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libro ii. 101

     Dissolve poi. Silenzio non possiede
     Mai quel truce dirupo: il mar che frange,
     Ivi echeggia con esso il frascheggìo
     995Delle piante commosse ed agitate
     Da’ sotterranei venti. Ivi pur sono
     D’Acheronte le foci, il qual dall’alto
     Promontorio sbucando, in mar si getta
     Verso orïente, e il mena giù dall’erta
     1000Un profondo borrone. A dì più tardi
     I Niséi Megarensi a lui diêr nome
     Di Salvanauti, allor che fèan passaggio
     De’ Mariandini ad abitar la terra,
     Poi che in fiera tempesta periglianti
     1005Li salvò con le navi. Or quivi, il vento
     Testè cessato, all’Acherusio capo
     Afferrâr gli Argonauti. A lungo ignoto
     Non fu a Lico, signor di quella terra,
     Nè al popol Mariandino, esser là giunti
     1010D’Amico gli uccisori, onde già udito
     Avean correre il grido; e per quel fatto
     Si strinser tosto in amistà con essi,
     E d’ogni parte una gran folla accorsa,
     Orrevolmente salutâr Polluce
     1015Come un Iddio, poi che da tempo assai
     Co’ Bebríci insolenti aveano guerra.
     Allor presti in città tutti venuti,
     Nelle case di Lico amicamente
     Banchettaron quel giorno, e con alterni
     1020Favellamenti s’allegrâr gli spiriti.