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di neve, per veritá un poco troppo freddo, e col calessino addosso in loco di coperte, senza mezzo alcuno di uscirne. Era di notte, ma per buona ventura il cielo era serenissimo e splendeva la luna. Il mio auriga, vedendo il pericolo in cui io era, Non cadde no, precipitò di sella e, con un «affé di dua!» (») che gli veniva dal core, tagliò i tiratori del cocchio con maravigliosa prestezza, affine che il movimento de’ cavalli non mi soffocasse, e, confortandomi alla pazienza, corse a una casuccia poco distante per qualche assistenza, e, tornando in pochi minuti, coll’aiuto di due contadini gli venne fatto di trarmi illeso, ma interizzilo e battendo la diana, da quella bolgia nevosa. Mi portarono a Pietramala piú morto che vivo, dove la cortese ostessina, che mi riconobbe, mi pose subito in un buon letto, e, dopo avermi strofinato con della neve le gambe e le braccia per ben mezz’ora, mi fece bere dell’ouimo via di Chianti e due o tre bicchierini d’alehermcs, liquore squisito e di virtú prodigiosa, che non si fa che a Firenze, e in men di tre ore mi trovai in istato di ripartire. Ma il mio vetturino era ito a letto e aveva lasciato ordine all’oste di dirmi che il suo calesse ed i suoi cavalli non avrebbero potuto condurmi a Bologna senza pericolo, ch’io gli dessi quel che credeva giusto ed onesto pel viaggio fatto, e che mi provvedessi d’altra vettura.

Consigliommi allor l’oste di pigliar due cavalli, uno per me e l’altro per una guida che m’accompagnasse fino a Bologna, e al sorger del sole partii avendomi l’oste stesso somministrati i cavalli e la guida. La bestia, ch’io cavalcava, non era piú grande d’un somare-ilo, ma docile e forte; sicché arrivai felicemente a Bologna verso la sera. Andai il di seguente da certo Tamburini, sensale famoso a que’ tempi, che provvedea di soggetti quasi tutti i teatri (l’Europa, e impegnai PAllcgranti e Damiani, due cantanti di primo ordine e i soli che mi riuscí (1) Spezie di giuramento ch’usano i fiorentini.