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compensava spesso con un male: li privava degli occhi, ma loro dava soave canto1. La cecità era comune tra loro: cieco, come Demodoco, come forse Thamyri, imaginavano gli antichi Omero stesso, anzi affermavano che il suo nome sonava in eolico come πηρός2. Cieco era di Chio un buon cantore, che inneggiando ad Apollo in Delo, si volgeva alle fanciulle e diceva: «Or su, propizio sia Apollo con Artemide, Salvete voi tutte e di me anche per l’avanti Ricordatevi, quando alcuno dei terreni uomini Qui, straniero misero venuto, domandi: O fanciulle, e chi è per voi il più soave dei cantori, Che per qui s’aggiri, e di chi il più vi dilettate? E voi bene tutte rispondete da voi [?]: Un cieco! e abita in Chio rocciosa, Di cui tutte poi le canzoni avranno il pregio. E noi la nostra gloria porteremo, per quanto sulla terra Ci volgiamo a città d’uomini ben situate»3. E Daphnis, l’aedo pastorale, fu acciecato dalla ninfa, cui aveva rotto fede, e Stesicoro, poi, il grande maestro di cori, fu pure privato dalla vista per avere calunniata la Beltà, Helena, di cui nemmeno Priamo si lagna, nemmeno Priamo che la chiama a sè e le dice, «cara creatura», e la rassicura: «Di nulla mi sei causa tu, gli dei mi sono causa»4. Or come così sovente un tanto male con un tanto bene? Non basta, mi pare, rispondere che i ciechi sono spesso anche oggi musici. Io ricordo

  1. Vedi sopra.
  2. Vedi in Hes. di Goettling il contrasto di Omero ed Hes. pag. 358: παρὰ γὰρ τοῖς Αἰολεῦσιν οὕτως (ὅμηροι) οἱ πηροὶ καλοῦνται.
  3. Hymn. Hom. A 165-75. Cf. Thuc. III 104.
  4. Γ 161 e segg.