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capitolo xx. |
almeno una parola della lingua di Dio, e questa parola è perdono... Va’, Efisio, tu sei perdonato a patto che tu ti possa perdonare.
— Poffare Dio! esclamò Ambrogio, gli avrebbe a rifare anche il resto?
— Ma sicuro, riprese Agata, l’ha fatta penar tanto quella poverina.
Vuolsi credere che se Fabrizio, ovvero il presidente, avessero avvertito le capestrerie dell’avvocato, non l’avrieno sì lungamente lasciato ruzzare fuor di briglia; ben per lui che, pari a due boa ingronchiti dal freddo, costoro non davano segno di vita.
Diverso da essi Efisio, scappa su a modo di un diavolo di saltaleone senza che il suo avvocato fosse a tempo di reggerlo, e volto al banco degli accusati con parole tronche esclamò:
— Maledetto il giorno in cui apersi il cuore alla gelosia. Maledetta l’ora che dubitai di voi. Maledetto l’uomo, che invece di raumiliarmi, mi aizzò: annullo la mia querela; confesso che fa proprio il diavolo (e senza badarci accennava all’avvocato) che mi trasse dinanzi a voi, illustrissimi signori: questo valgami di scusa, e perdonatemi...
Chi lo chiamò matto, chi savio.
Al signor Ambrogio, che brontolò caninamente: con me la non sarebbe andata a finire così. Agata gattescamente rispose: — Smetti da fare il Nerone;