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288 | antico sempre nuovo |
è a dirittura puerile, di grammatico che vive fuori della poesia come il cenobita fuori della vita, credere a furtarelli tali, che nemmeno noi, nemmeno noi piccini piccini, saremmo dalla povertà del nostro ingegno obbligati a fare; e non piuttosto credere a generose astensioni, a generosi gettiti dell’artista che ama più l’opera sua che la sua gloria! Una tale eco di voci che furono, vibrava all’anima di Vergilio dai poemi di Omero e di Esiodo; e volle che non mancasse nella sua. Così è senza dubbio.
Dunque nell’esaminare la non compiuta opera Vergiliana, dobbiamo tener fermo che qualche contradizione, di qualche specie, Vergilio stesso l’avrebbe conservata, come egli stesso la volle sul principio.
Ora indizi certi di lacuna, di modificazione fatta o da fare, sono i versi lasciati a mezzo; i quali tutti dànno senso compiuto, come dice Donato, fuori che il 340 del III Quem tibi iam Troia. Ma si vuole che altri più ne lasciasse il poeta interrotti, che furono poi suppliti da interpolatori. Ecco: il trovarsi (per es. il 391 dell’XI) alcuno supplito in qualche manoscritto e in altri no, il trovarsi fatta menzione di altri racconciamenti e compimenti, deve portare, mi sembra, alla tranquilla fiducia di non aver nulla nella nostra Eneide che non sia Vergiliano, chè ọ l’uno o l’altro, o in un modo o in un altro, ce lo avrebbero fatto sapere. E infine, prima di risolversi a rifiutare alcunchè, come non degno del Poeta, oltre che considerare sempre che il poema non ebbe l’ultima mano, bisognerebbe qualche volta cercar di capire il mezzo verso o intero da condannare, prima di condannarlo, e chiuderlo tra le due forche critiche. Questo premesso, bisogna vedere se