Storia dei fatti de' Langobardi/Libro V
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Traduzione dal latino di Quirico Viviani (1826-1828)
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DEI FATTI
DE’ LANGOBARDI
LIBRO V.
CAPO I.
Come Grimoaldo, confermato nel regno, prese in moglie la figliuola del re Ariperto.
Confermato pertanto Grimoaldo nel regno A. D. 662. in Pavia, dopo menò in moglie la figliuola del re Ariperto fidanzatagli da gran tempo, della quale avea egli ucciso il fratello Godeberto. Indi rimunerato con larghi doni l’esercito Beneventano, coll'ajuto di cui avea conquistato il regno, rimandollo alle proprie terre. Solamente ritenne alcuni ad abitare con sè, investendoli di amplissime possessioni.
CAPO II.
Della fuga di Bertarido, e come siasi questi restituito a Grimoaldo, e poi nuovamente fuggito in Francia.
Poichè seppe costui, che Bertarido era passato profugo nella Scizia, e che dimorava presso Cacano, mandò legato allo stesso Cacano re degli Avari, intimando, che se avesse ritenuto nel regno suo Bertarido, non avrebbe in avvenire mantenuta la pace, che prima aveva avuta co’ Langobardi, ed allora pure con esso. Il che udito dal re degli Avari, chiamato a sè Bertarido gli disse: se ne andasse dove volesse, affinchè per sua cagione non s’inimicassero gli Avari coi Langobardi. Bertarido adunque avendo ciò inteso, restituissi in Italia e si diresse a Grimoaldo, poichè avea udito costui essere clementissimo. Ed essendo arrivato alla città di Lodi, mandò innanzi di sè al re Grimoaldo Unulfo suo fedelissimo, affinchè gli partecipasse la sua venuta. Onde Unulfo presentatosi al re, gli annunziò come Bertarido ivi giungeva alla sua fede commesso1. Alle quali parole il re francamente rispose, che rimettendosi egli alla sua fede, non gli sarebbe accaduto alcun male. Intanto giunse Bertarido, e presentatosi a Grimoaldo, mentre s’affaticava a prostrarsi ai piedi di lui, il re benignamente il rattenne e lo sollevò in vicinanza della sua bocca e baciollo, Al quale Bertarido: Io sono, disse, tuo servo, e sapendo che tu sei cristianissimo e pio, fidando nella tua clemenza, sono venuto a’ tuoi piedi. Cui il re, giurando come era solito, così gli riconfermò la promessa: Per quello che mi ha fatto nascere, dappoichè tu vieni a commetterti alla mia fede, non sarai molestato da alcuno; anzi io per te provvederò in modo che tu possa vivere onestamente. E subito fattogli allestire in vasto palagio l’alloggiamento, lo invitò a riposarsi dalle fatiche della vita, ordinando, che del pubblico gli fosse abbondantemente somministrato il vitto, ed ogn’altra cosa che potesse essergli necessaria. Ora andando Bertarido all’alloggiamento dal re fattogli apparecchiare, incontanente cominciarono ad accorrere in folla dintorno a lui le turbe dei cittadini Ticinensi o per vederlo, o a motivo della primiera ricordanza di sua conoscenza, per salutarlo. Ma che non può mai avvelenare una perfida lingua?2 Immediatamente corsero al re alcuni adulatori maligni, denunziandogli, che se non facesse senza indugio ammazzar Bertarido, egli stesso quanto prima perderebbe il regno e la vita: asseverando, che a questo fine tutta la città correvagli intorno. Alle quali parole Grimoaldo dando troppo presta credenza, e dimenticandosi delle sue promesse, accendesi tosto del pensiero della morte dell’innocente Bertarido3, e prende la deliberazione di privarlo (poichè già l’ora era tarda) nell’indomani di vita. Per la qual cosa nella sera mandogli parecchi cibi, con vini potenti4 e varj altri generi di bevande per poterlo ubbriacare, fintantochè in quella stessa notte, dal tanto bere estenuato, nel sonno e nel vino sommerso5, non potesse più in alcun modo pensare alla propria salute. Allora un tale, ch’era stato de’ fedeli servidori del padre suo, mentre portava a Bertarido la regale vivanda6, come in atto di fargli riverenza, mise il capo sotto la tavola, e segretamente gli disse, che il re avea deliberato di farlo morire. Ciò inteso Bertarido subitamente ordinò al suo coppiere, che non versasse nella sua caraffa d’argento altro che un poco d’acqua. E quando coloro che le diverse sorti di pozioni da parte del re gli portavano dicevangli, che per amore di lui bevesse tutto il bicchiere, egli prometteva loro di vuotarlo tutto in suo onore, ma non bevea dall’argenteo suo calice che un sorso d’acqua. I quali ministri avendo annunziato al re, che quegli ingordissimamente beveva, il re stesso, rallegrandosi, rispose loro: Beva pure quell’ubbriacone: domani vomiterà que’ vini mescolati col sangue. Ma Bertarido, chiamato a sè tostamente Unulfo, gli significò come il re avea macchinato di ucciderlo. E Unulfo mandò incontanente un servo alla propria casa, a prendere un materasso7, e questo fece riporre accanto al letto di Bertarido. Nè andò guari, che il re Grimoaldo inviò i suoi satelliti a circondare la casa, in cui dormia Bertarido, affinchè non potesse in alcun modo fuggire. Finita dunque la cena, ed essendo tutti partiti, rimasero con Bertarido solamente Unulfo e il suo cameriere8, i quali erano a lui fedelissimi. Allora Unulfo manifestò al cameriere il divisamento che avea concepito, e pregò, che mentre Bertarido si dava alla fuga, egli quanto potesse più a lungo, desse ad intendere che riposava nella sua camera9. Ed avendo questi promesso di farlo, Unulfo pose intorno alle spalle ed alla testa di Bertarido i lenzuoli del letto, una coltre ed una pelle d'orso, e poi a bello studio, come fosse un rustico villanzone cominciò a cacciarlo fuori, e caricandolo d’ingiurie, lo batteva al di dietro con un bastone, finchè a forza di spintoni e di battiture lo fece stramazzare per terra. La qual cosa vedendo i satelliti del re, che ivi stavano a guardia, ed avendo domandato ad Unulfo che fosse: Codesto mascalzone (rispose) mi avea apparecchiato il letto nella camera di quell’ubbriaco di Bertarido, il quale è talmente pieno di vino, che dorme in guisa che sembra un morto. Ma basti che fin qui io abbia seguito la sua balordaggine, poichè d’ora in poi, per la vita del re nostro signore io rimarrò in casa propria. Udite da costoro tali parole, e credendole vere, tutti si rallegravano, e sì a lui che a Bertarido (da loro creduto il servo, poichè avea il capo coperto per non essere conosciuto) diedero luogo, e li lasciaron passare. Intanto, essendo usciti que’ due, il fedelissimo cameriere, chiusa diligentemente la porta, solo rimase al di dentro. Unulfo poi calò giù Bertarido con una corda dall’angolo del muro, che guarda dalla parte del fiume vicino, e quanti più compagni potè ad esso riunì: i quali, pigliati i cavalli che trovarono al pascolo, nella stessa notte andarono alla città di Asti, dove trovavansi molti amici di Bertarido. Bertarido poi ratto passò alla città di Torino: indi tragittate le montagne che chiudon l’Italia10, giunse alla patria dei Franchi. Così Dio onnipotente, per sua misericordiosa disposizione, un innocente liberò dalla morte, ed il re, ch’era buono di cuore, preservò dall’offesa.
CAPO III.
Della clemenza del re Grimoaldo verso Unulfo, e del cameriere di Bertarido.
Intanto credendo Grimoaldo che Bertarido dormisse nel suo alloggiamento, da quel luogo fino al suo palazzo fece schierare di qua e di là file di soldati, affinchè Bertarido fosse condotto per mezzo di loro, e non potesse di niuna banda fuggire. Ma quando i commessi vennero per chiamar Bertarido a palazzo, e batterono a quella porta, entro la quale pensavano ch'ei riposasse, il cameriere che ivi era rinchiuso si mise a pregarli dicendo: abbiate compassione di lui: lasciatelo quieto anco un poco: egli è stanco del viaggio e dorme profondamente. Ed avendo essi acconsentito alla sua richiesta, andarono a riferire al re, che Bertarido profondamente dormiva. Allora il re: jersera colui cotanto empiessi di vino, che ancora non ha potuto svegliarsi11. Nondimeno comandò loro che andassero a destarlo e lo conducessero tosto a palazzo. Costoro dunque tornati alla porta della camera, in cui speravano che Bertarido dormisse, si posero ancor più fortemente a picchiare. Parimente il cameriere di bel nuovo cominciò a supplicarli, che un pocolino ancora lo lasciassero riposare. Ma costoro irritati, gridando che quell’ubbriaco ha dormito abbastanza, in un istante a furia di calci rompono la porta di quella stanza, e entrati dentro cercano Bertarido nel letto; e non avendolo veduto sospettano che se ne fosse ito a soddisfare i bisogni della natura. Ma nè pur ivi avendolo ritrovato, interrogano quel cameriere, che avvenuto fosse di Bertarido? E quegli rispose, che se ne era fuggito. Allora essi infuriati lo prendono pei capelli, e strascinatolo al cospetto del re, gridano esser costui complice della fuga di Bertarido, e perciò essere reo di morte. Ma il re ordinò che fosse lasciato, e poscia lo interrogò per ordine in qual modo Bertarido fosse fuggito. Ed egli raccontò al re come la cosa era passata. Ciò udito il re domandò ai circostanti: che s’ha da fare di un uomo che fece tal cosa? Tutti risposero ad una voce essere costui degno di morire tormentato da mille supplizj. Ma il re: Per colui, che m’ha posto al mondo disse, è meritevole d’aver bene quest'uomo. che non ricusò di esporsi alla morte, per serbar fede al proprio signore. E subito volle che fosse nel numero de’ suoi camerieri, ammonendolo a mantenergli la stessa fede che avea usato verso di Bertarido; e promettendo di rimunerarlo largamente co’ suoi benefizj. Ricercando poi lo stesso re che fosse avvenuto di Unulfo, gli fu riferito che erasi rifugiato nella basilica del beato Michele Arcangelo12. E il re tosto mandò a lui, promettendogli spontaneamente, che nessun male gli avrebbe fatto, purchè sulla sua fede fosse venuto. Udita tale promessa del re, Unulfo incontanente venne a palazzo, e prostrato ai reali suoi piedi, fu interrogato dallo stesso quando e come Bertarido avesse potuto scappare. E poichè Unulfo gli narrò per ordine tutte le cose, il re encomiata la sua fede e la sua prudenza, gli concesse benignamente tutte le sue facoltà, e tutte le altre cose che potevangli appartenere.
CAPO IV.
Come Grimoaldo mandò Unulfo e il cameriere di Bertarido al medesimo Bertarido.
Avendo ricercato alquanto tempo dopo il re ad Unulfo: ameresti tu ora di trovarti con Bertarido? Egli rispose: giuro, che vorrei piuttosto morire con Bertarido, di quello che vivere altrove nelle delizie più amabili della vita. Poscia il re stesso domandò al cameriere se gli piacesse meglio di restar nel suo palazzo, oppur vivere in esilio con Bertarido: e questi avendo data la medesima risposta di Unulfo, il re udì benignamente le loro parole, e lodando la loro fede, ordinò ad Unulfo che pigliasse dalla sua casa ciò che più a lui fosse aggradevole, cioè servi, cavalli e diverse suppellettili, e che sicuro se n’andasse a trovar Bertarido: e in pari modo licenziò il cameriere: onde ambidue, secondo la cortesia del re, prendendo ciò loro abbisognava, colla salvaguardia del re medesimo, s’incamminarono al dilettissimo Bertarido nella patria de’ Franchi.
CAPO V.
Guerra di Grimoaldo contro i Franchi e sua vittoria.
A questo tempo un esercito di Franchi uscito dalla sua provincia13 entrò in Italia. Contro i quali marciando Grimoaldo alla testa de’ Langobardi ingannolli con questo artifizio. Simulando adunque di fuggire la loro furia14, abbandonò gli alloggiamenti conducendo via tutti i suoi, lasciando però i padiglioni pieni di diverse vivande, e specialmente di gran copia d’ottimo vino. Ivi essendo arrivate le falangi de Franchi, stimando che Grimoaldo ed i Langobardi dalla paura atterriti avessero lasciato il campo così provveduto15, riempiuti d’improvvisa allegria affollati si gettano addosso a ogni cosa, e imbandiscono una lautissima cena. E poichè pasciuti dalle diverse vivande, ed ubbriacati dal vino si diedero in preda al sonno, dopo la mezza notte piombò loro addosso Grimoaldo, e ne fece sì grande macello, che appena qualcheduno potè scampare e restituirsi alla patria. Il luogo dove nacque questa distruzione de’ Franchi16, fino al dì d’oggi chiamasi Rivolo17, ed è poco distante dalle mura della città di Asti18.
CAPO VI.
Come Costante Augusto venne in Italia, ed assediò Benevento.
A. D. 662.A questi tempi Costantino Augusto, chiamato parimenti Costante, voglioso di trarre l’Italia dalle mani de’ Langobardi, partito da Costantinopoli s’incamminò lungo la riviera fino ad Atene: e di là tragittato il mare sbarcò alla città di Taranto19. Ma prima di tutto andò a visitare un certo eremita20, che di spirito profetico diceasi dotato, e diligentemente lo interrogò s’egli avrebbe potuto vincere e soggiogare la nazione de’ Langobardi, che abitava in Italia. Ed avendo quel servo di Dio domandato il tempo di una notte per consultare sopra la stessa cosa il Signore, fattosi giorno così rispose ad Augusto21: La nazione Langobarda ora non può essere più vinta da chicchessia. Dopo che una certa regina venuta da una provincia straniera fondò la basilica di s. Giovanni Battista nel territorio dei Langobardi, lo stesso Santo, mercè di questo, intercede continuamente per loro. Ma verrà il giorno, in cui questo medesimo tempio sarà profanato22, e allora perirà tutta quella nazione. Il che noi abbiamo conosciuto dover accadere23; perchè prima della ruina dei Langobardi, vedemmo la stessa basilica del beato Giovanni, la quale è collocata in un sito che chiamasi Modicia, essere da vilissimi uomini amministrata, talchè quel venerando luogo agl’indegni e agli adulteri, non già per i meriti della vita, ma pei regali fu dato in balìa.
CAPO VII.
Grimoaldo, invitato da suo figliuolo Romoaldo, giunge a Benevento.
Adunque, come dicevamo, essendo giunto Costante Augusto a Taranto, uscito di là andò ad assalire il paese de’ Beneventani, e prese quasi tutte le città de’ Langobardi, per le quali era passato. Fra queste con grand’impeto espugnata Luceria24, ricca città della Puglia, la spianò fino a terra. Non così fu d’Arenzia25, ch’egli non potè prendere, per essere questa in luogo fortissimo collocata. Dopo circondò con tutto l’ esercito Benevento, e gagliardamente si pose a combatterla. Ivi Romoaldo figlio di Grimoaldo teneva il ducato ancor giovincello: il quale appena seppe l’arrivo dell’imperatore, inviò Sesualdo suo ajo26 al padre Grimoaldo al di là del Po, supplicandolo a venire quanto più presto potesse a soccorrere possentemente il suo figliuolo e i Beneventani, ch’egli medesimo avea nudriti. Ciò udito, il re Grimoaldo, subitamente mosse l’esercito verso Benevento in soccorso di suo figliuolo. Ma parecchi fra i Langobardi lo abbandonaron per via, e si restituirono alle proprie case dicendo, che siccome avea spogliato il palazzo, perciò se n’andava a Benevento per non più ritornare. Intanto l’esercito dell’imperatore con diverse macchine battea Benevento, mentre dall’altra parte Romoaldo coi Langobardi valorosamente si difendeva. Questi, quantunque pel poco numero de soldati non s’arrischiasse con tanta moltitudine ad aperta battaglia, tuttavia frequentemente con drappelli di gagliardi giovani scagliandosi sul campo nemico, facea d’ogni parte grandissima strage. Quando appressandosi ognor più il padre Grimoaldo, mandò quello stesso, di cui qui sopra abbiamo parlato, ad annunziargli la sua venuta. Il quale arrivato in vicinanza di Benevento, fu pigliato dai Greci, e tradotto dinanzi all’imperatore. Ed essendo da lui interrogato donde venisse, quegli rispose che veniva da Grimoaldo, ed annunziogli che quel re era prossimo ad arrivare. Per lo che l’imperatore impaurito, consigliò co’ suoi di patteggiare con Romoaldo in modo da potersene ritornare a Napoli.
CAPO VII.
L’imperatore, ricevuta in ostaggio la sorella di Romoaldo, parte da Benevento.
Ricevuta adunque in ostaggio la sorella di nome Gisa, l’imperatore fece con esso la pace 27. Fece poi condurre l’ajo Sesualdo alle mura della città, minacciando di dargli morte, se avesse fatto parola a Romoaldo, oppure ai cittadini della venuta di Grimoaldo; anzi gl’intimò di affermare, non poter esso in alcun modo venire. La qual cosa promise di fare come gli fu comandata. Ma quando fu prossimo alle dette mura, disse, che bramava di veder Romoaldo; e questi essendo subito sopraggiunto, così l’ajo gli favellò: sii costante, o mio signore Romoaldo, e non ismarrirti nella tua speranza; perchè tuo padre è già per arrivare a darti soccorso. Sappi, egli è collocato con un valoroso esercito sul fiume Sangro28: solamente io ti supplico di usar misericordia a mia moglie ed ai miei figliuoli; poichè questa perfida gente non mi lascierà in vita. Ciò detto per comando dell’imperatore gli fu troncata la testa, e con una macchina militare, detta petraria29, fu lanciata nella città. La qual testa Romoaldo ordinò che fosse recata a sè, la baciò piangendo, e la fece porre in onorevole sepoltura.
CAPO IX.
Del modo con cui Micola, capitano Capuano, travagliò l’esercito dell’imperatore.
Temendo adunque l’imperatore che giungessegli addosso il re Grimoaldo, levato l’assedio di Benevento, s’incamminò verso Napoli. Ma Micola30, conte di Capua, si mosse contro di lui presso le rive del fiume Calore31, e maltrattò fieramente il suo esercito in luogo, che fino al dì d’oggi chiamasi Pugna.
CAPO X.
Come Romoaldo sconfisse Saburro mandato dall’imperatore con ventimila soldati.
Ma dappoiché l’imperatore giunse a Napoli, uno de’ suoi ottimati, per nome Saburro, gli domandò ventimila soldati, promettendo di azzuffarsi con Romoaldo e di riportarne vittoria. Costui perciò, ottenuto l’esercito, e giunto ad un luogo che si chiama Forino, ivi accampossi. La qual cosa udita da Grimoaldo, arrivato già a Benevento, voleva egli subito andargli contro: quando Romoaldo suo figliuolo gli disse: Non è bisogno, ottimo padre mio, che tu ti mova32; basta solo che tu mi conceda una porzione del tuo esercito. Io con l’ajuto del Signore combatterò con esso, e quando avrò vinto, maggiore si farà la gloria della tua potenza. Così fu; poichè presa egli una parte delle falangi del padre, e parimente alcuni dei suoi, si rivolse contro Saburro. Prima di venir a battaglia, da quattro parti fece suonare le trombe, poscia animosamente si slanciò sopra i nemici. E mentre entrambi gli eserciti con grande accanimento pugnavano, uno dell’esercito del re, detto Amalongo, il quale era solito portare l’asta, percotendo d’ambe le mani colla medesima asta un certo Grechetto33, lo trasse dalla sella, sovra cui cavalcava, e lo sollevò alto nell’aria sopra la propria testa. Il che vedendo l'esercito de’ Greci, preso da immenso spavento si diede alla fuga, finchè compiutamente disfatto, col fuggire a sè procacciò morte, ed a Romoaldo ed ai Langobardi vittoria. Così Saburro, il quale erasi millantato di recare al suo imperatore il trofeo della vittoria sui Langobardi, ritornando con pochi de’ suoi, ne riportò invece ignominia. Romoaldo poi, vincitore de’ suoi nemici, trionfante tornossene a Benevento, ove, dissipata la paura dell’inimico, al padre contento, e agli altri apportò sicurezza.
CAPO XI.
Dei mali da Costante Augusto recati ai Romani, de’ saccheggi che fece a tutti i paesi, e come fu estinto.
Ma vedendo Costante Augusto di non aver fatto ai Langobardi alcun danno, ritorse tutte le minaccie di sua crudeltà contro i suoi, vale a dire, i Romani. Onde uscito da Napoli, ed avviatosi verso Roma, sei miglia distante dalla città, gli andò incontro il papa Vitaliano, alla testa dei sacerdoti e del popolo: e quando il detto imperatore giunse alle porte di santo Pietro gli offerse un manto tessuto d'oro34; ma fermatosi in Roma dodici giorni prese tutti gli oggetti di bronzo, che anticamente erano stati formati per fregio della città, di maniera che la stessa basilica di Santa Maria, che una volta chiamavasi il Panteon, per essere stata fabbricata in onore di tutti gli Dei; e poscia per concessione de’ principi predecessori era divenuta il tempio di tutti i martiri, fu da lui discoperta, e levate via le tegole di metallo, insieme con tutti gli altri ornamenti, le trasmise a Costantinopoli. Indi l’imperatore restituitosi a Napoli, recossi per terra alla città di Reggio, ed entrato in Sicilia nella ultima indizione, si fermò in Siracusa, e travagliò il popolo (ossia gli abitatori, o dicansi piuttosto i possessori della Calabria, della Sicilia, dell’Africa, e della Sardegna) con tali oppressure, che mai più per lo innanzi non furono udite, tanto che le mogli dai mariti, e i figliuoli dai padri furono separati. Nè questi solamente; ma molti altri guai non più intesi patirono i popoli di quelle contrade, a tal segno che a nessuno non era rimasa più speranza di vita. Fin anco i vasi e i cimelj 35 delle chiese sante di Dio, per comando imperiale, e per l’avarizia dei Greci furono tutti involati. Questo imperatore stette in Sicilia dalla settima indizione fino alla duodecima: ma finalmente pagò A. D. 668. il fio di tante iniquità, poichè mentre si lavava in un bagno fu ammazzato da’ suoi36.
CAPO XII.
Dell’imperio di Mecezio e della sua morte.
CAPO XIII.
Come i Saraceni provenienti da Alessandria saccheggiarono la Sicilia, e fecero bottino di tutto ciò che Costante Augusto aveva trasportato da Roma.
All’udire sì fatte cose le genti Saracine, che aveano occupato già Alessandria e l’Egitto39, vennero all’improvviso con una grande armata navale ad assalire la Sicilia, ed entrati in Siracusa fecero grande strage de’ popoli, talmentechè si salvarono soltanto alcuni pochi o in luoghi fortificati, o sulle cime delle montagne. Ivi fecero pure gran preda, eziandio di quegli ornamenti di bronzo e di diverse altre sorti, che Costante Augusto avea trasportato da Roma: dopo di che si restituirono ad Alessandria.
CAPO XII.
Della morte di Gisa sorella di Grimoaldo.
Intanto la figliuola del re, che dicemmo essere stata presa in ostaggio, poichè venne in Sicilia, passò all’altra vita.
CAPO XV.
Delle pioggie e de’ tuoni, che a quel tempo caddero in grandissima copia.
CAPO XIII.
Come il re Grimoaldo accomodò il duca Trasemondo presso Spoleti, e gli diede in moglie la propria figliuola.
Ma Grimoaldo, liberato ch’ebbe i Beneventani e le provincie loro dai Greci, disponendo di ritornare al suo palazzo nella città Ticinense, diede in matrimonio una sua figliuola, altra sorella di Romoaldo, a Trasemondo, il quale era stato già conte di Capua40, e col suo grande valore aveagli giovato ad acquistare il regno: e poichè l’ebbe fatto duca di Spoleti dopo Ottone (di cui abbiamo parlato di sopra), si restituì a Ticino.
CAPO XVII.
Come dopo Grasulfo, Agone ottenne il ducato del Friuli, e dopo di lui Lupo fu fatto duca.
CAPO XVIII.
Come il duca Lupo si ribellò contro Grimoaldo.
Ma Lupo, avendo insolentemente adoperato in Ticino nell’assenza del re, siccome quegli che si credeva, che più non fosse per ritornarsene, vedendolo poi di ritorno, e conoscendo che le sue male azioni gli avrebbero dispiaciuto, passò a Forogiulio, dove, già conscio della propria reità, contro il re medesimo ribellossi.
CAPO XIX.
Come lo stesso duca mosse la guerra agli Avari.
Allora Grimoaldo, non volendo che si suscitasse la guerra civile fra i Langobardi, scrisse a Cacano re degli Avari, che venisse con un esercito nel Forogiulio contro il duca Lupo, e lo distrugesse colle sue armi: ciò che realmente fu fatto. Perciocchè venendo: Cacano con grande esercito in un luogo che chiamasi Fiume42, come ci raccontarono alcuni vecchi, che furono in quella battaglia, il duca Lupo combatté tre interi giorni coi Forogiuliani, contro le genti di Cacano. E veramente nel primo giorno ruppe quel fortissimo esercito, feriti soltanto alcuni pochi de’ suoi; nel secondo giorno, feriti e morti alquanti altri de’ medesimi, uccise parimente molti degli Avari; nel terzo, feriti e caduti buon numero de’ suoi, ciò non ostante sbaragliò le genti di Cacano, e conquistò un copioso bottino. Ma finalmente nel quarto giorno i Forogiuliensi videro venirsi addosso sì gran moltitudine, che appena poterono salvarsi fuggendo.
CAPO XX.
Della morte del duca Lupo, e come gli Avari saccheggiarono il paese de’ Forogiuliani.
Ivi adunque essendo stato ucciso il duca Lupo, gli altri che rimasero si fortificarono nelle castella. Ma gli Avari, scorrendo per tutte le loro terre, misero a ruba ogni cosa, oppure vi appiccarono il fuoco. La quale strage avendo per parecchi giorni continuato, fu loro fatto dire da Grimoaldo, che desistessero dal saccheggiare; ed essi mandarono a rispondergli, che non avrebbero abbandonato il Friuli, perchè dalle proprie armi acquistato.
CAPO XXI.
Come gli Avari, i quali non voleano partire dal Friuli, ne furono scacciati con astuzia da Grimoaldo.
Allora Grimoaldo, sforzato dalla necessità, ordinò che si radunasse un esercito per iscacciare gli Avari fuori de’ propri confini. Ordinando egli adunque i suoi accampamenti contro i nemici43, ed arrivatigli ambasciadori di Cacano, siccome quegli che avea poche genti, quelle che seco avea con diversi abiti e diverse armi vestite, fece passare e ripassare dinanzi agli occhi dei predetti legati, di maniera che parea un novello esercito ognor sopraggiungere. Allora gli ambasciadori, vedendo il medesimo esercito in così differenti foggie passare, credettero ivi essere un’infinita moltitudine di Langobardi; onde Grimoaldo così disse loro: Con quella moltitudine d’armati che voi vedeste, io subitamente piomberò sopra Cacano, e distruggerò le sue genti, se quanto prima non usciranno dal paese dei Forogiuliani. Ciò veduto e udito dai legati degli Avari, avendone costoro dato avviso a Cacano, se ne ritornò egli subito con l’esercito al proprio regno.
CAPO XXII.
Di Varnefrido figliuolo di Lupo.
Morto Lupo nel modo che abbiamo di sopra narrato, Varnefrido suo figliuolo volle nel luogo del padre ottenere il ducato di Forogiulio; ma temendo le forze del re Grimoaldo, rifugiossi alla nazione schiava in Carnunto, che corrottamente chiamavano Carantano44. Costui poscia ritornatosene alla testa degli Schiavi, quasi per volere colle loro forze riacquistare il ducato, i Forogiuliani presso il castello di Nemas45, (il quale è posto in vicinanza del Forogiulio) gli si precipitarono sopra e l’uccisero.
CAPO XII.
Vettari duca de’ Forogiuliani e sua vittoria.
Dopo queste cose fu costituito duca del Forogiulio Vettari46, oriundo della città di Vincenza, uomo benigno, che governava dolcemente il popolo. Ora avendo inteso la gente degli Schiavi, che egli era partito per la città di Ticino47, radunarono una grossa moltitudine per assaltare il castello de’ Forogiuliani. Per lo che vennero ad accamparsi in un luogo che chiamasi Broxa48, non molto distante dal Forogiulio. Ma secondo la divina disposizione accadde, che il duca Vettari, all’insaputa degli Schiavi, la sera innanzi giungesse là da Ticino. E poichè i suoi cavalieri49 (come si suol fare) eransi ritornati alle loro case, essendogli arrivato sì fatto annunzio degli Schiavi, con pochi uomini, cioè con venticinque, marciò contro di loro. Onde gli Schiavi, vedendolo venire con sì scarso numero, si misero a deriderlo dicendo: ecco il patriarca che viene coi chierici contro di noi. Ma Vettari essendosi avvicinato al ponte del Natisone50, il quale è posto nel sito ove risiedevano gli Schiavi, strappandosi l’elmo (aveva egli la testa calva) mostrò il suo volto agli Schiavi; ed allora avendo essi conosciuto esser quegli Vettari improvvisamente atterriti si misero a gridare Vettari Vettari: onde così spaventandogli Iddio pensano anzi alla fuga che alla battaglia. Allora Vettari, piombato sopra di loro coi pochi che avea, ne fece cotanta strage, che di cinquemila uomini appena alcuni poterono scampar colla fuga51.
CAPO XXIV.
Morte di Vettari, a cui succede Laudari52, e a questi Rodoaldo, il quale dopo di lui tenne il ducato.
Dopo questo Vettari fu concesso a Laudari il ducato del Forogiulio; e morto costui, gli successe Romoaldo nel predetto ducato.
CAPO XXV.
Come Grimoaldo maritò la figliuola del duca Lupo a suo figliuolo Romoaldo.
Morto dunque, come dicemmo, il duca Lupo, il re Grimoaldo diede in matrimonio la figliuola di lui, per nome Teodorada, al suo figlio Romoaldo, il quale reggeva Benevento. Da essa Romoaldo generò tre figli, cioè Grimoaldo, Gisulfo, ed Arichi53.
CAPO XV.
Grimoaldo si vendicò de’ suoi derisori.
Dopo di questo il re Grimoaldo vendicò i torti fattigli da tutti coloro, che l’aveano abbandonato quando era partito per Benevento.
CAPO XXVII.
Come Grimoaldo espugnò e distrusse il Foro-Popilio.
Ruinò similmente nel modo che ora dirò il Foro-Popilio54, città de’ Romani, i cittadini della quale, nel suo passaggio per Benevento, gli aveano recati non pochi travagli, ed aveano maltrattati più volte i messi55 di lui, che andavano e tornavano da quella città. Nel tempo della quaresima56 entrò poi per l’alpe di Bardone57 nella Toscana, affatto all’insaputa de’ Romani, e improvvisamente assalì la sopraddetta città nello stesso sacratissimo sabbato pasquale, nel tempo in cui si somministrava il battesimo, dimodochè fino i diaconi, che battezzavano i bambolini, nello stesso sacro fonte affogava58. E talmente egli disfece quella città, che anco al dì d’oggi essa è quasi affatto vuota d’abitatori.
CAPO XXVIII.
Dell’odio di Grimoaldo contro i Romani.
Grande era l’odio, che avea concepito Grimoaldo contro i Romani, poichè altra volta sulla propria fede aveano tradito i fratelli di Tasone e Cacone. Per la quale cagione egli avea distrutto fino dalle fondamenta la città d’Opitergio, nella quale essi furono uccisi; e partì fra i Forogiuliensi, i Trevigiani, ed i Cenedesi, il territorio di coloro che ivi abitavano59.
CAPO XXIX.
Di Alzecone duca de’ Bulgari, e come fu stabilito co’ suoi a Benevento.
A questo tempo il duca de’ Bulgari, di nome Alzecone, non si sa per qual cagione partito dalla patria, entra pacificamente in Italia, e con tutta la gente del suo ducato viene al re Grimoaldo, offerendosi di servirlo, e d’abitare nel suo paese. Onde questi lo diresse a suo figliuolo Romoaldo in Benevento, e gli comando che gli concedesse luoghi d’abitare unitamente al suo popolo. E Romoaldo lietamente gli accolse, ed assegnò loro spaziosi terreni per abitare, i quali fino a quel tempo erano rimasti deserti, cioè Sepiano60, Boviano, Issernia, ed altre città coi loro territorj, ordinando, che il predetto Alzecone, cangiato il nome della dignità di duca, si chiamasse Gastaldo61. Ed anco al dì d’oggi coloro, che abitano in cotesti luoghi, quantunque parlino pure latinamente62, tuttavia non hanno perduto l’uso della propria lingua.
CAPO XXX.
Come, morto il tiranno Mecezio, Costantino fu fatto principe de’ Romani, in luogo di Costante Augusto.
Essendo stato ucciso, come abbiamo narrato, Costante Augusto in Sicilia, e punito il tiranno Mecezio, che era a lui succeduto, Costantino, figliuolo di Costante Augusto, prese a governare il regno de’ Romani, sopra i quali imperò63 diciasett’anni. Ai tempi A. D. 668. di questo Costantino, Teodoro arcivescovo64, ed Adriano abate65, uomini l’uno e l’altro dottissimi, mandati dal papa Vitaliano nella Bretagna, fecondarono molte chiese Inglesi col seme della cristiana dottrina. Di questi due Teodoro fu quello, che descrisse con maraviglioso e distinto intendimento66 i giudizj de’ peccatori, cioè quanti anni ciascheduno per un solo peccato debba fare di penitenza.
CAPO XXXI.
Della stella Cometa e delle opere del papa Dono.
L’anno dopo di questo, nel mese di agosto67, dalla parte d’Oriente, comparì una stella cometa di fulgidi raggi68, la quale poco dopo ritornata indietro disparve. Dopo immediatamente, una grave pestilenza sopraggiunse dalla stessa parte d’Oriente a desolare il popolo Romano. A questi giorni il papa Dono fece mirabilmente lastricare di grandi bianchissimi marmi un luogo della chiesa Romana, dinanzi alla basilica del beato Pietro, che chiamasi Paradiso69.
CAPO XXXII.
Come Bertarido deliberò d’andare al regno de’ Sassoni nella Bretagna.
In questa medesima età Dagoberto governava nelle Gallie il regno de’ Franchi, col qual Dagoberto il re Grimoaldo avea stipulato grandissima pace. Perciò Bertarido (quantunque ricoverato nella patria de’ Franchi), temendo delle forze del detto Grimoaldo, partì dalla Gallia, e s’affrettò di rifugiarsi presso il re de’ Sassoni, nell’isola della Bretagna.
CAPO XXXIII.
Morte del re Grimoaldo, ritorno e regno di Bertarido.
Ma il re Grimoaldo, il nono giorno dopo una flebotomia70, stando nel suo palazzo, dato di piglio all’arco mirò a ferir una colomba colla saetta, dal che avvenne che la vena del braccio si ruppe. Onde i medici, avendo a lui medicine avvelenate apprestato lo privarono tostamente di vita. A. D. 671. Costui aggiunse quei capitoli di legge, che gli parvero utili, all’editto composto dal re Rotari71. Gagliardissimo egli era di membra, sommo in audacia, testa calva, folta barba non meno di mente che di forze dotato72. Fu sepolto il suo corpo nella basilica del beato Ambrogio confessore, ch’egli stesso avea da prima edificato nella città Ticinense. Grimoaldo, dopo la morte del re Ariberto, passato già un anno e tre mesi, occupò il regno de’ Langobardi73, e regnò nove anni, lasciando re suo figliuolo Garibaldo, d’età ancor fanciulletto, che avea avuto dalla figlia del re Ariberto. Ma Bertarido, come avevamo cominciato a narrare, partendo dalla Gallia montò in una nave per farsi trasportare all’isola di Bretagna nel regno de’ Sassoni. Ed avendo già navigato alquanto nel mare, udissi una voce dal lido che gridava, se Bertarido si trovasse su quella nave. Alla qual voce essendo stato risposto, che ivi appunto trovavasi Bertarido; colui che avea domandato soggiunse: Ditegli che ritorni nella sua patria, che oggi tre giorni è morto Grimoaldo. La qual cosa udendo Bertarido, tornò subito indietro, ed approdato al lido, non potè trovare la persona che gli avea annunziato la morte di Grimoaldo: onde s’immaginò questo essere stato non uomo, ma messo divino. Di là dirigendosi verso la patria, giunto ai confini d’Italia74, ivi trovò essersi apparecchiata tutta la servitù di palazzo, i dignitarj della corona75 ed una grande moltitudine di Langobardi. Così Bertarido, restituitosi nel la città di Ticino, ed espulso il fanciulletto Garibaldo dal regno, dalla università de’ Langobardi fu costituito nel regno nel terzo mese dopo la morte di Grimoaldo. Era egli uomo pio, di fede cattolico, tenace della giustizia, e de’ poveri larghissimo nudritore. Egli immediatamente mandò a Benevento, e richiamò la moglie Rodelinda e il figliuolo suo Cuniberto.
CAPO XXXIV.
De’ monasterj da lui e dalla regina sua moglie edificati.
Poichè Bertarido ebbe acquistato i diritti del regno, A. D. 673.da quella parte del fiume Ticino, dove egli era da tempo fuggito, edificò un monasterio che si domanda Nuovo a Dio Signore e liberator suo, in onore della beata Agata vergine e martire; nel quale raduno molte vergini76, e parimente arricchì quel luogo di diversi ornamenti. Dall’altro canto la regina Rodelinda sua moglie fabbricò con meraviglioso lavoro e decorò di splendidissimi addobbi la basilica della santa Madre di Dio fuor delle mura della stessa città Ticinese, in una parte che si chiama alle Pertiche77. Questo luogo poi si chiama alle Pertiche, perchè ivi una volta stavano rizzate alcune pertiche o travi, le quali per la ragione che ora dirò, secondo l’usanza de Langobardi, si solevano collocare. Se adunque alcuno in qualche lontana parte o in guerra, o in qualunque altra siasi maniera fosse morto, i suoi consanguinei piantavano una pertica fra i loro sepolcri, in cima della quale mettevano una colomba fatta di legno rivolta dove era morto il loro diletto: e ciò affinché si potesse sapere da qual parte riposasse il defunto78.
CAPO XXXV.
Di Bertarido, e del regno di suo figliuolo Cuniberto.
Avendo dunque regnato Bertarido solo sette anni, nell’anno ottavo associossi nel regno il figliuolo suo Cuniberto, col quale continuò a regnare dieci anni.
CAPO XXXVI.
Della prima ribellione di Alachi e come fu ristabilito in grazia.
Ma mentre vivevano pacificamente e per tutto era tranquillo all’intorno, si levò contra di loro un figliuolo della iniquità, che chiamavasi Alachi79, pel quale, turbata la pace nel regno de Langobardi, furono fatte immense stragi di popoli. Essendo costui duca della città di Trento, venne a battaglia col conte de’ Bajoari, ch’essi dicon Gravione80, il quale reggeva Bauzano81 con altri castelli, e riportò sopra di lui una segnalata vittoria. Per la qual cosa insuperbitosi, levò la mano contro il suo re Bertarido, e ribellato si fortificò nel castello di Trento. Contro costui avanzatosi il re Bertarido, mentre lo assediava al di fuori, all’impensata Alachi sbucato dalla città scompigliò gli accampamenti del re, e costrinse lui stesso a fuggire. Tuttavia essendosi poco dopo intromesso Cuniberto figliuolo del re, che già molto lo amava, egli rientrò ben tosto in grazia di Bertarido. Avendo alcuna volta il re tentato di uccidere Alachi, Cuniberto sempre gli si opponeva, pensando che per l’avvenire gli dovesse restare fedele. Nè mai rifinì di pregare il padre, finchè non gli ebbe concesso il ducato di Brescia, reclamando peraltro sempre Bertarido, che Cuniberto lavorava per la propria rovina, somministrando forze per regnare al nemico82. Perciochè la città di Brescia avea una grande moltitudine di nobili Langobardi, coll’ajuto de’ quali temeva Bertarido, che Alachi divenisse più del dovere potente. A questi medesimi giorni il re Bertarido edificò nella città Ticinese una porta di mirabil lavoro contigua al palazzo, la quale perciò chiamasi Palatina83.
CAPO XXXVII.
Della morte di Bertarido e del regno di Cuniberto.
Poiché Bertarido ebbe regnato per anni diciasette,A. D. 688. primieramente solo, e poscia insieme con suo figliuolo, da questa passò all’altra vita84, e il suo corpo fu sepolto appresso la basilica del Salvatore, già edificata da suo padre Ariberto. Fu egli di conveniente statura, assai corpulento85, e in ogni sua azione mite e soave. Ora il re Cuniberto menò in moglie Ermelinda della stirpe de’ Sassoni Inglesi. La quale avendo veduta nel bagno una donzella nata da nobilissimo sangue romano, di corpo elegante e di biondi e lunghi capelli, quasi fino ai piedi adornata, ne lodò la bellezza al marito suo Cuniberto. Costui dissimulando il piacer che sentiva nell’udir ciò dalla moglie, arse però di vivissimo amore per la fanciulla. Onde senza indugio andò alla caccia in una selva, che chiamano Orba86, e volle che lo acccompagnasse la sua moglie Ermelinda. Poscia partito di là notte tempo restituissi a Ticino, e fatta venire a sè la fanciulla Teodete si giacque con lei. In appresso egli la collocò in un monastero della città di Ticino, a cui fu dato il nome di lei medesima87.
CAPO XXXVIII.
Come Alachi occupò il palazzo di Cuniberto.
Ma finalmente Alachi partorì la iniquità, che già da gran tempo avea concepita88, in ciò secondato da Aldone, e Grausone cittadini Bresciani, non che da molti altri fra i Langobardi. Costui postergati i grandi benefizj, de’ quali avealo colmato il re Cuniberto, e conculcato eziandio il giuramento con cui aveva promesso d’essergli fedelissimo, trovandosi assente il detto re Cuniberto andò ad occupare il regno di lui, e la reggia stessa posta nella città di Ticino. La qual cosa udita da Cuniberto dal luogo dove trovavasi, riparò ad un’isola, la quale è situata nel lago del Lario in vicinanza di Como, ed ivi validamente fortificossi. Allora insorse grande tribolazione in tutti quelli che amavano il re, e massimamente nei sacerdoti, e nei chierici, i quali tutti erano in odio di Alachi. Era a quel tempo vescovo della Chiesa Ticinese un uomo di Dio di nome Damiano, in santità segnalato e nelle arti liberali a sufficienza istruito. Questi vedendo che Alachi avea occupato ivi il palazzo, affinché non facesse patire nè ad esso, nè alla sua Chiesa qualche sinistro, inviogli Tommaso suo diacono, uomo religioso e sapiente, per cui trasmise nello stesso Alachi la benedizione della sua santa Chiesa. Essendo perciò annunziato ad Alachi che Tommaso diacono se ne stava dinanzi alla porta, e che arrecava la benedizione del vescovo, Alachi, che come dicemmo, aveva tutti in odio i diaconi, così parlò a’ suoi: Andate, dite a colui: Se ha nette le brache entri; se no, stia di fuori. Onde Tommaso udendo tale ambasciata rispose: Riferitegli che le mie brache son nette, e che oggi appunto le calzai di bucato. Al che Alachi: Andate di nuovo, e ditegli, che io non parlo delle brache, ma delle cose che stanno dentro le brache. Alle quali parole Tommaso rispose: andategli a dire: Dio solo in sì fatto argomento può trovare in me motivo di riprensione: Alachi nol può. Finalmente Alachi avendo fatto venire dinanzi a sè questo diacono, molto aspramente e villanamente gli favellò. Allora in tutti i chierici e sacerdoti invalse paura ed odio di quel tiranno, pensando essi di non poter tollerare la sua crudeltà. Per la qual cosa, tanto più crebbe in loro il desiderio di Cuniberto, quanto maggiore esecrazione li prese per quel superbo usurpatore del regno. Ma la ferità e cruda barbarie di cotestui non molto a lungo l’usurpato regno potè mantenere.
CAPO XXXIX.
Come Cuniberto rientrò nel proprio palazzo.
Ora in un certo giorno contando Alachi alcuni soldi sopra la tavola, caddegli in terra un denaro89, che un figliuolo di Aldone ancor pargoletto raccolse, e restituì allo stesso Alachi. Al quale costui, sperando che per essere fanciulletto poco intendesse, così favellò: Molti di questi ne ha tuo padre che fra non molto, a Dio piacendo, ei mi darà. Tornato la sera il fanciullo alla casa paterna, fu interrogato dal padre suo quali parole in quel giorno dal re avesse udito. Ed egli raccontò al padre tutto quanto era accaduto, e ciò che il re avea pronunciato. Ciò inteso, Aldone grandemente s’intimorì, e rintracciato il fratello Grausone, comunicogli tutto ciò che il re malignamente avea favellato. Onde senza indugio convennero cogli amici, e con tutti quelli, ne’ quali si poteano fidare, consigliando in qual maniera potessero privare il tiranno Alachi del regno, prima che egli stesso potesse loro portare qualche offesa. Andati dunque per tempo90 a palazzo favellarono in questa guisa ad Alachi: Come mai stimi tu di startene serrato nella città, mentre essa e tutto il popolo ti sono fedeli? e quell’ubbriacone di Cuniberto troyasi talmente disfatto, che non può più riavere le minime forze. Esci ora mai, vattene alla caccia, e ricreati per un poco in compagnia de’ tuoi servi, mentre noi col rimanente de’ tuoi fedeli staremo a difesa della città: e di più ti promettiamo di portarti in breve la testa del nemico tuo Cuniberto. Perciò persuaso costui delle loro parole, uscì di città, ed avviossi ad Orba, vastissima selva, dove cominciò a divertirsi colle cacciagioni e col giuoco. Intanto Aldone e Grausone passarono al lago di Como, e montata una nave si diressero a Cuniberto. Al quale arrivati gli si prostrarono ai piedi, confessando di aver contro di lui iniquamente operato, e facendogli sapere ciò che Alachi avea maliziosamente detto contro di loro, nonchè qual consiglio essi gli aveano dato per condurlo alla sua perdizione. Che più? Piansero insieme, e fra di loro si diedero sacramento, ordinando il giorno della venuta di Cuniberto, per potere essi dargli in mano la città Ticinense. Ciò che in punto è avvenuto: perciocchè nel giorno stabilito Cuniberto giunto a Ticino, e da essi a braccia aperte accettato, fece l’ingresso nel suo palazzo. Allora tutti i cittadini, e specialmente il vescovo, sacerdoti, chierici, giovani e vecchi a gara ad esso accorrendo, tutti mescendo gli amplessi alle lagrime, con inesprimibile allegrezza esalavano i ringraziamenti al Signore pel ritorno di questo re. Ed egli come meglio poteva tutti consolava e baciava. Mentre ciò accadeva, giunse un messaggio ad Alachi, che Aldone e Grausone aveano adempiuto ciò che gli aveano promesso, portando cioè la testa di Cuniberto; e non solamente la testa, ma tutto il corpo, ed affermando ch’ei già sedea nella reggia. Il che udito, fu costernato grandemente nell’animo, e furibondo e fremente grandi minaccie scagliò contro Aldone e Grausone, poscia di là partito per la via di Piacenza, passò nell’Austria91, ove le città tutte parte colle lusinghe, parte colla forza a sè collegò. Perciocchè giunto a Vicenza i cittadini di quella uscirono in campo per dargli battaglia, ma poi vinti da lui divennero suoi alleati. Da Vicenza andò ad occupare Trevigi, e similmente tutte le altre città. Intanto radunandosi da Cuniberto un esercito contro di lui, e volendo i Friulani, secondo la fede loro, andare in ajuto del medesimo Cuniberto, Alachi s’appiattò in un bosco che dicesi Cavolano92, presso al ponte del fiume Livenza, il quale è distante 48 miglia dal Foro-Giulio, sulla strada che conduce a Pavia: ed ivi giungendo a piccoli drappelli l’esercito de’ Friulani, colui a mano a mano che comparivano gli sforzava a fargli giuramento, diligentemente avvertendo, che alcuno di quelli non ritornasse indietro a darne l’avviso agli altri. Così tutti quelli che venivano dal Foro-Giulio, furono legati ai suoi giuramenti. Che più? Tutta l’Austria fu unita ad Alachi, e d’altra parte Cuniberto, venendo co’ suoi, ambidue nel campo che chiamasi Coronata93 piantarono gli alloggiamenti.
CAPO XL.
Battaglia di Alachi contro Cuniberto.
Allora Cuniberto mandò un messo ad Alachi, disfidandolo a singolare battaglia per non travagliare entrambi gli eserciti. Alle quali parole non volle condiscendere Alachi, e sorgendo ivi un tale di origine Tosco, e mettendosi a persuaderlo, bellicoso e forte chiamandolo, d’andare animosamente contro di Cuniberto, Alachi a queste parole rispose: Quantunque Cuniberto sia un ubbriacone e di stupido cuore, è però molto audace e di maravigliosa fortezza. Costui, vivente suo padre, quando noi eravamo ancor giovincelli, trovandosi nel suo palazzo alcuni montoni94 di smisurata grandezza, li afferrava per la lana della loro schiena, e disteso il braccio levavali alto da terra: la qual cosa non poteva far io. Il che udendo quel Tosco soggiunse: Se tu non hai cuore di venire a duello con Cuniberto95, non m’avrai più per compagno in tuo ajuto. In questo dire si tolse di là, e volò a Cuniberto, a cui raccontò queste cose. Schieraronsi adunque, come dicemmo, ambi gli eserciti nel campo di Coronata: ed essendo già lì lì per venire alle mani, Zenone, diacono del la chiesa Ticinense, che era custode della basilica del beato Gio: Battista, situata dentro la stessa città, e fabbricata già tempo dalla regina Gundeberga, amando grandemente il re, e temendo che perisse in battaglia, gli favello in questa guisa: Signore e re mio, tutte le nostre vite stanno nella tua salvezza: se tu morrai nella battaglia, codesto tiranno Alachi ci spegnerà tutti con diversi tormenti. Piacciati dunque il consiglio mio. Presta a me le tue armi, ed io andrò e combatterò col tiranno. Se cadrò, tu riprenderai la tua causa: se poi sarò vincitore, maggior gloria ti ridonderà d’aver vinto per via d’un tuo servo. Ed avendo il re negato di far questa cosa, alcuni suoi pochi fedeli, che erano ivi presenti, cominciarono lagrimando a pregarlo, che volesse assentire a quello che il diacono avea domandato. Onde ei finalmente, siccome era, d’umanissimo cuore, dalle preghiere e lagrime loro vinto, porse al diacono l’usbergo, l’elmo, gli schinieri ed il restante delle armi, e così in persona sua lo mandò alla battaglia. Era lo stesso diacono della sua medesima statura e andamento, di modo che uscendo armato dal padiglione, fu creduto da tutti esser esso il re Cuniberto. Allora s’appiccò la zuffa, e di ogni parte si combatté con grandissimo accanimento. Onde Alachi intento maggiormente al luogo ove credeva essere il re, nell’atto che stimò di uccidere Cuniberto ammazzò invece Zenone diacono. Perciò quando diede ordine che gli fosse troncata la testa, affinchè con questa, sollevata sopra una picca, si rendessero grazie al Signore, cavatogli l’elmo s’accorse d’aver ammazzato un chierico. Allora furibondo: Ahi! disse, nulla feci io, se ho fatta tal guerra per uccidere un chierico. Or dunque voglio far voto, se Dio nuovamente mi darà vittoria, d’empiere un pozzo di membri di chierici.
CAPO XLI.
Continua la guerra di Cuniberto e di Alachi. Vittoria di Cuniberto, e suo trionfo nell'entrare a Ticino.
Ma veggendo Cuniberto la perdita de’ suoi si fece loro vedere, e incontanente, cessato il timore, li confortò nella speranza della vittoria. Riordinansi tosto le schiere, e quindi Cuniberto ed Alachi si dispongono alla sorte della battaglia. Ed essendosi approssimati già per venire alle mani entrambi gli eserciti, Cuniberto di nuovo così mandò a dire ad Alachi: Ecco quanto popolo dall’una e dall’altra parte è adunato: ma a che fine dovrà perire tanta gente? combattiamo dunque noi due corpo a corpo, e quegli, a cui Dio vorrà donar la vittoria, sia signore di tutto questo popolo salvo ed intero. Ed essendo Alachi esortato da’ suoi a far ciò a che Cuniberto l’avea invitato, egli rispose: Nol posso fare, perchè in mezzo de’ suoi stendardi vedo l’immagine di san Michiele Arcangelo al quale feci io giuramento. Allora uno de’ suoi: La paura ti fa vedere quel che non è, e troppo tardo è per te il meditar queste cose. Così ambi gli eserciti a suon delle trombe vicendevolmente s’azzuffano, e nessuna parte non cedendo terreno all’altra, si fa immensa strage di gente. Alla fine il crudele tiranno Alachi perì, e Cuniberto per grazia di Dio guadagnò la vittoria. Parimente l’esercito di Alachi, vista la morte di lui, tentò salvarsi fuggendo; ma coloro che poterono scampar dal ferro, dal fiume Adda furono tutti affogati. Fu tagliata la testa ad Alachi, e mozzategli pure le gambe in modo che informe e monco cadavere rimase al suolo. A questa battaglia non intervenne l’esercito de’ Friulani, perchè essi avendo violentemente fatto giuramento ad Alachi, per questo appunto non vollero prestar ajuto nè al re Cuniberto, nè allo stesso Alachi; ma quando questi due capi sono venuti a battaglia, i Friulani se ne ritornarono al proprio paese. Morto dunque in questa maniera Alachi, il re Cuniberto fece magnificamente seppellire il corpo di Zenone diacono dinanzi alle porte della basilica di s. Giovanni, che egli medesimo avea edificato. Poscia così raffermato nel regno96, in mezzo all’allegrezza ed al trionfo della vittoria, restituissi a Ticino.
- ↑ Il nostro testo: Berlaridum in ejus fide adventare nuntiavit. Altri: ad ejus fidem confugere.
- ↑ Il testo: quid non mala lingua irrumpere potest? La versione rendendo un po’ più viva l’immagine, în nulla non altera il senso.
- ↑ In innocentis Bertaridi statim necem accenditur.
- ↑ Il testo: vina praecipua.
- ↑ Il nostro testo: resolutus, vinoque sepultus. Altri: vino somnoque sepultus. Il secondo è lo stesso Virgiliano somno, vinoque sepulti (Æneid. lib. IX. v. 236).
- ↑ Il nostro testo: ferculum. Altri: poculum.
- ↑ L’originale: lectisternia.
- ↑ L’originale: vestiarius.
- ↑ I testi a questo luogo sono tutti imbarazzati da una barbara sintassi. Ecco come si esprime il nostro, che pure è riputato il migliore: Cumque coena finita esset, et egressis omnibus, Bertaridus tantum et Hunulfus, ac vestiarius Bertaridi remansi essent, qui utique ei satis erant fideles, consilium ei aperuit, et obsecravit eum, ut Bertaridus fugeret, ipse eum quamdiu posset intra ejusdem cubiculum quiescere simularet. Nella traduzione si è sviluppato il pensiero ravvolto fra queste ambagi.
- ↑ L’originale: claustra Italiae.
- ↑ Il nostro testo: hesterno sero. Altri: hesterпа соепа.
- ↑ Osserva l’interprete del nostro testo, che le leggi tanto de’ popoli Cristiani, come anco delle altre antiche nazioni. vietavano d’usar violenza a coloro che si ricoveravan ne’ tempj, ed abbracciavano gli altari o le statue delle divinità oppur anche de’ principi. Anche coloro che si rifugiavano alle insegne militari erano sicuri da ogni offesa, perchè appunto andavano a quelli annesse le immagini degl’imperatori. Non v’era pel pericolante altro rifugio (dice Tacito Annal. lib. 12) fuorchè l’accampamento della prima legione: ivi abbracciando egli le insegne e l’aquila, della religione facevasi scudo: Neque aliud periclitanti subșidium, quam castra primae legionis: illic signa et aquilam amplexus, religione se tutabatur. Gli Ateniesi coll’ara detta della misericordia avevano introdotto questo costume, al quale allude Ştazio (Tebaid. lib. 12).
Semper habet trepidos, semper locus horret egenis
Coetibus, ignotae tantum felicibus arae.
Ed anco dai Trojani usavasi nei gravi pericoli il salvarsi presso gli altari: Haec ara tuebitur omnes, diceva Ecuba a Priamo ( Virgil. lib. 2. v. 523). Se non che la mala fede del Greco vendicativo violò pur troppo questa religiosa pietà:
Hic Hecuba, et natae nequiequam altaria circum
Praecipites atra ceu tempestate columbae
Condensae, et divum amplexae simulacra teneþant. (Ibid. v. 515), - ↑ Il nostro testo: de provincia egrediens. Altri: de provincia Gallia ec. ec.
- ↑ In tutto questo capitolo è chiaramente espressa dal fatto la costante natura de’ Francesi, descritta dal Machiavelli nel modo seguente: «I Francesi sono per natura fieri più che gagliardi e destri, e in un primo impeto chi può resistere alla ferocità loro, diventano tanto umili, e perdono in modo l’animo, che divengono vili come femmine. Ed anche sono insopportabili de’ disagi ed incomodi loro, e con il tempo trascurano le cose in modo, che è facile, con il trovargli in disordine, superargli». E più oltre: «Chi vuole superare i Francesi si guardi dal primo loro impeto, che con lo andargli intrattenendo gli supererà. E però Cesare disse: i Francesi essere in principio più che uomini, e che in fine meno che femmine». E più innanzi: «La natura dei Francesi è appetitosa di quello d’altri, di che, insieme col suo e quello altrui, è prodiga. E però il Francese ruberìa con lo alito per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria alla Spagnuola, che di quello che ti ruba non vedi mai niente». (Machiav. Ritratti di Francia, nell’edizione del 1796. vol. 3, p. 294. 297).
- ↑ Il testo: castra integra.
- ↑ L’originale: qui locus, ubi hoc gestum est praelium Francorum ec.
- ↑ Il nostro testo: Rivus: altri: Rivulus. Rivoli è celebre anco nella storia militare de’ nostri giorni. Il maresciallo francese Massena portava il titolo di Duca di Rivoli.
- ↑ Al nostro tempo notissima patria di Vittorio Alfieri.
- ↑ L’originale: Tarentum applicuit.
- ↑ L’originale: Solitarium.
- ↑ Nell’edizione Ascensiana trovasi espressa con assai più minute circostanze la profezia dell’eremita; ma noi stiamo fedeli al nostro testo.
- ↑ Ipsum oraculum despectui habebitur.
- ↑ Nell’originale è oscurissimo il senso: Quod nos ita factum esse probavimus, quia etc.
- ↑ Luceria (città nella provincia detta Capitanata) restituita al dominio de’ Longobardi, fu poi nell’anno 801 conquistata e riunita all’imperio di Carlo Magno (Vid. Beretti Tab. Chorogr. pag. 292).
- ↑ Il Beretti la chiama Acerentia. In altri testi leggesi Agerentia, e Acherantia ad esempio di Orazio.
Ora si chiama Acerenza o Cirenza, ed è posta in Basilicata sopra di un monte. - ↑ L’originale: Nutricius. L’interprete del nostro testo riporta un'antica iscrizione, in cui è usato il detto vocabolo: MEMMIA TERTULLA NUTRICIO SVO ET MATRI BENEMERENTI POSTERISQVE SVIS ET SIBI.
Forse qualche antiquario sfoggierà la sua erudizione per far vedere che questa iscrizione va scritta e letta altrimenti. Ma se mi lascierà la parola Nutricius, nel restante io lo lascierò godersi della sua dottrina. Certo si è, che anco nelle istituzioni di Giustiniano lib. I. tit. VI. §. V. si trova la stessa parola: aut puedagogum, aut nutricium, aut educatorem etc. - ↑ Il Muratori rischiara questo luogo colla seguente supposizione: cioè, che, dopo dato l’ostaggio tra i Greci e i Longobardi, si fosse pattuito, che se passato un certo tempo Grimoaldo non fosse giunto con alcun soccorso, Romoaldo si avrebbe arreso con tutti i suoi; perciò i Greci, i quali aveano preso Sesualdo colla frode loro connaturale, minacciandogli morte, lo condussero alle mura, affinchè asserisse che il re non poteva in alcun modo venire.
- ↑ Altri: Sacrum. Il Sangro o Sagro nasceva alle falde degli Apennini, passava sotto le mura della città d'Alfedena (lat. Anfidena) e scaricavasi in mare poco distante da Ortona, dalla parte di mezzogiorno.
- ↑ Questa macchina fu chiamata ne’ tempi barbari petraria, perchè con essa si lanciavano le pietre: è quella medesima che i Latini chiamavano scorpio oppure onager.
- ↑ Chi legge Micola, chi Mittula, e chi Mirula e Mitla.
- ↑ Altri Coltris. Il fiume Calore da mezzogiorno scorre verso settentrione, dove si congiunge al Sabato, fiume presso Benevento, il quale procede da levante a ponente finchè si scarica nel Volturno. Così è segnato nella cit. Tav. del Beretti.
- ↑ Il nostro testo: non est opus, sed tantum etc. Altri: non est opus, pater optime, te proficisci, sed etc. Noi abbiamo seguito quest’ultimo.
- ↑ L’originale: Grueculum. Mi si permetta la novità della parola, da me usata per la fedeltà dovuta all’autore.
- ↑ Il nostro testo: auro textum: altri: auro textili.
- ↑ I cimelj erano tesori, ossia vasi contenenti doni preziosi fatti alle chiese. Taluni intendevano per cimelj gli stessi oggetti preziosi conservati nei detti vasi o tesori. In greco κειμήλιον. Ved. Dufres. ad voc.
- ↑ Ciò fu in Siracusa. Il regicida fu Andrea Troilo, figlio di Situla, il quale lo soffocò, versandogli gran copia d’acqua calda sul capo. Così scrivono gli storici greci e latini.
- ↑ Il nostro testo: Mecetius, altri: Mezentius. Costui, per testimonianza degli storici, era dotato di singolare bellezza.
- ↑ Senza l’assenso di tutto l’esercito non era reputata legittima la dignità imperiale.
- ↑ Questa occupazione avvenne sotto l’imperatore Eraclio e sotto Ciro, vescovo d’Alessandria, vivendo i quali, nell’anno 636 l’Egitto passò dal dominio dei Romani a quello dei Saraceni.
- ↑ Si osserva da’ critici, che conte (Comes) qui vale prefetto (praefectus). Così nella Storia dell’Imperio si ha in questo senso Comes Ægypti, Africae, Italiae etc. Presso i Longobardi poi si sa, che questo nome aveva un diverso significato.
- ↑ L’originale: per stratam quae antiquitus per mare facta fucrat. Noi abbiamo qui la derivazione della parola italiana strada, la quale, come nota il comentatore del testo da noi seguito, è in uso ancora presso i Germani. Gli storici Friulani, e fra questi il più volte citato Jacopo Valvasov, fanno menzione di questa strada marittima come costruita sulla spiaggia del mare, nel qual senso deve intendersi l’autore che scrive: per mare facta.
- ↑ L'originale: Fluvius. È il porto che oggi chiamasi Fiume.
- ↑ Il nostro testo: castra contra Avarum ostium componens. Altri: Abarorum hospitium componens.
- ↑ Da questo venne il nome di Carintia, anticamente parte del Norico, ed ora della Germania. L’origine del nome è nel tedesco Kärnten.
- ↑ Questo è il castello di Nimis, il di cui sito fu male segnato dal Cluverio, stante la varietà delle lezioni del testo di Paolo Diacono. Ved. la nota 3. al cap. XXXVII. del lib. iv.
- ↑ Altri leggono: Juvectari.
- ↑ Molti testi leggono: Ticinum ad regem profectum, il che prova, che i duchi delle varie provincie andavano a ricevere l’investitura del ducato dal re.
- ↑ Broxas, di cui nulla seppe nè il Cluverio, nè gli altri geografi, non può esser altro che il luogo detto ora dagli Schiavi Brixa o Brischa, e ancor più volgarmente Brischis. Sta alla destra del Natisone sei miglia sopra Cividale. Rimpetto a questo sito, sull’altra riva del fiume, veggonsi i frammenti di un antico castello, e nei dintorni si trovarono recentemente parecchie armi barbare ed ossami di uomini e di cavalli; le quali cose tutte insieme si accordano ad illustrare perfettamente la descrizione del nostro autore. Ivi presso, nel seno del monte, v’è una grotta profondissima, entro la quale fu eretta una chiesa in onore di S. Giovanni, che chiamasi S. Giovanni dell'antro.
- ↑ L’originale: comites.
- ↑ L’incertezza del Cluverio intorno al luogo del castello di Broxas fece malamente congetturare, che il ponte del Natisone fosse un antico ponte romano in vicinanza di Terzo nel basso Friuli; ma secondo il testo dello storico il ponte da esso indicato non poteva essere distante dal castello di Broxas; perciò, considerato anche attualmente il corso del Natisone, si vede chiaro non poter essere questo che il ponte pure antichissimo posto fra Cividale e S. Pietro degli Schiavi, un miglio distante da quest’ultimo luogo. E quello il confine estremo che divide la Schiavonia dal Friuli, e dove, anche al dì d’oggi, passano tutti gli Schiavi di quelle alpi per discendere nell’Italia.
- ↑ Nella nota al testo di Paolo Diacono nella raccolta degli Scrittori Rerum italicarum, alla pag. 483 si osserva giudiziosamente, essere più probabile che qui vi sia alterazione di numero fatta dai copisti, anzichè l’autore abbia scritto di buona fede l’avvenimento incredibile, che venticinque uomini abbiano uccisi cinquemila nemici, per quanto buona opinione possiamo avere degli antichi Friulani.
- ↑ Altri: Landheri.
- ↑ Altri: Arichit e Arichitum.
- ↑ Il nostro testo: Forum-popilii, ed è certamente la sana lezione, essendo quella degli altri testi Forum-populi corruzione del vero nome latino. Probabilmente questa corruzione derivò dall’antica pronunzia latino-vernacola, ciò che serve a conferma della sussistenza di una lingua antica latina volgare diversa dalla colta, almeno nelle provincie distanti da Roma. Dal corrotto Forum-populi derivò l'italiano Forlimpopoli. Tre sono le città, o piuttosto castelli, di questo nome, cioè Forlì piccolo distante sei miglia da Cesena, altro ve n’ha posto ai confini della Lucania, ed uno, che è il nostro, situato nella Campania, del quale parla (oltre Tolommeo) Dionigi di Alicarnasso l. I, ed è chiamato sì dal detto autore, quanto nelle antiche lapidi a chiare note, Forum-Popilii e Popili; quantunque in Frontino notisi fra le colonie romane, con corrotto vocabolo, Forum-populi (Ved. Cluver. Ital. antiq. ad voc.)
- ↑ Per messi (missi) ne’ tempi barbari intendevansi gli ambasciatori, come si ha nelle leggi dei Franchi ed altrove (Script. Rer. ital. tom. 1, pag. 483).
- ↑ L’originale: quadragesimorum tempore.
- ↑ Del passaggio del monte Bardone tiene il Cluverio (pag. 294) non potervi essere altro che quello, per cui dalla valle di Magra pei castelli di Sarzana, Ula, Villafranca e Ponte Tremulo si passa a Berzeto, e di là conduce la via per Fornuovo a Parma.
- ↑ Questo fatto è una tinta di più, che ci ajuta a rilevare il carattere di Grimoaldo.
- ↑ La prima distruzione di Opitergio (Oderzo) fu fatta da Rotari (Ved. lib. 4, cap. 47 ); ma questo fu l’eccidio finale di quella città, che pur fu celebre nelle storie antiche, di che ne fanno solenne testimonianza e le classiche iscrizioni, e le opere degli autori latini. Questa città, quantunque abbattuta, vivrà però sempre gloriosa negli scritti immortali di Tacito: Primus ac Varus, occupantes Aquilejae, proxima quaeque et Opitergii et Altini laetis animis accipiuntur (Historiar. lib. 3). Le sue ruine attestano a quanto giunga la furia d’un barbaro conquistatore. Ma questa era ferocia dei tempi. Nei secoli della civiltà e della filosofia, un più terribile conquistatore avea minacciato ad una città famosa la stessa sorte dell’antica Oderzo; ma le parole eloquenti di un messaggero allattato dalle muse ed infiammato dall’amor della patria, in un istante disarmarono la sua collera.
- ↑ Di questi tre luoghi si ha contezza nell’antica Storia Romana. Sepiano, detto da Livio Frontinum, e da Plinio Sepinum, e da Tolommeo Saepinum, era situato presso la sorgente del fiume Tamaro, ora Supino nel contado di Molise, Boviano, castello, di cui si fa memoria in T. Livio (lib. 9), si conosceva fin dall’anno 439 di Roma, e 314 prima di G. C. Da alcuni scrittori si chiama Bobianum, e corrottamente Babiano (ora Bojano in Abruzzo), e sta presso la sorgente del fiume Tiferno, volgarmente Biferno. Finalmente Isernia, detta da’ Latini Æsernia o Esernia (ora Sergna o Isergna dell'Abruzzo), è situata sulla riva sinistra del Volturno. Queste memorabili città erano capi di colonie romane, come si può vedere ne’ citati storici. Chi dunque ha distrutti gli abitatori e ridotti questi luoghi a deserto (come nota il nostro autore)? La fame, la peste, il terremoto o la guerra?
- ↑ Gastaldi erano i ministri, i procuratori ed economi del re, i presidenti ai poderi, ai boschi ed all’entrate del regio fisco, come si ha dalle leggi longobarde: Gastaldius est actor regis, quello che noi diciamo propriamente fattore. In senso traslato diciamo noi pure volgarmente gastaldo a colui che custodisce la casa, e tiene le ragioni del padrone in campagna. Vedasi il Muratori (Antiquit. Ital. tom. 1, p. 524 fino a 26), il quale trae l’etimologia della voce da gestelleri. Nota lo stesso Muratori, che ad Alzecone fu data la dignità di gastaldo invece di quella di duca, per conservare la supremazia al ducato di Benevento, di cui questo forestiere e i suoi successori doveano essere dipendenti.
- ↑ Questo luogo di Paolo tronca dalla radice la questione sulla origine della lingua volgare. Si vede chiaro, che al tempo del Diacono anche il popolo parlava latino, e che il volgare italico nacque dopo la permanenza de’ Barbari nell’Italia. Come a’ nostri giorni si continuerà ancora a sostenere l’esistenza di questa antica lingua del popolo, differente dalla colta romana, dopo la testimonianza d’uno scrittore dell’ottavo secolo, il quale assicura, che all’età sua i Barbari, che divennero abitatori di quelle terre, quantunque parlassero latino (latine), cioè l’antica lingua del Lazio (su di che V. Murat. Diss. 33), ritenevano l’uso della propria lingua. Qual prova maggiore per dire, che il miscuglio delle varie lingue coll’antica madre latina fece nascere la lingua italica niente prima del secolo di Carlo Magno? Il trovare qualche voce latina alterata e di forma italiana negli scrittori dei secoli d’oro, d’argento e di ferro null’altro significa, se non che il popolo antico, come abbiamo l’esempio anco al dì d’oggi, quanto era più distante o per condizione o per sito dalla gente colta, pronunziava malamente certe voci, e alcune altre ne usava di sue proprie, che non furono adoperate dagli scrittori; ma questo non formava differenza essenziale da parlare a parlare, o per dir meglio non formava due lingue, cioè l’una latino-romana, l’altra volgare. Per convincersi di tal verità, bastava il fare alcune considerazioni, che io porgerò qui in via di quesiti, ai quali se qualche filosofo di coloro che sudano in tali materie degnerassi di dare soddisfacente risposta, io sempre assai più divoto alla verità ed all’altrui dottrina, che ligio alla mia opinione, dichiaro di fare ben grata accoglienza. Domando dunque: I. Dato che per ogni parte dell’Italia occupata dai Romani si parlasse il volgare italico, ond'è che nei nostri settentrionali dialetti, e sopra tutti nel Friulano, non solo la radice, ma la desinenza delle parole è in gran parte latina? Furono forse gli scrittori, o i nuovi coloni ( giacchè il Friuli è colonia romana ) che qui introdussero le dette voci? II. Per qual ragione si pubblicavano in latino e non in volgare i decreti e le leggi municipali del popolo Romano, e degl’imperatori in qualsiasi più longinqua parte del mondo, se non perchè si voleva, che nel paese conquistato s’intendessa e si parlasse la lingua latina, e perchè i Romani volevano che la loro religione, i loro usi e i loro costumi formassero un solo popolo di essi e delle soggiogate nazioni? Ond'è che gli Ungari, anco più incolti, a’ nostri giorni intendono e parlano ancora la lingua latina? III. Se v’era un volgare italico, perchè i re Longobardi non si servirono di quello per pubblicare le proprie leggi, anzichè usare quel latino (quanto pur si voglia guasto e corrotto) che sussiste tuttora nei loro codici? Di più: se pel corso di parecchi secoli furono quasi del tutto nell’Italia estirpate le lettere, e furono sepolti nelle tenebre tutti i latini scrittori, da chi dunque i Longobardi appresero, se non dal popolo parlante, a redigere in latino le predette leggi? Ma tutti questi quesiti divengono inutili dopo l’asserzione inappellabile del nostro storico.
- ↑ Il nostro testo: decem et septem. Altri: decem et octo. La nostra lezione è vera, poichè questo Costantino morì al principio del mese di Settembre sotto la XIV Indizione.
- ↑ Cioè Teodoro arcivescovo Cantauriense (di Cantorbery), ordinato dal papa Vitaliano nell’anno 668. Su di che V. Beda Histor. l. IV, c. I.
- ↑ Cioè abate dello stesso monastero. Vedi pure Beda l. IV, c. II. il quale porge un’idea vantaggiosissima di questi due personaggi, descrivendoli istruiti non solo nelle sacre lettere, ma eziandio nelle secolari, e particolarmente nell'arte poetica, nell’aritmetica e nell’astronomia.
- ↑ È questo il libro che chiamasi Poenitentiale, i di cui capitoli sono riferiti dallo Spelmanno nella Raccolta de’ Concilj (Rer. Ital. Script. tom. cit. pag. 485). Non bisogna dimenticarsi, che il nostro Paolo apparteneva ai secoli della buona credenza.
- ↑ Il nostro testo: in sequenti post tempore. Altri: in secundo post anno.
- ↑ Non è meraviglia che ne’ tempi d’ignoranza si fomentasse l’opinione, che i prodigi celesti annunziassero grandi e terribili avvenimenti agli uomini. Altre volte ho notato, nelle note alla versione della Buccolica Virgiliana p. 20, e nella prima parte di questa storia p. 71, che anco una delle più sane ed acute menti del mondo non andò esente da queste credulità: "Si vede per gli antichi e pei moderni esempi, che mai non venne alcun grave accidente in una città o provincia, che non sia stato da prodigi o da altri segni celesti predetto". (Machiav. Discor. lib. I. cap. 56).
- ↑ Era il Paradiso la mezza parte dell’atrio sottoposta ai gradini della basilica, e circondata dal quadri-portico (Rer. Ital. Script. pag. 485).
- ↑ Dopo una cavata di sangue.
- ↑ Intorno a questo editto Ved. la prima parte della nostra versione pag. 246.
- ↑ Aggiungasi: avea le virtù e i vizj de’ più grandi conquistatori. Per questi, condotto da un traditore, entrò armato nel regno, violò i diritti domestici, prima esiliò, poscia, contro la santità delle promesse, tentò l’assassinio del proprio ospite: per quelle fu punitor dei ribelli, vincitore dei nemici, umano nel silenzio delle passioni e dator di leggi, per quanto lo comportavano i tempi, ragionevoli e giuste.
- ↑ Dice bene Paolo invasit regnum, perchè la sua prima entrata nel regno ha tutto l’aspetto di usurpazione.
- ↑ L’originale: ad claustra Italiae: intende di significare con questa voce cancelli, catenacci, sbarre, come se non si potesse entrare in Italia senza che vi fosse chi aprisse.
- ↑ L’originale: omnem regiam dignitatem.
- ↑ Notano gli scrittori delle cose Ticinensi, che Bertarido edificò questo monastero, perchè alla vigilia della festa di S. Agata fu salvato dalla morte preparatagli da Grimoaldo. Ora è detto il monastero di S. Agata in monte. Nella facciata della chiesa si legge: Pertharitus Longobardorum Rex templum hoc S. Agathae Virg. et Mart. dicavit anno Christi DCLXXVII. Fiorì in questo luogo Cuniperga, figliuola del re Cuniperto (Not. ad Paul. in Script. Rer. Italic. pag. 486).
- ↑ Chiamasi ancora questo luogo S. Maria alle Pertiche. La chiesa fabbricata da Rodelinda fu giudicata dagli scrittori dell’arte architettonica come fra le sontuosissime edificate dai Longobardi, e che portano un’impronta particolare dell’architettura barbara.
- ↑ Questo rito è di origine affatto settentrionale, giacchè fra gl’italici non serbasi di ciò alcuna memoria. È inutile cercarne maggiore rischiarimento negli storici antichi, che parlarono dei costumi de’ Germani, da poi che il nostro autore ce ne dà un’interissima descrizione.
- ↑ L’originale: filius iniquitatis: espressione poetica usata sì dagli orientali, che dai settentrionali: ne’ poeti biblici da una parte, e nelle poesie di Ossian dall’altra, si hanno continui esempi di questa metaforica forma di favellare.
- ↑ Gravione era una dignità che corrispondeva a quella di conte fra i Longobardi. De’ Gravioni si fa spesso menzione nelle leggi Saliche, come osservavo i comentatori di questo luogo. Poteano considerarsi giudici provinciali, che aveano anche un poter militare. Alcuni etimologisti traggono la voce dal tedesco ragen, che corrisponde al latino eminere, altri da grau canus: e l’una e l’altra etimologia per altro concorre a spiegare l’uffizio dei Gravioni espresso da Paolo.
- ↑ Baurzanum chiamavasi anticamente con varietà di pronunzia anco Balzanum, d’onde Bolzano, castello notissimo del Tirolo.
- ↑ Tutta la condotta di Bertarido prova, ch’egli possedea la dottrina di regnare, ma che era assai debole di animo. Secondando Cuniberto, lo ajutò a nutrire il serpente nel proprio seno. Poste a rincontro la bontà di Cuniberto e la perfidia d’Alachi, fatalmente si dee pur confessare, che più questi che quello, conosceva le arti del principato.
- ↑ Il nostro testo: Palatinensis: altri: Platinensis e Placensis.
- ↑ Il testo ha: decem et octo, ma paragonando questo luogo coll’antecedente nel cap. 35, ove è scritto decem et septem, si deve dire esservi errore degli amanuensi, come notano i cronologisti: si è dunque corretto traducendo diciasette.
- ↑ L’originale: corpore plenus.
- ↑ Nel testo: Urbem, e in italiano Orba chiamasi questa selva, indicata dal Cluverio presso il Tanaro, (oggi Bormia) forse da un fiume, che pure dai Latini non saprei dire il perchè, chiamavasi Urbs. Claudiano nella guerra Gotica mostra egli medesimo maravigliarsi di tale denominazione:
........Ligurum regione suprema
Pervenit ad fluvium miri cognominis Urbem.
- ↑ Il monastero di S. Maria Teodota, detto poi della Posterla.
- ↑ Il testo: conceptam iniquitatem parturiens, secondo l’espressione del Salmista: concepit dolorem et peperit iniquitatem. In italiano si avrebbe potuto rendere il senso stesso, spogliandolo di questa profetica imagine; ma io ho già posta la massima di voler ritenere possibilmente nello stile della traduzione l’indole dell’originale.
- ↑ L’originale: tremissis: è una certa moneta, di cui si parla nelle leggi Longobarde tit. 101. paragr. 62, ed in altre leggi dei Barbari.
- ↑ L’originale: maturius.
- ↑ Il nostro testo: Austrium, altri: Histriam. La nostra lezione è la vera, il che fu dimostrato dal Muratori, il quale osserva, che la parte del regno Longobardico, posta fra settentrione e levante, era chiamata allora Austria, a differenza della parte occidentale della Lombardia, che si chiamava Neustria (Ann. d’Ital. sotto l’anno 690.
- ↑ Ivi presentemente si trova un villaggio, che appunto chiamasi Cavolano.
- ↑ Il luogo detto Coronata era verso Como, ed oggi ancora si chiama Cornà (Ann. d’Ital. ibid.).
- ↑ L’originale: berbices, onde in volgare berbice, in francese brebis.
- ↑ L’originale: singulari certamine. Vedi nella prima parte la nota 1. pag. 253.
- ↑ Il nostro testo: regnaturus, altri: regnator. Inclinerei alla seconda lezione, perchè Cuniberto era prima già re; perciò nella versione si disse raffermato nel regno.