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capitolo xx.


— Silenzio! Vengo per interrogare, non per essere interrogato. Ho bisogno di un consiglio.

— Da me?

— Da voi...

— Un luminare come lei! Ma che le pare?

— Non m’inasprite... da voi...

— Ma io non ho cervello...

— Bene, lo vedremo; e qui Fabrizio, afferrato uno sgabello e levatolo in alto per darlo in testa al presidente, aggiungeva come chi declama versi tragici:

Dal capo del Saturnio ampio celeste
Usciìa Minerva perchè ci era entrata,
Ma nel tuo, che rassembra il mappamondo,
Sette Palladi almeno han posto il nido,
E te lo provo, se mi assenti, o sofo.
Che con questo sgabello io te lo spacchi.

— Mamma mia! urlò il presidente, saltando su ritto e mettendosi a scappare intorno alla stanza, ma ch’è ammattito? Giù lo sgabello.

— Si vede bene che non sei Giove; questi ordinava gli dessero sul capo con la scure, mentre tu hai paura dello sgabello. Presidente! Voi date un calcio alla fortuna, che non capita mica tutti i giorni, nè manco ai Numi, di partorire a un tratto sette Minerve. Sedete, presidente, non si mise a sedere anche Aristodemo, quando disse a Lisandro:

. . . . . . libero mi esponi
Di Sparta amica od inimica i sensi?