Storia dei fatti de' Langobardi/Legislazione de' Longobardi

Legislazione de' Longobardi

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Paolo Diacono - Storia dei fatti de’ Langobardi (789)
Traduzione dal latino di Quirico Viviani (1826-1828)
Legislazione de' Longobardi
Libro VI Governo ed indole de' Longobardi

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SOPRA LA

LEGISLAZIONE

DE’ LONGOBARDI

ESTRATTO

DALLA STORIA UNIVERSALE

DEL MULLER

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Il regno dei Longobardi acquistò fermezza sotto il governo di Autari figlio di Clefi, al quale; salito appena sul trono, i grandi vassalli cedettero la metà de’ proprj dominj, affinchè non gli fosse d’uopo cercare dall’ingiustizia e dall’oppressione dei sudditi i mezzi onde sostenere la dignità della corona e pagare i salarj de’ suoi servidori. Antari combattè con prospero successo le forze collegate dell’esarca di Ravenna e del re dei Franchi: perchè i Longobardi, trincerati dietro le mura delle loro fortezze, non temettero l’impeto di quei nemici, che osato non avrebbero affrontare in aperta campagna.

Morto Autari, la moglie di lui Teodolinda passò a seconde nozze con Agilolfo duca di Torino, che per loro re accettarono i Longobardi. Fu in questi giorni, che mediatore di pace fra la predetta nazione e l’esarca di Ravenna si frappose papa Gregorio, il [p. 142 modifica]quale ad entrambi i popoli rappresentò: ”che la continuazione di sì fatta guerra solo avrebbe fruttata la morte di parecchie altre migliaja d’uomini d’entrambe le popolazioni, il cui braccio veniva tolto all’agricoltura dell’Italia”. Concluso un negoziato coi Franchi e cogli Avari, Agilolfo assicurò ai sudditi la tranquillità, di cui tanto abbisognavano pel coltivamento dei propri campi e per darsi all’arti dell’industria: nel formare la pace ebbe pure quel principe uno scopo suo particolare, l’essergli cioè più agevole, cessata la guerra, il tenere a freno l’inquieto talento de’ suoi vassalli. La regina Teodolinda molto fece per parte sua onde rendere fermo il cristianesimo fra i Longohardi ed accostumarli a pacifiche inclinazioni. Nè questa pace fu turbata che da alcune improvvise scorrerie di Avari, le quali, anzichè nuocere alla pubblica prosperità, giovarono perchè affatto non si perdesse l’antico spirito guerriero di tali genti. Savie furono le istituzioni di questo regno, i cui capi non pensarono ad ingrandirlo.

Il re Rotari, genero d’Agilolfo, pubblicò un codice composto sulle prime di trecento novanta ordinanze, ed in processo di tempo aumentò di cento novantatre articoli. [p. 143 modifica]allorchè nel 774 Carlomagno spogliò del regno Desiderio, lasciando ai Longobardi le loro leggi, volle unicamente che per tutto il territorio da lui conquistato, forza eguale alle medesime ottenessero le capitolari dei Franchi. Roma e l’esarcato non avevano in questo mezzo altre leggi che il codice di Giustiniano, ond’è la varietà di consuetudini che fra paese e paese si scorgono tuttavia nell’Italia.

La legislazione Longobarda, che puniva di morte il furto e l’adulterio, fu men severa per riguardo gli omicidj. Il grande vassallo, per cui opera o istigazione accadesse la morte d’un uomo libero non poteva essere citato ai tribunali, se quanto fece gli era stato comandato dal re: tanta si fu la fiducia di quei popoli nella giustizia del loro capo. Chiunque avesse chiamato il nemico negli stati, o abbandonata la patria, o favorita altrui migrazione, la pena capitale non isfuggiva. Se un gran vassallo si faceva reo di trame contro il re, la legge, non condannandolo in aperti termini alla morte, lo dichiarava esposto a perdere la vita. Varia fu la gravezza delle pene secondo i luoghi ove le colpe vennero commesse: perchè per un medesimo delitto l’essere assoggettato ad un [p. 144 modifica]ammenda di 40 soldi, o di 900 soldi, o alla morte, dipendeva dall’averlo commesso in una chiesa, nell’assemblea del popolo o nel reale palagio. Le leggi militari punivano d’estremo supplizio chi concitava l’esercito contro il capo, o i soldati a trascurare i propri doveri, o abbandonava nella mischia i suoi fratelli d’armi. Mentre il generale eletto dalla nazione, ogni militar mossa regolava, era uffizio del gastaldo, che nominato veniva dal re, amministrare la giustizia, e curare il buon ordine interno dell’esercito: queste due autorità si vegliarono reciprocamente.

Le leggi dei Longobardi, a questi concedendo molti privilegi sopra i Romani domiciliati nel regno, posero fra tali due popoli distinzioni che i secondi aggravavano: onde il seduttore d’una schiava Longobarda pagava un’ammenda tripla di quella, cui soggiaceva chi subordinata avesse schiava romana. Ogni donna era per legge affidata o alla tutela speciale di qualche cittadino, o immediatamente a quella del principe. L’uomo libero che prendea in moglie una schiava, condannavasi a capitale supplizio, se prima di contrarre le sproporzionate nozze non la purificava, tenendosi a certe prescritte [p. 145 modifica]formalità, per le quali intendevasi rigenerata. Non fu fatta distinzione fra lo schiavo e l’animale domestico, onde l’aver percossa una giumenta pregnante, o una schiava incinta, assoggettava il colpevole alla medesima ammenda, che poi era doppia per chi strappava la coda ad un cavallo. Gli uomini liberi si dividevano in baroni, uomini di mediocre condizione, ed affrancati (aldiones). Si suddivisero questi in fulfreal, uomini che solamente potevano disporre della propria persona, e amond, i quali avevano in oltre facoltà di possedere e usare a lor grado delle cose possedute.

Grandi vantaggi concedè la legge ai figli nati di nozze legittime, e fra persone d’egual condizione contratte (fulbornet, proporzionate): se unico ciò non di meno era il figlio legittimo, i naturali avevano diritto ad un terzo della paterna eredità: nella classe degli schiavi venivano distinti i domestici (ministeriales), ai quali certa educazione fu data, i fattori di campagna (massarii), i lavoratori (rusticani). Uffizio degli ultimi era la coltivazione dei terreni e la cura delle mandre. I buoi, le pecore, le capre, i majali ebbero custodi separati per ciascuna specie, de’ quali custodi altri furono maestri, [p. 146 modifica]altri novizj (discipuli). Gli schiavi domestici governavano i cigni, i falconi, i daini, animali tutti che nei recinti dei signori furono allevati.

Il vocabolo virtus significò, siccome presso gli antichi, forza. Solatium pei Longobardi fu soccorso d’armati.

Il codice Longobardo, cui si aggiunsero dappoi le pratiche feudali e le decretali dei papi, cadde in disuso sul finire dell’undicesimo secolo: in questo tempo, ottenuto avendo statuti particolari tutte le città italiane, quanto in questi mancava venne supplito dal diritto Romano, che comune fece all’Italia gli sforzi a tal fine operati dai giureconsulti Bolognesi. Solo in alcune parti della Sicilia, ove le leggi Longobarde erano state dal pieno consenso del popolo accettate, esse si mantennero per qualche tempo in vigore.

I legislatori Longobardi nulla stabilirono per riguardo alla costituzione politica del loro paese, studiosi in ciò, non v’ha dubbio, che le leggi proteggitrici delle persone e degli averi dei cittadini dalla forma del governo non dipendessero. Elettiva si fu quella monarchia, motivo per cui Agilolfo, dodici anni prima della sua morte, ebbe ricorso [p. 147 modifica]ai grandi vassalli onde coronassero il figlio di lui Adelvaldo. Fu questo principe preso per intervalli da pazzia, della quale, e dei filtri che ne vennero accaggionati, fa soventi volte menzione l’istorico dei Longobardi. Arivaldo e Rotari, cognati di Adelvaldo, regnarono l’un dopo l’altro in sua vece. Rodoaldo, figlio di Rotari, perì per mano d’un Longobardo, di cui sedotta aveva la moglie, perla morte del qual Rotari la nazione, sempre intesa a conciliare il proprio diritto di scegliersi il re, colla riconoscenza e col rispetto da lei dovuto alla reale famiglia, chiamò al trono Ariberto, nipote della regina Teodolinda. Questi, più assai consultata la paterna tenerezza che non il vantaggio de’ proprj sudditi, lasciò congiuntamente eredi del trono Bertarido e Godeberto suoi figli. La discordia, postasi fra questi due principi, esiziale divenne ad entrambi, perchè li distolse dal mettersi in riguardo contro i comuni loro nemici. Grimoaldo, duca di Benevento, uomo divorato dall’ambizione, uccise a tradimento Godeberto, il quale misfatto saputo appena Bertarido, fuggì in Ungheria. Allora Grimoaldo s’impadronì del trono, che a vie più assicurarsi sposò la sorella del fuggitivo. L’istoria romanzesca di Bertarido, giova a farne [p. 148 modifica]conoscere quanto potesse negli animi dei signori Longobardi il sentimento di generosità. Permesso avendo Grimoaldo a questo principe infelice il rivedere la patria, l’immoderata esultanza, che del di lui giugnere dimostrarono i popoli, di violenti sospetti empiè l’animo dell’usurpatore, onde costretto Bertarido a tentare novella fuga, alla fedeltà di un solo fra i suoi amici seppe grado di averla condotta a termine. In quella occasione Grimoaldo pure diè a divedere grandezza d’animo, perchè anzichè sdegnarsi contro l’amico di Bertarido, volea ricompensarlo, nè men generoso questi amò meglio seguir nell’esilio il suo principe, che vivere colmo di onori e di ricchezze presso chi il trono a quello usurpò. Accorsi in ajuto di Berlarido i Franchi, Grimoaldo fece sembianza di abbandonare ai medesimi il campo riccamente abbondante di viveri, indi addietro tornato, ed avendoli ivi sorpresi, li passò a fil di spada. Reputato per sapienza di governare, lo stesso Grimoaldo, una tribù di Bulgari venne a chiedergli d’essere fra i suoi sudditi annoverata: alla quale domanda condiscendendo, assegnò a queste genti alcune terre nella contea di Molisa. Le differenti nazioni, che a mano a mano misero lor [p. 149 modifica]dimora in Italia, conservarono alcune voci del nativo idioma, onde fu la grande diversità dei dialetti che si ravvisa nella predetta contrada. Non differente in ciò dalla Svizzera, l’Italia presenta, per così dire, i saggi d’ogni secolo, d’ogni nazione e costituzione di governo e di tutti i periodi della civiltà.

Dopo la morte di Grimoaldo, i grandi della Lombardia, richiamato dal suo esilio Pertari, gli mossero incontro fino alle radici dell’Alpi, e loro re il salutarono. Istrutto dalle sventure, dolce e moderato fu il suo governo. Per torre al figliuolo di Grimoaldo ogni pretesto di pretendere al trono occupato dal padre, innanzi morire ebbe l’antiveggenza di farsi nominare in successore il proprio figlio Cuniberto, già a tutti fattosi accetto per soavità di costumi e sapere. Nella minorità di Liutperto figliuolo di Cuniberto e nipote di Bertarido, Ramberto duca di Torino, concitata una guerra civile, usurpò la corona, che indi trasmise ad Ariberto II di lui figlio: studiò quest’ultimo meritarsi favore dal papa col cedergli le terre possedute nell’Alpi Cozzie, dalla qual donazione presero origine le rendite, che i papi godono tuttavia nel Piemonte. Soccorso Liutperto dai Bavaresi, mentre faceva sforzi a [p. 150 modifica]ricuperare il trono a lui tolto, perdè in questo tentativo la vita: ma morto nella stessa occasione Ariberto, la nazione chiamò a regnare il saggio Ausbrando e Liutprando di lui figlio, nobili originarj della Baviera. Per qualità eminenti onorato il suo regnare, Liutprando visse in pace coi Bavaresi e cogli Slavi della Carinzia, e s’intertenne in amichevole consuetudine con Carlo Martello, maggiordomo di palazzo, governatore d’Austria; che anzi il secondo, per dare grande contrassegno di stima al primo, gl’inviò il proprio figlio Pipino uscito allor dall’infanzia, pregandolo a recidergli le chiome, siccome indizio di adottarlo qual proprio figlio.