Storia dei fatti de' Langobardi/Libro VI

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Libro V Legislazione de' Longobardi


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DEI FATTI

DE’ LANGOBARDI


LIBRO VI.


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CAPO I.

In che modo Romoaldo prese Taranto, e come Teoderada edificò il monastero di s. Pietro.

Mentre tali cose accadevano fra i Langobardi di là del Po, Romoaldo duca di Benevento, radunata gran moltitudine d’armati prese d’assalto Taranto, e soggiogò parimente al proprio dominio tutta la vastissima regione che trovasi ne’ suoi contorni. Nello stesso tempo Teoderada sua moglie fece costruire una basilica fuori le mura della città Beneventana, in onore del beato Apostolo Pietro, nel qual luogo istituì un monastero di molte ancelle di Dio.


CAPO II.

Della morte di Romoaldo, e come il corpo del beato Benedetto fu trasportato nelle Gallie.

Ma Romoaldo, dappoichè governò il ducato per anni 16, A.D. 687.fu tolto da questa vita; e [p. 72 modifica]in appresso il suo figliuolo Grimoaldo resse per tre anni i popoli dei Sanniti. A questi si congiunse in matrimonio Vigilinda sorella di Cuniberto, e figliuola del re Bertarido. Morto poi Grimoaldo, fu fatto duca il suo fratello Gisulfo A. D. 690., il quale moderò Benevento 17 anni. Ammogliossi questi con Viniberta, che gli partorì Romoaldo. Intorno a questi tempi, essendo già scorsi parecchi anni, dacchè nel monte Cassino, dove riposava il corpo del beato Benedetto, regnava una profondissima solitudine, i Franchi venendo dal paese dei Cenomannici, ossia Aurelianensi1, mentre simulavano di recitare i notturni2 presso quel santo corpo, levarono di là le ossa dello stesso venerabile padre, con quelle della veneranda sua sorella Scolastica, e le trasportarono nella loro patria, dove edificarono due monasteri in onore di cadauno dei detti santi. E noi sappiamo per certo, che quella sacra bocca, di qualunque nettare più soave, e gli occhi sempre intenti a contemplare le cose celesti, nonché [p. 73 modifica]le altre membra, quantunque disciolte a cenere, tuttavia essersi conservate. Perchè non fuvvi particolarmente che il solo corpo di Cristo, il quale sia stato esente da corruzione: ma i corpi di tutti i santi, i quali poscia nella gloria eterna devono rinnovarsi, sono soggetti a corrompersi, eccetto quelli, che per divino miracolo immacolati si serbano3.


CAPO III.

Di Rodoaldo duca del Friuli, e di Ausfrido, che occupò il suo ducato.

Ma Rodoaldo, di cui sopra dicemmo aver tenuto il ducato del Foro-Giulio, essendo lontano da quella città Ausfrido, venne [p. 74 modifica]dal castello di Ragogna A. D. 693., e senza alcun consentimento del re usurpò quel ducato. La qual cosa intendendo Rodoaldo, fuggi nell’Istria, dove, montata una nave, salpò a Ravenna, e di là portossi in Ticino al re Cuniberto. Allora Ausfrido non contento di possedere il ducato di Foro-Giulio, vennegli il fumo di ribellarsi contro il re Cuniberto, e di togliergli il regno. Ma catturato costui in Verona fu condotto dinanzi al re, che fattigli cavare gli occhi lo condannò all’esilio. Dopo di questi fatti, Adone fratello di Rodoaldo, col nome di luogotenente4, governò per un anno e sette mesi il ducato di Foro-Giulio.


CAPO IV.

Del Sinodo fatto in Costantinopoli e della lettera di Damiano vescovo.

Mentre che queste cose accadevano nell’Italia, un’eresia nacque in Costantinopoli, la quale sosteneva esservi in Cristo nostro Signore una sola volontà, e operazione5. [p. 75 modifica]Quest’eresia fu suscitata da Gregorio patriarca Costantinopolitano, unitamente a Macario, Pirro, Paolo e Pietro. Per la qual cosa Costantino Augusto convocò cento e cinquanta vescovi6, tra i quali vi furono anche i legati della Santa Romana Chiesa, mandati dal papa Agatone, cioè Giovanni diacono, e Giovanni vescovo Portuense, i quali tutti la predetta eresia condannarono. In quell’ora cadde sì gran quantità di tele di ragno in mezzo del popolo, che tutti rimasero stupefatti; e per questo prodigio fu significato, che le sordidezze dell’eretica malvagità erano state spacciate7. Il patriarca Gregorio però si corresse; ma gli altri nella loro opinione ostinatamente durando, dalla vendetta dell’anatema furon colpiti 8. A quel tempo Damiano, vescovo della chiesa Ticinense, sotto il nome di Mansueto arcivescovo di Milano, scrisse per questa cagione una lettera utilissima e alla vera fede conforme, la quale giunse di non mediocre suffragio nel prefato concilio. Ora la retta e vera fede è [p. 76 modifica]questa: Che in Cristo nostro Signore, siccome vi son due nature, cioè di Dio e d’uomo, così debba credersi esservi eziandio due volontà e due operazioni. Vuoi tu udire quello che è circa la divinità? Io, diss’egli, ed il Padre siamo una cosa sola. Vuoi tu udire circa la umanità. Il Padre è maggiore di me. Vedi la sua umanità mentre egli dorme entro la nave: vedine la divinità quando dice l’Evangelista: Allora surto in piedi fece un cenno ai venti ed al mare, ed incontanente si fece bonaccia. Questo è il sesto Sinodo universale celebrato a Costantinopoli, scritto in greco linguaggio ai tempi di papa Agatone, eseguente e risedente9 l’imperator Costantino dentro le mura del suo palazzo.


CAPO V.

Della ecclisse della Luna e del Sole, e della peste che infierì a Roma e a Ticino.

In questi giorni nell’ottava indizione la Luna patì un’ecclisse. Parimente il Sole s’ecclissò quasi nel medesimo tempo all’ora decima [p. 77 modifica]del giorno 3 maggio10; dopo di che venne una fierissima peste, che durò tre mesi, cioè luglio, agosto e settembre: e tanta fu la moltitudine dei morti nella città di Roma, che i padri coi figli, e i fratelli colle sorelle, a due a due posti sulla medesima bara, veniano trasportati al sepolcro. Similmente questo morbo spopolò Ticino, cosicchè fuggendo tutti i cittadini per le cime dei monti, o per altri luoghi deserti, nella piazza e nelle contrade della città nascevano l’erbe, e gli arbusti. Allora apparvero visibilmente il buono ed il cattivo angelo, i quali notte tempo andavano in giro per la città, e ad un cenno dell’angelo buono, il cattivo angelo che vedeasi stringere in mano uno spiedo, quante volte col ferro battea alla porta di qualche casa, altrettanti uomini di quella medesima casa il dì seguente morivano. Onde a non so chi per rivelazione fu detto, che quella peste non avrebbe cessato, se prima nella basilica di s. Pietro, che chiamasi ad vincula, non si fosse innalzato un altare al martire s. Sebastiano. Trasportatesi dunque dalla città di Roma le reliquie del detto santo, [p. 78 modifica]appena nell’accennata basilica fu eretto l’altare, la peste cessò11.


CAPO VI.

Del modo che tenne il nemico del genere umano, per far sapere ad Aldone e Gransone che Cuniberto volea farli morire.

Dopo di queste cose, mentre il re Cuniberto consigliava il suo palafreniere, che nella propria lingua si chiama Marpahis12, in che maniera potesse privar di vita Aldone e Gransone, ad un tratto nella fenestra, presso la quale essi stavano fermi, andò a posarsi un moscone13. Onde Cuniberto, tentando di ucciderlo con un colpo di coltello, gli recise soltanto una gamba. Mentre ignari del consiglio del re veniano a palazzo, quando furono prossimi alla basilica del martire s. Romano, che sta presso il detto palazzo, s’incontrarono in un [p. 79 modifica]certo zoppo, al quale era stato tagliato un piede, che disse loro: Se voi andrete dal re Cuniberto egli vi ammazzerà. All’udir queste parole, presi essi da gran terrore, rifuggironsi dietro l’altare di quella chiesa. Onde essendo stato riferito al re che Aldone e Gransone eransi ricoverati nella basilica di s. Romano, cominciò a riprendere il suo scudiere che avesse avuto la temerità di tradire il segreto. A cui lo scudiere: Signor mio re, tu sai che dopo che abbiamo consigliato tra noi questa cosa, io non son mai partito dalla tua presenza: come poteva io adunque dirla ad alcuno? Allora il re mandò a domandare ad Aldone ed’a Gransone, per qual motivo si fossero essi rifugiati nel luogo santo. Ed essi risposero: Perchè ci fu detto che il re nostro signore volea farci morire. Il re mandò un’altra volta a domandar loro chi fosse stato quello che loro avea narrato tal cosa, minacciandoli, che se non avessero rivelato il delatore, non avrebbero potuto mai più ricuperar la sua grazia. Eglino adunque, conforme l’accaduto, fecero sapere al re d’aver incontrato un uomo zoppo, tagliato l’uno de’ piedi, che per camminare serviasi d’una gamba di legno fino al ginocchio, e costui essere stato il nuncio della loro morte. Il [p. 80 modifica]re conobbe allora che quella mosca a cui avea recisa la gamba era stato uno spirito maligno, e che questi avea manifestato i segreti della sua mente. Perciò avendo fatto uscire Aldone, e Gransone dalla stessa basilica sopra la fede sua, perdonò loro la colpa, e in avvenire li tenne in luogo di proprj figliuoli14.


CAPO VII.

Di Felice diacono, grammatico.

A quel tempo fiorì nell’arte grammatica Felice, zio di Flaviano mio precettore15, il quale fu tanto amato dal re, che fra gli altri doni della sua magnificenza, gli regalò un bastone tutto lavorato d’oro e d’argento. [p. 81 modifica]

CAPO VIII.

Di Giovanni vescovo di Bergamo.

Parimente nel medesimo tempo visse Giovanni vescovo della chiesa di Bergamo, uomo di mirabile santità. Avendo questi offeso il re Cuniberto in un convito, mentre ragionavano insieme, il detto re, quando il vescovo fu per ritornare all’ospizio, gli fece allestire un cavallo feroce e indomabile, il quale con immenso fremito solea rovesciare a terra chiunque ardìa di montarlo. Ma su di quello essendo salito il vescovo, si fece così mansueto, che con blando passo lo trasportò fino alla propria casa. La qual cosa intesa dal re, da quel giorno trattò il vescovo col debito onore, e gli fece dono di quello stesso cavallo, che a solo suo proprio uso, avea dedicato. [p. 82 modifica]

CAPO IX.

Di una stella oscura che apparve a quel tempo, e della eruttazione del monte Vesuvio.

Nella medesima stagione una stella prossima alle virgilie16 apparve di notte tempo nel cielo sereno, fra il Natale del Signore e la Epifania, tutta talmente ombreggiata, come quando la Luna sta riposta dietro una nuvola. Dopo di ciò nel mese di febbrajo di mezzogiorno uscì dall’occidente una stella di maraviglioso splendore, la quale declinò verso le parti orientali. Finalmente nel mese di marzo il Vesuvio eruttò per alquanti giorni siffatto incendio, che tutte le verdure sparse all’intorno, dalla polvere e dalla cenere rimasero sterminate. [p. 83 modifica]

САРО Х.

Come la nazione de’ Saraceni prese l’Africa e ruinò Cartagine.

Allora la nazione de’ Saraceni infedele e A. D. 696. nemica di Dio, passando con immensa moltitudine dall’Egitto nell’Africa, assediò e prese Cartagine, e poichè l’ebbe conquistata, crudelmente la saccheggiò e la distrusse fin dalle fondamenta.


CAPO XI.

Della morte di Costantino, e del Regno di Giustiniano.

Nel corso di queste cose l’imperator Costantino morì in Costantinopoli, e Giustiniano suo figliuolo minore17 gli successe nel regno dei Romani, del quale tenne le redini per anni dieci. Questi tolse l’Africa ai Saraceni, e fece pace con essi per terra e [p. 84 modifica]per mare18. Il detto imperatore mandò Zaccaria suo protospatario19 per confinare a Costantinopoli il pontefice Sergio, perchè non avea voluto favorire e sottoscriversi all’errore di quel sinodo già fatto nell’accennata città. Ma le milizie di Ravenna e delle parti vicine, spregiando l’empio comandamento del principe, con insulti ed ingiurie scacciarono il medesimo Zaccaria fuori di Roma20.


CAPO XII.

Come Leone usurpò il regno di Giustiniano già cacciato in esilio.

Contro codesto Giustiniano surse Leone, il quale toltagli la dignità imperiale, lo privò del regno, e governando per tre anni il Romano Impero, tenne il predetto Giustiniano confinato nel Ponto. [p. 85 modifica]

CAPO XIII.

Tiberio vince ed imprigiona Leone, poscia diviene imperatore.

Dall'altro canto insorse Tiberio contro Leone, ed occupatogli il regno, per tutto quel tempo in cui egli imperò, nella medesima città lo tenne prigione 21.


CAPO XIV.

Come papa Sergio corresse il sinodo Aquilejese che non volea riconoscere il quinto universale Concilio.

In questo tempo fu fatto un sinodo in Aquileja, A. D. 698.che per l’ignoranza della fede rifiutò di riconoscere il quinto Concilio universale22, finchè instruito questo sinodo dalle salutari ammonizioni del beato pontefice Sergio, deliberò d’acconsentirvi insieme colle altre chiese di Cristo. Un Concilio poi [p. 86 modifica]fu radunato in Costantinopoli, sotto l’imperator Giustiniano, contro Teodoro, e tutti quegli eretici i quali sostenevano, che la beata Vergine Maria avea generato l’uomo solo, non già il Dio ed Uomo. Nel quale Concilio cattolicamente fu stabilito, che la beata Maria sempre Vergine fosse chiamata Madre di Dio23, perchè, siccome si ha nella cattolica fede, essa non l’uomo solo, ma il Dio e l’uomo veracemente ha generato.


CAPO XV.

Cedoaldo re degl’Inglesi, giunto a Roma, fu battezzato e incontanente morì.

In questi giorni Cedoaldo re degli Anglo-Sassoni, dopo d’aver sostenute molte guerre nella sua patria, convertito a Cristo, s’avvio verso Roma. E venendo al re Cuniberto, da esso onorevolmente fu accolto; poscia arrivato a Roma, battezzato dal papa Sergio, gli fu imposto il nome di Pietro, e mentre ancora indossava la bianca veste24 [p. 87 modifica]passò al regno de’ Cieli. Il corpo di lui fu sepolto nella basilica di s. Pietro, e un onorevole epitafio sta scolpito sulla pietra che lo ricopre25.


CAPO XVI.

Come il regno de’ Franchi nelle Gallie cominciò ad esser governato dai Maggiordomi.

A questo tempo accadde, che i re dei Franchi nelle Gallie, dal solito valore e saviezza degenerando, coloro che apparivano soltanto i prefetti della casa reale26 [p. 88 modifica]cominciarono ad amministrare la potenza del regno, e ad operare secondo il costume dei re, perchè era già per divina volontà stabilito, che il detto regno de’ Franchi alla progenie di costoro passasse in retaggio. Era allora maggiordomo del palazzo reale Arnulfo, personaggio che in appresso divenne chiaro come amato da Dio per la maravigliosa sua santità. Questi, sottraendosi alla gloria del secolo per dedicarsi al servigio di Cristo, divenne illustre nel vescovato, e finalmente scegliendo la vita eremitica, e prestando ogni necessario ufficio ai lebbrosi, visse in perfettissima continenza. I suoi fasti nella chiesa Metense, della quale fu vescovo, sono descritti in un libro, che contiene eziandio la narrazione dei miracoli del medesimo e dell’astinenza della sua vita. Ed io pure, in un libro che scrissi intorno ai vescovi di quella città ad istanza di Angilranno, uomo umanissimo e di mirabile santità, arcivescovo della medesima chiesa, notai alcuni miracoli di questo preclarissimo santo Arnulfo, che ora credo superfluo di qui raccontare.

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CAPO CAPO XVII.

Della morte del re Cuniberto, e del regno del suo figliuolo Liuberto.

In questo mezzo Cuniberto, principe da tutti amatissimo, dappoichè ottenne egli solo, dopo la morte del padre, per anni dodeci il regno de’ Langobardi, alla fine da questa passò all’altra vita. Questo re edificò un monastero in onore del beato Gregorio27 martire nel campo di Coronata, dove guadagnò la battaglia contro di Alachi. A. D. 700. Fu elegante della persona, nella bontà del cuore eccellente e valorosissimo battagliero. Fra una piena di lagrime dei Langobardi fu sepolto nella basilica del santo Salvatore, già fatta edificare da Ariperto suo avo. Ei lasciò il regno de’ Langobardi a Liuberto suo figliuolo ancor fanciulletto, a cui stabili per tutore Asprando, uomo sapiente ed illustre. [p. 90 modifica]

CAPO XVIII.

Di Ragumberto duca de’ Torinesi, il quale, vinto Liuberto, occupò il regno, e nello stesso anno morì.

Passati otto mesi, Ragumberto duca dei Torinesi, che il re Godeberto, già fatto morire da Grimoaldo, avea lasciato ancor pargoletto, e di cui abbiamo parlato qui sopra, venuto con un potente esercito contro Asprando e Rotari duca de Bergamaschi, diede loro battaglia presso Novarra. A. D. 701. Ed avendoli vinti in campagna, occupò il regno de’ Langobardi, ma poi nel medesimo anno morì.


CAPO XIX.

Come Ariperto occupò il regno, e prese vivo Liuberto.

Allora il suo figliuolo Ariperto, apparecchiando un’altra volta la guerra, pugnò col re Liuberto e con Asprando, Ottone, Tazone, nonché con Rotari e Farone presso Ticino, ed avendoli vinti tutti in una grande battaglia, fece prigione il fanciulletto Liuberto. Ma Asprando fuggì, e andò a fortificarsi nell’isola Cumacina. [p. 91 modifica]

CAPO XX.

Come Rotari regnando in Bergamo fu preso da Ariperto ed ucciso.

Il duca Rotari, ritornando nella sua città di Bergamo, prese possesso del regno. Contro del quale il re Ariperto si mosse con un grande esercito, ed assalita primieramente e conquistata Lodi, assediò Bergamo, e cogli arieti e diverse altre macchine militari28 in breve tempo senza alcuna difficoltà la espugnò. Indi pigliato il pseudo-re29 Rotarito gli rase il capo e la barba30, poscia lo cacciò in esilio a Torino, dove passati alquanti giorni fu ucciso. Parimente Liuberto, [p. 92 modifica]già catturato nell’antecedente battaglia, fu da costui in un bagno affogato.


CAPO XXI.

Come Asprando fuggì presso i Bojoari, ed ivi restò col loro duca Teudeberto.

Lo stesso Ariperto mandò un esercito contro Asprando nell’isola Comacina; A. D. 702. il che inteso da Asprando fuggì a Chiavenna31, e di là per Curia32, città dei Reti, giunse a [p. 93 modifica]Teudeberto duca de’ Bojoari, ove dimorò con esso per anni nove. Intanto l’esercito di Ariperto, entrato nell’isola nella quale Asprando erasi rifugiato, ne distrusse fino dalle fondamenta il castello.


CAPO XXII.

Come Ariperto oltraggiò la moglie ed il figlio e la figlia di Asprando, e come permise a Liutprando d’andarsene a Bojoaria a trovare suo padre.

Confermato adunque nel regno il re Ariperto, fece cavare gli occhi a Sigibrando figliuolo di Asprando, e travagliò in diversi modi tutti coloro che gli appartenevan per sangue. Tenne pure imprigionato Liutprando figliuolo minore di Asprando, che per averlo riputato persona da nulla33, ed ancor giovincello, non solamente non gli fece danno alcun nella vita, ma gli permise enziandio di andarsene al padre suo. Il che non è dubbio essere avvenuto per consiglio dell’Onnipotente, che preparava questo giovinetto al governo del regno. Adunque Liutprando, andatosene in Bojoaria al padre suo, [p. 94 modifica]gli destò col suo arrivo un indicibile gaudio nel cuore. Ma d’altra parte il re Ariperto fece catturare la moglie d’Asprando, di nome Teodorada; ed a costei, che con donnesca albagia millantava di dover essere regina34, fece tagliare il naso e orecchie, diformando per tal modo la bellezza della sua faccia. Cotanta deformità dovette pur tollerare la sorella di Liutprando.


CAPO XXIII.

Di Anchis figliuolo di Arnulfo, Maggiordomo del regno de’ Franchi.

A questo tempo Anchis, figlio di Arnulfo, col nome di Maggiordomo governava il principato de’ Franchi nelle Gallie. Credesi che il suo nome discendesse da quello del Trojano Anchise. [p. 95 modifica]Scarica in formato ePub [[Storia dei fatti de' Langobardi/Libro VI/|]] 

CAPO XXIV.

Della morte di Aldone avvenuta nel Forogiulio, e del ducato di Ferdulfo, il quale fu ucciso dagli Schiavi.

Essendo morto nel Forogiulio Aldone, che dicevamo essere stato prefetto del palazzo, assunse il ducato certo Ferdulfo nativo dalle parti della Liguria, uomo lubrico e vanaglorioso; il quale, agognando il vanto di vincitor degli Schiavi, recò infinito danno a sè stesso ed ai Forogiuliani. Costui corruppe coi premj certi Schiavi, affinchè a sua istigazione introducessero nella Forogiuliana provincia una mano di armati della loro nazione. Il che appunto è avvenuto. Ecco perciò qual fu la cagione della grande ruina, a cui soggiacque la detta provincia. Piombarono i malandrini della Schiavonia sopra le greggi e sopra i pastori, che pascolavano nei loro confini35, e ne trasportarono grosso bottino. A costoro tenne dietro il rettore del luogo, che nella propria lingua dicono essi Sculdais36, nobile personaggio, di cuore e [p. 96 modifica]di forze valorosissimo, ma non potè in alcun modo raggiungerli. Onde ritornando indietro gli si fece contro Ferdulfo; ed avendolo interrogato qual cosa fosse avvenuta di quei malandrini, Argait37 (cosi quegli chiamavasi) rispose, che coloro se ne eran fuggiti. Allora Ferdulfo sdegnato, così proruppe: Quando mai potresti fare alcuna prodezza tu, cui viene da Arga il nome di Argait? e l’altro, punto da grandissima collera, siccome era uomo valorosissimo, così rispose: Voglia Dio, che nè io, nè tu, o Ferdulfo, esciamo da questa vita, prima che gli altri conoscano chi di noi due più meriti il nome d’Arga. E poichè s’ebbero detto fra loro queste villane parole, avvenne che dopo non molti giorni giugnesse con grandi forze l’esercito degli Schiavi già preparato dai [p. 97 modifica]premj datigli da Ferdulfo. Ed avendo piantato sulla più alta cima del monte gli alloggiamenti, ove da qualunque parte era difficilissimo a loro accostarsi, il duca Ferdulfo sopraggiunto col proprio esercito cominciò a circuire lo stesso monte per potere pei luoghi più piani sopra di loro scagliarsi. Allora Argait, del quale or ora parlammo, disse a Ferdulfo: Ricordati, o duca, che dicesti che io sono poltrone e da nulla, e che con vile parola mi chiamasti Arga. Or dunque l’ira di Dio cada sopra quello di noi, che l’ultimo s’accosterà a questi Schiavi. Ciò detto voltò il cavallo per l’asprezza del monte, dove più malagevole era l’ascesa, avviandosi verso il campo degli Schiavoni. Ora Ferdulfo recandosi a vergogna se anch’egli per gli stessi disastrosi luoghi non fosse salito ad assaltare gli Schiavi, si prese a seguitarlo per tutti quegli scabri, difficili e dirupati sentieri. Parimente il suo esercito vergognandosi di non seguitare il suo duca, si mosse tosto dietro i suoi passi. Vedendo perciò gli Schiavi inoltrarsi i nemici su pei declivi della montagna, animosamente s’apparecchiarono alla difesa, e più colle pietre e co’ bastoni di quello che colle armi, contro di loro pugnando, gettategli da cavallo quasi [p. 98 modifica]tutti li uccisero; e così anzi per caso che per virtù conseguirono la vittoria. Ivi perì tutta la nobiltà friulana, ivi cadde il duca Ferdulfo, e con esso fu morto colui che lo avea provocato. E quivi sciaguratamente per una vana contesa, e per imprudenza furono rotti tanti uomini valorosi, quanti per concordia di volontà e per salutare consiglio avrebbero bastato a sconfiggere migliaja e migliaja de’ loro nemici. Colà, nondimeno un Langobardo di nome Manichi, il quale fu padre di Pietro duca de’ Forogiuliani, e di Orso pur duca de’ Cenedesi, solo animosamente ed eroicamente operò. Essendo questi precipitato da cavallo, improvvisamente gli diede addosso uno Schiavo che gli legò le mani con una fune: ma egli colle mani legate traendo dalla destra la lancia del medesimo Schiavo, e datogli un gran colpo con quella, così legato com’era, gettandosi per quei dirupati sentieri fuggì. Onde noi di questa cosa nella nostra storia soprattutto abbiamo fatto menzione, perchè ad alcuno per una malaugurata contesa simile caso non intravvenga. [p. 99 modifica]

CAPO XXV.

Di Corvulo duca del Forogiulio, il quale fu fatto acciecare dal re.

Morto dunque il duca Ferdulfo nel modo che abbiamo detto, fu sostituito in suo luogo Corvulo, il quale per poco tempo tenne il ducato. Costui per aver offeso il re, privato della luce degli occhi, vituperosamente sen visse.


CAPO XXVI.

Di Pemmone duca de’ Friulani, e della nascita di tre suoi figliuoli.

In appresso Pemmone, uomo ingegnoso e utile alla patria, meritò il ducato. Costui fu generato da padre Bellunese, cioè di Belluno; ma per la sedizione ivi da lui suscitata, venne dopo nel Forogiulio, dove pacificamente è vissuto. Pemmone ebbe per moglie una donna di nome Ratberga, la quale essendo di grossolane sembianze 38, sempre pregava il proprio marito, che, ripudiata lei, pigliasse altra donna, la quale fosse degna [p. 100 modifica]consorte di tanto duca. Ma quegli, che era uomo savio asseriva andargli più a genio i costumi, l’umiltà, e la vereconda pudicizia di lei, di quello che la bellezza del corpo. Da questa moglie adunque Pemmone generò tre figliuoli, cioè Ratchis, Ratcait ed Aristulfo, uomini valorosissimi, la nascita de’ quali elevò a gran gloria l’umiltà della madre. Questo duca, raccolti insieme i figliuoli di tutti i nobili ch’erano morti nella battaglia, della quale abbiamo detto, li alimentò insieme co’suoi, nello stesso modo, che se fossero stati da lui medesimo generati39.


CAPO XXVII.

Di Gisulfo duca dei Beneventani, e come assaltò Sora ed altri castelli.

In questa età pure Gisulfo condottiero dei Beneventani prese Sora40, città dei Romani, e parimente i castelli di Arpino e di Arcone. Questo Gisulfo al tempo di papa [p. 101 modifica]Giovanni venne con tutte le sue forze41 nella campagna incendiando e saccheggiando ogni cosa, e strascinando ancora seco gran numero di prigioni, finchè giunto al luogo che chiamasi Horrea42 accampossi; nè alcuno fu che gli potesse resistere. A costui il pontefice mandati i sacerdoti con apostolici donativi, redense tutti i prigionieri dalle sue mani, e fece sì, che il duca medesimo ritornasse colle sue genti al proprio paese.


CAPO XXVIII.

Della donazione che Ariperto fece alla chiesa Romana, e di due re dell’Anglia.

A questi tempi Ariperto re dei Langobardi A. D. 707. restituì a titolo di donazione il patrimonio dell’Alpi Coccie43, le quali una [p. 102 modifica]volta appartenevano per diritto alla Sede Apostolica, ma da gran tempo le erano state tolte dai Langobardi. Questa donazione fu da lui mandata a Roma scritta in lettere d’oro. Similmente a questi due re dei Sassoni venuti a Roma a venerare gli Apostoli44 in breve tempo, siccome era il loro desiderio, morirono.


CAPO XXIX.

Di Benedetto arcivescovo Milanese.

In quel mezzo venne a Roma Benedetto arcivescovo Milanese, dove trattò la causa della chiesa di Ticino: ma la perdè per la ragione, che nei tempi antichi i vescovi Ticinesi dalla Romana chiesa furono consacrati. Questo venerabile arcivescovo Benedetto fu uomo di ammirabile santità, di modo che si diffuse per tutta Italia la fama del suo buon nome45. [p. 103 modifica]

CAPO XXX.

Della morte di Trasmondo duca di Spoleto.

Essendo venuto a morte Trasmondo duca degli Spoletani, fu sostituito in luogo del padre il figliuolo suo Faroaldo. Indi Vachilapo fratello del detto Trasmondo, governò insieme con lui lo stesso ducato.


CAPO XXXI.

Di Giustiniano imperatore, e come di nuovo occupò il regno ed uccise i ribelli.

In quel mezzo Giustiniano, il quale perduto l’impero trovavasi relegato nel Ponto, coll’ajuto di Terebello re dei Bulgari, riacquistato il regno, uccise i patrizi che lo avevano espulso. Prese egli pure Leone e Tiberio, che aveano usurpato il suo luogo, e in mezzo al circo, alla presenza di tutto il popolo, li fece strozzare. Parimente fece cavare gli occhi a Gallicino patriarca di Costantinopoli, e in tal guisa mandollo a Roma, nominando vescovo in luogo di Gallicino Ciro abate, che nel tempo del suo esilio nel Ponto lo avea nutrito. Questo imperatore, fatto venire a se il papa Costantino [p. 104 modifica], onorificamente lo accolse e lo rimise46 in sua grazia. A. D. 710. Poscia prostrato a terra e pregatolo ad intercedere pei suoi peccati, gli rinnovò tutti i privilegi della sua chiesa. Costui, mandando l’esercito nel Ponto a prendere Filippico, ivi da lui confinato, gli si oppose fortemente lo stesso venerando pontefice per distoglierlo da questa impresa; ma nol potè in modo alcuno ritenere.


CAPO XXXII.

Come Filippico ammazzò Giustiniano ed usurpò la dignità imperiale.

Ma l’esercito mandato contro Filippico si rivolse alla sua parte e lo proclamò imperatore; onde costui, venendo contro Giustiniano a Costantinopoli, incontrò battaglia con esso 12 miglia lungi dalla città, lo vinse, l’uccise, e conquistò il regno suo. Questa seconda volta Giustiniano regnò 6 anni col figliuolo Tiberio, a cui Leone nella cacciata del padre avea fatto mozzare il naso. A. D. 711. Costui, poichè fu nuovamente assunto all’impero, quante volte forbia con la mano la goccia che gli stillava pel raffredore, quasi altrettante [p. 105 modifica]faceva scannare alcuno di loro che gli eran presenti47.


CAPO XXXIII.

Della morte di Pietro Archita e del saceradozio di Sereno.

Essendo morto a questi giorni il patriarca Pietro, A. D. 711. entrò nel reggimento della chiesa d’Aquileja Sereno, uomo semplice e tutto dedito al servizio di Cristo48.


CAPO XXXIV.

Come Anastasio debellò Filippico.

Ma poichè Filippico, che chiamayasi anche Bardane, A. D. 711. nella dignità imperiale fu confermato, scacciò dal pontificato Ciro, di cui dicemmo di sopra, e gl’intimò di tornarsene al Ponto a governare il suo monastero. [p. 106 modifica]Filippico mandò alcune lettere di malvagia dottrina a papa Costantino, che da esso, per consiglio49 della Sede Apostolica, furono rifiutate. Onde per cagione di questa cosa il papa fece fare le pitture nel portico di san Pietro, che rappresentano gli atti delli sei Ss. Sinodi universali50. E siccome Filippico avea fatto cancellare somiglianti pitture, le quali trovavansi nella Regia città, il popolo Romano ordinò che non si ricevessero nè carte, nè figura di moneta, nè il nome dell’eretico imperatore. Onde neppur l’immagine di lui fu in chiesa introdotta, nè il nome suo nella solennità delle messe fu proferito. A. D. 713. Costui regnava già da un anno e sei mesi, quando contro di lui insorse Anastasio, detto anche Artemio, il quale lo scacciò dall’impero, e lo privo della luce degli occhi: tuttavia non lo spense. Il detto Anastasio mando lettere a Roma a papa Costantino per mezzo di Scolastico, patrizio ed Esarco d’Italia, colle quali si dichiarò [p. 107 modifica]fautore della fede cattolica, e banditore del sesto santo Concilio.


CAPO XXXV.

Come Ansprando coll’ajuto di Teudeberto vinse Ariperto, il quale si annegò in un fiume: della fuga di Cuniberto suo fratello, e del regno di Ansprando e del suo figliuolo Liutprando.

Poichè Ansprando stette in bando 9 anni compiuti in Bojoaria, promosso al regno Teudeberto nell’anno decimo, venne in Italia alla testa d’un esercito di Bojoari, ed azzuffatosi con Ariperto, dall’una e dall’altra parte fu fatta immensa strage di popoli. E quantunque la notte sia venuta ad interrompere la battaglia, nondimeno è cosa certa i Bojoari aver voltate le spalle, e l’esercito d’Ariperto essersene ritornato vittorioso ne’ suoi alloggiamenti. Ma non avendo voluto Ariperto restarsene nel proprio campo, amando meglio d’entrare nella città di Ticino, per tal fatto destò la disperazione ne’ suoi, e l’audacia negli inimici. Ond’è che appena entrato nella città, accortosi che per questa risoluzione aveva offesa la propria gente, preso all’istante il consiglio di fuggir nella Francia, portò [p. 108 modifica]via dal palazzo tutto l’oro che stimò potergli esser utile. Ma nel mentre che dall’oro aggravato tentava di passare a nuoto il fiume Ticino, ivi sprofondatosi, affogato dall’acqua, morì. Il suo corpo ritrovatosi nell’indomani fu portato nel palazzo vestito de’ suoi ornamenti, e poscia sepolto nella basilica del santo Salvatore, che per lo innanzi Ariperto avea edificata. Questi nel tempo che teneva il regno uscia di palazzo notte tempo, e qua e là girando, spiava di per sè stesso quel che di lui dicevasi in cadauna città, e diligentemente investigava quale giustizia ogni giudice faceva al suo popolo: che se a lui giugneano legati delle genti straniere, copriasi alla loro presenza di vesti vilissime, ossia di pelliccie, e affinchè insidiassero meno all’Italia, non imbandiva mai loro vini preziosi od altre delicate vivande51. Regnò parte col padre Ragumberto, parte solo pel corso di 12 anni. Fu pietoso, caritatevole, amatore della giustizia. Lui regnante, la terra fu fertilissima, ma barbari i tempi. Ebbe a fratello Guntberto che a que’ [p. 109 modifica]giorni rifugiossi in Francia, ove rimase fino al dì che spirò. E questi ebbe pur tre figliuoli, de’ quali il primogenito Rasimberto governò a’ nostri tempi la città Aurelianense. Morto Ariperto, Ansprando, fatto signore del reame de’ Langobardi, lo tenne soltanto tre mesi: uomo anch’esso in ogni cosa eccellente e di tanta saviezza, che pochi a lui possono essere paragonati. Veggendo i Langobardi la morte di questo re, costituirono nel soglio regale suo figliuolo Liutprando: la qual cosa fu intesa con grande consolazione da Ansprando ancora vivente.


CAPO XXXVI.

Come Teodosio vinse Anastasio ed occupò il suo regno: e della inondazione del Tevere.

Circa a questi dì Anastasio imperatore inviò una flotta in Alessandria contro dei Saraceni. Ma la sua armata, volta ad altro consiglio, giunta a mezza strada retrocesse a Costantinopoli, e rintracciato l’ortodosso Teodosio lo salutò imperatore, e contro sua voglia lo confermò nella dignità dell’impero. Il quale Teodosio per una grande battaglia presso Nicea52 vinse Anastasio, e A. D. 716. [p. 110 modifica]fattosi dar giuramento che dedicherebbesi allo stato clericale, lo fece ordinar sacerdote. Ed egli, come ebbe preso possesso del regno nella città di Costantinopoli, rifece nel luogo primiero quella veneranda pittura, in cui era raffigurato il santo concilio, e che già da Filippico era stata distrutta. In questo medesimo tempo il fiume Tevere talmente gonfiossi, che uscito dall’alveo recò infiniti disastri alla città di Roma: e nella via Lata crebbe ad un uomo e mezzo53, mentre dalla parte di s. Pietro fino al ponte Milvio le acque dilatandosi si congiungevano.


CAPO XXXVII.

Della nazione degli Angli, di Pipino re de Franchi, delle sue guerre: e come Carlo suo figliuolo ad esso successe.

In questi tempi molti nobili e plebei della nazione degli Angli, uomini e donne, duci e primati, per istinto d’amor divino, ebbero per costume di venire a Roma. E allora pure teneva il principato nel regno de’ Franchi Pipino, uomo di mirabile ardire, [p. 111 modifica]che in un punto assaliva i nemici ed eran distrutti. Costui per andar contro un suo avversario passò il Reno, e con un solo satellite piombato sopra di lui, nella camera dove ei risiedeva con tutti i suoi, trucidollo. Condusse pure valorosamente molte guerre coi Sassoni, e massimamente con Ratodo re de’ Frisoni. Ebbe parecchi figliuoli, ma fra questi primeggiò Carlo che a lui successe nel principato54.


CAPO XXXVIII.

''Come il re Liutprando ammazzò Rotarit suo ribelle, e dell’audacia dello stesso re.

Poscia che il re Liutprando fu confermato nel regno, il suo consanguineo Rotarit tentò d’ammazzarlo. Costui apparecchiò un convito nella propria casa in Ticino, dove nascose alcuni robusti sicari armati55, coll’ordine d’assassinarlo mentre sedeva a mensa. [p. 112 modifica]Della qual cosa avvisato Liutprando lo fece chiamare nel suo palazzo: e conforme gli era stato detto, tastandolo colla mano, sentì che avea la lorica sotto le vestimenta. Allora Rotarit vedendosi scoperto, subito ritiratosi indietro, sguainò la spada per ferire il re. E il re dall’altra parte trasse anch’esso la spada dal fodero. Allora uno de’ sergenti per nome Sabone, afferrando Rotarit per le spalle, da lui ferito fu nella fronte; ma venendo alcuni altri addosso a Rotarit in quel medesimo luogo lo uccisero. E quattro suoi figliuoli, che non erano presenti, dove si trovavano furono egualmente ammazzati. Fu il re Liutprando uomo di grande ardimento, di modo che una volta essendogli stato riferito che due suoi scudieri aveano il pensiero di torgli la vita, entrỏ con essi soli in una profondissima selva, ed ivi tenendo contro loro impugnata la spada gli rimproverò del concepito disegno di volerlo ammazzare, esortandoli nello stesso tempo a mandarlo ad effetto. Ond’essi improvvisamente prostrati a’ suoi piedi confessarono tutto ciò che macchinato aveano contro di lui. E similmente fece con altri, perdonando però sempre la colpa della malizia a coloro che gliene faceano la confessione. [p. 113 modifica]

CAPO XXXIX.

Della morte di Gisulfo duca Beneventano e del ducato di suo figliuolo Romoaldo.

Morto Gisulfo duca de Beneventani il popolo de’ Sanniti elevò il suo figliuolo Romoaldo al governo di quel paese56.


CAPO XL.

Come il beato Petronace ristaurò il monastero di s. Benedetto in Monte Cassino: e del monastero di s. Vincenzo.

Circa a questi tempi Petronace cittadino della città di Brescia, compunto d’amor divino, venuto a Roma, per esortazione di Gregorio pontefice della sede Apostolica57, si diresse al castello Cassino, e giunto presso al sacro corpo del beato padre Benedetto [p. 114 modifica], ivi deliberò di abitare con alcuni anacoreti58, che già colà dimoravano; i quali stabilirono il detto venerabile Petronace per loro priore59. Questi in breve tempo coll’ajuto della divina misericordia, e pei meriti del beato padre Benedetto, passati già quasi cento e venti anni60, dacchè quel luogo era rimasto disabitato, divenne il padre di molti monaci nobili e plebei61, i quali ad esso accorrevano assoggettandosi al giogo della santa regola e delle istituzioni del beato Benedetto; e qui cominciò a vivere ne’ riparati abitacoli, e riedificò quel santo cenobio nello stato, nel quale ora si vede. A questo venerabile uomo Petronace, nel tempo appresso, il primo de’ sacerdoti e diletto al Signore pontefice Zaccaria diede non pochi ajuti: cioè i libri della sacra scrittura, e molte altre cose a beneficio del monastero: oltre a ciò egli concesse la regola che il beato padre Benedetto avea scritta di propria mano62. Allora pure il monastero [p. 115 modifica]del martire s. Vincenzo, posto alla sorgente del fiume Vulturno, e che anche al dì d’oggi fiorisce d’una illustre congregazione, fu edificato da tre nobili fratelli, cioè Tatone, Torone e Baldo, di che fanno fede gli scritti dell’eruditissimo uomo Autberto abate di quel medesimo monastero in un volume che egli compose intorno a questo argomento. Ora, vivente ancora il beato Gregorio pontefice della Sede Romana, il castello Cumano fu assaltato dai Langobardi Beneventani; se non che, sopraggiunto notte tempo il duca di Napoli altri dei Langobardi furono presi, altri morti, e il castello stesso fu dai Romani ricuperato: e per la redenzione del predetto castello il papa pagò settanta libbre d’oro, A. D. 715. siccome prima aveva promesso.


CAPO XLI.

Come, morto l’imperatore Teodosio, gli successe Leone.

In questo mezzo, morto l’imperatore Teodosio, il quale avea governato un anno solo l’impero, Leone Augusto fu surrogato in suo luogo. [p. 116 modifica]

CAPO XLII.

Come Carlo principe dei Franchi vinse Roginfrido.

Poichè nella nazione dei Franchi cessò di vivere Pipino, Carlo suo figliuolo63, del quale abbiamo fatto parola, dopo molte guerre e contese, tolse il principato dalle mani di Roginfrido. Poichè essendo egli tenuto in prigione, per divino volere liberato, fuggì, e primamente con alcuni pochi, due o tre volte azzuffossi con Raginfrido: finchè per ultimo lo ruppe in una battaglia presso Vinciaco: al quale però concesse per abitare la città Andegavense64; ed egli poi prese a governare tutta la nazione de’ Franchi65. [p. 117 modifica]

CAPO XLIII.

Come il re Liutprando confermò la donazione alla chiesa, e ricevette in moglie la figliuola di Teudeberto.

A quel tempo il re Liutprando confermò alla chiesa Romana la donazione del patrimonio delle Alpi Cozzie. Poco tempo dopo lo stesso regnante condusse in matrimonio Guntruda, figliuola del duca de’ Bojoari, presso cui erasi rifugiato; dalla qual donna generò egli soltanto una figlia.


CAPO XLIV.

Come Faroaldo assaltò Classe: e per qual motivo Teudone duca de’ Bojoari venne in Roma alla visita degli Apostoli.

Circa il medesimo tempo Faroaldo duca di Spoleti assaltò Classe, città dei Ravennati; ma per ordine del re Liutprando fu essa restituita ai Romani. Contro questo duca Faroaldo si sollevò il figlio suo Trasemondo, e poiché l’obbligò a farsi chierico, usurpò egli il suo luogo. Negli stessi giorni Teudone duca de’ Bojoari venne per divozione [p. 118 modifica]in Roma a venerare le soglie66 de santi Apostoli.


CAPO XLV.

Come alla morte del patriarca Sereno, Calisto prese a governare la chiesa: e come Pemmone fece guerra contro gli Schiavi.

Ma nel Forogiulio, tolto da questa vita il patriarca Sereno, Calisto personaggio insigne, il quale era arcidiacono della chiesa Trevigiana, coll’assenso del re Liutprando, salì al governo della chiesa Aquilejese. In questo tempo, come dicemmo, Pemmone reggeva i Langobardi Forogiuliani. Costui, essendo già fatti adulti i fanciulli di que’ nobili che avea fatto allevare in compagnia co’ proprj figliuoli, in un momento ebbe la nuova, che un’immensa moltitudine di Schiavi era giunta in un luogo che si chiamava Lauriana67. Ond’egli co’ detti giovani, per la [p. 119 modifica]terza volta piombato sopra coloro, li ruppe con grandissima strage, nè più dopo ivi fu morto alcuno della gente dei Langobardi, eccetto che Sigualdo, il quale era molto avanzato negli anni. Questi nella guerra antecedente, fatta sotto Ferdulfo, perdette due figli. Benchè nelle due prime volte s’avesse egli, secondo il voler suo, vendicato di quegli Schiavi, non potè neppure la terza volta dal divieto del duca e degli altri Langobardi essere raffrenato; ma invece così loro rispose: Ho vendicato quanto basta la morte de’ miei figliuoli, e se ora verrà la morte lietamente l’incontrerò. Così fu: ed egli solo in quella zuffa rimase estinto. Ma Pemmone, poichè ebbe ucciso gran quantità de’ nemici, temendo di perdere alcuno de’ suoi nella mischia, stipulò nello stesso tempo la pace cogli Schiavi, e da quel tempo costoro cominciarono ognor più a paventare delle armi de’ Forogiuliani68. [p. 120 modifica]

CAPO XLVI.

Della venuta dei Saraceni in Ispagna, e come Carlo ed Eudone li vinsero nelle Gallie.

Circa a quei dì le genti Saracine dal luogo che chiamasi Septa69, tragittando dall’Affrica invasero tutta la Spagna: e di là dopo dieci anni partirono colle mogli e coi pargoletti per l’Aquitania70, provincia delle Gallie, ed entrarono in essa colla mira di stabilirvi la loro dimora. Era allora Carlo in discordia con Eudone, principe dell’Aquitania, ma in quel momento riuniti insieme, di comune consiglio combatterono contro i medesimi Saraceni, Onde assaltandogli [p. 121 modifica]i Franchi, ammazzarono trecento settantacinquemila di loro: e dalla parte dei Franchi mille cinquecento solamente perirono. Nel medesimo modo Eudone, avventandosi co’ suoi sopra gli alloggiamenti dei Saraceni, ne uccise una gran moltitudine, e tutto pose in ruina. A. D. 732.


CAPO XLVII.

Come i Saraceni assediarono Costantinopoli e furono vinti dai Bulgari.

Nel medesimo tempo la stessa nazione dei Saraceni andò con un immenso esercito a circondare Costantinopoli, e l’assediò per tre anni continui, finchè per le molte fervorose preghiere innalzate dai cittadini al Signore, gran parte di coloro perì di fame, di freddo, di guerra e di peste, e per tal modo stanchi della ossidione si allontanarono71. Di là partiti, andarono ad assalire la nazione dei Bulgari, la quale è situata sopra il Danubio: ma vinti anco da questa, si ripararono alle loro navi, colle quali navigando in mare, sopraffatti da un’improvvisa tempesta, in grandissimo numero o affogati su [p. 122 modifica]quelle istesse navi o fracassati agli scogli, finirono. Dentro Costantinopoli poi circa trecentomila uomini morirono dalla peste.


CAPO XLVIII.

Come il re Liutprando trasportò a Ticino il corpo del beato Agostino.

Ma Liutprando, avendo inteso che i Saracini, saccheggiata la Sardegna, contaminavano eziandio que’ luoghi, dove le ossa del B. Agostino, per la devastazione de’ Barbari, erano state un tempo trasferite ed onorevolmente riposte, mandò con gran prezzo a ricomperarle, e di là le riportò nella città Ticinense, ivi collocandole coll’onore a tanto padre dovuto. A questi giorni la città di Narnia72 fu espugnata dai Langobardi.


CAPO XLIX.

Delle città romane conquistate dal re Liutprando, e degli ultimi fatti di Leone Augusto.

Nello stesso tempo il re Liutprando assediò Ravenna, ed espugnò e distrusse la [p. 123 modifica]città di Classe73. Allora Paolo Patrizio mandò alcuni de’ suoi da Ravenna per far ammazzare il pontefice. Ma opponendosi i Langobardi per la difesa del medesimo agli Spoletani, dal ponte Salario74 e dalle altre parti resistendo pure i Langobardi ai Toscani, il consiglio de’ Ravennati andò in fumo. A questi giorni Leone imperatore fece levare ed ardere le immagini de’ santi in Costantinopoli. E la stessa cosa comandò che facesse il pontefice romano, se voleva conservare l’imperiale sua grazia; ma il pontefice romano rifiutò. Parimente l’esercito di Ravenna e quello delle Venezie resistettero tutti d’un animo a tali comandamenti; anzi se il pontefice non gl’impediva, aveano essi deliberato di costituire sopra di loro un altro imperatore75. Intanto il re Liutprando occupò i castelli dell’Emilia, cioè Feroniano e Monte Bellio, Busetta e Persiceta76, Bologna, la [p. 124 modifica]Pentapoli ed Ausinio77. Similmente conquistò Sutrio78, ma dopo alcuni giorni fu restituito ai Romani. A quel medesimo tempo l’imperator Leone, talmente peggiorò nel male, che giunse a costringere parte colla violenza, parte colle lusinghe, tutti gli abitanti di Costantinopoli a levare in qualunque luogo esse fossero le immagini sì del Salvatore, che della sua santa Madre e di tutti i santi; facendole poi in mezzo della città tutte quante in un mucchio abbruciare. E perchè molti del popolo misero impedimento a cotanta scelleraggine, ad alcuni di loro fu tagliata la testa ed altri furono mutilati. E siccome il patriarca Germano non avea a tale orrore assentito, fu cacciato dalla propria sede, e fu ordinato in suo luogo Anastasio prete.

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CAPO L.

Di Romoaldo duca di Benevento, e di Gisulfo suo figliuolo.

Allora Romoaldo duca di Benevento condusse in moglie Guntberga, figliuola di Aurona, sorella del re Liutprando; dalla quale generò un figliuolo, che, dal nome di suo padre, chiamò Gisulfo. Dopo di questa ebbe pure un’altra moglie di nome Ravigunda figliuola di Gaidoaldo, duca di Brescia.


CAPO LI.

Dell’inimicizia di Pemmone contro il patriarca Calisto.

In questo mezzo insorse una contesa gravissima A. D. 737.tra il duca Pemmone ed il patriarca Calisto. Ed ecco la cagione di questa discordia. Era venuto nel tempo antecedente il vescovo Fidenzio dal castello di Giulio79 per [p. 126 modifica]volontà dei passati duchi, ad abitare fra le mura di Forogiulio, dove stabilì la sede del suo vescovato. Morto costui, fu ordinato vescovo in suo luogo Amatore. Vero è che sino a quel dì i passati patriarchi, non potendo abitare in Aquileja a cagione delle scorrerie dei Romani, aveano stabilita la loro sede non nel Forogiulio, ma in vece in Cormone. La qual cosa spiacque molto a Calisto, il quale era chiaro per nobiltà; cioè che nella propria diocesi abitasse il vescovo col duca e coi Langobardi, e che egli dovesse vivere soltanto in compagnia della plebe. Che più? Costui congiurò contro lo stesso vescovo Amatore, e scacciatolo da Forogiulio, [p. 127 modifica]andò egli medesimo ad abitare nella casa di quello. Per lo che il duca Pemmone con molti nobili Langobardi, prese una risoluzione contro lo stesso patriarca, e catturato, lo fece trasportare al castello Ponzio80, che posto è sopra il mare, e di là voleva farlo precipitare nelle acque. Tuttavia per la grazia di Dio non lo fece; ma ivi lo tenne imprigionato, sostenendolo in vita col pane della tribolazione. La qual cosa intesa dal re Liutprando, grandemente adirossi, e, tolto il ducato a Pemmone, pose Ratchi, suo figliuolo, in luogo di quello. Allora Pemmone delibeò di fuggire co’ suoi nella patria degli Schiavi: ma il figliuolo Ratchi intercesse colle preghiere dal re il perdono per il padre, e lo ritornò nella grazia reale. Onde Pemmone, sulla fede che non gli sarebbe fatto alcun danno, si diresse al re con tutti i Langobardi, coi quali avea preso consiglio. Allora il re, sedendo in tribunale, concedendo a Ratchi Pemmone e gli altri due suoi figliuoli Ratcait ed Aristulfo, comandò che si [p. 128 modifica]fermassero dietro al suo seggio: poscia levata la voce nominatamente ordinò che fossero catturati tutti coloro, che a Pemmone aveano aderito. Allora Aristulfo, non potendo raffrenare il dolore, era già, sguainando la spada, per ferire il re, se accortosi suo fratello Ratchi non lo avesse frenato. Per tal modo, legati tutti que’ Langobardi, uno di loro, detto Hersemar, sfoderala la spada, e animosamente difendendosi contro quelli che lo inseguivano, rifugiossi nella basilica di s. Michiele, e questi fu il solo che meritasse l’impunità dall’indulgenza del re, mentre gli altri furono lungo tempo cruciati tra i ceppi.


CAPO LII.

Guerra di Ratchi contro gli Schiavi.

Ratchi adunque, come dicemmo, divenuto duca del Forogiulio, entrato coi suoi nella Carniola, patria degli Schiavi, ne uccise una gran moltitudine, e tutte le cose loro ruinò. In questo luogo, essendogli improvvisamente venuti addosso gli Schiavi, prima che egli avesse preso dallo scudiere la propria lancia, alzata una mazza81 che [p. 129 modifica]portava in mano, colpì con quella il primo che a lui affacciossi, e lo stese morto.


CAPO LIII.

Come il re Liutprando tagliò i capelli a Pipino figliuolo del re Carlo.

D’intorno a questi tempi Carlo re dei Franchi mandò a Liutprando suo figliuolo Pipino, affinchè, secondo il costume, gli tagliasse i capelli; onde il re recidendogli la zazzera gli diventò padre, e regalatolo di splendidi doni reali, lo rimandò al genitore82.


CAPO LIV.

Come i Saraceni ritornati di nuovo nelle Gallie sono vinti dai Franchi: e come Liutprando andò in soccorso ai medesimi Franchi.

In quel medesimo tempo un esercito de’ Saraceni, entrato di nuovo nelle Gallie, vi fece grandissimo guasto. Contro costoro Carlo, non lunge da Narbona venendo a battaglia, ne fece come prima immenso macello. Un’altra volta i Saraceni sorpassati i confini dei [p. 130 modifica]Galli vennero fino in Provenza, e presa Arli ne devastarono tutti i contorni. Allora Carlo mandò legati con preziosi doni al re Liutprando per chiedergli soccorso contro i Saraceni, A. D. 739. il quale senza indugio marciò in suo ajuto con tutto l’esercito dei Langobardi. Ma ciò inteso dai Saraceni tosto fuggirono da quelle regioni: Liutprando poi ritorno con tutte le sue genti in Italia. Molte guerre lo stesso regnante fece contro i Romani, nelle quali sempre riuscì vittorioso: una volta sola in Arimini, lui assente, il suo esercito fu tagliato a pezzi, ed in altra occasione, stanziando egli nella Pentapoli, una gran moltitudine di coloro che portavano a lui piccoli doni, ossia presenti ed offerte di tutte le chiese83, presso il borgo Pileo furono o uccisi, o fatti prigionieri. Oltre a ciò mentre Ildebrando e Peredeo duca di Vicenza teneano Ravenna, improvvisamente assaltati dai Veneti84 fu preso da loro Ildebrando, e Peredeo coraggiosamente [p. 131 modifica]combattendo perì. In appresso i Romani gonfj del loro solito orgoglio, radunatisi tutti insieme, avendo alla loro testa Agatone duca de’ Perugini, vennero per pigliare Bologna, ove Valcari, Peredeo e Rotari se ne stavano allora a campo: i quali piombando sopra i Romani fecero grande carnificina, e i pochi rimasti si salvarono colla fuga.


CAPO LV.

Di Trasmondo duca di Spoleti: di Gisulfo Beneventano: di Gregorio, e del regno d’Ildeprando.

A questi giorni Trasmondo ribellò contro il re; onde questi, sopraggiunto coll’esercito lo stesso Trasmondo, fuggissi a Roma. Allora in suo luogo fu posto Ilderico. Morto poi Romoaldo il giovine, duca dei Beneventani, il quale per anni ventisei avea posseduto il ducato, gli successe suo figliuolo Gisulfo ancor pargoletto: contro il quale congiurando alcuni macchinarono d’ammazzarlo. Ma il popolo Beneventano, il quale fu sempre fedele ai suoi condottieri, gli spense, salvando così la vita del proprio duca. Non essendo per altro Gisulfo, a cagione dell’età sua puerile, idoneo a governare cotanto [p. 132 modifica]popolo sopravvenne il re Liutprando, e levatolo di là, costituì duca di Benevento suo nipote Gregorio, a cui fu data in matrimonio una donna di nome Giselberga. Così il re Liutprando riordinate le cose, ritornò al proprio soglio, ove educando con paterno amore il suo nipote Gisulfo, gli diede poi per moglie Conniberga, donzella nata da nobilissimo sangue. Finalmente lo stesso caduto in languore sembrava incamminarsi alla morte: onde i Langobardi reputando che egli dovesse finire, radunatisi fuori le mura della città nella chiesa della santa Madre di Dio, che chiamasi in Pertica, A. D. 736. proclamarono re suo nipote Ildeprando. Al quale mentre, secondo il suo costume, portavano lo stendardo, sulla sommità del medesimo sorvolando un cụculo venne a poggiarsi. Allora ad alcuni prudenti85 questo prodigio parve significare che sarebbe stato inutile il principato di quel figliuolo. Ma il re Liutprando, essendo venuto a cognizione di questo, glien dolse nell’animo: tuttavia guarito della sua infermità tenne suo figlio per compagno nel regno. Passati poscia alcuni anni, Trasmondo, che era fuggito a Roma, ritornando a [p. 133 modifica]Spoleto, spense Ilderico; e ardì nuovamente di ribellarsi contro il re.


CAPO LVI.

Come, morto Gregorio, Godescalco fu fatto duca di Benevento, e come il re Liutprando portò la guerra nella Pentapoli.

Ma Gregorio, dopo d’aver governato 7 anni il ducato di Benevento, morì. Dopo la sua morte, Godescalco, fatto duca, presiedette per un triennio ai Beneventani, ed accompagnossi in matrimonio con una donna chiamata Anna. A. D. 740. Ora il re Liutprando, udendo tali cose di Spoleto e di Benevento, andò nuovamente coll’esercito a quella volta, d’onde passato nella Pentapoli, mentre dirigevasi dalla città di Fano al foro Sempronio, gli Spoletani congiungendosi ai Romani in una selva, che è nel mezzo del cammino, danneggiarono grandemente il suo esercito. Allora il re pose nella retroguardia Ratchi e suo fratello Aistulfo colle genti Forogiuliane. Ma sopra di loro precipitati gli Spoletani ed i Romani, ne feriron parecchi: se non che Ratchi con suo fratello, ed alcuni altri valorosissimi, sostenendo tutto il peso di quella battaglia, e fortemente [p. 134 modifica]combattendo, ammazzati un gran numero di nemici, salvarono sè ed i suoi, eccetto che, come dissi, alcuni pochi feriti. Ivi un certo gagliardissimo Spoletano, detto Bertone, chiamando fortemente per nome Ratchi, tutto armato gli venne sopra. Ma Ratchi con una subita percossa lo gettò da cavallo. E mentre i suoi compagni stavano lì per ucciderlo, egli colla solita sua pietà volle lasciarlo fuggire. Onde costui colle mani e coi piedi strascinandosi carpone, entrato nella selva, scampò. D’altra parte sopra un certo ponte venuti alle spalle di Aistulfo due fortissimi Spoletani, rivolta egli la punta della lancia e feritone uno all’indietro, lo trabalzò da quel ponte. Poi subitamente scagliatosi contro l’altro, l’uccise e lo sommerse col suo compagno nel fiume.


CAPO LVII.

Di quello che Liutprando fece a Spoleti; e come Godescalco, intesa la sua venuta in Benevento, nell’atto che stava per fuggire, fu morto dai Beneventani.

Ma Liutprando giunto a Spoleto, espulse Trasmondo dal ducato, e lo fece far chierico, ponendo in luogo di lui suo nipote [p. 135 modifica]Agibrando. Essendosi poi avviato verso Benevento, intesa da Godescalco la sua venuta, tentò costui di allestire una nave, e fuggire in Grecia. Ma poichè ebbe imbarcato la moglie e tutte le sue suppellettili, nell’atto che stava per entrar nella nave, si avventarono contro di lui i Beneventani, fedeli a Gisulfo, e lo spensero. La moglie poi con tutti i suoi averi fu trasportata a Costantinopoli.


CAPO LVIII.

Ciò che lo stesso fece a Benevento; di Baodolino uomo santissimo, di Teudelapio e di Pietro vescovo Ticinense.

Allora il re Liutprando, arrivato a Benevento, A. D. 744. costituì nuovamente duca nella propria sede suo nipote Gisulfo; e così, composte le cose, si restituì al proprio palazzo. Questo re gloriosissimo, in onore di Cristo edificò molte basiliche per tutti i luoghi dove fu solito d’abitare. Egli istituì il monastero di san Pietro, posto fuori delle mura della città di Ticino, e chiamato Cielo aureo. Parimente fabbricò un monastero in cima dell’Alpe di Bardone, che si [p. 136 modifica]chiama Berceto86. Inoltre nel borgo di Olona87 edificò un tempio cristiano88 di mirabil lavoro in onore del martire s. Atanasio: dove anche fondò un cenobio. In simil maniera eresse per ogni dove un gran numero di chiese; e finalmente costrusse nella sua propria casa l’oratorio di s. Salvatore, e ciò che fatto non avea alcun altro re, istituì sacerdoti e chierici che gli cantassero ogni giorno i divini offizj. Ai tempi di questo re, in un luogo che chiamasi Foro89, presso il fiume Tanaro, splendeva un uomo di mirabile santità, e che con l’ajuto della grazia di Cristo operava molti miracoli: talchè spesso egli predicava il futuro, e le cose lontane quasi presenti annunziava. Una volta il re Liutprando essendo venuto a cacciare nel bosco d’Orba, avvenne che uno de’ suoi, mirando ad uccidere un cervo, con una freccia ferì in fallo il nipote dello stesso re, cioè il figliuolo di sua sorella di nome Aufuso. Il che vedendo lo stesso re, che amava [p. 137 modifica]grandemente il fanciullo cominciò a compiangere lagrimando, la sua sciagura, e incontanente mandò uno de’ suoi cavalieri in fretta all’uomo di Dio, Baodolino, pregandolo, che facesse orazione a Cristo per la vita del detto fanciullo. Mentre il cavaliere avviavasi al servo di Dio il fanciullo morì. Onde il profeta vedendolo arrivare così gli dice: So la cagione per cui tu vieni, ma ciò che tu domandi è impossibile, perchè il fanciullo è già morto. Le quali parole udite dal messo da quel servo di Dio e riferite al re, quantunque si affligesse egli per non aver potuto ottenere l’effetto della sua preghiera, tuttavia apertamente conobbe, che l’uomo del Signore, Baodolino, di spirito profetico era dotato. Non dissimile ad esso eravi un altro nella città di Verona di nome Teudelapio, il quale fra gli altri miracoli che operava, con ispirito di profezia prediceva pur molte volte le cose che erano per succedere. Nello stesso tempo fiorì per santità di vita e di azioni Pietro, vescovo della chiesa Ticinense, che per essere consanguineo del re, altra volta era stato da Ariperto confinato a Spoleto. Frequentando egli la chiesa del beato Sabino martire, lo stesso venerabile martire gli pronosticò che sarebbe per divenire [p. 138 modifica]vescovo di Ticino. Onde dopo che ciò è avvenuto questi edificò sul proprio terreno nel la città medesima una basilica al beato Sabino martire. Fra le altre virtù di ottima vita serbò eziandio intatto il fior virginale. Di questo personaggio poi narraremo a suo luogo alcun miracolo che fu operato in appresso. Ma il re Liutprando, poichè ebbe regnato anni trentuno e sette mesi, già pieno di età finì di vivere. Il suo corpo fu sepolto nella basilica del beato Adriano martire, dove anco riposa il suo genitore. Fu uomo di molta sapienza, di consiglio sagace, piissimo e sempre di pace amico: potente in guerra, coi malfattori clemente, casto, pudico, orator vigilante, largo nell’elemosine, ignaro bensì delle lettere, ma da uguagliarsi ai filosofi, nutritore del popolo, aumentator delle leggi90. Nel principio del suo regno prese molti castelli ai Bojoari: sempre più nelle orazioni che nelle armi fidò, sempre con grandissima cura coi Franchi e cogli Avari conservò la pace.


FINE DELLA STORIA.

  1. Orleanesi.
  2. Pernoctare, verbo usitatissimo (nota il dott. Bianchi Rer. Italic. t. 1. p. 490) presso gli antichi Cristiani in significato di recitare preghiere notturne e salmodie.
  3. Celebre è la questione, che insorse tra gli eruditi: circa la traslazione dei corpi di s. Benedetto e di sua sorella Scolastica. Si tratta di ben comprendere il luogo dello storico, il quale sembra contraddirsi col narrare cioè, che il corpo sia stato rapito dai Galli, e nello stesso tempo ivi sieno rimaste le ceneri. Io starei alla lettera, e intenderei, che i Franchi avessero trasportate le ossa soltanto, e che a Monte Cassino fossero restate alcune principali reliquie della bocca, degli occhi e d’altre membra, ridotte però sformate e disciolte dalla natural corruzione, a cui vanno soggetti i corpi dopo la morte. Chi volesse conoscere a fondo la controversia dei dotti, ricorra ad una nota del Bianchi nell’opera testè citata.
  4. Conservatore del luogo. L’originale: loci servatorem. Così chiamavansi, secondo il Cujacio (lib. III. cap. 14 ), coloro che erano mandati a giudicare delle cause.
  5. L’eresia de’ Monoteliti, secondo i cronologi sti, ebbe principio fino dall’anno 616.
  6. Variano gli scrittori sul numero dei vescovi che intervennero a questo sinodo. V’ha chi lo porta fino al 289.
  7. Altri storici descrivono la stessa cosa.
  8. L’origuale: anathematis ultione perculsi.
  9. L’originale: exsequente et residente.
  10. Non convengono i cronologisti col Diacono intorno al tempo di questa ecclissi. Il Pagi pone la lunare nell’anno 680, e la solare un anno prima.
  11. Se vogliamo esser giusti, dobbiamo dire, che i colori, con cui è descritta la pestilenza (e particolarmente la immagine dei due angeli) hanno un non so che di grande e terribile, che poco di più lascia a desiderare in argomento di simil genere.
  12. Ved. nella prima parte p. 76, annot. 1.
  13. L’originale: una de majusculis musca, altri: de aviculis musca.
  14. Il nostro testo: filiorum, altri: fidelium.
  15. A questo passo di Paolo nota il Muratori (Ann. d’Ital. sotto l’anno 693): «In que’ tempi dell’ignoranza anche un solo buon grammatico si teneva per una rarità; e questi tali poi insegnavano non solamente la lingua latina, che sempre più si andava corrompendo presso popolo, e prendeva la forma della volgare italiana; ma eziandio spiegavano i migliori autori latini, e davano lezione di quelle che appelliamo lettere umane».
  16. Il nostro testo: virgilias, altri: vigilias. I sani critici stanno alla nostra lezione. Le stelle, dette dai Latini Virgiliae, sono le stesse che i Greci chiamavano Plejadi.
  17. Dubitano i comentatori se qui debba leggersi ejus minor filius Justinianus, ovvero ejus filius Justinianus minor. Pare che lo storico intenda il minor non in senso del minore di tutti i figliuoli, ma solamente di età minorenne, perchè Giustiniano successe all’imperator Costantino di appena sedici anni.
  18. Altri: transmaria. Notano gli storici essere stata questa pace perniciosissima al romano impero.
  19. Spatharii erano quelli che noi chiamiamo guardie del corpo (corporum custodes).
  20. Contrastano i cronologisti circa l’anno di questo avvenimento, ma i più esatti lo pongono sotto il 691.
  21. Altri storici asseriscono, che Tiberio, detto prima Absimero, dopo aver preso l’imperatore, gli fece tagliare il naso, poscia il relegò in un monastero delle Dalmazia, ossia in un luogo chiamato Delmato.
  22. Chi amasse un’ampia narrazione di questo avvenimento, legga fra gli altri il cardinale Noris c. 1, §6.
  23. Θεοτόκος.
  24. Rammenta qui il rito della veste candida, usata nel battesimo, come simbolo dell’innocenza che si riacquista, purgando con l’acqua il peccato di origine.
  25. In questo epitafio, composto di rozzi versi latini, sono espresse le azioni del re Cedoaldo. Autore di questi versi si crede essere s. Benedetto arcivescovo di Milano.
  26. L’originale: majores domus regalis. Negli Annali de’ Franchi, pubblicati dal Piteo, si descrive l’uffizio di questi Maggiordomi, Provveditori dell’aula regale (Provisores Regis aulae), Prefetti di palazzo (Praefecti palatii), i quali aveano tutto il potere reale. A nome del re però scriveansi le carte e i privilegi, e quegli che ne portava il nome, condotto sul carro da’ buoi nel campo di Marte, posto in luogo eminente, era veduto una sola volta all’anno dal popolo, e ricevea le pubbliche offerte, alla presenza del maggiordomo; poscia annunziava ai popoli tutte le cose che doveano farsi entro l’anno. Compiuta poi questa cerimonia, il re tornava nel suo palazzo, e tutti gli affari del regno si amministravano dal maggiordomo. In quante cose, mutate soltanto alcune forme, le faccende odierne di parecchi governi non si assomigliano esse alle antiche!
  27. Altri: Georgii. Il dott. Bianchi nota, che gli abitanti di Cornate conservano ancora la tradizione della vittoria de’ Longobardi, e che sono molto devoti a s. Giorgio.
  28. Nota il Lindenbrogio, che nell’autore della vita di Carlo Magno, pubblicato dal Piteo, si nominano altre macchine militari, dette in latino barbaro clitae, petrariae, mangatelli etc. Quanto a quest’ultima voce suppone il detto Piteo significare ciò che i Galli dicono mantellos, mantellettos. Noi Veneti e Trivigiani non ripeteremo d’altra fonte la origine del nome manganello, che è uno stromento di legno di varie forme, che serve e per percuotere e per levar pesi.
  29. L’originale: pseudo-regem.
  30. Circa questo costume, così il Lindenbrogio: «Si usava di radere gli schiavi e i prigioni di guerra.
    Sic tonso occipiti senex Sicamber
    Postquam victus es, elicis retrorsum
    Cervicem adveterem novos capillos. Sidon. Apoll. lib. VIII. epist. 9.
    E Ovidio:
    Jam tibi captivos mittet Germania crines,
    Cultu triumphatae munere gentis eris.
    Anche presso altri antichi popoli dee credersi praticato questo costume: onde nel Deuteronomio, parlandosi d’una donzella schiava: Quae radet caesariem et circumcidet ungues, et deponet vestem in qua capta est: perciò spessissimo si leggono le parole decalvari, verberarique». Altre testimonianze riferisce lo stesso Lindenbrogio, che si trovano in Cedrevo, in Agatia ec.
  31. Castello oggi detto in italiano Chiavenna, in tedesco Claven. Notissima ai nostri giorni la Val di Chiavenna nei Grigioni.
  32. Curia oggi per alterazione di vocabolo in italiano Coira, città de’ Grigioni. Questi popoli sono discendenti degli antichi Reti.
    Videre Rhæti bella sub alpibus
    Drusum gerentem et Vindelici. (Horat. Carmin. lib. IV. oda 4.)
  33. L’originale: despicabilem personam.
  34. L’originale: voluntate foeminea.
  35. L’originale: in eorum vicinia.
  36. Era una specie di luogotenente regio, come il gastaldo. Nelle leggi saļiche e longobarde trovasi spesse volte usata la voce Schuldhais. L’Enardo la deriva dal tedesco heischen (esigere), e da Schuld (debito), d’onde il composto Schuldheis, Scultetus. Nella lingua germanica schultheis e schulze significa propriamente esattore.
  37. Arga, voce ingiuriosa, come presso gli Ebrei Raca. Il Lindenbrogio la reputa proveniente in prima origine dal greco ἀργόν (pigro, vile). Nelle leggi Longobar. tit 120, paragr. Si quis alium arga per furorem clamaverit, et negare non poterit, et dixerit quod per furorem dixisset, tunc juratus dicat, quod eum Arga non cognoverit.
  38. L’originale: facie rusticana.
  39. Sarebbe desiderabile, che questo duca avesse lasciato in retaggio una tale virtù ai posteri illustri del paese da lui governato.
  40. L’originale ha Suram, Romanorum civitatem, Hirpinos atque Arcem; ma il Cluverio opina che debba leggersi: Soram, Arpinum, Arcem, atque Aquinum. Di Sora (così chiamata anche oggi), antico castello de’ Sanniti, d’Arce (Arx) posto fra Arpino ed Aquino, luoghi notissimi nelle antichità Romane, si può vedere un’ampia illustrazione nel citato Cluverio (pag. 1046, e seg.)
  41. L’originale: virtute.
  42. Qui il Muratori: Horrea, cioè i Granai. Noi abbiamo Morrea, luogo notato nelle Tavole del Magini; questo nome probabilmente è fallato ( Annal. all’anno 702 ).
  43. La Chiesa godeva ne’ vecchi tempi alcuni Patrimonj nell’Alpi Cozie, che erano stati occupati o dai Longobardi, o da altre private persone. Erano questi Patrimoni beni allodiali (Su questa donazione vedi Murat. all’anno 707).
  44. L’originale: ad vestigia Apostolorum.
  45. L’originale: bonae opinionis fama flagravit.
  46. L’originale: ac remisit.
  47. Qual fortuna per un popolo l’esser soggetto ad un simile principe! Ma queste orribili crudeltà non poteano aver luogo che ne’ secoli della barbarie e dell’ignoranza.
  48. Intorno ai patriarchi della Chiesa Aquilejese è da consultarsi il P. De Rubeis nell’insigne opera dei Monumenti di detta chiesa. Non sono pure da disprezzarsi le storie mss. di Jacopo di Valvason, da noi più volte citate.
  49. Da sè solo il pontefice non fece tale ripulsa, ma per consiglio della Sede Apostolica. Intende dunque lo Storico, che Apostolica Sedes fosse un nome collettivo. Altri testi hanno anzi: Apostolicae Sedis concilio, a differenza del nostro, che legge: Sedes.
  50. Qual perdita per la storia delle belle arti!
  51. A quel tempo non v’erano libri, nè giornali, nè viaggiatori che dessero contezza dello stato delle nazioni; e oltre a ciò gli stranieri erano assai più dabbene di quel che non erano gl’Italiani.
  52. Il nostro testo: Aream; ma i critici affermano la vera lezione essere Nicaeam, accordandosi questa colla storia, la quale attesta, che l’imperatore Anastasio riparossi appunto a Nicea.
  53. L’originale: ad unam et semis staturam.
  54. L’originale: praecipuus extitit. Nota il Bianchi: «Pipino ebbe due figliuoli, Drogone e Grimoaldo, da Plettrude, e due, Carlo, e Chilperico, da Alpaide. Carlo, soprannominato Martello, s’impossessò del regno dopo la morte del padre, prima della quale era già avvenuta quella di Drogone e di Grimoaldo» (Rerum Italic. ibid. p. 503.)
  55. L’originale: viros fortissimos.
  56. Il Bianchi riferisce la elezione di Romoaldo all’anno 707, e ad altro tempo più addietro è posta da Camillo Pellegrino. Ma il Muratori (Annal. all’anno 702 ) lascia la questione indecisa per mancanza di documenti.
  57. Questo Pontefice, per testimonianza del Bianchi e del Muratori nelle citate opere, è Gregorio secondo, e non Gregorio terzo, come male afferma Leone Ostiense.
  58. L’originale: simplicibus viris.
  59. L’originale: seniorem.
  60. Il Bianchi, osserva dietro il Mabill, ch’erano passati almeno 135 anni.
  61. L’originale: nobilium et mediocrium.
  62. Narrano i cronologisti, che questo prezioso codice fu abbruciato insieme col monastero nell’anno 896. V’ha però chi afferma essersi salvato dalle fiamme l’ultimo capitolo del libro (Rer. Ital. p. 503).
  63. Carlo Martello.
  64. La prima battaglia fu data sul fiume Amblava (volgarmente Ambleve) nel ducato di Lussemburgo nell’anno 716, la seconda nell’aprile dell’anno seguente in un luogo dello Vinciaco nel borgo Cameracense (ora Chambery), e la terza nella provincia Andegavense (Anjou, in Ital. Angiò) nel 719.
  65. Carlo Martello colla riputazione delle armi si fece strada al dominio di tutta la Francia. Colla forza dunque e col senno egli piantò le radici della potenza di sua famiglia. Togliendo però ai monasterj ed alle chiese, e donando a’ suoi uffiziali, mostrò di stimare assai più l’amor dei soldati, che non le benedizioni del clero.
  66. L’originale: vestigia, altri: vestibula.
  67. Di questo luogo non si ha notizia particolare. Per similitudine di nome si potrebbe credere essere il villaggio che oggi chiamasi Lavariano; ma essendo esso posto alla parte meridionale della città di Udine, non può supporsi che tanto innanzi fossero iti gli Schiavi, mentre il duca Pemmone risiedeva nel Forogiulio.
  68. Non v’è forse nazione sulla terra, che al contatto d’un popolo che è salito per tutti i gradi della civiltà dei secoli, sia rimasta così abbietta come gli Schiavi, che abitano le montagne superiori del Friuli. Al tempo indicato da Paolo Diacono essi erano anco nell’armeggiare competitori de’ Friulani; ma ora sono nello stesso miserabile stato, a cui li ridusse il duca Forogiuliano. Eppure se alcuno di loro per fortuna si solleva dalla comune abbiezione, e si toglie da que’ luoghi, spiega tosto quella stessa vivacità d’ingegno che è propria degli uomini di altri colti paesi. Dunque la natura ha fatto tutto per que’ popoli: la sola mancanza di buone istituzioni è la cagione della costante loro miseria.
  69. La città ora detta Ceuta in faccia a Gibilterra.
  70. Quella provincia di Francia, che ora si chiama Guienne (Guienna), e forma i seguenti dipartimenti, cioè Gironda, Dorgogna, Lon e Garonna, Lot, Aveyron, Lande, Gers, Alti Pirenei, ed inoltre una parte di quelli dei Bassi Pirenei, dell’Alta Garonna e dell’Arriege (Ved. il Dizion. Geograf. Mil. 1813).
  71. Il Bianchi pone questo fatto sotto l’anno 717
  72. Ora Narni, città della Romagna, già celebrata dagli antichi scrittori.
  73. I cronologisti pongono la detta occupazione di Ravenna sotto l’anno 726.
  74. Ponte Salaro, sopra il fiume Aniene, quattro miglia distante da Roma sulla via Salaria che conduce ai Sabini (Ved. Ferrario).
  75. Questo luogo di Paolo vendica dalla calunnia i romani pontefici, accusati di aver fomentato ne’ popoli lo spirito di ribellione contro l’imperatore.
  76. Di questi luoghi così il Cluverio (pag. 293): Buxetum, volgarmente Bussetto, è posto ne’ dintorni di Cremona, vicino al Po: Persicetum, ora chiamato S. Giovanni in Persiceto, nove miglia circa distante da Modena. Dall’altra parte verso l’Apennino sta Mons Bellius, in lingua volgare Monte Veglio, Vejo. Quanto a Foronianum, sospetta il Cluverio che vi sia errore di lezione nel testo, e che debba leggersi Foronovanum, e sia quello ora chiamato Fornuovo.
  77. Osimo, città nella marca d’Ancona.
  78. Ora Sutri, negli stati della Chiesa.
  79. Giulio Carnico, ora Zuglio. L’argomento di questa controversia è ampiamente discusso dal più volte citato P. De Rubeis (pag. 319 e seg.). Noi qui ad illustrazione del patriarcato di Calisto, riporteremo solo alcune iscrizioni longobarde, che si trovano sul battisterio da esso eretto, e da noi mentovato alla pag. 264 nella prima parte di questa storia. E sono le seguenti. Nelle parti superiori dell’ottagono si vede tirata una linea con quest’epigrafe in caratteri longobardici. -- Quos regat Trinitas vera ex aqua et Spu renatus fuerit nisi testante vitam Do quisnon videbit aeternam mysticum baptismate sacrabit veniens xps. hoc in Jordanem nilens piorum patuit regnum tegurium cernites vibrante marmorum scema quod Calisti beati ornabi. -- Sotto li quattro animali poi tenenti un libro, e che rappresentano i quattro evangelisti, si leggono questi versi:
    Hoc Matthaeus agens hominem generaliter implet.
    Marcus ut alta fremit vox per deserta Leonis.
    Jura sacerdotis Lucas tenet ore juvenci
    More volans Aquilae verbo petit astra Johannes.
    Hoc tibi restituit Siguald Babtesta Johannes.
  80. Dai contrassegni del sito qui dati da Paolo si deduce chiaramente esser questo l’antico castello Pucino, tanto celebrato da Plinio. Deduco dunque per certo, che Pontium sia errore degli amanuensi, e che si debba leggere Pucinum (probabilmente Castel Duino).
  81. Il testo: clava, altri: securi.
  82. Vedi nella prima parte la nota 1. alla pag. 240.
  83. L’originale: munuscula, vel xenia, vel singularum ecclesiarum dona.
  84. Questo fatto dal Muratori (Annal.) è posto sotto l’anno 729. Nota lo stesso Muratori, che si dee lode al valore fino in que’ tempi riguardevole de’ Veneziani, che seppero condurre a sì segnalata vittoria la loro armata navale.
  85. L’originale: aliquibus prudentibus.
  86. Il monastero di Berceto è appellato di S. Abondio.
  87. L’originale: In Olonna suo prohastio dal greco πράζειον, in latino suburbanum.
  88. L’originale: Christo domicilium.
  89. Foro di Fulvio, ossia Valentino, oggidì Valenza presso il fiume Tanaro (Murat. all’ann. 744).
  90. Le leggi di Liutprando furono aggiunte a quelle de’ suoi predecessori, e trovansi nella collezione delle leggi longobardiche.