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la poesia epica in roma 299

vono molti di questi parassiti di Vergilio, crescono di queste «femminelle», cioè, polloni venuti a piedi dell’albero, dell’Eneide: Albinovano Pedone, Cornelio Severo, Sestilio Ena, Iulio Montano, Arbronio Silone, Rabirio.... Di questi almeno qualche cosa è rimasto, ma più ancora erano. Leggete Ovidio1. Albinovano Pedone, che Ovidio disse sidereo, fu suo amico. Egli era degli arbitri nella graziosa controversia tra Ovidio e gli amici che volevano che egli togliesse tre versi dai suoi carmi. Sì, disse Ovidio, pur che non siano i tre che scriverò. Così scrissero gli amici i tre che soli loro spiacevano, e scrisse Ovidio i tre che a lui piacevano sopra gli altri; e si trovò che esso ed essi avevano scritti i tre medesimi2: il poeta ama non ciò che lo abbellisce, ma ciò che lo distingue, sia pur questo un neo. Scrisse Pedone una Theseide3, scrisse anche un poema di materia storica, in cui aveva luogo la navigazione di Germanico nel mare del Nord nel 769 (16 d. C.). Non indegno di essere letto lo giudica Quintiliano4, da chi avesse tempo però. Era parlatore e narratore elegantissimo, e Seneca riporta di lui l’arguto racconto d’un lucifuga, d’un lychnobio, e Quintiliano un motto5. Riuscì perciò nell’epigramma e Marziale lo nomina come suo maestro e lo dice doctus6. Miglior verseggiatore che poeta è da Quintiliano giudicato Cornelio Severo, del quale

  1. Ovid. ex Ponto IV xvi.
  2. Sen. Contr. ii x 12.
  3. Ovid. ex Ponto IV x 71 e segg.
  4. X i 90.
  5. Sen. ep. cxxii 15, Quint. VI iii 16.
  6. Mart. II lxxvii 5.