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la poesia epica in roma | 195 |
τε νέων θάλλει καὶ μῶσα λίγεια 1. Quando Achille prese la città di Eetione, padre della soave Andromache, dalle spoglie ammucchiate non scelse tripodi o lebeti, nè dalle prede allineate e aggruppate un pingue gregge o una donzella ben cinta, ma prese per dilettare il suo animo, una cetra arguta, bella, ben fatta, e sopra vi era d’argento il giogo. Ora in una notte assai dolente per gli eroi sotto Ilio (i ceryces in silenzio erano andati a chiamare a uno a uno nelle loro capanne i capi, e il capo di tutti aveva proposto di lasciar l’impresa, e un giovane guerriero si era opposto, e Nestore il vecchione aveva, dopo il convivio che appaga il cuore, consigliato a cercar di placare il Pelide), in quella notte dolorosa dopo la rotta, tre anactes seguìti da due ceryces si dirigevano lungo la fila delle capanne alla capanna dell’irato solitario. Essi andavano, brontolando voti: a tale andavano. Da una parte la pianura scintillante di fuochi, come un cielo sereno di stelle (i Troiani erano all’aperto in faccia alla loro grande città, e mille fuochi ardevano, e a ogni fuoco erano cinquanta guerrieri, e i cavalli stavano presso i cocchi, stritolando tra i denti l’orzo bianco e la spelta, e attendevano l’aurora); dall’altra il mare tutto rumori o bisbigli. Giunti alle capanne e alle navi dei Myrmidoni, giunti a quella capanna, udirono un canto. Era Achille, che accompagnandosi sulla cetra predata, cantava le glorie dei guerrieri2. Quali i canti di Achille, che tali fatti compieva e pativa! Egli nel momento dell’ira