Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
capitolo xx. |
— Nè basta; quante volte la donna, nella rilassatezza della quiete domestica, corrotta a grande agio, ingenuamente scellerata, propinò il veleno nel cordiale che ministrava a bere al marito infermo?
— Ah! la mia mi dà tutte le mattine che Dio mette in terra un bicchiere di acqua mescolata col siroppo di tamarindo del dottore Erba.
— E quante e quante la moglie ti ha soffocato a mezzanotte col capezzale, su cui avevi fino a quell’ora posato il tuo capo a canto al suo!
— Fin qui a vero dire non mi ha soffocato veruno, ma la è cosa da pensarci... e ci penserò.
La causa criminale che doveva in cotesta mattina agitarsi davanti la Corte di assise si versava in un caso di adulterio, singolarissimo se altri fu mai. Efisio, Gavino e Artemisia erano tre giovani dispari per pochi anni fra loro: di bellezza uguali: loro vide insieme il dì nascente, loro vide il tramonto folleggiare insieme pei fioriti sentieri della vita: a cui li vedeva parve vedere tre angioli, e tali erano davvero per bontà e per leggiadria: l’uno all’altro aveva insegnato a sillabare il verbo amo sopra il medesimo abbecedario. Venuti poi alla età nella quale l’amore si colora, come l’erba ch’esce dalla terra per virtù del sole, per tutti si tinse in