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88 | argonautica. |
Piante troncava, e disprezzò la prece
635D’un’Amadriade Ninfa che gemendo
Con pietose parole il deprecava
Che non metta la scure ad una quercia
Coetanea di lei, già da gran tempo
Grata sua stanza. E nondimen colui1
640Con giovanile improvida insolenza
Ne la tagliò, sicchè la Ninfa un grave
A lui destino e a’ figli suoi n’impose.
E ben quando Parebio a me ne venne,
Io sapea quella colpa, e l’esortai
645Ergere un’ara alla Finiade Ninfa,
E sovr’essa con ostie espiatrici
Implorar dalla dea che la paterna
Pena a lui perdonasse. Ed ei redento
Poi che si fu da quel divin castigo,
650Mai più di me non si scordò, nè in pregio
Cessò tenermi; e di mia casa a stento
Rimandarlo poss’io che non gl’incresca;
Tanto egli ama star presso all’infelice.
L’Agenóride re ciò disse appena,
655Quando Parebio ritornò traendo
Una coppia d’agnelle. Allor Giasone
Surse, ed ambo con lui di Borea i figli,
Come il vecchio accennò. Tosto invocando
Il fatidico Apollo, i sacrificii
660Fecer su l’are al declinar del giorno;
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Var. ai v. 638-639. Pari ad essa d’età, già da gran tempo
Nata e cresciuta in un con lei, sua stanza.