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tutto il complesso della grande opera usciva la preghiera al Sole, ad Apollo, la quale squillava così sublime dalle bocche dei tre volte nove fanciulli e fanciulle:

               Alme Sol, curru nitido diem qui
               Promis et celas, aliusque et idem
               Nasceris, possis nihil urbe Roma
                                             Visere maius!1

IX.

Avanti il tempio di marmo rimasto incompiuto, ogni anima è presa da uno di quei desideri tanto più forti quanto meno adempibili: non la vedrò io dunque l’opera, come l’avrebbe compiuta il morto artefice? Non la vedremo. Tuttavia possiamo ingannarlo, il desiderio vano.

Però bisognano molte cautele. Prima d’ogni altra considerazione, dobbiamo cercare d’intendere come Vario e Tucca adempirono il mandato di Augusto: ut superflua demerent, nihil adderent tamen. Tolsero essi, noi sappiamo di certo, i quattro versi, che sono in questa come nelle altre opere di Vergilio, il ritratto di Phidia messo nello scudo della Parthenos: i primi quattro Ille ego etc.2. Servio riferisce al verso 204 del libro III tre versi che furono trovati extra paginam in mundo, e furono dagli emendatori circumducti:

  1. Hor. CS. 9-12. Si confronti la preghiera di Enea ad Apollo (vi 56-76) con tutto il CS. specialmente con i versi 37-44, 65, e con l’ode vi del libro IV.
  2. Vedili in nota al primo libro.