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Lvcvs Vergilii

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La poesia epica in Roma Il cocomero
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LVCVS VERGILI1

I.

Il bosco sacro di Virgilio è là, ov’egli nacque; è là

prossimo all’acque, ov’ampio indugia ed in placide curve stendesi il Mincio e intesse di tenera canna le ripe2;

è là ov’egli medesimo lo piantò non con altro che col suo canto. Chè questa è divina virtù del poeta: egli

canta, e le figlie del Sole avvolge nel cortice amaro,
molle di musco, e le trae belli alti ontani da suolo3.

È una brachylogia! dice il grammatico; meglio osserva il commentatore antico: «Mirabil lode del cantore, quasi non cosa fatta e’ canti, ma col canto farla esso paia». Paia? No. Non sembra fare; fa. Il poeta crea veramente.

Andiamo dunque ad Andes, come dissero gli antichi, a Pietola, come pronunziò Dante, a Virgi[p. 308 modifica]lio, come si dice ora, ed erriamo per il bosco sacro. Quante myricae sulle prime ci tardano il passo! Sono basse le più, terra terra, povere pianticelle, che niuno pianta; che nulla dànno; che si chiamavano un tempo infelici e ora meschine: che si nominavano per dire ciò ch’era più opposto al melo dai tanti pomi e al balsamo dalle lagrime di ambra. Ma Virgilio le amava, e ne faceva l’imagine de’ suoi primi canti; sì che quando alzò un po’ il tono, riconobbe

che non si dicono a tutti le macchie delle umili stipe4.

Stipe erano le myricae, buone a fare scope per le aie e per le stalle: ma in Virgilio piangevano insieme coi lauri:

Pianto di lauri per lui, fu pianto ancora di stipe5.

Stipe od eriche di quelle più piccole, a cesti, dette crecchie e brentoli, e delle altre più grandi, dette scope; e anche alberi veri, come le tamerici o scope marine che nelle nostre campagne romagnole sorgono attorno al fimo graveolente e sono pronte a ogni uso dell’agricoltore che ne fa granate e crinelle e pungoli e verghe.

Sono dunque coi più umili degli arboscelli, che garbavano a Virgilio, i lauri, di cui si compiace il Dio della luce e di cui si coronavano i vincitori in guerra e nel circo, e che erano bensì sacri ai poeti, ma che il Poeta non cingeva, pago a un ramo d’e[p. 309 modifica]dera che ha pur le sue bacche anch’essa6. E nel bosco sacro sugli umili cesti si leva alto qualche snello fusto d’orbàco attorno al quale serpeggia o l’edera tanto verde che par nera o tanto variegata che si può dir bianca7. E vegetano alla lor ombra le pianticelle del dolore e quelle della gioia. Ecco qua i cardi, il cui fiore tardivo è pur bello nell’ardor della state8; ecco le marruche spinose9; ecco il loglio e la vena rinselvatichiti10; ecco le lappole o bardane11, viscide e attaccaticcie, ecco le calcatreppole, puntute e dispettose; ecco il rovo aspro e orrido, che non può, no, fornire l’odoroso amomo, ma bacchette sì, per farne graticci e torchi o vinchi, a chi ne sbucci o raschi i lunghi flessibili angolosi sarmenti12; e il non meno orrido e aspro pungitopo13, sì quello piccolo che in vero non riesce se non a pungere i topetti contadini che vadano alle sue belle coccole rosse, sì il grande agrifoglio, così verde e lustro, che si chiama anche con l’onorato nome di alloro spinoso. E questo le sue [p. 310 modifica]bacche, pur sanguigne, le difende, io credo, contro gent’altra che troverà più facile arrampicarsi che coronarsi. E presso queste piante, miste anzi a loro, come nella selva della vita, sono le molli viole e i narcissi dalla corona purpurea14, sono i fiori, morbidi come carezze, che dovevano spuntare nella culla senza offendere il corpicciolo del Fanciullo aspettato: sono ciclamini15, i loti egizi dal mistico olezzo16, e i molli acanti17, verdi capitelli corinzi caduti a terra dalle colonne d’un tempio vegetale.

Ora la macchia è più folta e più viva e più verde. Vedo il ginepro18, di cui grave è l’ombra come quella del tasso19, che nereggia accanto; vedo il bussolo20, il ligustro21, il viburno22, e sopra tutti, l’albatro o corbezzolo23. L’albatro e la quercia avevano, a detta di Virgilio, dato il nutrimento ai famelici uomini primitivi. Ora, forse per gratitudine dell’antico dono ormai superfluo, Virgilio annoverava le belle ma insipide corbezzole tra i pregi della selva. E amava la pianta, ora a cespuglio ora ad albero fronzuto e perenne, sotto la quale [p. 311 modifica]l’amico suo Orazio amava sdraiarsi e sonnecchiare. O caro albatro, dai frutti a fragola, che noi da fanciulli chiamammo «ceragio marino». O sopra tutti albero sacro d’Italia, perchè con vermelle di esso fu fatta la barella in cui deporre e portare il primo giovanetto martire di Roma: Pallante; Pallante nella cui tomba arse la lampada inconsumabile dal tempo e inestinguibile dal vento! Quell’albero, nel verno, quando tutto muore, matura i suoi frutti e mette i stioi fiori, rossi quelli, bianchi questi; e fa con frutti e fiori e foglie il tricolore nostro... Molti, infiniti albatri e albatrelli nel Bosco di Virgilio!...

II.

Guardiamo in terra ai nostri piedi, guardiamo in aria sui nostri capi. Così vuole il poeta. Non disdegniamo le umili ginestre, le pieghevoli ginestrelle24, e ammiriamo i frassini e gli ornelli25; non ci rincresca di strisciar con le dita un rametto odoroso di rosmarino, che era l’incenso dei poveri e della contadinella Phidyle26, contemplando il denso fogliame del platano del cui rezzo si piaceva il filosofo d’Atene27. Riconosciamo la robbia28, che doveva tingere la lana degli agnelli, da sè, senza [p. 312 modifica]bisogno di tintori, nel tempo felice che non venne allora e non è venuto ancora; riconosciamo il sambuco29, l’ebbio dalle bacche nere a sugo rosso, le quali ora becca il pettirosso e la capinera, e col quale allora si tingeva, d’un cotal minio agreste, il viso, Pan, il capripede e cornigero Pan, per rendersi così più orribile e bello alle ninfe; riconosciamo la maggiorana30, che avvolse in un’ombra d’odore il sonno del figlio d’Enea nel bosco sacro di Venere. E queste piantine dalle foglie minute, che fanno quelle baccoline nere come prugne? Sono, appunto, baccole: vaccinia nigra31. E si colgono e piacciono. E Virgilio ne parla, per bocca del suo pastore innamorato solo, di nome Allodola. Dice:

Bianco il ligustro, ma cade; la baccola, nera; e si coglie.

O come ha confrontato un frutto a un fiore? O forse altro non ha voluto dire, se non che i fiori, bianchi e belli che siano, cadono, e i frutti, piccoli e bruni, pur si raccattano? Dice l’Allodola al capo amato: «Tu sei un bel fiore bianco candido; ma non mi ami; per me, tu cadi a terra. Bruno è l’altro amor mio, ma è un frutto che mi si fa gustare, sebben piccolo e lazzo». E cogliamo dunque le vaccinia che non sono qui, come altrove forse sono, o giaggioli o giacinti o speronelle. Ma ora ci troviamo in un fitto d’altre piante care a Virgilio; tra i coryli che i bolognesi fedelmente chiamano anche [p. 313 modifica]oggi clûr e noi avellane o noccioli32. Tra un folto come questo, la capra del pastore cacciato partorì anzi tempo i suoi due piccoli che sarebbero stati così belli e utili al gregge! Non lontano deve essere il Mincio o una ghiara d’esso con poca o punta acqua. In vero si vedono ontani33, salici34, galbani35, vetrici36, salisti37, giunchi38, biodi39, e sopratutto, canne40, verde vivagno della tremula tela glauca che è la corrente del Mincio. Il pastore a cui un Dio aveva permesso di rimanere, mentre gli altri partivano, da quelle canne vocali al vento si tagliava i sette cannelli della zampogna da cui traeva col fiato le placide uguali melodie, sdraiato all’ombra d’un faggio...41. E il faggio è là.

Titiro, tu là sotto la grande corona d’un faggio
provi sull’umili canne un boschereccio concerto....
Noi lasciamo le terre che avemmo ed i campi che arammo,

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noi fuggiamo la patria. A tuo grand’agio, nell’ombra,
Titiro, tu fai dire — Amarillide bella! — alle selve.

E i faggi si stendono in lungo ordine, e fanno grandi viali, e l’ombra delle lor cime tremola da per tutto rendendo imagine di lucertole che guizzino, d’uccelli che frullino, di libellule che ballino. C’erano anche lungo il Mincio i faggi, che perseguitati e fatti a pezzi, d’ogni parte si rifugiarono sugli alti monti, dove speravano vivere in pace ascoltando il mormorio delle polle salubri e fresche. Sì! Anche lassù ascesero i loro nemici con la scure in pugno, e li hanno pressochè scentati.

Diceva un grande Romano: «Portar via, assassinare, rapire, chiamano impero; e dove hanno fatto il deserto...» Impero sì; e sì, il diritto sul quale i nemici delle selve si fondano, e che si dice proprietà, è, col consentimento delle leggi, una violazione cieca feroce tirannica dei diritti altrui, e può paragonarsi all’esercizio d’un impero barbarico.

Ma noi sempre più ci addentriamo nel bosco sacro e dopo i faggi, vediamo i castagni42, gl’italici alberi del pane, d’un pane migliore che di grano, gli alberi che rendono ognuno, e senza lavoro d’alcuno, più farina che una faticosa porca di frumento, e di più aiutano la casa, la stalla, la vigna; gli alberi della provvidenza, gli alberi di Dio! E anche questi, dopo i faggi, noi lasciamo abbattere e sradicare, in nome dell’iniquo privato impero, mentre i nostri legislatori decretano che si seminino e piantino [p. 315 modifica]tante piantine nuove che tra cent’anni saranno, se altro non accade, piante... Oh! vietate prima che si taglino quelle che già ci sono!

Intanto godiamoci questi di Virgilio. Che bell’ombra fanno, smeraldina, sulle felci43, sulle calendule gialle44, sui fior di lupo o ellebori45 che nascono ai loro piedi! E c’erano i crochi affusolati, coi loro pistilli e stami di fuoco vivo; ma ora sono sfioriti, spariti, svaniti, con le esili foglie; nel molle musco e nell’erbetta del terreno46. E non mancano le scille, e abbondano il timo e il serpollino47. E come non si farebbe vedere la fusaggine? E come non si farebbe sentire lo spin cervino?48.

E a tener compagnia ai castagni si vede qualche leccio49, qualche ischia50, qualche noce51, qualche sorbo52. Ma il bosco s’addensa sempre più. Ne spira un senso d’austero, di solenne, di santo. Siamo giunti al sacrario del bosco sacro. Quivi è la religione antica del poeta. [p. 316 modifica]

Noi abbiamo intorno i grandi vecchi alberi d’Italia, dai quali era pur denominata la forza e la fortezza. Le quercie53.

III.

O roveri contro cui solamente vale la bietta!54 Voi faceste per lunghi secoli le antiche selve del nostro Apennino.

Irresolute se essere come gli olivi, i lecci, gli albatri e i lauri, a foglie perenni, o come i miti alberi da frutta, a foglie caduche, voi tenete a lungo le foglie, pur ingiallandole, nè le lasciate cadere sotto le nevi e al sibilo delle raffiche invernali. Aspettate. Soltanto i tiepidi soffi di primavera hanno virtù di portar vele via, le care foglie morte, le quali allora volano a branchi e s’impigliano tra i nuovi fiori dei peschi e dei susini. Siete tardive, siete riflessive, o gravi quercie. Così per lunghi secoli forniste bensì l’eterno legname che non marcisce per l’umido, alle cattedrali e ai palagi, e scaldaste, messe sugli enormi alari, le vaste aule delle castella; ma coprivate sempre della vostra folta verzura, che arrugginiva nel verno, le montagne e le valli. Aspettavate. E finalmente il vostro giorno venne. O quercie che deste un ramoscello al cittadino romano salvatore di cittadini, voi date ora i tronchi interi, date tutte voi stesse, alla civiltà, conquistatrice benefica. Preparate le vie al suo carro´ [p. 317 modifica]di ferro e fuoco, che sta per passare. Così cadeste, mentre i vostri fratelli uomini, duri rubesti indomabili e infaticabili come voi, figli della stessa terra che voi, si disperdevano pel mondo, a legioni armate di scure e di zappa, a far le nuove strade per gli altri. Cadeste, e nemmeno i vostri piccoli furono salvi. I possessori vostri, che hanno sì breve età, non amano se non ciò che l’ha anche più breve. I viventi d’oggi abborriscono chi non muore, a lor servigio, prima di loro.

Ma voi siete qui, e di qui vi propagherete ancora ai monti nativi. Siete qui, coi vostri compagni dell’antica selva: con le picee, coi pini, coi cedri, con gli abeti; coi lecci specialmente e con gli olmi55. E là sur un’altura stanno grandi e neri, come in veletta, i ferali cipressi56, ai quali somigliavano sul lido etneo i ciclopi attoniti avanti il mare immenso e la piccola nera nave che lo solcava allontanandosi. È questo il recesso degli usignoli, che si fanno il nido con le foglie morte delle quercie, e cantano prima timidi e interrotti, e poi a distesa, la risurrezione del tutto. Eppure sembra a molti, e sembrò anche a Virgilio, che l’usignolo piangesse, e imaginò che non per l’antica sventura, di quando era donna, piangesse, ma d’un dolore proprio suo; che piangesse i suoi piccini tolti dal [p. 318 modifica]nido così ben dissimulato tra quel mucchio di foglie raccolte lì, a quel che doveva parere, piuttosto dal capriccio del vento che dalla cura di provvidi genitori. Ma il duro contadino aveva osservato e frugato e trovato; e l’usignolo aveva perduto i suoi piccini, ancora implumi. Così pensava Virgilio quando ascoltava gli usignoli cantare su gli alti pioppi57 della sua campagna. Essi avevano lasciato i loro ombrosi recessi e tentato di raggiungere ne’ suoi solchi l’aratore, e, dalle vette tremule dei pioppi bianchi e neri, cingevano l’inumano della loro inestinguibile melodia, piena di pianti, di singulti, di rimbrotti, di grida.

Simile all’usignolo che tra il fogliame de’ pioppi
piange i suoi piccoli ch’ei non più rinvenne nel nido;
dove, occhiando, implumi un contadino li colse:
piange e’ tutta la notte e di sur un ramo rinnova
sempre il suo canto, e riempie del suo dolore gli spazi.

Ma non cantano ancora gli usignoli... Odo invece un ronzìo cupo e lieto. Sono api intorno ai gialli mazzetti del corniolo....58 donde venute a foraggiare? Dai buchi forse delle quercie o dei castagni? Ecco appunto là un sughero59 tutto screpolato; ecco là una grande quercia cavata che, miracolo, frondeggia avanti tempo. Ma no: non sono sue frasche, quelle. È il vischio, il sacro vischio60, che ha per suo terreno un ramo di lei. [p. 319 modifica]

Qual, per la bruma, nel bosco si vedono nuove le frondi
verdi del vischio, di cui dischiuse altro albero il seme;
e che per i lisci suoi rami or mette le coccole gialle.

E, appunto appunto, ecco pure due colombe, le quali si levano dalla quercia e volano. Dove? Dove anche le api coi loro voletti brevi, dopo essersi empite di nettare e di polline. E io seguo le api passo passo e mi trovo in un viale di tigli61, e poi in un vivaio o bruolo di piantine d’ogni specie62, e poi avanti un orticello cintato di canne ben disposte a mandorla e legate con vinchi. E all*orticello fa riscontro un giardinetto, orlato e difeso da bussoli, e dietro Torto e il giardino una casetta rustica e bella, alla cui altana di legno s’attorce una vite selvatica: la lambrusca63.

È la casa questa del custode del bosco sacro.

Il custode, in vero, si drizza della persona da un solchetto dell’orto e mi guarda.

IV.

Non sei tu il vecchietto Cilice, nato a Córyco? Non eri stato corsaro a bordo di qualche myoparone, e preso e graziato, non avesti qui in Italia un po’ di terra da coltivare? E tu riprendesti l’arte che in Cilicia è in fiore, dell’ortolano e giardiniero, ingegnandoti di precorrere le stagioni e d’avere l’erbe e i fiori della tua patria sotto altro sole. E da Taranto dove il poeta ti vide, qui sei venuto a [p. 320 modifica]essere lo schiavo sacro del suo verde tempio. Non è così? E hai cura non solo de’ suoi alberi, ma delle sue menome erbuccie, e coltivi con antichissima esperienza le api sue, in alveari fatti di corteccia.

Eccoli qua, e un grande oleastro64 e una palma65 gettano l’ombra sul vestibolo, e torno torno sono fonti cristallini e uno stagno verde di musco.

E quanto pascolo prepari e fornisci alle frugali operaie del miele, le quali delle piante non cercano il frutto ma il fiore, e al fiore nulla prendono che non sia superfluo a lui, e gli dànno sovente ciò che di per sè non avrebbe: la fecondità. O particelle alate della gran Mente, o contrarie del tutto agli uomini a cui è propria vita la morte altrui; mentre esse si cibano senza distruggere e senza predare, facendo anzi del fiore dove si nutrirono, un frutto, e del succo o del pulviscolo che era di troppo, il miele!

Che se il male alcuna volta, costrette e aizzate, fanno, ne muoiono.

Qui per loro, oltre il timo e il serpollino, oltre i narcissi e la maggiorana, oltre i fiori di salice e di nocciolo, è lo spigonardo66, il canugiolo67, il citiso o avorniello68, il dittamo69, l’altea70, il [p. 321 modifica]giglio71, il giaggiolo72, la melissa73, la santoreggia74, il papavero75, le violacciocche76, le viole mammole77, il finocchio78, il giacinto79, l’astro amello80, e il fior d’uva. Chè viti81 son là in un bel filare, ben accollate e ben legate, di qualità gentile: vizzati, credo, greci delle Isole di Lesbo e di Taso, e dell’Egitto e della Campania, e che fanno uva passolina e uva galletta, e grappoli da schiccolare e cavarne un bigoncetto di vin dolce.

Ei belli alberetti che crescono ben allevati e potati, nell’orto e nel giardino: meli e cotogni82, prugni83, giuggioli84, ciliegi85, olivi!86 E nel [p. 322 modifica]l’orto vedo i suoi solchetti d’agli87, e di fave88, di lenticchie89, i bei quadri d’indivia90, i bei folti di lupini91, le belle distese di fragole92. C’è posto anche per i cocomeri o poponi o cetrioli93, che siano: sono appena nati e li ravviso poco. E quante rose94, nel giardino, che ora gemmano e già hanno le mésse fuori e alcune primaticcie anche i bocciuoli! E già il Cilice ha portato fuori i suoi vasi di piante che qui non fanno in piena terra: il cedro, il terebinto, l’albero dell’incenso, la mirra, persino il balsamo, persino la cannella, persino l’ebano, persino la palma da cocchi95. E c’è il cotone96, e ci sono mimose dai fiori gialli97, e tanti mirti98, e tante peonie99. E, in un campicello lì presso, il vecchio corsaro addomesticato seminò grano, farro, orzo, veccia, fagioli, erba medica100: di tutto un po’, in memoria del suo visi[p. 323 modifica]tatore, quando esso era là sotto le alte torri d’Ebalia, e quegli veniva e si meravigliava de’ suoi fiori, de’ suoi ortaggi, delle sue frutta, dei suoi alberi, dei suoi alveari, e come trapiantasse piante già sollevate per farne viali e filari.

A proposito! Buon custode del bosco vergiliano, dimmi se da te imparò il poeta, come non solo il faggio potesse biancheggiare dei fiori di castagno per via dell’innesto, ma l’orniello reggesse il pero, il platano recasse il melo, e s’insetasse il noce sull’orniello e la quercia sull’olmo101.

È un’arte, codesta, che mi par dimenticata; ma tu forse la sai sempre.

Così io parlo, e il Cilice è sparito, e svanito il bosco di Andes. Non c’è avanti me se non il libro di Virgilio donde esce odor di terra e di sole, e freschezza d’erbe e d’alberi e di fiori; e un senso infinito di pace e amore. E per entro bombiscono api, cinguettano uccelli, belano greggi, mugliano giovenchi, annitriscono polledri; e tintinnano in lontananza quasi sotterranea le cetre, e le zampogne zufolano tra le macchie, e le buccine e le trombe squillano da un luminoso mondo eroico. E si leva un grande inno: Salve, o madre grande di messi, terra della giustizia, grande di eroi! Italia!

Note

  1. Da «Il Villaggio», giornale tecnico agricolo commerciale di Milano, 9 e 23 aprile, 7 e 21 maggio 1910.
  2. Verg. Georgica III v. 14 e seg.
  3. Verg. Bucolica VI v. 62 e seg.
  4. Verg. Buc. IV 2. E le myricae sono poi in VI 10, VIII 54, X 13.
  5. id. ib. X 13.
  6. Il lauro è mentovato in Buc. III 63, VIII 13, 82, Georg. I 306, II 18, Aen. V 246, VI 658. Vedi anche Georg. II 131, 133.
  7. L’edera è in Buc. III 39, IV 19, VII 25, VIII 13, Georg. IV 124. Hederae nigrae in Georg. II 258, hedera alba in Buc. VII 38.
  8. Il cardo (carduus), Buc. V 39; pigro (segnis) forse a fiorire, ma si può intendere che è segno di pigrizia nei contadini, Georg. I 151 e seg.
  9. La marruca (paliurus), Buc. V 39.
  10. Loglio e avena, Buc. V 37, Georg. I 154.
  11. Lappaeque tribulique: Georg. I 153, III 385.
  12. Il rovo, Buc. III 89, Georg. III 315. Rubea virga Georg. I 266.
  13. Il pungitopo (ruscus), Buc. VII 42, Georg. II 413. Ma è da parlare piuttosto, almeno nel passo delle Georgiche, di agrifoglio.
  14. Viola e narciso, Buc. V 38, e vedremo poi.
  15. Il baccar, che ricorre in Buc. IV 19, VII 27, fu interpretato dal Bertolini per cyclamen europaeum; da altri per altri fiori.
  16. Il colocasium, mentovato in Buc. IV 20, si vuole riconoscere nel nelumbium speciosum.
  17. Mollis acanthus in Buc. III 45, IV 20, Georg. IV 137 Altrove l’acanthus pare altra pianta. A poi.
  18. Il ginepro in Buc. VII 53, X 76.
  19. Il tasso, Buc. IX 30, Georg. II 113, 257, 448, IV 47.
  20. Il bussolo, Georg. II 437, 449, Aen. VII 383, IX 619.
  21. Il ligustro, Buc. II 18.
  22. Il viburno. Buc. I 25.
  23. L’albatro (arbutus), Buc. III 82, VII 46, Georg. I 148, 166, II 69, 520, III 301, IV 181, Aen. XI 65.
  24. Le ginestre pieghevoli e basse, sono in Georg. II 12 e 434
  25. Il frassino in Buc. VII 65, Georg. II 66 e 359. L’orniello in Buc. VI 71, Georg. II 71, in, Aen. II 626.
  26. Il rosmarino o ramerino in Georg. II 213. Per la conta dinella Phidyle vedi Hor. C. III 23.
  27. Il platano, Georg. II 70, IV 146. Vedi Plat. Phaedr. III.
  28. La robbia se è una cosa col sandix, in Buc. IV 45.
  29. Il sambuco in Buc. X 27.
  30. La maggiorana, se è l’amaracus, in Aen. I 693.
  31. Le baccole, se sono vaccinia, ma è pur assai dubbio, in Buc. II 18. Ma altrove le vaccinia (in Buc. II 50, X 39) sono fiori. E anche quivi è dunque molto difficile siano frutti.
  32. I noccioli o avellane in Buc. I 14, V 3, VII 63, Georg. II 65, 299.
  33. Gli ontani, Buc. VI 63, X 74, Georg. I 136, II 110, 451.
  34. I salci (di specie diverse al certo) in Buc. I 54, 78, III 65, 83, V 16, X 40, Georg. I 95 (graticci di vimini), II 84, 110, 446, III 175, IV 26, 182, Aen. VII 632.
  35. Il galbano, non so se uguale alla ferula, è in Georg. III 415, IV 264, Buc. (ferula) X 25.
  36. Le vetrici sono, si pensa, i salici accennati in Georg. II 446, e I 95. Forse il siler di Georg. II 12.
  37. Il salistio, se è carex, è in Buc. III 20, Georg. III 231.
  38. I giunchi, Buc. I 48, II 72.
  39. I biodi, forse, son compresi nel termine un po’ generico di ulva, in Buc. VIII 87, Georg. III 175, Aen. II 135, VI 416.
  40. Le canne (arundines) Buc. VI 8, VII 12, Georg. II 414, III 15 (il passo tradotto), IV 478, Aen. VIII 34, X 205.
  41. Il faggio in Buc. I 1, II 3, III 12, IX 9, Georg. I 173, II 71. Calici di faggio ben lavorato, come col cesello, in Buc. III 36 seg.
  42. Il castagno in Georg.. II 15, 71. Le castagne in Buc. I 81 (diricciate, molles), VII 53 (dentro il cardo, sull’albero, hirsutae, esse e perciò l’albero), II 52.
  43. Le felci, Georg. II 189, III 297.
  44. Le calendule, Buc. II 50.
  45. Il fior di lupo o elleboro, Georg. III 451.
  46. Il croco, Georg. IV 182. Dello zafferano di Cilicia, Georg. I 56.
  47. Il timo e il serpillo, Buc. V 77, VII 37, Georg. IV 112, 169, 181, 241, 270, 304, Aen. I 436. Buc. II 11, Georg. IV 31. Le scille, Georg. III 451.
  48. La fusaggine o evonimo è forse il siler, Georg. II 12, lo spin cervino, per alcuni è il paliurus, Buc. V 39.
  49. Il leccio (ilex), Buc. VI 54, VII 1, Georg. II 453, III 330, 334, IV 81, Aen. VIII 43, IX 381 e altrove.
  50. L’ischia (aesculus) Georg. II 16, 291.
  51. Il noce, Georg. I 187, II 69.
  52. Il sorbo, Georg. III 380.
  53. La quercia (quercus robur), Buc. I 17, IV 30, VII 13, Georg. I 349, II 16, III 332, e altrove. E altrove le ghiande, e altrove la quercia col nome di robur.
  54. La rovere (robur), spesso.
  55. La picea o abezzo in Aen. VI 180, IX 87; il pino, Buc. IV 38, VII 24, 65, Georg. I 256, II 389, 443, IV 112, 141; l’abete, Buc. VII 66, Georg. II 68, Aen. VIII 599, e altrove; l’olmo, Buc. II 70, V 3, Georg. I 170, II 18, 72, 221, 446, IV 144 e altrove.
  56. I cipressi, Georg. I 20, II 84, 443, Aen. II 714, III 64, 680, VI 216.
  57. I pioppi bianchi o gattici o albigatti, Bue. VII 6i, IX 41, Georg. II 66, Aen. VIII 276, 286, i pioppi neri, Georg. IV 511 e forse Bue. VII 66.
  58. Il corniolo, Georg. II 448, Aen. IX 698.
  59. Il sughero, se è il cortex, Georg. II 453, IV 33.
  60. Il vischio quercino, Aen. VI 205 sgg. Il prodotto delle bacche in Georg. I 139, IV 41.
  61. I tigli, Georg. I 173, II 449, IV 141, 183.
  62. Vedi Georg. IV 141 sgg.
  63. La lambrusca o vite selvatica, Buc. V 7.
  64. L’oleastro, Georg. IV 20, e II 314, Aen. XII 766.
  65. La palma (forse la palma a datteri?) Georg. IV 20, e II 67.
  66. Lo spigonardo o lavanda, se è la casia, Buc. II 49, Georg. II 213, IV 30, 182, 304.
  67. Il canugiolo, se è la cerinthe, Georg. IV 63.
  68. Il citiso, Buc. I 78, II 64, IX 31, X 3o, Georg. II 431, III 394.
  69. Il dittamo, Aen. XII 412 segg.
  70. L’altea, se è l’hybiscus, Buc. II 30, X 71.
  71. Il giglio, Buc. II 45, X 25, Georg. IV 131, Aen. VI 709, XII 68.
  72. I giaggioli, se son le vaccinia così incerte, Buc. II 18, 50, X 39.
  73. La melissa (melisphyllum), Georg. IV 63.
  74. La santoreggia (thymbra), Georg. IV 31.
  75. Il papavero dei campi o no, Buc. II 47, Georg. I 78, 212, IV 131, 545, Aen. IV 486.
  76. Forse sotto il nome di viola intende Virgilio alcuna volta la violacciocca. Per es. Buc. II 47.
  77. La viola mammola, Buc. V 38, X 39, Georg. IV 32, 275, Aen. XI 69.
  78. Il finocchio (anethum), Buc. II 48.
  79. Il giacinto, se anche le vaccinia non sono giacinti, Buc III 63, VI 53, Georg. IV 183, Aen. XI 69. Ma è molto dubbio. Altri per hyacinthus prendono la speronella, altri il gladiolo, altri il giglio, altri l’iris, altri una specie di muscari.
  80. L’astro amello, Georg. IV 271.
  81. Viti e vizzati, Georg. II 89 e 399. E qua e là.
  82. Meli, Buc. I 37, 80 e altrove (poma) III 64, Georg. II 33, 70, 150. Cotogni (cana... lanugine mala), Buc. II 51.
  83. Prugni, Buc. II. 53, Georg. II 34, IV 145. E forse Buc. VIII 37.
  84. Giuggioli (loti), Georg. II 84, III 394.
  85. Ciliegi, Georg. II 18.
  86. Olivi, Georg. II 38, 63, 144, 302 e altrove.
  87. L’aglio, Buc. II 11.
  88. La fava, Georg. I 215.
  89. La lenticchia, Georg. I 228.
  90. L’indivia o radicchio, Georg. I 120, IV 120.
  91. I lupini, Georg. I 75.
  92. Le fragole, Buc. III 92.
  93. Il cocomero (che altri intende citriolo); ma a me par cocomero per quel ventre, Georg. IV 122.
  94. La rosa, Buc. V 17, Georg. IV 119, 134, Aen. XII 69.
  95. Queste piante esotiche per Virgilio sono nominate in Georg. II 127, Aen. X 136, Georg. II 117, e altr., Aen. XII 100, Georg. II 119, Buc. IV 25 e altr., Georg. II 117, Georg. II 122 sgg.
  96. Il cotone è accennato in Georg. II 120.
  97. La mimosa è da ravvisare forse nell’acanto in qualcuno di questi passi: Georg. IV 123, Aen. I 711.
  98. I mirti, Buc. II 54, VII 6, Georg. I 306, II 112, 447. IV 124, Aen. VII 817.
  99. La peonia, Aen. VII 769.
  100. Per il grano e le altre, vedi qua e là.
  101. Vedi in Georg. IV il passo del vecchio Corycio, e, per gl’innesti, II 69 e seguenti.