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libro ii. 105

     Non l’avea mai, chè solitario, occulto
     Nel lagume vivea. Ma, mentre Idmone
     1105Su i rialti lo stagno attraversava,
     Ecco, d’onde che fosse, ecco la belva
     D’in fra le canne spiccando un gran salto,
     L’ischio gli addenta furïosa, e i nervi
     Ne squarcia e l’osso. Alto diè un grido il misero,
     1110E cadde. Un grido al suo cader da tutti
     Alto echeggiò. Ratto uno stral Peléo
     Scoccò contra il cinghiai che nel marese
     Rifuggìa: si ritorse impetuoso
     Il feroce animale ad assaltarlo;
     1115Ma d’asta Ida il ferì, sì che ruggendo
     Stramazzò su l’infitto acuto ferro.
     Quivi spento il lasciâro, ed alla nave
     Mesti i compagni ne portâr quel prode
     Già boccheggiante, che de’ cari amici
     1120Fra le braccia spirò l’ultimo spiro.
Quindi al pensier della partenza imposto
     Fu indugio, e tutti attesero dolenti
     L’estinto a funerar. Tre interi giorni
     Lo piansero, e nel quarto sepoltura
     1125Gli diêr solennemente, e in un concorse
     Con lo stesso re Lico il popol tutto
     Alla pia cerimonia, e mortuali
     Agnelle assai sgozzaron su la tomba,
     Cui di terra ammontarono, e (segnale
     1130Anco a veder da’ posteri) piantato
     Poco di sotto all’Acherusia vetta,