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la poesia epica in roma 221

con un fuggevole cenno (ἢ καί), che assomigli il divino aedo1. E somigliava in fatti per la vita errante e per il frequentare i conviti. Così dunque noi troviamo anche in Italia e in Roma, in quel tempo remoto, gli aedi, che si chiamavano vates e carmentes, e che cantavano le clarorum virorum laudes, κλέα ἀνδρῶν2. Il malcontento di Catone parte dalla medesima ragione per la quale aveva rimbrottato il Nobiliore di aver condotti «poetas» nella provincia; dal timore, cioè, che i singoli cittadini usurpassero la gloria del Comune. Come agli aedi successero i rapsodi, così dopo i Carmenti venivano i Carmentarii, che scrivevano i canti di quelli. Or facile è imaginare che col tempo i Carmenti stessi scrivessero questi canti senza bisogno di librarii, e che prendessero il nome di scribae. Il fatto è che avevano già questo nome, quando per la benemerenza d’uno di essi, fu a loro, come agli istrioni, concesso il tempio di Minerva nell’Aventino, quale luogo di fermata, di ritrovo, di adunanza. Ciò nella seconda guerra Punica dopo che Livio Andronico ebbe scritto l’inno a Giunone Regina, cantato da tre volte nove fanciulle, inno che parve avere virtù deprecatrice e propiziatrice; di che grato il popolo fece tale dono e grazia scribis histrionibusque, in onore di Livio, quia is et scribebat fabulas et agebat, era cioè nel tempo stesso scriba e istrione3. Dalle quali ultime parole non

  1. ρ 376 e segg.
  2. Vedi in proposito un bellissimo articolo di Enrico Cocchia nella «Nuova Antologia», e anche qualche seria obbiezione di Pietro Ercole (Atti del R. Istituto Veneto etc. T. VII S. VII 1895-96).
  3. Fest. 333 M. T. Livio XXVII xxxvii.