell’artista che ama più l’opera sua che la sua gloria! Una tale eco di voci che furono, vibrava all’anima di Vergilio dai poemi di Omero e di Esiodo; e volle che non mancasse nella sua. Così è senza dubbio.
Dunque nell’esaminare la non compiuta opera Vergiliana, dobbiamo tener fermo che qualche contradizione, di qualche specie, Vergilio stesso l’avrebbe conservata, come egli stesso la volle sul principio.
Ora indizi certi di lacuna, di modificazione fatta o da fare, sono i versi lasciati a mezzo; i quali tutti dànno senso compiuto, come dice Donato, fuori che il 340 del III Quem tibi iam Troia. Ma si vuole che altri più ne lasciasse il poeta interrotti, che furono poi suppliti da interpolatori. Ecco: il trovarsi (per es. il 391 dell’XI) alcuno supplito in qualche manoscritto e in altri no, il trovarsi fatta menzione di altri racconciamenti e compimenti, deve portare, mi sembra, alla tranquilla fiducia di non aver nulla nella nostra Eneide che non sia Vergiliano, chè ọ l’uno o l’altro, o in un modo o in un altro, ce lo avrebbero fatto sapere. E infine, prima di risolversi a rifiutare alcunchè, come non degno del Poeta, oltre che considerare sempre che il poema non ebbe l’ultima mano, bisognerebbe qualche volta cercar di capire il mezzo verso o intero da condannare, prima di condannarlo, e chiuderlo tra le due forche critiche. Questo premesso, bisogna vedere se le lacune o le ridondanze segnate da questi mezzi versi, sono in rapporto a qualche grossa contradizione o imperfezione del poema. Anche per questa parte, accenno qualche esempio. Prendiamo l’episodio di Niso ed Euryalo. Nel libro IX i versi che li riguardano sono tutti compiuti fuori che il 295 e il 467. Nel libro V hanno parte Euryalo e Niso, nella gara della corsa (286-361); e qui sono due versi incompiuti il 294 e il 322. Ecco il 467 del IX e questi due:
Euryali et Nisi.
Nisus et Euryalus primi,
Tertius Euryalus;
Ora nel libro V di Euryalo non è ricordata la madre, di Niso non è detto il padre; non è detto di loro, se non che Euryalo era bello e giovane e che Niso l’amava (295 e seg.). Nel libro IX invece tutt’altro: Niso è figlio di Hyrtaco (di cui è un altro figlio, gareggiatore del V, Hippocoonte 492), e di Ida cacciatrice, ed è gran saettatore anche esso, sebbene nelle gare siciliane egli non si provi nell’arco, sì nella corsa. Euryalo è detto giovane e bellissimo: della madre non è ancora menzione (IX 176-81). Probabile pare che nel disegno prosastico fatto dal poeta prima di cominciare, avesse egli segnato i ludi in onore di Anchise; se per il V o altro libro, lasciamo; e avesse segnata la sua Dolonea. Vergilio vivificava col sentimento affettuoso a lui proprio le oimai di Omero: volle dunque che la sua Dolonea, oltre la poesia della sorpresa notturna, portasse un esempio sublime di amicizia fraterna. Dolone diventò dunque una coppia, come era in Omero quella degli esploratori Achei; ma di amici di cui l’uno muore per l’altro. Niso nell’episodio del IX libro poteva dar prova sì d’agilità di garretto, sì di maestria nel tirare il giavellotto. Ondeggiò forse Vergilio, se porre Niso tra i contendenti nell’arco o tra quelli della corsa: preferì quest’ultima, per poter dare anticipata una prova della eroica fratellanza dei due amici. Ma quando la preferì? Forse solo al momento dell’esecuzione, perchè solo allora ebbe l’inspirazione di aggiungere quella nota di sentimento all’episodio omerico corrispondente (Ψ 740-97). Ed ecco spiegate le due lacune del V. Niso ed Euryalo con lui erano stati messi forse nella gara dell’arco, in luogo il primo di quell’Hyrtacide Hippocoonte che non si sa perchè sia accolto clamore secundo (491 e seg.); in luogo il secondo di quell’Eurytion, che sebbene fratello di Pandaro, non fa nè prima nè poi assolutamente nulla nel poema. In questa gara sì, poteva aver luogo quella dichiarazione del sangue e della qualità di Niso che si trova nel IX 177 e segg.; così per esempio (ma suppongo, non sia mai detto abbastanza!):
V | et primus clamore secundo | 401 |
IX | Hyrtacides <exit Nisus> quem miserat Ida, Venatrix iaculo celerem levibusque sagittis. |
177 |
V | Tertius <Euryalus...> | 495 |
IX | quo pulchrior alter Non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, Ora puer prima signans intonsa iuventa. |
179 |
Ed è curioso quel verso manchevole (322) Tertius Euryalus, vederlo insieme col 495 Tertius Eurytion; ed è curioso notare come sostituendo Euryalus ad Eurytion nel 514, Tela tenens, fratrem Eurytion in vota vocavit, noi avremmo l’ultima di Euryalus allungata, come appunto nel 337, Emicat Euryalus et munere victor amici. Supposizioni: certo, ma insomma si capisce il perchè di quei due versi incompiuti è stato dal poeta spostato alcun che: e l’aiuto che dà ad Euryalo Niso caduto, è l’anticipazione della loro fine gloriosa. Ora Vergilio aveva concepita sulle prime anche la straziante conclusione di quella fine? il pianto della madre? I due versi manchi 295 e 467 ci fanno dubitare che no. Sono essi infatti in qualche relazione tra loro; se Euryalo non parlasse della madre, non avrebbe luogo la risposta di Ascanio nè, quindi, il 295 Tum sic effatur. Se questa madre non la destinasse il poeta allo straziante spettacolo, egli non farebbe infiggere la testa degli amici sulle aste, e non avrebbe luogo il 467, Euryali et Nisi231. Come gli venne in mente, o in cuore, di porre questo pianto di madre? Essa è l’unica madre che sia tra i Troiani ed è serbata a tale vita di dolore! L’unica perchè le altre sono rimaste in Sicilia. Al poeta piacque fare quest’eccezione per trarne tale effetto di pathos. Ma subito? pare di no, e ce lo dice un altro versicolo mezzo, il 653 del V, '232. Qui dunque con qualche probabilità possiamo dire di aver seguito Vergilio nel suo lavorìo e di essere in grado anche d’indovinare come egli avrebbe ripulito all’ultimo il suo lavoro: da una parte, prima due episodi di Omero tali e quali: Aiace che sdrucciola nel fimo, e Dolone e Odysseo con Diomede che escono a spiare: poi sono due prodi amici che muoiono l’uno per l’altro, e anche quello di sdrucciolare nella corsa è fatto occasione a una prova di amore; dall’altra, prima un episodio della leggenda, l’incendio delle navi, quasi ripugnante; poi l’eccezione dell’unica madre che non vuole l’incendio e non vuole abbandonare il figlio; poi ancora il pathos tragico nel destinare questa unica madre alla vista del teschio sanguinante del suo figliuolo.
Esaminiamo un altro punto, e principalissimo questo. Caesar tiene dunque il mezzo del tempio, e nel tempio sono di marmo pario i suoi antenati Troiani e il gentis auctor Apollo. La glorificazione di Cesare in vero avviene nel poema e per la parte che ha Apollo nel fatale viaggio di Enea e per la affermata derivazione di Cesare da Enea stesso. Questo in generale; ma in particolare? Per il primo punto, vediamo che ad Apollo si rivolge Enea:
Da propriam, Thymbrace, domum; da moenia fessis
Et genus et mansuram urbem; serva altera Troiae
Pergama, reliquias Danaum atque inmitis Achilli233.
Apollo dà prima, in Delo, il responso di cercare la madre antica. Quando gli esuli lo hanno male interpretato, egli manda i Penati a dichiarare a Enea, che l’antica madre è l’Italia. Quella che del suo nume fu invasata senza effetto, Cassandra, già parlava ad Anchise d’Italia e di Hesperia234. Le Harpyie annunziano un futuro danno? Ed Heleno, sacerdote di Apollo, insegnando la via, dice che quel danno sarà da Apollo stornato: aderitque vocatus Apollo. Heleno poi indica la Sibylla235. E questa, che è pure sacerdotessa d’Apollo, annunzia a Enea il prossimo arrivo al regno Lavinio e le guerre che lo aspettano per la donna straniera236. Ad Apollo, mediante la Sibylla, deve l’eroe Troiano la discesa agli inferi, dove egli ha da Anchise gli ammonimenti che Heleno, il quale di questa discesa tace, gli aveva detto di aspettare dalla Sibylla237. Apollo nello scudo Vulcanio saetta dall’alto l’accozzaglia orientale alla battaglia di Actio, e Cesare dopo il trionfo sedendo nel vestibolo del marmoreo tempio Palatino rassegna i doni dei popoli vinti e al dio li offre238; e dall’alto il medesimo iddio applaude alla prima vittoria di Iulo e lo consiglia alla pace239. Ad Apollo, come a Giove, dirige la preghiera Enea nell’affrontare Mezentio240; e, nel solenne momento, in cui Enea stabilisce i patti della sua convivenza nel Lazio, a lui la religione a Latino l’imperio, Enea nomina per primo il Sole, come bensì anche in Omero, ma come altresì nel Carme Secolare: Alme Sol241. E il Sole nell’uno e nell’altro luogo è, non si può dubitare, Apollo nel particolare senso e culto che gli tributava Augusto. A questa parte precipua del dio d’Augusto nell’azione dell’Eneide, fanno contrasto, prima d’ogni altra cosa, la profezia dell’ombra di Creusa, profezia che renderebbe inutile e falso tutto il libro III se si pensa che dovesse rimanere242. E strano ne uscirebbe in molti punti anche il IV, poichè Didone, dopo sentita tale profezia Illic... regnumque et regia coniunx Parta tibi, male potrebbe credersi ingannata dal Troiano. Nel passo accennato è un verso, il 787, incompiuto. Che concluderne? Questo forse: i tre versi
785Non ego Myrmidonum sedes Dolopumve superbas
Aspiciam aut Grais servitum matribus ibo
Dardanis et divae Veneris nurus,
sono la correzione introdotta dal poeta, che avrebbe tolto invece i 780-84, e avrebbe diversamente rimaneggiato il tutto. E nel fatto di Creusa doveva entrare, con quale effetto di lagrime ci è dato appena imaginare e molto rimpiangere, Andromache. Lo provano le due lacune:
II | Congeritur, pueri et pavidae longo ordine matres766 |
III | Quid puer Ascanius? superatne? et vescitur aura339 |
nel qual ultimo luogo incerta è la lezione e l’interpunzione.
Ora imaginiamo che i versi 761-7 del II nella prima redazione non ci fossero; e lo possiamo imaginare facilmente perchè meglio si congiungono, senza essi, i versi 760 e 768 760Procedo et Priami sedes arcemque reviso.
768Ausus quin etiam voces iactare per umbram;
imaginiamo ancora nel libro III che primamente mancassero i versi 340 e seguente: non sentite l’eco, come ho a dire?, d’un canto che non fu detto e non sarà più detto? non vedete l’ombra, soltanto l’ombra, delle due dolentissime che non sapremo mai come il Poeta volesse porre insieme? E notiamo che qui come altrove i versi incompiuti sono segno d’una aggiunta fatta e da continuare, non d’una interruzione o cancellatura.
Per tornare ad Apollo, egli doveva entrare in qualche modo nella soluzione della profezia lugubre dell’Harpyia aderitque, vocatus Apollo. Ma Apollo invece non è invocato e non si mostra. C’è però un verso interrotto243
129Exitiis positura modum.
Di più non vi è parola dell’Harpyia. Chi ha dato il vaticinio, è, non Celaeno, ma Anchise. E poichè il libro VII, per la menzione che vi è al 606, delle insegne di Crasso restituite, si vuol composto degli ultimi, così dovremmo credere che Vergilio avrebbe modificato il libro III, togliendo tutto l’episodio delle Harpyie. Invece no: considerando la popolarità paesana di quella leggenda, delle mense mangiate per fame, si può congetturare che ella fosse delle prime a essere verseggiata; considerando la parte che ad Apollo è data nel poema, non si deve credere ch’ella avesse a essere sminuita nell’andare avanti e non piuttosto accresciuta. Inoltre considerando l’episodio delle Harpyie nel libro III, troviamo che i Troiani dopo tre giorni e tre notti di caligine, finalmente vedono terra e il fumo, che è segno che ella è abitata. Ma quella terra è delle Strophadi, che s’hanno a credere deserte, abitate solo dalle fameliche Harpyie. Non è forse in ciò un segno che il detto episodio fu aggiunto da Vergilio? e inserito tra il 206 e il 270? Si legga:
Quarto terra die primum se attollere tandem205
Visa, aperire procul montis ac volvere fumum.
Iam medio apparet fluctu nemorosa Zacynthos270
non pare il tutto ben commesso? E si noti il verso 218 incompiuto. Nel libro VII togliete i versi 128 e seg.: non corre meglio il senso? Quei due versi, si può supporre, sono il cominciamento della correzione che Virgilio avrebbe fatto, non senza dar la sua parte ad Apollo.
Un’incertezza continua mi pare che serpeggi nel poema a riguardo di Iulo e dei suoi discendenti. La gente Iulia da chi discende? da Iulo o da Silvio? Si confrontino questi luoghi
I | 286Nascetur pulchra Troianus origine Caesar, |
I | 267At puer Ascanius cui nunc cognomen Iulo |
IV |
* 618nec, cum se sub leges pacis iniquae |
VI |
hic Caesar et omnis Iuli789 |
VI | Tuque prior, tu parce, genus qui ducis Olympo;834 |
VIII | Ex quo ter denis urbem redeuntibus annis47 |
VIII | * illic genus omne futurae628 |
IX | Dis genite et geniture deos. iure omnia bella642 |
con questi altri
I | Multa quoque et bello passus, dum conderet urbem5 |
VI | * * primus ad auras761 |
VII | Externi venient generi, qui sanguine nostrum98 |
XII | Sacra deosque dabo; socer arma Latinus habeto,192 |
XII | * commixti corpore tantum835 |
Si considerino finalmente questi due:
VI | Causa mali tanti coniunx iterum hospita Teucris93 |
VII | Quin idem Veneri partus suus et Paris alter321 |
È chiaro che nei primi otto luoghi Iulo Ascanio è progenitore della gente Iulia e il fondatore immediatamente di Alba, mediatamente di Roma. Negli altri cinque parrebbe che Iulo dovesse essere solo il capo del culto e che Alba e la potenza Romana dovesse derivare dal connubio di Enea con Lavinia, dalla mistura del sangue Italico e Troiano, lasciando da parte Iulo. Come avrebbe conciliato il tutto Vergilio? Non è questo il luogo di disputare a lungo: mi basti presentare il quesito. È aggiungere un cenno: non forse il Poeta avrebbe svolto il concetto espresso negli ultimi due passi? non forse avrebbe fatto di Lavinia una sterile Helena? cagione di lutto, benchè involontaria, ai suoi e agli altri, cagione di morte a Enea? Certo quegli che doveva cadere ante diem, non poteva aver da vecchio (longaevo) un figlio. E certo anche qualche cosa significa l’interruzione, nel medesimo libro VI del verso 835. Cesare non è per i poeti Augustei puro come il suo figlio adottivo.... Ma non profaniamo il mistero della mente divina che non si svelò tutta.
X.
Quale pullulare di poesia epica all’ombra dell’Eneide! Parrebbe che dopo apparsa l’opera perfetta, in cui la forma poetica ha tutti i numeri, dovesse cessare l’artificiamento di operucole consimili. Non è così. La facilità; ora che tutto è definito, lingua, stile, metro; invita, nè l’inutilità spaventa. Già con Ovidio, che pur guardando nell’Eneide, perfezionava un altro genere poetico, vivono molti di questi parassiti di Vergilio, crescono di queste «femminelle», cioè, polloni venuti a piedi dell’albero, dell’Eneide: Albinovano Pedone, Cornelio Severo, Sestilio Ena, Iulio Montano, Arbronio Silone, Rabirio.... Di questi almeno qualche cosa è rimasto, ma più ancora erano. Leggete Ovidio244. Albinovano Pedone, che Ovidio disse sidereo, fu suo amico. Egli era degli arbitri nella graziosa controversia tra Ovidio e gli amici che volevano che egli togliesse tre versi dai suoi carmi. Sì, disse Ovidio, pur che non siano i tre che scriverò. Così scrissero gli amici i tre che soli loro spiacevano, e scrisse Ovidio i tre che a lui piacevano sopra gli altri; e si trovò che esso ed essi avevano scritti i tre medesimi245: il poeta ama non ciò che lo abbellisce, ma ciò che lo distingue, sia pur questo un neo. Scrisse Pedone una Theseide246, scrisse anche un poema di materia storica, in cui aveva luogo la navigazione di Germanico nel mare del Nord nel 769 (16 d. C.). Non indegno di essere letto lo giudica Quintiliano247, da chi avesse tempo però. Era parlatore e narratore elegantissimo, e Seneca riporta di lui l’arguto racconto d’un lucifuga, d’un lychnobio, e Quintiliano un motto248. Riuscì perciò nell’epigramma e Marziale lo nomina come suo maestro e lo dice doctus249. Miglior verseggiatore che poeta è da Quintiliano giudicato Cornelio Severo, del quale egli cita il Bellum Siculum (quello con Sesto Pompeo), il cui primo libro gli pareva eccellente e da porre, se i seguenti fossero stati conformi, l’autore subito dopo Vergilio250. Valerio Probo cita un emistichio rerum Romanarum. A lui è diretta la ii del IV libro delle epistole ex Ponto. Ovidio lo chiama, vates magnorum maxime regum; dice che egli ha dato al Lazio carmen regale251. Seneca dopo aver ricordato molte narrazioni intorno alla morte di Cicerone, aggiunge che nessuno la pianse meglio di Cornelio Severo, e ne riporta i versi. Dello stesso tempo è Sestilio Ena di cui rimane un verso, imitato da uno di Cornelio Severo252. Era di Corduba, di più ingegno che studio, ineguale, e aveva a tratti quell’enfasi, quel non so che di straniero, che Cicerone riconosceva appunto nei poeti Cordubensi253. In una seduta, come già si usavano, poetica in casa Messalla Corvino, dovendo leggere sulla proscrizione triumvirale, lesse a bel principio:
Deflendus Cicero Latiaeque silentia linguae,
che non solo assomiglia al verso accennato di Severo254, ma agli epigrammi Varroniani (chè di Varrone sono) su Naevio e Plauto. Tra l’assenso e il plauso degli altri, si leva su Asinio Pollione: Messalla, tu sei padrone in casa tua, ma io non starò ad ascoltare costui, al quale paio muto. E se ne andò. Un altro poeta da tali adunanze, rinomato sì come elegiaco e sì come epico255, piacevole uomo (come era gran necessità a simili declamatori) fu Iulio Montano. Egli aveva il vezzo, comune agli altri, ma in lui, si capisce, più spiccato, di descrivere albe e tramonti256. Una volta, dunque, recitava. Ecco subito la descrizione d’un’alba, con la rondine che imbocca i rondinini suoi. Varo, un cavaliere Romano cacciatore di cene che si guadagnava con la sua mala lingua, fa: Buta va a letto. Atilio Buta era uno scapestrato che faceva di notte giorno. Di lì a poco eccoti la descrizione d’un tramonto. E Varo: Cosa dice? è già notte: andiamo a salutare Buta, che si leva. Un altro recitatore era Arbronio Silone, che, secondo Seneca, aveva un magnifico ingegno, cui non solo sciupò ma macchiò, e che lavorava sulla grande Iliade257. E c’era Rabirio, cui Velleio mette quasi a paro con Vergilio (o Velleio, adulatore di Tiberio!) e Ovidio dice magni oris258. Nel suo poema, o in uno de’ suoi poemi, entrava Antonio con una esclamazione più sublime che intelligibile. Era questo poema sulla guerra Actiaca e Alessandrina? E non sono questi i soli poeti di quel tempo e di quel modo. De’ migliori era certo l’autore del panegirico di Messalla, che pare opera giovanile di buono e colto ingegno, se non appunto di Albio Tibullo, ed è foggiato sullo schema degli inni greci. Risale al 723, quando Tibullo era giovane, di 23 anni, quando Ovidio era fanciullo di 12. Viveva al tempo di Ovidio un Pontico chiaro nel poema eroico, autore d’una Thebaide, che, secondo Properzio, che l’aveva detto anche di Vergilio, disputava la palma ad Omero259; un Tuticano, traduttore della Phaeacide omerica, ossia dell’episodio di Nausicaa260; un Macro (da non confondersi col poeta dell’Ornithogonia, delle Theriaca, del de herbis), cui Ovidio chiama Iliaco e dice che compose Antehomerica e Posthomerica, prendendo dai Cyclici261; e un Sabino, che Ovidio chiama «suo», e che scrisse, oltre risposte degli uomini alle lettere delle eroine Ovidiane, una trisemem (?) e un’opera sui «giorni», rimasta incompiuta262; e un Caro autore d’un poema su Ercole, e un Largo, che cantò Antenore, e un Camerino, che narrò la distruzione di Troia, e un Trinacrio (è nome proprio o aggettivo?) autore d’una Perseide, e un Lupo scrittore d’un nostos, il ritorno di Helena e Menelao263. E non sono tutti qui: c’erano due Prisci, un Numa, cantore di guerre Romane in Africa e un Mario scripti dexter in omne genus264.
La poesia epica si era messa sulla via della declamazione, e per questa via ebbe il suo capolavoro al tempo di Nerone nella Pharsalia o de bello civili di M. Annaeo Lucano. Questi nacque III Non. Novembr. C. Caesare Germanico II, L. Apronio Caesiano coss., ossia il 3 Novembre del 792 di R. 39 dopo C., in Corduba, da M. Annaeo Mela cavaliere Romano, fratello di Seneca, e da Acilia. Fu portato a Roma di otto mesi ed erudito dai migliori maestri del tempo, tra gli altri da Cornuto. Fu compagno di scuola di Persio Flacco; declamò presto, con grande ammirazione degli uditori, in greco e in latino. Le prime prove del suo ingegno le diede in lodi di Nerone che lo fece dei suoi amici e gli diede la questura. Ma non rimase in grazia. Erano rivali in poesia. E Lucano prima con armi solo poetiche combattè l’emulo potente, poi volle combatterlo anche con altre più efficaci. Fu della congiura di Pisone e il più ardente con lui. Scoperta la congiura, non si mostrò troppo forte e denunziò la madre. Ebbe la scelta della morte, ed egli si tagliò le vene, o se le fece tagliare, e così morì pridie Kal. Mai. Attico Vestino et Nerva Siliano coss. ossia il 30 Aprile dell’818 di Roma 65 dopo C.265. Nella sua breve vita di 26 anni molto scrisse: un poema su Orfeo, Iliacon, Saturnalia, Catachthonion, dieci libri di selve e molte altre opere dramatiche, prosastiche, liriche. La sua Pharsalia ebbe grande successo; però sin da’ suoi tempi parve piuttosto un’opera storica che poetica, e Quintiliano sentì che era troppo retorica266. È in dieci libri e non è finita. Possiamo anche credere che Lucano avrebbe corretto e sfrondato. Sarebbe però rimasto il vizio principale, che è quello di non essere poesia. Del suo tempo fu poeta epico anche Serrano, morto anch’esso immaturamente. Eppure nelle sue opere «puerili», Quintiliano trovava spirito poetico e buon gusto267. E pure di quel tempo fu Petronio, ingegno altissimo, morto nel 66 per comando di Nerone; nelle cui Satirae o nel cui Satiricon è un saggio epico sulla guerra civile cantata da Lucano, saggio che sembra appunto fatto per mostrare come si dovrebbe fare un poema storico. Appartiene pure all’età Neroniana il poeta bucolico T. Calpurnio Siculo che compose, forse, l’elegante panegirico di Pisone. Del resto l’epos istorico veniva già a noia: C. Valerio Flacco Setino Balbo, al tempo di Vespasiano, si volgeva alla più viva fonte di poesia, ai miti, e componeva un poema in otto libri sugli Argonauti. Segue egli bensì Apollonio Rhodio, ma in modo da raccontare succintamente ciò che nel Greco è diffuso e ornato, e ornare invece e allargare ciò che nel modello è sorvolato. Quintiliano afferma che la letteratura latina molto perdè alla sua morte268, e noi dobbiamo riconoscere che molto valsero a fargli fare opera non indegna, la poesia dell’argomento e l’imitazione di Vergilio. Anche il suo contemporaneo Saleio Basso, poeta molto ammirato dagli amici e remunerato da Vespasiano, che nel dialogo Tacitiano´ è chiamato absolutissimus ed egregius, e da Giovenale tenuis, forse per la sua povertà (egli non possedeva che gloria!), di cui Quintiliano loda il vehemens et poeticum ingenium che non potè maturare per la corta vita, anche Saleio Basso scrisse forse poemi o poemetti mitici269. Ma non molto dopo era chi invece di nuovo attingeva il suo soggetto alla storia: Silio Italico (25-101) di Italica, non si sa se d’Italia o d’Hispania, che cantò la seconda guerra Punica in diciassette libri, seguendo però Vergilio, cui egli, si può dire, adorava. Non pare improbabile che da giovinetto egli scrivesse quel compendio, davvero puerile, della Iliade, che andò per le scuole col titolo Homerus Latinus270. Di lui abbiamo notizie in una lettera di Plinio271. Fu un uomo felice; console nel 68 d. C. resse l’Asia come proconsole. Ebbe voce di delatore sotto Nerone, ma non fu per questo meno onorato. Morì astenendosi dal cibo; si uccise insomma per paura della morte. Lucrezio sapeva quello strano effetto di quella paura272. Vergiliano fu anche P. Papinio Stazio di Napoli (40-96?) che scrisse la Thebaide in dodici libri, e l’Achilleide non potè compire: già il secondo libro è non finito.´
Nè l’anima di Vergilio si fermò qui, a questo ardente poeta. Il mondo romano cambiò faccia e precipitò alla sua rovina. Già il cristianesimo aveva preso il posto degli dei dell’Olimpo. I barbari romanizzati avevano molto da fare per difendere l’impero dai barbari rimasti tali. Meno d’un secolo mancava ancora alla fine dell’impero occidentale, quando Claudio Claudiano di Alessandria (se pure nato nell’Asia minore non adottò poi Alessandria per patria), prendendo argomento dalle lodi di Honorio e Stilichone o dai biasimi degli avversari Rufino ed Eutropio, prendendo anche a soggetto uno dei miti più poetici, il ratto di Proserpina, e uno dei più epici, la Gigantomachia, ripeteva, per così dire, Stazio e chiudeva con un fulgido incendio di poesia la storia dell’epos Romano.
Note
- ↑ Dall’«Epos» di Giovanni Pascoli, editore R. Giusti, Livorno. Prima edizione, 1897; terza, 1924. Le note senza nome d’autore o indicazione d’opera si riferiscono al su detto «Epos».
- ↑ Aen. vi 649: Magnanimi heroes, nati melioribus annis.
- ↑ Serv. al verso di sopra: plerumque enim hominum virtus decoloratur temporis infelicitate.
- ↑ Α 260 e segg.
- ↑ Ψ 627 e seg.
- ↑ Η 132 e segg.
- ↑ Λ 670-672: 747.
- ↑ Ψ 629 e segg.: 641 e 2.
- ↑ Ψ 645, A 762.
- ↑ Ε 304, Μ 383, 449, Υ 287. Cf. Aen. xii 900: Qualia nunc hominum producit corpora tellus.
- ↑ Α 254, Η 124.
- ↑ Ε 302-4, Υ 285-7 dove è Aineias invece di Tydeides.
- ↑ Μ 447-9.
- ↑ M 381-3.
- ↑ Apoll. Rh. I 1364-6.
- ↑ Aen. xii 899-901.
- ↑ Hes. Op. et D. 156-73.
- ↑ Cat. lxiv 22 e segg. O nimis optato saeclorum tempore nati, Heroes, salvete deum genus, o bona matrum Progenies!
- ↑ Terpander 6 Bergk.: cf. Pind. Ol. xiii 22.
- ↑ Ι a principio e Θ in fine.
- ↑ Plat. Apol. Socr. 28 C. Per Achille vedi Α 188-200, 348-363, Σ 96, Τ 384-424.
- ↑ Θ 491.
- ↑ Γ 54. Anche Demodoco, presso i molli Phaeaci, cantava amori: θ 266.
- ↑ Β 594-600. θ 224-8. 720-2.
- ↑ Β 599 e seg.: pare posteriore all’Odyssea, almeno agli episodi di Demodoco a una cui espressione sembra riferirsi: θ 64: «Degli occhi lo privò, ma gli dava il dolce canto». Però il luogo dell’Iliade è molto discutibile: le muse pòv 0έoav, αὐτὰρ ἀοιδὴν… ἀφέλοντο· Ε È πηρὸς solo qui: vale cieco o muto o storpio, per es., della mano necessaria alla cetra? Il senso bisogna accordarlo con αὐτάρ seguente, e, accordandolo, sarebbe: lo fecero cieco, ma gli tolsero il canto, oppure, secondo un’accezione più rara di αὐτάρ, adunque gli tolsero il canto; nel quale caso πηρόν si avrebbe a interpretare «muto» o «storpio».
- ↑ Α 603 e seg.
- ↑ ω 38 e segg. 66 e segg.
- ↑ Ν 730 e seg. il qual ultimo verso manca però nei migliori codici.
- ↑ θ 479-81. Per il nome «eroe» vedi il 483.
- ↑ Hes. O. et D. 25 e seg. θ 472 e seg. σ 1 e segg. ρ 381 e segg.
- ↑ χ 351.
- ↑ θ 474 e segg.
- ↑ χ 344 e segg.
- ↑ Vedi sopra.
- ↑ Vedi in Hes. di Goettling il contrasto di Omero ed Hes. pag. 358: παρὰ γὰρ τοῖς Αἰολεῦσιν οὕτως (ὅμηροι) οἱ πηροὶ καλοῦνται.
- ↑ Hymn. Hom. A 165-75. Cf. Thuc. III 104.
- ↑ Γ 161 e segg.
- ↑ Hor. AP. 361. Plut. de gloria Ath. 3; ad Her. IV xxviii 39. Per la vera etimologia di ἀείδειν vedi Curtius Gr. Z. 247. Notevole la meraviglia di Cicerone in Tusc. V xxxix 114: Traditum est etiam Homerum caecum fuisse, at eius picturam non poesim videmus. E sopra tutto si pensi: ut quae ipse non viderit, nos ut videremus, effecerit. Così il mantis o vates Tiresia era imaginato cieco: Μάντιος ἀλαοῦ, τοῦτε φρένες ἐμπεδοί εἰσιν. κ 493.
- ↑ α 351 e seg.
- ↑ Ἡσιόδου καὶ Ὁμήρου ἀγών nell’Hesiodo del Goettling.
- ↑ Pind. Nem. II 2.
- ↑ A 544-65.
- ↑ Pind. Nem. III 43 e segg.
- ↑ Dell’arte epica e specialmente Alessandrina si farà parola nel volume secondo dell’Epos, che comprende appunto gli epici romani che trassero l’ispirazione principalmente dagli Alessandrini. In questo volume volli dare un’idea; inadeguata pur troppo, come introduzione alla poesia epica latina che ha bensì riflessa la luce, per così dire, ma proprio e nativo il calore; un’idea sola, dell’epos eroico che nasce spontaneo.
- ↑ Festo.
- ↑ Pitture e sepolcri scoperti sull’Esquilino nell’anno 1875. Relazione di Edoardo Brizio, pag. 17.
- ↑ Ad Aen. vii 51.
- ↑ Γ 234-44.
- ↑ T. Livio IV ix.
- ↑ Vedilo a pag. 17.
- ↑ Vedi Brizio, op. citata, pag. 20.
- ↑ Serv. ad Aen. viii 336: nam antique vates «Carmentes» dicebantur, unde etiam librarios, qui eorum dicta perscriberent, Carmentarios nuncupavere.
- ↑ Aulo Gell. XI ii 5.
- ↑ Cic. Brut. xix 75: Utinam extarent illa carmina, quae multis saeculis ante suam aetatem in epulis esse cantitata a singulis convivis de clarorum virorum laudibus in Originibus scriptum reliquit Cato!
- ↑ Cic. Tusc. I ii, IV ii: est in Originibus solitos esse in epulis canere convivas ad tibicinem de clarorum hominum virtutibus. — ut deinceps, qui accubarent, canerent etc.
- ↑ Varr. in Nonio ad v. assa voce. In conviviis pueri modesti ut cantarent carmina antiqua, in quibus laudes erant maiorum, et assa voce et cum tibicine.
- ↑ Tusc. I ii: honorem tamen huic generi non fuisse declarat oratio Catonis, in qua obiecit ut probrum M. Nobiliori, quod is in provinciam poetas duxisset.
- ↑ Varr. LL. VII 70: praefica dicta, ut Aurelius scribit, mulier ad luctum quae conduceretur, quae ante domum mortui laudeis eius caneret.
- ↑ Cat. de agr. V 2.
- ↑ Spart. vit. Hadr. 16.
- ↑ ρ 376 e segg.
- ↑ Vedi in proposito un bellissimo articolo di Enrico Cocchia nella «Nuova Antologia», e anche qualche seria obbiezione di Pietro Ercole (Atti del R. Istituto Veneto etc. T. VII S. VII 1895-96).
- ↑ Fest. 333 M. T. Livio XXVII xxxvii.
- ↑ T. Liv. 1. 1. tacta de caelo aedes in Aventino Iunonis reginae.... tum septem et viginti virgines.... carmen in Iunonem reginam canentes ibant. Ricorda che nell’Eneide Giunone irata si rinfocola chiamandosi regina; i 46; e così è detta nei momenti dell’odio più decisivi; per es. vii 573. Festo ad v. scribae.
- ↑ ad Aen. i 44.
- ↑ Dion. Hal. A lxxi 3.
- ↑ Dion. A lxxii 5.
- ↑ Cic. Brut. xviii 72 e 73. Ne riparla in Tusc. I i 3, Cat. M. xiv 50. Cita dall’Equus Troianus in ad fam. VII i 2, xvi. Parla de’ suoi modi musicali in de legg. II xv 39.
- ↑ Cic. Brut. 1. 1.
- ↑ Vedi più su.
- ↑ Vedi sopra.
- ↑ Cic. de or. II lxvii 273. Cat. M. iv 11.
- ↑ Hier. Eus. Chr. ad ann. MDCCCXXx: Titus (facile sbaglio) Livius, tragoediarum scriptor, clarus habetur, qui ob ingenii meritum a Livio Salinatore, cuius, liberos erudiebat, libertate donatus est.
- ↑ Suet. de ill. gramm. Livium et Ennium.... utraque lingua domi forisque docuisse adnotatum est.... nihil amplius quam Graeca interpretabantur, aut si quid ipsi latine composuissent, praelegebant.
- ↑ Suida Ὅμηρος.
- ↑ Cic. Brut. 1. 1.
- ↑ T. Liv. XXXVI xxxvi.
- ↑ Fr. xix, nota.
- ↑ Vedi fr. i, xxiv, vii, ii, xxii.
- ↑ Vedi fr. xxxvii (nota), xiv (cf. Naevius fr. vii, nota al 2), xxviii (cf. Aen. vii nota al 47).
- ↑ Hor. Ep. II i 69 e segg.: Non equidem insector delendave carmina Livi Esse reor, memini quae plagosum mihi parvo Orbilium dictare.
- ↑ l. c. 62 Livi scriptoris ab aevo.
- ↑ Cic. Brut. xviii 71: et Odyssia latina est sic tamquam opus aliquod Daedali.
- ↑ Theog. 1011 e segg.
- ↑ Ν 459 e segg.
- ↑ Ν 482.
- ↑ Ε 311 segg. 432 segg. Υ 293 segg.
- ↑ Υ 79 e segg. 90 e segg.
- ↑ Υ 306-8.
- ↑ Aen. i 97 e seg. Hic domus Aeneae cunctis (πάντεσσι) dominabitur oris Et nati natorum παίδες παίδων et qui (non τοί κεν, ma per es. οἵ τ᾽ ἄν) nascentur ab illis.
- ↑ Hymn. Hom. Γ 197; dove è affermata la perpetuità della discendenza con più forza che nell’Iliade.
- ↑ Nella tabula Iliaca, il cui autore seguì Stesichoro, κατὰ Στησίχορον, ὁ Αἰνείας σὺν τοῖς ἰδίοις ἀπαίρων εἰς τὴν Ἑσπερίαν.
- ↑ Conon. narr. xiii.
- ↑ Strab. VI p. 262 B. Ovid. Met. XV 51. Plin. III xi 15.
- ↑ Aur. Vict. Orig. Gent. Rom. x.
- ↑ Dion. Hal. A lxxii 3.
- ↑ Tutte nel cap. citato sopra.
- ↑ Pausania I xii 1.
- ↑ La data 473 è del Mommsen, negata dal Nissen.
- ↑ Dion. A xlix.
- ↑ Serv. ad Aen. xii 73.
- ↑ In Rull. II xxxiii 91, ib. I vii 20.
- ↑ de or. III xii 45.
- ↑ Cic. Cat. M. xiv 50.
- ↑ Gell. XVII xxi; quem (Naevium) M. Varro in libris de poetis primo stipendia fecisse ait bello poenico primo, idque ipsum Naevium dicere in eo carmine quod de eodem bello scripsit.
- ↑ Gell. 1. 1. anno post Romam conditam quingentesimo undevicesimo... Cn. Naevius poeta fabulas apud populum dedit. Poco prima ha parlato del primo autore di drami e della prima sua rappresentazione; dunque è verosimile che anche di Naevio registri gl’inizi, tanto più che il fiorire è idea troppo lata e difficilmente si può inchiudere in un anno.
- ↑ VII ii.
- ↑ Gell. VI viii. Cic. Cat. M. vi 20.
- ↑ Gell. III iii 15.
- ↑ Plaut. Mil. Glor. II ii 56.
- ↑ Hieronym. Chron. ad Olymp. 144.
- ↑ Cic. Brut. xv 60: His... consulibus, ut in veteribus commentariis scriptum est, Naevius est mortuus, quamquam Varro noster diligentissimus investigator antiquitatis putat in hoc erratum vitamque Naevi producit longius. Quali questi antichi commentari? che registravano la morte d’un esule o cacciato?
- ↑ Tit. Liv. xxix xxxv.
- ↑ Cic. Cat. M. xiv 50.
- ↑ Suet. gramm. 2. C. Octavius Lampadio Naevii Punicum bellum... uno volumine et continenti scriptura expositum divisit in septem libros. Cf. Non. 110, 21.
- ↑ Il fr. xiii e la parola Samnite, di cui vedi nota al fr. xiv, e il fr. xiv potrebbero, ragionevolmente, essere parte di tale predizione. Cf. Aen. vi 809-12, vii 663-6, 698-705. Di ciò più largamente altrove.
- ↑ Vedi fr. vii e nota, e cf. Aen. vi 20 e segg.
- ↑ Vedi fr. xii e nota.
- ↑ Vedi nota al fr. di sopra.
- ↑ Nota al libro iii.
- ↑ Cic. Brut. 75.
- ↑ Porcius Licinus in Gellio XVII xxi 45: Porcius Licinus serius poeticam Romae coepisse dicit in his versibus: Poenico bello secundo Musa pinnato gradu Intulit se bellicosam in Romuli gentem feram.
- ↑ Vedi Aen. vii 691-705.
- ↑ Sil. Italico xii 393: cfr. Servio ad Aen. vii 691. Vedi il passo in nota ad Enn. I fr. vii.
- ↑ Suidas Ἔννιος.
- ↑ Cic. Brut. xviii 72; Tusc. I 3. Vedi Gell. XVII xxi 43.
- ↑ Enn. XI fr. x. Vedi passo di Cicerone in nota e fr. vi dello stesso libro. Vedi anche Sil. It. 1. c. Ovid. AA. III 409.
- ↑ Corn. Nep. Cato I 4. Hieron. a MDCCLXXVII = 514. Gell. XVII xvii 1: Q. Ennius tria corda habere sese dicebat, quod loqui graece et osce et latine sciret.
- ↑ Hieron. 1. c. Varr. LL. V 143: ...ligionem Porcius (lo stesso citato più sopra) designat quom de Ennio scribens dicit eum coluisse Tutilinae loca.
- ↑ de or. II 276.
- ↑ Hor. Epl. 1 xix 7: Ser. Samm. 713, che attribuisce la gotta ai pocula iniqua.
- ↑ Cic. Cat. M. 14.
- ↑ Cic. Arch. 27, Tusc. I 3; Aur. Vict. ill. lii 3; Symm. ep. I 21.
- ↑ Cic. Arch. 22: ergo illum... Rudinum hominem maiores nostri in civitatem receperunt: il che pare un’eco del verso: Nos sumus Romani qui fuvimus ante Rudini (che è, non a suo posto forse, in XI fr. x). Vedi poi Brut. 79 e cf. T. Liv. XXXIX xliv.
- ↑ Cic. Brut. 78. Hier. MDCCCXLIX = 586.
- ↑ Cic. Arch. 22. Tit. Liv. XXXVIII ivi.
- ↑ Diom. in Gr. Lat. I 484. Romais è emendato da Romanis senza senso dei codd.
- ↑ Gell. III vii.
- ↑ Diom. 1. c.
- ↑ E il xxvi del VI.
- ↑ La promessa che fa Giove, secondo Servio (vedi in nota a I fr. xl), ai Romani, dell’eccidio di Carthagine ha il suo posto naturale nel libr. VIII: vedi fr. xxiii e seg.
- ↑ Vedi nell’Aen. vi 777 e segg., 807 e segg. in cui Romolo è pur separato dai re.
- ↑ Vedi XI fr. iii.
- ↑ Vedi nota a Enn. libro settimo.
- ↑ Vedi XVI fr. ii e iii.
- ↑ Vedi nota a fr. i del libro citato.
- ↑ Vedi fr. v (nella cui nota correggi la data dell’assedio, che è del 565) e vi.
- ↑ Vedi XVI fr. xvii.
- ↑ Vedi XXII fr. i.
- ↑ XVII fr. ii.
- ↑ XVII fr. i 2, Hor. CS. 66.
- ↑ Fest. 293: quam consuetudinem (di non geminare) Ennius mutavisse fertur, utpote Graecus graeco more usus.
- ↑ Suet. gramm. 2 cf. 1.
- ↑ Suet. gramm. 8.
- ↑ Così induce Buecheler da un accenno negli Schol. Bern. ad Verg. Georg. ii 119.
- ↑ de opt. gen. or. 2. pro Balb. xxii 51.
- ↑ pro Mur. xiv 30.
- ↑ Sat. I iv 60 e seg.
- ↑ Vitr. IX praef. 16.
- ↑ Gell. XVIII v 2, 3, 7.
- ↑ Spart. Hadr. xvi 6.
- ↑ Macr. S. VI ix 9.
- ↑ Quint. X i 88: così è in Gell. 1. c. II liber summae atque reverendae vetustatis.
- ↑ Hostius, fr. iv. Prisciano dice: vetustissimi etiam «hoc pecu»..... dicebant. Hostilius in I annali.
- ↑ IV xx 8.
- ↑ Hier. MDCCCLXXVIII = 615. L. Accius... natus Mancino et Serrano coss. (584).
- ↑ Fr. ie iii.
- ↑ Cic. Brut. 107 Phil. I 36.
- ↑ Cic. Brut. xxxv 132.
- ↑ Plut. Cic. 2.
- ↑ nat. deor. II 204.
- ↑ Iul. Capit. Gordian. iii 2. Suet. vita Ter. p. 34, 2 R. Plin. NH. praef. 24, Gell. praef. 6. Serv. in Buc. i 57. Plin. ep. VII iv 3. Quint. VIII vi 73.
- ↑ de div. II xxx 63
- ↑ ad Att. I xix 10.
- ↑ Quint. XI i 24 in carminibus utinam pepercisset, quae non desierunt carpere maligni.
- ↑ ad fam. I ix 23, ad Q. fratr. III i 24, II xiii 2, XV 5. ad Att. IV viii b 3.
- ↑ ad Q. fratr. III i. 11, III ix e altrove.
- ↑ Sen. exc. controv. iii praef. 8. Vedi poi Sen. de ira iii 37, 5, Tac. dial. 21. Iuv. x 124: «O fortunatam natam me consule Romam» (fr. viii) Antoni gladios potuit contemnere si sic Omnia dixisset. Mart. II lxxxix 2: Carmina quod scribis Musis et Apolline nullo Laudari debes: hoc Ciceronis habes.
- ↑ Plin. ep. III xv 1: M. Tullium mira benignitate poetarum ingenia fovisse.
- ↑ ad Q. fratr. II ix 3: Lucreti poemata ut scribis ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis: sed cum < ad umbilicum > veneris, virum te putabo; si Sallustii Empedoclea legeris, hominem non putabo.
- ↑ ad Att. VII ii Or. xlviii 161. Tusc. III xix 45.
- ↑ Hier. Eus. Chron. MDCCCCXIV = 651 (in un codice, l’anno seguente): M. Furius poeta cognomento Bibaculus Cremonae nascitur. Vedi in Lyra.
- ↑ Vedi nota al fr. ix e x.
- ↑ Hor. S. I x 36 e seg.
- ↑ Hor. S. I iv 94. Sebbene, Petillio si chiamava proprio Capitolino, come da monete, ed era curator Capitolii, e il furto della corona di Giove ex Capitolio è proverbio, e non altro (Plaut. Men. 941, Trin. 835).
- ↑ Hor. S. I x 92.
- ↑ Tac. A. IV xxxiv.
- ↑ Vedi Suet. Caes. lxxiii.
- ↑ Cic. ad fam. XVI xii 4.
- ↑ Hier. MDCCCCXXXV = 672.
- ↑ Hor. I x 46.
- ↑ Sen. rhet. p. 313 K. optimos versus Varronis. Vedi fr. vi.
- ↑ Hor. S. I x 43 C. I vi 1-4.
- ↑ Hor. S. I x 43 e segg.
- ↑ IO. VI iii 19.
- ↑ Ecl. III 84.
- ↑ Georg. iii 40, iv 559 e 60, 565.
- ↑ Don. vita 19. Serv. ad ecl. vi 3.
- ↑ Don. vita 27.
- ↑ Serv. praef.
- ↑ Serv. ad vi 752: unde etiam in antiquis invenimus, opus hoc appellatum esse non Aeneidem, sed gesta populi Romani.
- ↑ Georg. III 46-8.
- ↑ Suet. Oct. xciv.
- ↑ Macr. Sat. I xxiv 11: de Aenea quidem meo etc.
- ↑ Don. 23, 24.
- ↑ Gell. XVII x.
- ↑ Quint. X iii 8 e Gell. l. c.
- ↑ Don. 31.
- ↑ Macr. I xxiv 11.
- ↑ Macr. I xxiv 16, III i 6, ii 7, I xxiv 18. Serv. Aen. vi 1, ii 57. Quint. I vii 18.
- ↑ Asc. Ped. in Suet. de gramm. 66 R.
- ↑ Don. 31 tamen multo post perfectaque demum materia tres omnino libros recitavit, secundum, quartum et sextum.
- ↑ Serv. ad Aen. iv 324.
- ↑ Sabb. Introd. ai libri VII, VIII, IX.
- ↑ Tutto ciò in Sabb. l. c.
- ↑ ad Aen. vi 862.
- ↑ ad Aen. vi 752.
- ↑ iv 625-9.
- ↑ Hor. C. I iii.
- ↑ Don. vita 39.
- ↑ Don. vita 35, 39, 40.
- ↑ Don. vita 41.
- ↑ Hier. MM = 737.
- ↑ Serv. praef.
- ↑ Hor. CS. 9-12. Si confronti la preghiera di Enea ad Apollo (vi 56-76) con tutto il CS. specialmente con i versi 37-44, 65, e con l’ode vi del libro IV.
- ↑ Vedili in nota al primo libro.
- ↑ Vedi nota all’episodio.
- ↑ Vedi nota al passo e cf. ancora Serv. ad vi in principio: licet Probus et alii in quinti reliquerint fine.
- ↑ Vedi note al passo.
- ↑ Serv. ad i. 1
- ↑ Vedi nota al 295. Così si potrebbe attaccare, senza trovare intoppi, al verso 464 Quisque suas variisque acuunt rumoribus iras, il 503: At tuba terribilem sonitum procul aere canoro.
- ↑ Vedi nota al libro quinto a principio, poi ai versi 604665, quindi al 653.
- ↑ iii 85 e segg.
- ↑ iii 147-171; ib. 183.
- ↑ iii 374-462.
- ↑ vi 56-101.
- ↑ vi 890-3, iii 458-60.
- ↑ viii 704 e segg. 720 e seg.
- ↑ ix 638-60.
- ↑ x 875.
- ↑ xii 176.
- ↑ ii 780-4.
- ↑ vii 107-140.
- ↑ Ovid. ex Ponto IV xvi.
- ↑ Sen. Contr. ii x 12.
- ↑ Ovid. ex Ponto IV x 71 e segg.
- ↑ X i 90.
- ↑ Sen. ep. cxxii 15, Quint. VI iii 16.
- ↑ Mart. II lxxvii 5.
- ↑ Quint. Xi 89.
- ↑ Ex Ponto IV ii 1, xvi 9.
- ↑ Sen. suas. vi 27.
- ↑ pro Arch. 26.
- ↑ Vedi Sev. xiii 11.
- ↑ Ovid. ex Ponto IV xvi 11.
- ↑ Sen. ep. cxxii 11. Cf. Apocol. 2 Nimis rustice acquiescunt oneri poetae, non contenti ortus et occasus describere, ut etiam medium diem inquietent. tu sic transibis horam tam bonam?
- ↑ Sen. suas. ii 19.
- ↑ Vell. II xxxvi 3. Ovid. 1. c. 5. Sen. benef. VI iii 1.
- ↑ Ovid. ex P. IV x 47. Prop. I vii 1 e segg. 1 ix 9.
- ↑ Ovid. ex P. IV xii 27, xiv: epistole indirizzate a Tuticano, il cui nome lamenta Ovidio che non possa entrare nel metro dattilico, xvi 27.
- ↑ Ex P. II x 13 e seg. (epistola indirizzata a lui, dove si raccoglie che gli fu compagno di viaggio, anzi guida in un viaggio in Asia e in Sicilia); am. II xviii 1 e segg.
- ↑ Ovid. am. I xviii 27. Ex P. IV xvi 13 e segg.
- ↑ Ovid. ex P. IV xiii 11, xvi 7, 17 e segg. 25 e seg.
- ↑ Ovid. ex P. IV xvi 10, 23 e seg.
- ↑ Dalle vite del grammatico Vacca e di Suetonio. Tac. A. XV 56, 70.
- ↑ Quint. X i 90.
- ↑ X i 89.
- ↑ Quint. X i 90.
- ↑ Tac. dial. 5, 9. Quint. X i 90. Iuv. vii 80. Un epigramma di Marziale (V 53), in cui il nome «Basso» è posto come tipico di verseggiatore, senza però indicare Saleio, può essere argomento dei soggetti scelti da Saleio Basso: Colchida quid scribis, quid scribis, amice, Thyesten? Quo tibi vel Nioben, Basse, vel Andromachen?
- ↑ Lasciando Ex quo al verso 7, e trasponendo nel verso 9 ira e Quis, avremmo la parastichide Italice Sili.
- ↑ III vii.
- ↑ Vedi in nota ad Aen. vi 277.