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discordante; ma, come in un antico edifizio, il tempo aveva già stesa la sua patina venerabile e smorzava i rilievi e dissimulava gl’incavi: tutto pareva in esse ragionevole e bello. I primi critici doverono ben sentire dentro sè la battaglia del sentimento con la ragione, della consuetudine col giudizio, quando cominciarono l’analisi dei due portentosi monumenti! Non era forse peculiare dell’arte del poeta quello che pareva difetto o errore alla ragione dei critici? Ma, prima che questi venissero, i rapsodi, ora costretti al semplice uffizio di recitatori, non trovavano negli uditori se non ammirazione e diletto, quando loro si presentavano declamando l’Iliade, in veste rossa, e l’Odyssea, in veste viola. E da un pezzo gli aedi non erano più. C’erano invece de’ poeti detti cyclici, che lavoravano attorno al grande monumento epico, accontentando gl’insaziabili che volevano sapere e il principio e la fine. E anche questa poesia perdè pregio, quando a sostenere il peso del carme epico sottentrò la lira di Stesichoro. I poeti epici continuarono a scrivere dottamente genealogie e mitologie, ma quelle erano gli ultimi languidi echi del tetracordo nei luoghi dove già squillavano i flauti dell’elegia e tinniva la pactide di Sappho, quando sulla phorminx già dominavano come re gl’inni, e gli eroi d’Omero vivevano nuovamente avanti la thymele del teatro. Quando i grammatici Alessandrini tornarono con grande acume e dottrina su tutta la produzione letteraria del passato e furono spinti a risuscitare ora questo ora quel genere, anche la poesia epica ebbe un guizzo di vita. E Apollonio Rhodio scrisse le Argonautica. In esso poema dal contrasto di due necessità, l’una di essere