sanguinaria, in cui traeva la grande spada dalla guaina, si sentiva afferrare per i rossi lunghi capelli e vedeva, egli solo, i due occhi fiammeggianti della Dea: egli, nell’ora dell’indignazione dolorosa e disperata, in cui in disparte da tutti piangeva (egli piangeva ma in disparte), tendeva le mani al mare e parlava alla nebbia che dal mare sorgeva, che era sua madre e veniva e gli premeva il duro collo: Creatura, che piangi? Egli, così nobile era d’animo, così alto, che serviva d’esempio e modello a Socrate, quando esprimeva la religione del dovere1 che vince l’amor della vita; cui non solo la divina madre aveva detto il suo fato «dopo Hector pronta la morte», ma, quando già spirando battaglia, nelle armi nuove di Hephaesto che gli erano come ali e lo sollevavano in aria invece di tirarlo a terra, saliva sul cocchio, persino uno dei cavalli, il procelloso Xanto, gli parlava, chinando la testa sì che la criniera fluiva a terra; gli parlava, ammonendolo di nuovo del suo destino breve; ed egli: «Xantho, a che morte mi annunzi? non ne hai bisogno, Bene, sì, lo so da me che mio destino è qui di morire, Lontano dal caro padre e dalla madre: pure Non cesserò finchè i Troiani non siano saziati di guerra. Disse, e tra i primi con grida dirigeva i cavalli solidungoli». Che nei primi tempi eroe e aedo fossero la medesima persona, che cantava e faceva le grandi imprese? Non dice Odysseo al cieco Demodoco: «tu canti... quanto faticarono gli Achei Come o forse tu ci sia stato o da altro l’abbia udito?»2. Nell’Iliade
- ↑ Plat. Apol. Socr. 28 C. Per Achille vedi Α 188-200, 348-363, Σ 96, Τ 384-424.
- ↑ Θ 491.