|
la poesia epica in roma |
257 |
potuto presentare alle orecchie Romane perfetto, oh! non credo davvero. Ricordiamo quante parole della lingua latina, non nata, come si può dire della greca, Minerva armata del suo verso eroico, quante parole non quadrino alla misura dattilica: imperator, e simili, tutti i vocaboli come terminus, advena, debitor, victoria e simili, che solo in due casi entrano nell’esametro, altri come silentium, somnium, altri che hanno solo il plurale come induciae, nuptiae, molte forme verbali come prodeunt etc. Troppo poco ci è rimasto di Ennio; pur da quel poco vediamo, che i modi ingegnosi di Lucrezio, di Vergilio, di Ovidio, per introdurre o quelle parole o i loro concetti, sono già spesso in Ennio. Non dico degli arcaismi che rivendica al suo diritto di poeta, come induperator, induperantum, virgnes, prodinunt, ma Ennio ha preceduto tutti nell’uso di perifrasi e sineddochi, senza le quali mancherebbero a noi alcuni de’ migliori versi dei già nominati. Eccone alcune: genus altivolantum = alites; somno sepulti = dormientes; Romana iuventus = milites; Volsculus = Volsculi; ilex, fraxinus, abies = ilices, fraxini, abietes; horridus miles = horridi milites; veles = velites; ungula = ungulae. Nè è da tacere l’uso ingegnoso della tmesi (non credete alle calunnie dei grammatici: IS. 100 e 101) e della sinizesi: conque fricati = et confricati, de me hortatur = me dehortatur, adiuero, eorundem. Si deve ad Ennio l’uso ora di fognare, ora di solidificare l’i ed il v; semianimes; sam sos e simili, insidjantes, avjum. Egli fissò la prosodia dove fluttuava incerta; conservò per esempio la lunghezza dell’ultima nelle parole iambiche che