Dissolve poi. Silenzio non possiede
Mai quel truce dirupo: il mar che frange,
Ivi echeggia con esso il frascheggìo 995Delle piante commosse ed agitate
Da’ sotterranei venti. Ivi pur sono
D’Acheronte le foci, il qual dall’alto
Promontorio sbucando, in mar si getta
Verso orïente, e il mena giù dall’erta 1000Un profondo borrone. A dì più tardi
I Niséi Megarensi a lui diêr nome
Di Salvanauti, allor che fèan passaggio
De’ Mariandini ad abitar la terra,
Poi che in fiera tempesta periglianti 1005Li salvò con le navi. Or quivi, il vento
Testè cessato, all’Acherusio capo
Afferrâr gli Argonauti. A lungo ignoto
Non fu a Lico, signor di quella terra,
Nè al popol Mariandino, esser là giunti 1010D’Amico gli uccisori, onde già udito
Avean correre il grido; e per quel fatto
Si strinser tosto in amistà con essi,
E d’ogni parte una gran folla accorsa,
Orrevolmente salutâr Polluce 1015Come un Iddio, poi che da tempo assai
Co’ Bebríci insolenti aveano guerra.
Allor presti in città tutti venuti,
Nelle case di Lico amicamente
Banchettaron quel giorno, e con alterni 1020Favellamenti s’allegrâr gli spiriti.