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282 | antico sempre nuovo |
aliquis, apparir fuori la terribile figura di Annibale, meglio che dalle lunghe filze di versi di Silio?
Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor,
Qui face Dardanios ferroque sequare colonos,
Nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires.
Litora litoribus contraria, fluctibus undas
Inprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque1.
Nè importa moltiplicare esempi. Ma giova tener presente una cosa: che per i Romani o per gli antichi la storia d’un popolo non era tanto nelle sue guerre, quanto nei suoi riti, e che ciò che sommamente interessava era la conoscenza dell’origine e delle vicende di questi. La storia della sua anima voleva il popolo, non quella delle sue avventure, per così dire, corporee e materiali. Aveva torto?
Per dare l’ultima mano all’Eneide Vergilio si volle recare in Grecia. Vi era andato forse un’altra volta, molti anni prima, ed Orazio aveva salutato la metà della sua vita che si allontanava2. O forse aveva soltanto divisato di andarvi, poi se ne era astenuto. Ora già cinquantenne si esponeva ai rischi d’una navigazione e ai disagi d’un viaggio. Prima di partire aveva trattato con Vario, che in caso di disgrazia (si quid ipsi accidisset), bruciasse l’Eneide3. Vario si era rifiutato. Là in Grecia visitava Megara, sotto lo stellone. Si ammalò. Lo trovò malato in Athene Augusto, e lo persuase a tornare. S’imbarcò in fatti: a Brundisio approdò peggiorato.
Sentendosi morire domandava la cassetta, scrinia, (¹) (2) (3)