Memorie (Da Ponte)/Parte quarta (1805-1819)
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PARTE QUARTA
(1805-1819)
Il mio passaggio da Londra a Filadelfia fu lungo, disastroso e pieno di fastidi e d’affanno. Non durò meno d’ottantasei giorni, nell’intero corso de’ quali tutti quegli agi mi mancarono, che l’etá mia, lo stato del mio spirito e un tremendo viaggio di mare parevano esigere per renderlo sopportabile, se non grato. Io avea udito dire che per andar in America bastava che io pagassi una certa summa al capitano del vascello su cui imbarcavami, e che esso poi mi somministrerebbe quello che occorrevami; ma tutto ciò andava bene per quelli che incontransi in capitani onesti, cortesi e ben educati, che studiano tutto per render dolce il passaggio a’ viaggiatori. Io caddi nell’ugne di un mariuolo di Nantucket, che, avvezzo d’ir alla pesca delle balene, trattava i suoi passeggieri come i marinari piú vili, cui appunto trattava come que’ mostri de’ mari. Non aveva egli con sé se non provvisioni grossolanissime, e di quelle eziandio era dispensatore molto economico. Il primo mio fallo fu il pagargli quarantaquattro ghinee prima di metter piede sulla sua nave, senza contratti, senza scritture, senza informazioni, altro non esigendo da lui che d’esser a Filadelfia condotto, e nudrito. All’ora del pranzo cominciai a presentire qual dovesse esser il mio destino. Si preparò sul cassero quel convito. Una tavolacela sciancata di pino tarlato, una tovaglia piú nera della camicia d’un carbonaro, tre tondi screziati di terracotta e tre posate di ferro di giá irruginite furono i dolci preludi del mio vicino banchetto. Messere lo nantuchino sedette, invitò me a sedere rimpetto a lui, e in pochi minuti capitò il cuoco africano, con una scodellaccia di legno in una mano e un piatto di peltro nell’altra, cui tacitamente depose su quella tavola, e, chinando la testa, parti. — Odoardo — gridò allora ad alta voce il mio oste acquatico, — Odoardo, venite a pranzo. — Alla seconda chiamata il signor Odoardo appari, sbucando dal camerino del vascello, dove avea per piú ore dormito. Chinò un pocolino il capo, e, senza favellar o guardarmi, s’assise alla destra del capitano. La novitá della sua figura non mi lasciò tempo di guardare quello che conteneva quella scodella. Odoardo pareva precisamente un Bacco assonnato, se non che i suoi vestimenti erano da mugnaio in uffizio, e la sua quondam biancheria andava perfettamente d’accordo col camicione da carbonaro e colla tovaglia del nostro Tifi. Aveva questi frattanto posto davanti a me in un piattello di peltro alcune cucchiaiatine di quella broda tratta dalla scodella marinaresca, ch’io tolto avea a prima vista per acqua di castagne bollite. Vedendo ch’io guatava senza mangiare: — Signor italiano — diss’egli, — perché non assaggia questo buon brodo di pollo! — Io, che avea gran bisogno di cibo e che sono di polli ghiottissimo, volsi lo sguardo a quel caro uccello ; ma imagini chiunque ha fame qual io rimanessi, quando, in quello affissandomi, credei di vedere un corvo spennato e arruffatosi co’ gatti piuttosto che una gallina bollita. Lasciai che i miei due compagni gavazzassero in quegli appetitosi manicaretti, ed io abbrancai un gran pezzo di cacio inglese, che per buona ventura stava alla destra mia, e ne feci il mio desinare. 11 signor Abissai Haydn, cosí chiamavasi il capitano, mi guardava un poco in cagnesco, sbadigliava e taceva : accorgendosi intanto che una bottiglia di vino era presso di me, temendo ch’usassi di quella come usato avea del formaggio, La bocca sollevò dal fiero pasto, s’alzò dal loco dove sedea, si mise tra le branche quella bottiglia, ne trasse il turacciolo, ne die’ un bicchierino a me, un altro al socio mugnaio, riturò la bottiglia, la chiuse a chiave, e zufolando parti.
Questo fu il modo con cui mi trattò press’a poco per tutta quella doppia quaresima questo feritor di balene; senonché, invece di brodo di castagne o di polli-corvi, compariva ogni giorno o un pezzo di carne secca o una fetta di porco salato, la cui sola vista avrebbe bastato a far che scappasse la fame al conte Ugolino. Per colmo de’ mali, non avendo io portato un letto con me, mi toccò farmi una specie di cuccia delle camice e degli abiti eh’avea meco recati, per non adagiar le mie vecchie membra sul duro legno d’una nicchia strettissima, su cui anche con materassi e origlieri mai si riposa. Ad onta di questi malanni, la mattina del quarto giorno di giugno arrivai sano e salvo a Filadelfia. Corsi alla casa del capitano Collet, che condotto aveva in America la mia famiglia, ove seppi ch’erasi stabilita a New-York. Verso le due ore partii, e giunsi la mattina seguente a quella cittá verso il levar del sole. Io sapeva il nome della strada, ma non qual fosse il numero della casa dove abitavano i miei. Inoltratomi in quella strada un poco, picchiai a una porta per informarmene, e, per un bizzarro e piacevole accidente, quella era la casa in cui alloggiavano. Non occorre dire come fui ricevuto. Avevano giá incominciato a temer d’un naufragio, per la straordinaria lunghezza del mio passaggio, e piú ancora per gli pericoli assai ordinari sul mare Atlantico in una stagione in cui è prodigiosamente impedita la navigazione dalle galleggianti masse di ghiaccio. Difatti, non molti di prima del mio arrivo, il Giove avea naufragato e molte persone erano perite. Passati alcuni giorni di pace tra le tenere carezze della famiglia, mi diedi, senza perder tempo, agli affari. Poco era quello ch’io aveva portato meco da Londra. Una cassettina di corde da violino, alcuni classici italiani di poco prezzo, alcuni esemplari d’un bellissimo Virgilio, alcuni della Storia di Davila e da quaranta o cinquanta piastre in contante. Erano questi i tesori ch’io aveva potuto salvare dagli artigli degli usurai, degli sbirri, degli avvocati, da’ nemici e da’ falsi amici di Londra, dove esercitai per undici anni il mestiero di libraio, di stampatore, di agente dell’impresario e di poeta teatrale! La mia compagna però aveva portato seco da sei a settemila piastre, ma non risparmiate da me. Il timor di diminuire o di consumar un capitale si tenue, rimanendo troppo lungamente colle mani in mano, mi fece abbracciar il consiglio di tale, ch’io credeva conoscersi perfettamente della linea di commercio che mi persuadea d’intraprendere! 1 ). Divenni dunque droghiero; e pensi chi ha fior di senno, com’io ridea di me stesso tutte le volte che la mia poetica mano era obbligata a pesare due once di tea , o misurar mezzo braccio di «codino di porco» ( 2 ) a un ciabattino o ad un carrettiere, o a versargli per tre centesimi a morning dram ( 3 ), che non era però né il dramma della Cosa rara né delle Nozze di Figaro. Cosi va il mondo! Ad onta di questo, se il mestiero da me intrapreso non era nobile, la borsa tuttavia non pativa.
Fu al cominciamento di settembre che vennero le disgrazie. La febbre gialla, che a quell’epoca apparve, m’obbligò di partire (1) Fu il padre della mia sposa che consigliommi e che fu cagione innocente delle mie prime sventure in America. (2) Sorta di tabacco detto «pigtail». (3) «Dram», una dramma, un sorso di liquore. La differenza è nel genere, non nel prezzo. Intenda chi può ! colla famiglia dalla cittá. Mi ritirai a Elizabeth Town, dove comperai una casuccia ed un campicello, e seguitai a trafficare. Presi un uomo vizioso, disgraziatamente, a mio socio, ed è facile intendere quali poi furono le conseguenze. Tra le esorbitanti sue spese e la sciagura d’aver a che fare co’ primi furbi di Jersey, in pochissimo tempo tutto era andato in fumo. Disciolsi allora la compagnia di traffico. Si trovò che m’era debitore di mille piastre, per cui mi die’ de’ biglietti pagabili a uno, due e tre anni; ma alla scadenza del primo fuggi alla Giamaica (*). Io era quasi disposto d’abbandonare il commercio, quando un pranzetto di nuova invenzione fini di determinarmivi. La storiella è instruttiva e del tutto nuova: la narrerò brevemente e senza conienti.
Io doveva un bilancio di centoventi piastre a un droghiero irlandese in New-York. Trovandomi in questa cittá, andai da lui e gli chiesi di esaminar i libri de’ conti. V’erano degli sbagli, e ci volea del tempo a rettificarli. Tutto però si fece tranquillamente. Dopo qualche tempo, la sua donna chiamollo a pranzo. Volle quasi per forza farmi pranzare con lui. Si parlò poco d’affari, pranzando. Gli dissi soltanto ch’io aveva depositato nelle mani d’un mercadante di Nova-Iorca vari prodotti della campagna, che gli darei commissione di vendergli e di pagargli quello ch’io gli dovea. A ciò non rispose, ma diede ordine al suo scrivano di portar una bottiglia di vino, e, dettegli alcune parole all’orecchio, gli fece cenno di partire. Bevvi allora un bicchieretto di quel vino con lui. Tornammo a’ libri de’ conti; ma v’era sempre una differenza di trenta piastre ne’ nostri calcoli. Io non gli doveva infatti piú di centoventi piastre, ed egli ne chiedea cencinquanta. Avvicinandosi la notte, gli dissi che la mia presenza era necessaria a Elizabeth Town, che desiderava partire; ma che in due o tre giorni ritornerei a NovaIorca e salderei allora il mio conto. Non rispose nemmeno a questo; ma, andando, venendo, baloccando, parea cercar de’ (x) Conoscasi il perfido! H. Micheli. pretesti per trattenermi. Per meglio riuscirvi andò a prendere la bottiglia, bevve alla mia «buona salute», volle ch’io beessi alla sua, e dopo qualche minuto, ansando e di sudor grondante, il suo scrivano ricompari. Mi disse allora che non restava che da me rimanere od andarmene. Mi stese la mano, gliela strinsi e partii. Io non aveva ancor fatti quaranta passi, quando udii una mano pesante battermi la spalla e gridar con voce stentorea: — Siete mio prigioniero ! — Mi volgo, e vedo che lo sbirro, che m’arrestava, era lo scrivanello del generoso ospite dal mal pranzo. Gli chiesi chi era e che chiedeva da me. — Io sono — rispose — un deputato dello scerifo: le domando centocinquanta piastre, che Ella deve al signor Giovanni Makinly, o una guarentia di due persone possidenti per la sua comparsa a’ dovuti tempi. E, se non può far l’una o l’altra di queste due cose, si compiacerá di venir con me fino alle prigioni. — Ho detto che non farei comenti alla storia, e non ne farò : li fará per me chi mi legge. Deposi alcuni oggetti di valore nelle mani de’ signori Bradhurst e Field, rispettabili droghieri di New-York; diedero per me guarentia, e pochi di dopo pagai a colui centoventi piastre, che era tutto quello che gli dovea. Noi vidi e non udii novella di lui per piú di quattro anni. Un giorno però lessi questo paragrafo in un giornale. «Giovanni Makinly mori a Savannah ieri mattina d’un colpo di fulmine». Non farò comenti nemmeno a questo !
Tornato a Elizabeth Town, quel pranzo e quella bottiglia irlandese mi diedero una indigestione tanto terribile, che non volli piú udir parlar di commercio. Vendei alla meglio le mercatanzie che mi rimanevano, e mi posi a pagar i miei debiti; e, perché il prodotto di quelle non bastava a pagar tutti, vendei la casuccia ed il campicello, che sperava dover prestare un asilo di pace a’ miei vecchi giorni, disposi d’alcuni oggetti che servian d’ornamento alla casa o ad alcuno della famiglia, e dal primo di decembre al primo di gennaio ebbi la soddisfazione di pagar tremilaquattrocento piastre a’ miei creditori. Cosi all’anno sessantesimo di mia vita non esitai un sol momento a spogliarmi di tutto, per pagar non i miei propri debiti, ma quelli d’un uomo imprudente, ch’io, piú imprudente di lui, dichiarai mio socio in commercio, sebben ingannato a Londra da lui molto tempo prima ! Errori son questi per cui né chiedo né merito compassione.
Privo di mezzi, d’aiuto e d’amici, che far, che risolvere per mantenere una famiglia, che dipendeva intieramente da’ miei sudori? Tornai a New-York e mi volsi ad esaminare se, per via delle lettere italiane o latine, mi venisse fatto di trovar qualche mezzo onde vivere. In pochi giorni conobbi che, quanto alla lingua e letteratura italiana, se ne sapeva tanto in questa cittá quanto della turca o della chinese : quanto poi alla latina, trovai che vi si coltivava generalmente e che «i signori americani si credevano saperne abbastanza, per non aver bisogno delle istruzioni d’un latinista italiano»(*). Io era quasi fuori di ogni speranza di successo, quando il buon genio della letteratura italiana volle che, passando davanti la bottega dell’ora defunto Riley, libraio in Broadway, mi venisse voglia d’entrare. M’accostai al suo desco e gli domandai se avea alcun libro italiano nel suo magazzino. — Ne ho alcuni pochi — soggiunse, — ma nessuno ne chiede. — Mentre stavamo confabulando, un signore americano s’accosta a noi ed entra nella nostra conversazione. M’accorsi assai presto dal suo discorso ch’egli doveva esser instrutto mirabilmente in varia letteratura. Venuti accidentalmente a parlar della lingua e letteratura del mio paese, pigliai occasione di domandargli perché si coltivasser si poco in un paese si illuminato come io credeva esser l’America. — Ah! signore — mi rispose egli, — l’Italia moderna non è piú, sfortunatamente, l’Italia de’tempi antichi; non è quella signora che ha dato a’ secoli e al mondo gli emoli, anzi i rivali de’ sommi greci. — Gli piacque allora informarmi «cinque o al piú sei» esser gli scrittori di grido, di cui da sei secoli in qua si può gloriare la patria di que’ grandi uomini. Gli chiesi, non senza un (i) Queste fúr le parole che un signore americano mi disse pochi giorni dopo il mio ritorno da Jersey a New-York. Parlerò di ciò piú distesamente a tempo opportuno. Tenga ciò in mente il mio leggitore. risetto amarognolo, il nome di questi scrittori, ed egli, dopo aver nominato Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso, fermossi, dicendo: — In veritá non mi sovviene del sesto. — Siccome nel numerarli si servia delle dita, cosí arrestossi sul dito mignolo, cui stretto tenea tra l’indice e il pollice della destra, in attitudine d’uno che sta pensando. Lo abbrancai allora per quelle dita, e baldanzosamente soggiunsi: — Ella non distaccherá queste dita per tutto un mese, se mi permette di tenerle cosí, finché avrò terminato di nominare uno per uno i sommi uomini de’ sei ultimi secoli dell’Italia.—Non li conosciamo — soggiunse. — Lo veggo — risposi. — Ma, s’Ella suppone che un maestro di lingua italiana troverebbe favore e incoraggiamento... — Il libraio, che udiva il nostro discorso, interrompendomi con vivacitá: — Non abbia — replicò allora — il menomo dubbio di questo. — Se la cosa è cosí — dissi subito, — sarò io il fortunato italiano che fará conoscer a’ signori americani i pregi della sua lingua e il numero e il merito de’ suoi massimi letterati. — In tre soli giorni dodici de’ piú colti giovani e damigelle di Nova-Iorca prendean lezione italiana da me. Il quindicesimo giorno di dicembre dell’anno 1807 incominciai la mia prima carriera con felicissimi auspici, nella casa del venerabilissimo e di sempre dolce cara e onorata memoria vescovo Moore ; e fu lá che gettai la prima pietra del mio fortunato edificio. I primi a decorarlo luminosamente furono gl’impareggiabili suoi figlio e nipote, il.signor Giovanni M. Vickar e il signor E. Pendleton, quattro personaggi del cui sapere, costumatezza e cristiane e sociali virtú giustissimamente si pregia la nobile e popolosa cittá di New-York. L’esempio di soggetti si illustri non potea non produrre se non degli ottimi effetti tra il rimanente de’ cittadini. In meno d’un mese io avea ventiquattro giovani da instruire. E, * come al momento in cui scrivo ne potrei noverare piú di cinquecento! 1 ), cosí non parmi a proposito ridire il nome di tutti, (1) Riferiscasi questo al momento in cui stampai queste Memorie. Dall’anno poi 1826 all’anno 1830 è doppio il numero degli allievi che impararon l’italiano da me. benché scritti nel cor tutti li porto, a mia gloria, a mia gioia, a mio conforto. La bontá con cui s’ascoltavano le mie lezioni, lo zelo con cui frequentavansi, e il favore straordinario che s’accordava si a me che alla lingua del mio paese, creò in breve tempo un tale entusiasmo nello spirito della studiosa gioventú, che il secondo trimestre io non poteva senza infinita difficoltá supplir al numero dei miei allievi. Pareva però che la provvidenza desse a me quella forza, quella costanza e quell’ardimento, che l’etá mia, giá tanto avanzata, parea negarmi. Ebbi in brevissimo tempo il supremo piacere di udir quel coltissimo signore, che non si ricordava del sesto de’ nostri classici, cantar solennemente la palinodia, e vederlo trasformato in uno dei piú focosí e zelanti promotori e proteggitori della favella e degli autori italiani, che pel suo esempio e pe’ suoi consigli furono letti, studiati e ammirati da’ piú svegliati ed acuti ingegni d’ambidue i sessi. Permettete, signor Clemente Moore, ch’io fregi questa parte delle mie Memorie del vostro caro e rispettabile nome ; permettete che il grato mio core, ricordevole dell’onor, delle grazie e delle beneficenze ricevute da voi e da questo vostro non mai interrotto favore, non meno che de’ vantaggi e dello splendore derivato da quello a’ piú sublimi ingegni d’Italia, all’Italia stessa ed a me; permettete, dico, ch’io colga questa occasione di darvi una pubblica testimonianza della mia giusta riconoscenza, e protesti solennemente che, se la lingua d’Italia, se i suoi piú nobili autori son conosciuti e amati in New-York non solo, ma nelle piú colte cittá dell’America, se posso alfin darmi il vanto glorioso d’averli io solo introdotti, d’averne io solo diffusa la fama, la coltura e la luce in America, il principal merito è vostro ; e non potrei facilmente decidere se piú vi deva in questo fortunato avvenimento io, la mia patria o la vostra, giacché tutti godiamo in peculiar modo gli effetti continui del vostro primo favore, secondato mirabilmente da’ vostri piú saggi concittadini, ed in particolaritá da’ vari membri della vostra onoratissima famiglia, che incoraggirono a gara gli sforzi miei e aggiunsero co’ detti e coll’opera ardore e forza al mio zelo e al desiderio vivissimo di veder permanentemente stabilita in America la primogenita della greca e latina letteratura, per la coltura e diffusione delle quali, non meno che di tutte le arti e scienze, si voi che il vostro dotto, erudito e sapiente cugino Nataniello con si felice successo v’adoperate. Torniamo alla dolce lingua. Veduto dunque con giubilo il fervor generale della gioventú di quel tempo, non neglessi alcun mezzo, alcun allettamento per nudrire quel foco e per fomentarlo. Non v’erano allora in New-York alcuni librai che avessero libri italiani ne’ loro scaffali. Errai nella prima edizione di queste Memorie, quando dissi d’aver tratti da vari paesi d’Europa un numero scelto d’opere classiche. È ben vero che accennai la mia brama e le mie speranze a certo libraio di Genova; ma altro non ebbi in risposta se non che mi si spedirebbero i libri al ricevimento del lor valore: la somma montava a poco piú di novanta piastre h). Fu il caro fratello mio, Paolo, che, sebben non ricco e angustiato da circostanze terribili, mandommi la prima serie de’ nostri classici. Gli sparsi tra’ miei allievi, gli animai a leggerli, a meditarli, e in men di tre anni ebbi la pura allegrezza di veder ornate le biblioteche e i deschi degli studiosi del fiore della nostra letteratura, che compana per la prima volta in America.
Proposi allora e mi riusci di stabilire delle assemblee diurne e notturne, nelle quali non si parlava altra lingua che l’italiana, dove leggevansi o si ripetevano a mente i piú be’ tratti de’ nostri oratori e poeti, e dove si recitavano delle commediole o de’ piccioli drammi, composti da me per le piú modeste e venerate damigelle di questa cittá. L’effetto di simili esercitazioni era veramente maraviglioso, perché tenean viva, coll’ésca del diletto, le fiamme e l’entusiasmo generale per lo studio di questa bellissima lingua, e servivano a un tempo stesso a facilitarne l’intelligenza e la pratica. Recitammo una volta in un teatrino (i) Questo fu il primo incoraggiamento che i signori librai italiani mi diedero! eretto da me nella propria mia casa la Mirra del grande Alfieri: avemmo per nostri spettatori cencinquanta persone, iniziate in tre soli anni da me nella favella italiana, e non è facile descrivere il diletto e l’approvazione generale a quella divina rappresentazione. Fui obbligato ripeterla la sera seguente, e ciò fu con maggior applauso e a maggior numero di spettatori. Con tutto il vantaggio, con tutto il piacere che questi nobili ed innocenti esercizi producevano, non mi venne fatto da otto anni in qua di rinnovellarli nella cittá di New-York, dove, né so per quai stelle maligne, li mise in disuso e in dimenticanza la mia assenza di sei a sette anni.
Molte furono le cagioni che ritardarono i progressi della nostra favella, da quel tempo in poi, in Nova-Iorca non solo, ma quasi in tutta l’America. Tra queste cagioni, a giudizio mio, non è forse l’ultima un tal pregiudizio. Lo chiamo francamente cosí, perché gli ascetici piú rigorosi li propongono fino agli alunni de’ seminari e a’ monacali cenobi; e Maria Teresa, principessa che non peccò certamente contra la santitá della religione o contra i doveri della modestia, non arrossi nell’udire le proprie figlie ripetere sulle scene i precetti della morale ne’ purissimi versi del Metastasio, e dipingere con vezzo donnesco le vicende e i capricci della fortuna, e qualche volta ancora la filosofia e le dolcézze di un amor virtuoso. La cosa dunque è innocente e lodevole in se stessa. Ma noi critichiamo sovente negli altri quello che noi non sappiamo fare, cercando cosí di coprire la nostra ignoranza col manto di una virtú. Una spiritosissima damigella, che stordita aveva la cittá tutta colla recita d’un mio dramma, criticavasi ne’ crocchi privati dall’altre donne, che correvano alle sue recitazioni. Una prodigiosa affluenza d’allievi m’avrebbe dati però mezzi sufficienti a educare e mantener con decoro la mia famiglia, s’io non avessi avuto sempre la mala sorte di dar di cozzo in certe venefiche sanguisughe, che vanno in traccia de’ buoni per succhiar il lor sangue e rimunerarli poi col disprezzo, colla critica e spesso ancora colla calunnia. Obbligato dal dovere di storico di dipingere due o tre di costoro, li chiamerò «i miei amici», perché in abito d’amicizia mi si presentarono, coll’abito d’amicizia mi tradirono, e sotto l’abito di amicizia il coltello nascosero, che alle spalle poi mi scagliarono. Un di questi mariuoli fu la primaria, se non l’unica causa, per cui io cangiassi New-York colla fatalissima borgata di Sunbury. Mi fu presentato costui da un giovane francese, ch’io amava e stimava molto: era ottimo distillatore, ma la sua gran povertá gli toglieva i mezzi onde far fortuna. M’associai con lui, e per alcuni mesi andava tutto a seconda. Ma l’ingordigia, l’avarizia e le iniquitá di costui, che in brevissimo tempo s’era arricchito coi fondi e l’industria mia, per si fatto modo stancarono la mia infinita pazienza, che determinai di sbarazzarmene. La sua stomachevole ingratitudine m’avea talmente disgustato, che mi venne perfino la tentazione di partire da New-York per non vedere tal malandrino. Per somma sventura mi parea che a quell’epoca l’ardore degli studiosi per le lettere italiane fossesi alquanto raffreddato. Il mio spirito era dunque in tale situazione, quando capitommi una lettera d’una mia parente, che stabilita erasi in Sunbury alcun tempo prima, nella quale facevami un si bel ritratto del loco, che mi venne voglia sul fatto di trasportarmivi. Il decimo giorno di giugno dell’anno 1811 pigliai con me la famiglia e partii per Sunbury. Vi giunsi, e in tre soli giorni me ne innamorai si fattamente, che presi la risoluzione di stabilirmivi. Le accoglienze fattemi, per dir il vero, da chi scritto m’avea quella lettera, non furono né si tenere né si focose, come avea diritto di sperare: ma non fu la speranza o il desiderio dell’altrui soccorso che operò in me questo cangiamento. Fu l’amenitá del loco, la brama di riposo e la lusinghiera apparenza di non aver bisogno se non di Dio e di me stesso, com’io non l’aveva avuto a Nova-Iorca. Infatti io avevo rammassato da tre a quattromila piastre: sperava perciò che un’oncia di fortuna e due di cervello bastare dovessero a intraprendere un traffico di qualche genere, co’ profitti del quale mantenere non disagiatamente la famigliola. Communicai il mio progetto al dottor G***, che io credea dover essere amico mio, ed egli l’udi con trasporti di giubilo e m’assicurò d’un buon esito. Come il mio capitaletto era quasi tutto in contante, cosí consigliommi di comperar varie mercanzie, e sopra tutto delle droghe medicinali. Seguii ciecamente il suo consiglio; ma presto mi accorsi ch’era il consiglio di Achitofello. Tornai a New-York, ove misi in sesto le cose: di lá passai a Filadelfia, cangiai alcuni oggetti in altri di minor volume o di maggiore spaccio, e tutto sarebbe ito bene, se non avessi avuto la disgrazia di abbattermi in un ipocritone che mi ingannò crudelmente: Lorenzo Astolfi.
Vendeva costui liquori e confetti nel piú frequentato posto di Filadelfia. Passandovi a caso, entrai nel suo magazzino, e, udendo che parlava italiano, mi posi a conversare con lui. Io avea portata con me da New-York una quantitá di rosoli e di aròmati. Credendoli mercanzie fatte per lui, gliene offersi la vendita. Venne da me il di seguente, ne prese le mostre e mi pregò d’andar da lui. V’andai mentre era sul punto d’andar a pranzo: a quello che pare, fatai momento per me. M’invitò a pranzare con lui. Memore del pranzo irlandese, volli scansarmene; ma egli chiuse la porta a chiave, e fu giocoforza pranzare. Il pranzo era ottimo, il vino squisito, il signor Lorenzo trattommi con tanta ospitalitá e cortesia quel primo giorno non solo, ma molti altri, che io lo tenni ben presto pel miglior uomo del mondo. A questa mia buona opinione rispondea perfettamente vox populi. Egli era, dicevano, un galantomenone, un uomo generoso, un cristiano caritatevole. Acquistato aveasi tal fama andando a udir la messa ogni giorno, confessandosi ogni settimana, battendosi il petto a piè degli altari e portando ogni sabato due candele di cera e tre soldi d’olio a quello della Madonna del buon consiglio. Difatti ei mi disse un giorno, con occhi molli di sante lagrime, ch’egli era devotissimo della Vergine, ch’ella gli appariva ne’ sogni quasi ogni notte e gli dava continuamente de’salutari consigli. In fine di tutto, io lo battezzai per un uomo debole, ma non per un perfido. Alla cieca perciò depòsi tutto nelle sue mani, gli proposi alla cieca di vender tutto come cosa sua e, calcolate le spese, divider i profitti con me. Vedendo dalla mia connivenza e dalle mie dimostrazioni d’affetto ch’ei potea far tutto con me, colse il momento opportuno di offrirmi in parte di pagamento una sedia e un cavallo, ch’io presi per quattrocento e cinquanta piastre, benché, come dopo seppi, non gliene costavano che trecento. Terminati gli affari con lui, gli annunziai la mia partenza. M’abbracciò, mi baciò, mi promise di raccomandarmi alla sua beatissima protettrice e m’aiutò ad entrare nel calessino. Partii ringraziando il cielo d’aver trovato un si raro amico: ma in tutte le cose lauda finem. A mezza via una stanga del calessino si ruppe, senza che mi nascesse alcun sinistro. Questa rottura però non fu che un raggio del fulmine, che poi mi piombò sul capo in quella sedia medesima. Arrivai a Sunbury sano e salvo e pieno di speranze e d’ardire. Presi a pigione subito una casuccia e cominciai a trafficare. Io avevo portato con me, oltre le droghe medicinali, delle mercatanzie di ogni genere. Volle il dottor G*** che le medicine si collocassero nella sua casa dove 10 spaccio doveva essere quasi istantaneo, ma gli altri oggetti 11 recai tutti alla mia, dove in pochissimi giorni si vendettero per contante con moderato guadagno. Contento di questa prima operazione, tornai a Filadelfia e vi feci de’ nuovi acquisti. Visitai il mio nuovo amico; tutto iva bene. Nuove pulizie, nuove cortesie, nuove protestazioni d’amicizia. Mi vi fermai pochi giorni, perché un secondo amico mi chiamava a Boundbrook. Nel tempo in cui esercitava la mercatura a Elizabeth Town, io ho affidate delle mercanzie a molti intrigatori di Jersey, e tra questi a Guglielmo Teller. Quando tornai a Nova-Iorca, ei mi doveva ancora un centinaio di piastre, e avea poca speranza di ricuperarle. Sebben conosciuto per pessimo pagatore, tali nulladimeno erano le sue arti, che gli uomini piú cauti e piú riservati erano stati sedotti da lui. Doveva perciò del danaro a molti mercadanti di Nova-Iorca, dove non osava venire se non di raro per paura de’ contestabili. Un giorno, mentre io stava ripassando alcune carte nella mia stanza, mel vedo apparire. Gli domando che vuole. — Io vengo — mi rispose egli — a veder come sta il mio buon amico signor Da Ponte. — Nel momento stesso si picchia la porta: depongo le carte sul tavolino ed esco per vedere chi era. Il figlio del signor G*** C*** e un contestabile, ch’iva in traccia di lui, eran venuti per arrestarlo. Mi parve atto poco generoso il lasciarlo condurre dalla mia casa alle carceri, e, non essendovi altra via di salvarlo, m’offersi di essere guarentia di ottanta scudi ch’egli dovea, e cosí 10 salvai. Ritornando nella mia camera, trovai le mie carte in qualche disordine: siccome però nessuna di quelle esser potea d’alcun uso per lui, cosí non nacquemi allora alcun sospetto; ma, rimettendole con qualche dispetto nel tacuino, l’informai di quello ch’io aveva fatto. Mi ringraziò, promise di pagare gli ottanta scudi e parti. Passarono alcuni mesi, e, come giá dubitava, toccò a me pagare. Gli scrissi; non mi rispose: andai a ritrovarlo. Dopo molte bugie, molte favole e molte ciarle, m’offri, in pagamento di cencinquanta piastre che mi dovea, un cavallo sciancato e un assortimento di nuovi arnesi per la mia sedia, ed io, ricordandomi del proverbio «è meglio poco che niente», in mal punto per me, accettai quel che offriva. Gli diedi piena ricevuta e parti. Appena uscito era dall’osteria, ch’uno de’ figli di quel ladrone entrò con un contestabile e dichiarommi suo prigioniero. La sorpresa e lo sbigottimento non lasciandomi forza di parlare: — Io comperai — soggiunse — dal console inglese una cambiale di cento lire sterline, pagabile da lei al signor Guglielmo Taylor, impresario del teatro italiano di Londra: o Ella mi paghi, o le piaccia fare una passeggiatala col signor contestabile. — Il mio lettore ha di giá capito come andò tutta la faccenda. Nel momento medesimo in cui io mi adoperava per liberarlo dalla prigione e mi esponeva a dover pagare, come di fatto pagai, ottanta scudi per lui, quel traditore frugolò le mie carte e m’involò quella cambiale ch’io aveva prestato sett’anni prima a Guglielmo Taylor a Londra e pagata ad alcuni usurai di quella cittá, mentre quell’impresario era andato a Parigi. Non mi trattenerò lungo tempo su questo orrendo spettacolo d’iniquitá. Il signor Pembel, onorato padrone di quella locanda, e 11 rispettabile mio amico G. Scott, avvocato di Brunswick, entrarono mallevadori per me. Tornai a Sunbury; a’ tempi dovuti mi presentai alla corte; ma né Teller, né il figlio né il lor avvocato ebber l’audacia di comparire! Per un intero settennio non udii piú di costoro. Quell’infame vecchio però fini come meritava. Rubò alcuni documenti da un pubblico archivio, fu condannato in vita alle prigioni di Stato ed ivi fini di vivere e di rubare. Le carceri di New York non videro né vedranno forse mai piú un simile ribaldo. Ei venne dal Canada. Terminato cosí questo affare, tornai a Sunbury e ricominciai a trafficare. Ebbi l’agio frattanto d’esaminar bene le cose, e piacesse a Dio eh’ io potessi dir ora di quel paese quello che avrei potuto dir con giustizia a que’primi tempi! Ma Sunbury del 1818 non era il Sunbury del iSii. Daronne, se posso, una lieve idea al mio curioso lettore.
Sqnbury è una piccola cittá della Pensilvania, nella contea di Northumberland, e circa cento e venti miglia distante da Filadelfia: si giunge al piede d’una montagna di trentasei di lunghezza, che, sebben erta ed alpestre, è tuttavia resa dall’arte di facile e non pericolosa salita. I margini sono inghirlandati di virgulti, cespugli ed alberi d’ogni sorte, tra’ quali pompeggia un’incredibile quantitá di lauri selvatici, che nella primavera e in una parte della state offrono lo spettacolo d’un continuo giardino col piú vago e leggiadro forse di tutti i fiori. I fianchi di quella montagna rappresentano da ambidue i lati un teatro di rustica magnificenza. Ruscelli, cascate di acqua, collinette, dirupi, massi marmorei e gruppi d’alberi multiformi si stendono in due valli vastissime e profondissime, che metton capo con altre montagne di non dissimile aspetto. Trovansi qua e lá delle casucce, delle capanne di pastori, delle immense cave di carbone e di calce, de’ tratti di terreno ben coltivato, delle osterie molto commode, e, tra un’infinitá di cervi, di cignali, di pernici, di fagiani e d’ogni altra sorte di selvaggina, de’ lupi, delle volpi, degli orsi e de’ serpenti a sonaglio, che, sebben raramente assaliscano il passeggierò, aggiungono nulladimeno un certo orror dilettevole, una certa aura di solennitá a quella maestosa solitudine. Le acque son «chiare, fresche e dolci», al pari di quelle in cui la divinizzata Lauretta «pose le belle membra», e in vari tempi dell’anno vi si trovano delle trote tanto saporose, che i laghi di Como e di Garda non ne danno di migliori al ghiotto lombardo. Non prima di giungere all’ultima vetta della montagna si vede Sunbury. L’entrata del borgo promette poco all’occhio osservatore de’passeggieri : non pulitezza di strade, non eleganza di fabbriche, non frequenza di popolazione. Ma, fatto poco piú di mezzo miglio, quando si giunge a quella parte della borgata che sulla sponda dilatasi della Susquehanna, riviera nobile e navigabile, la veduta è veramente maravigliosa, pe’ vari giri dell’acque, per le boscaglie, i monticelli ed i paesetti, di cui l’opposta riva inghirlandasi. Da questa amenissima parte di Sunbury era la casa presa a pigione da me, nel centro delle piú rispettabili famiglie del loco, fra le quali primeggiavano allora quelle de’ signori Grant, Hall, Bujers e Smith. Ci legammo ben presto nella piú cordiale amicizia, e passammo il primo anno e gran parte del secondo in una perfetta armonia, procurandoci que’ conforti e que’ passatempi che il buon costume e gli usi dell’onorate societá permettono a persone colte, agiate e dabbene. Conversazioni notturne, danze contadinesche, conviti gioviali, giochi di civile compagnia erano le delizie della parte sana di quel paesetlo. V’era anche allora, come v’è da per tutto, la parte inferma della borgata, ma questa generalmente s’evitava da’ buoni, cane peius et angue. Le donne poi erano quasi tutte amabili, sagge e per la maggior parte assai belle. Ne nominerò una fra tante, che per affabilitá, soavitá di maniere, puritá di costumi e sopra tutto per l’adempimento esemplare d’ogni dovere domestico si può coraggiosamente proporre come perfetto modello di madre di famiglia. La signora Elisabetta Hall è la persona veneratissima di cui parlo: figlia d’uno de’ piú facoltosi cittadini di Pensilvania, che con grato rispetto di gratitudine onora la sua memoria; moglie, e sfortunatamente ora vedova, d’uno de’ piú celebri avvocati di quella contea, e madre felice di bellissima ed amabilissima prole. Il primogenito de’ suoi figli studiò le lingue con me. Molta memoria, veloce ingegno e grand’attenzione allo studio erano i fortunati presagi della sua ottima riuscita nella professione del padre, ch’egli seguir doveva, e segui. Io l’amava teneramente, né credo d’aver negletto mai cosa che dovesse o potesse contribuire al suo bene in quella parte d’educazione affidata a me dal suo allora vivente padre. Egli è il solo nulladimeno (né saprei dire per qual mia colpa), tra quasi mille e duecento giovani e damigelle educate da me nelle lingue in America, il solo, lo vo’ ripetere, ch’abbia dimenticato l’affetto e le cure mie; il solo che m’abbia negato alcuni di que’ riguardi, che le persone gentili credono di dovere a chiunque contribuí all’ornamento del loro spirito; il solo che siasi rifiutato il piacere di consolarmi nelle afflizioni, di sostenermi nelle sventure, di soccorrermi ne’ bisogni. Egli avrebbe potuto, senza alcun biasimo, senza alcun rischio, senza alcun danno, versar un balsamo di consolazione sulle non meritate mie piaghe, aiutar un cadente padre a dar l’ultima mano all’educazione e allo stabilimento d’un figlio, prestar a un ottuagenario vegliardo i mezzi onde porger qualche riposo alle affaticate sue membra, e udito avrebbe, sebben lontano, le benedizioni d’una intera famiglia, riconoscente d’un bene che poteva fare senza sua perdita e che, a parere d’ognuno, fare doveva, perché prima di lui il suo onoratissimo padre l’ha latto. Spiegherò piú chiaramente nel corso di queste Memorie qualche parte oscura di questo paragrafo, cavato a forza da una penna bagnata piú dalle lagrime che dall’inchiostro. Seguitiamo l’istoria di Sunbury.
Appena riseppesi ch’io era versato nelle lingue e nelle lettere, che diverse damigelle del loco e della vicina cittá di Northumberland domandaronmi d’esserne istrutte. Condiscesi sul fatto all’onorevole loro brama e, tra gli emolumenti procuratimi da questo esercizio e i profitti prodotti dal mio piccolo traffico, io era in istato di vivere agiatamente, senza intaccare il mio capitale.
Erano in questa situazione le cose, quando un mio grandissimo errore diede un giro affatto diverso alle cose. Tutto o quasi tutto quello ch’io venduto aveva fino a quel punto, era stato venduto da me per danaro contante. Il lucro era tenue, ma senza rischio. Pretese il cognato mio che il vender le cose a credito e in pubblico magazzino dovesse esser per me di maggior vantaggio. Abbracciai, per mia malora, il di lui consiglio. Non conoscendo ancora abbastanza gli abitanti del loco e delle sue vicinanze, mi lasciai ciecamente guidare da lui. Un «very good» della sua bocca o della sua penna doveva esser per me lo stendardo di guarentia. Appena si seppe la mia risoluzione, gli avventori concorsero da ogni parte. In poche settimane i miei non vastissimi magazzini eran vuoti, ma vuoto era parimente lo scrigno, o, invece di contenere quel bel metallo che laetificat cor piú del vino, conteneva un bel fascio di biglietti, di cambialette e di «pagherò», o di somiglianti fantasimi di danaro, una gran parte de’ quali hanno, allo stringer de’conti, il medesimo valore c’hanno le foglie degli alberi verso la metá di novembre! Il dottor cognato frattanto si congratulava meco vivacemente del mio great success , e, nel ripassare i nomi di cui era giá pieno un gran libro (che molto cortesemente regalato m’avea), non facea che ripeter per mio conforto: — Good, very good, all very good! — Al tempo peraltro de’ pagamenti trovai, con rincrescimento e sorpresa, che tutti o quasi tutti i «good» del signor dottore erano «bad», «bad», «very bad» pel signor Da Ponte! Noi vedremo tra poco le miserabili conseguenze. Considerate bene le cose, credei che mi convenisse tornar a Filadelfia e negoziar le cambiali che mi si diedero a Sunbury per quelle mercatanzie. Sperava eziandio di trovar qualche centinaio di piastre nelle mani del buon Astolfi, di vendere per quel che potea il cavallo del canadiano, e forse la sedia e l’altro cavallo, e, fatto cosí un nuovo fondo di sei a ottocento piastre in contante, comperar oggetti bastanti ad aprire un rispettabile magazzino. Mancandomi danaro da far il viaggio, andai a man salva dal mio consigliere (che, a quel che diceva, avea i tesori di Creso), e gli domandai cento piastre, offrendogli uno de’ suoi very good «pagherò», che avea pochi giorni a scadere; ma la borsa sua dottorale non era meno leggiera, per quel che vidi, della mia mercantile. Mi disse però che mi condurrebbe dal padre e ch’egli probabilmente comprerebbe le droghe medicinali, se a me piaceva di vendergliele. Fui lietissimo della offerta : non serve dir la ragione. V’andai; in sei parole si conchiuse l’affare. Per medicine, che mi costavan piú di seicento piastre, ebbi una ripetizione, che vendei per centosessanta, una cambiale di cento talleri di W*** T***, che mi fu pagata in cinque anni, e quaranta scudi in contanti. (Ma tanto è mercadante colui che vince, come colui che perde). Con questi tesori addosso, montai nel mio calessino a tiro due, e in men di tre giorni era a Filadelfia. Il cavallo d’Astolfi non era un cattivo animale; l’altro, quantunque zoppo, pareva aver l’ale a’ piedi. Alla entrata in Filadelfia, vedendolo zoppicar piú del solito, mi fermai alla bottega d’un marescalco per farlo esaminare. Ebbi allora la dolce consolazione d’udire che la bestia aveva un difetto in un piede ch’egli teneva per incurabile, ma che, s’io intendeva di venderlo, egli mi darebbe sei piastre! Lo ringraziai dell’offerta, e seguitai il mio viaggio. Giunto ad una locanda, corsi frettolosamente dall’amico dai confettini. Arrivato alla sua bottega, potei accorgermi al primo abbordo che qualche sconcio era accaduto a quel devoto della Madonna. Me gli accostai, gli stesi la mano, ed egli allora, stendendomi la sua, mi disse assai freddamente: —Come sta il signor Da Ponte? — M’offerse una sedia, s’assise presso di me, si ciarlò un pezzo delle cose del mondo, ma non una parola de’ rosoli e delle droghe che io gli avea confidate. Il fegato mi si cominciava a scaldare: nulladimeno dissimulai e gli chiesi placidamente come andavano le cose. — Male, male, malissimo — rispose egli allora, in un tuono di voce flebilcrescente. — I rosoli non vagliono niente, il maraschino è pessimo, la cannella è senza fragranza, ed io non credo di poter trarne il danaro che giá pagai. — Quand’è cosí — dissi allora, — Ella riprenda... — Questo non si può fare—soggiunse egli allora, interrompendomi: — io ho giá venduto una parte di quello che a me diede, e venderò il rimanente come potrò. — E i profitti?— ripigliai io.—Che profitti! che profitti! ringrazierò i santi e la Vergine se non ci dovrò perdere cento piastre! — Gli fissai gli occhi in faccia senza parlare, e lasciai quella confetteria d’ipocrisia, battendomi il capo e gridando: — Ipocrita maledetto, è possibile, è possibile! —Noi vidi mai piú: ma parmi aver udito dire che anche costui fini male. Non potendo né vender il cavallo né passare le cambiali, comperai qualche mercanzia e ripresi la strada di Sunbury. Arrivato a Uu«certa altura, da cui si vede il villaggio di Orvisbourg, si rompono le due stanghe della sedia, i cavalli spaventati prendon la fuga, il fondo di quella radendo il terreno urta in uno sterpo che nella strada sorgea, in quel terribile cozzo balestrami sopra una zolla distante due braccia dal loco della rottura, ed io ne ho rotta una costa, infranto quell’osso che alla spalla sinistra congiunge il collo, e in piú di dodici lochi ferite e lacerate le membra. Un passeggierò pietoso mi porta a una casuccia vicina, di dove son trasportato a un albergo del loco, e da quello, dopo ventidue giorni di cura, sopra un fascio di paglia condotto a Sunbury. Quel letto per veritá era degnissimo d’un poeta coll’ossa rotte e colla borsa piú asciutta di quella d’un cercantino; perché il signor oste, che, al pari del signor confetturiere, era devoto della Madonna, per ventidue giorni d’ospitalitá m’avea fatto pagare cinquantasei piastre! Dio vi guardi, o miei cari lettori, da tali amici! Con tutte le attenzioni e le cure prestatemi in quella occasione da’ vari membri della famiglia, per piú di tre mesi sentii gli effetti fatali di quell’accidente. Incapace d’agire e privò in breve di fondi, mi vidi costretto ad abbandonare e il traffico e le operazioni, e a intaccar il mio capitaletto pel mantenimento non inconsiderabile della casa. Per doppia sventura, il tempo de’ pagamenti era giunto, e nessuno veniva a pagare. Cominciai allora ad aprire gli occhi, ma era giá troppo tardi. Il povero mio cognato non era piú a Sunbury qual io l’avea conosciuto a Trieste. La parte malsana di quel paese avea corrotto il suo buon carattere e indurato il suo cuore. I guadagni della sua professione, sebben molto considerabili, non bastavano alle passioni ed ai vizi da cui era predominato. Esaminando da presso le sue azioni, scopersi che il consiglio a me dato di dar a credito le mercanzie non procedeva da un desiderio sincero di promuovere i miei vantaggi... Ma fermiamoci qui! Non si ferisca, con ora inutili sfoghi, la tenerezza d’una sorella, che ama tuttora il suo nome e la sua memoria, malgrado le perdite, le afflizioni e le lagrime che costarono a lei ed a me i suoi traviamenti e le sue debolezze. È morto: sia pace con lui! Io cominciava frattanto a guadagnar le forze del corpo. Una certa affezione però tormentavami internamente; onde trovossi a proposito di farmi tornar a Filadelfia, per consultare qualche buon medico. Prima di partire da Sunbury chiamai tutti quelli che mi dovevano qualche summa, e, vedendo impossibile di ottener da quelli danaro, condiscesi d’aspettar fino al tempo della raccolta, e allora mi pagherebbero co’ prodotti della campagna. Mi tennero quasi tutti parola, ed io vidi piena in breve la casa mia di carni, di pelli, di burro, di cera, di fieno, di frutta secche, di grano e di molte altre cose di questo genere. Quello, che non serviva per uso mio, vendei per danaro, eccettuato il grano, che, in mia malora, pensai di far distillare. Caddi in questa operazione negli artigli di tre marrani di Northumberland, presentatimisi col passaporto d’un «very goocL» nelle mani. Non li nominerò, perché arrossisco che il mondo sappia ch’io ho avuto a che fare con simili traditori. Lascerò in bianco l’infame nome, e parlerò della cosa. Il filo della mia storia vuole cosí.
Deposi dunque ne’ lor magazzini tutto il grano che avea, e tornai a Filadelfia. Mandai sul fatto pel dottor Phisic, gli narrai la storia della mia caduta. Mi esaminò taciturnamente, m’ordinò l’applicazione di dodici coppette a’ due lati, e si volse alla scala per andarsene. Seguitandolo lentamente, domandai di che cibo dovea far uso quel giorno. — Di nessuno — mi rispose egli in tuon di voce poco melliflua. Ma, quando giunse alla porta, si volse con faccia meno ipocratica, mi disse d’andar da lui il di seguente, e mi permise di mangiare due patate e quattro ostriche. Mandai per un cerusico, m’applicò le coppette, e, dopo aver dormito due ore, sembrandomi di star meglio, andai a passeggiare. Mi trovai casualmente al mercato del pesce, ove ferendomi gli occhi un bellissimo non so se carpione o luccio, lo comperai, lo portai a casa, ordinai che lo facessero bollire e ne mangiai la metá col maggior appetito del mondo, pigliando, invece di pane, due bellissime patate, in obbedienza parziale alla dieta ordinatami da quell’eminente dottore. Andai il di seguente a trovarlo. Fu lieto d’udire ch’io stava meglio, che non avea trasgredite le sue prescrizioni, e m’ordinò di seguitarle. Le seguitai rigorosamente; senonché, ’ invece di quattro ostriche e due patate, mi cibai di quattro patate e di un solo pesciolino di circa due libbre. In cinque sei giorni io stava bene. Allora lodai e ringraziai cordialmente quell’uomo giustamente si celebrato, ch’io nulladimeno prenderei piú volentieri per mio medico che per mio scalco. Sentendomi forte della persona ed in istato d’agire, cominciai a dar opera agli affari. Venduto l’orologio, i cavalli, la sedia e una considerabile quantitá di spiritosi liquori prodotti dal grano che per me distillavasi, mi trovai possedere sette a ottocento piastre, e con questi ricominciai a trafficare. Si sparse fama frattanto, non so dir come, per Filadelfia, ch’io sapessi manipolar per tal modo i liquori stillati, da trarne una qualitá d’acquavite non dissimile a quella che da’ vini stillati si trae da’ francesi distillatori. Due mercadanti rispettabili vennero da me, e si fece un contratto di societá per questa operazione. Sembrando prosperare, volli tornar a Sunbury per disporre le cose e per comperar quanto grano potea, per farne poscia delle distillazioni per l’acquavite. Avendo venduti i cavalli e la sedia, pigliai un posto nella diligenza, che va prima a Reading e di lá a Sunbury. Partimmo verso la sera da Filadelfia: dovevamo fermarci la notte a un villaggio, detto La Trappa. Quando giungemmo ad un certo ponte, distante da quello due miglia, la notte essendo oscurissima e il condottiere briaco, fummo rovesciati in un profondissimo fosso, e, di dieci eh’eravamo nella carrozza, nessuno ne usci senza aver o rotta la testa o dislocata una spalla o fracassato qualche osso. Io ebbi un’orribile contusione nel braccio sinistro, spezzato l’altr’osso che congiunge il collo alla spalla destra, e offesa talmente la I spina, l’osso sacro e le cosce, che non mi fu piú possibile muovermi. Mi portarono all’osteria piú morto che vivo, e non fu se non dopo la cura di tre settimane che mi potettero portar a Filadelfia per farmi assistere da miglior medico. Questi due accidenti terribili accadutimi nell’anno medesimo in etá si avanzata non furono né si fatali né si dolorosi per me, come lo fu la visita di un traditore di Northumberland, il cui infamissimo nome non macchierá le mie carte, come ha egli tentato di macchiar l’onore ed il nome mio, dopo avermi rubata una proprietá d’alcune centinaia di piastre e seminati i germi della discordia tra vari membri della mia famiglia. Perdona, mio buon lettore, se, dopo aver forse eccitata la tua curiositá, sospendo improvvisamente il racconto mio. V’hanno talor de’ delitti che narrar non si possono senza delitto. Torniamo al mio letto.
Io era sul punto di mandare novellamente pel dottor Phisic, quando un amico mio, che udito aveva la mia sventura, entrò nella mia stanza col fu dottor Barton. Non potrei dipingere con parole qual fu l’attenzione di quel dottissimo medico, e quali e quante le sue cure per guerirmi presto. Non pago di questo, mi prestava diversi libri per divertirmi, mi visitava fin due o tre volte per giorno, e rimanea qualche volta dell’ore con me, perché non m’annoiassi restando solo. Questo altrettanto dotto che umano medico pochi anni dopo mori ; ma la memoria della sua bontá e cortesia rimane e rimarrá indelebilmente impressa nell’anima mia, come rimane in quella di tutti i buoni : sia pace con lui, come egli la diede a me, quando visse. In tre altre settimane mi gueri, e immantinente tornai a Sunbury. Trovai le cose in gravissimo disordine a Northumberland.
Tutto era ito. Mi liberai subito da’due perfidi; ma colui, che presi in lor loco, non fu né meno ingrato né meno ingiusto con me. Ne parlerò forse a’ tempi dovuti. Fui obbligato, per salvar l’onor mio, di tornar subito a Filadelfia, dove uno de’ miei distillatori avea passata una mia cambiale per alcune mercanzie secche, ch’io ho dovuto pagare, e che mi misero poi nella necessitá d’entrar in quella linea di traffico. Ripresi, alcun tempo dopo, la via di Sunbury, e vi arrivai senza alcun avvenimento sinistro. È certamente maraviglioso ch’io abbia potuto, a un’etá si avanzata e dopo fatti si disastrosi, incontrar coraggiosamente e sopportar il peso di tante fatiche ; e chi legge queste Memorie avrá ragione di maravigliarsi assai piú, quando dirogli come in soli sett’anni valicai settantadue volte quella montagna, e non sempre nella stagione de’ fiori.
Dopo pruove tanto evidenti dell’umana perfidia, par che un uomo poco lontano da’ settanta avrebbe dovuto cominciar a diffidare degli uomini, o almen a studiarli bene pria di fidarsene. Ma, come fosse volere della provvidenza ch’io cadessi tutta la vita in mano di malvagi, tanti mali da me sofferti non bastarono a darmi senno; anzi l’uscir da un abisso fu per me ognor la vigilia d’entrar in un abisso maggiore. Io avea portato con me una gran quantitá di mercatanzie d’ogni genere, e non poco danaro da trafficare in prodotti della campagna, ed in grani principalmente. Un certo Tommaso Robins avea, per mia disgrazia, in quell’epoca disseccato il negozio, e volea dar a pigione la casa ed i magazzini. L’occasione mi parve propizia, e la presi in affitto. La fama di colui era qual doveva essere. Bevitore, giocatore, intrigatore, immerso nelle laidezze, rotto ne’ vizi, capace d’ogni baratteria, d’ogni frode, con cento altre taccole addosso, ognuna delle quali è sufficiente a rendere un uomo disonorato. Tale era, per opinione generale della parte sana di Sunbury, il proprietario della casa, in cui entrai colla mia giá dimezzata facoltá. Ma il mio cognato insisteva che Tommaso Robins fosse un uomo giusto, e questo bastò per rendermi vittima. Dopo esser caduto nelle zanne di tal cherubino, per colmo delle consolazioni intoppai in un serafino della medesima razza. Era costui un astutissimo yankee , venuto a Sunbury a cercar fortuna. Il diamine me lo mandò per le mani; ed io, fidandomi, al solito, d’un medicastronzolo che me lo alzava alle stelle (e ch’io non sapea essere suo patriotta e cugino), lo pigliai per secretano, scrivano ed agente, piú co’ sentimenti di padre che di principale. Da principio tutto andò bene. Io aveva cangiato sistema. Di venditore. era diventato compratore. I fíttaiuoli mi portavano i prodotti delle lor terre, ed io, dava loro roba o danaro, secondo i loro bisogni. Un’infinitá di avventori concorreva al mio negozio; ed io non era obbligato di vender a credito, come pria, ad oggetto di vender molto. Vedendo i miei magazzini ripieni e la bottega quasi vuota, feci l’acquisto d’un carro e di due cavalli, presi al servigio mio un carrettiere, che si tenea per sobrio ed onesto, spedii a Filadelfia, fuori che il grano da stillarsi, tutte le produzioni rurali, e ne ritraeva quelle della cittá, e, parendomi prosperar prodigiosamente nell’intrapresa, mi credei in istato di fabbricar una casa. In otto mesi la casa era fabbricata, ed io mi gloriava d’aver eretto il piú bell’edificio di tutto il borgo. Ma io non sapeva allora che vari tarli d’iniquitá ne rodeano le fondamenta. Io andava spessissimo a Filadelfia per vendere e comperare, e lasciava intanto gli affari nelle mani del mio serafico yankee. Soleva costui visitar certa feminaccia, che aveva una figlia maritata con un lavoratore dipendente da Tommasone. Andava, diceva egli, da queste donne, ora per leggere con esse qualche capitolo della santa Bibbia, ora per farsi dar due punti ad una calzetta, ed ora per fuggir l’occasioni di pericolose compagnie. Queste donne, dall’altro canto, eran nel numero de’ nostri migliori avventori : lavavano e scopavano gratis la bottega, ed ei poteva fidarsene come di se stesso. Vedremo tra poco qual fu la chiusa d’un si bel panegirico!
Verso la fine di novembre dell’anno 1814 entra ex abrupto nella mia stanza e domandami il suo congedo. Non l’udii senza maraviglia; ma non gli chiesi le cause, né gli feci opposizioni. Assestate le cose meco, comperò un bel cavallo, comperò degli arnesi splendidi, e, colla valigia piena di suppellettili (e molti dissero del bianco metallo), caracollando e complimentando, parti. Egli non era stato un anno con me: il mio salario era molto tenue, e, prima di venire al servizio mio, egli era si povero, che non aveva potuto per piú di due mesi pagare l’oste dove viveva, e che fu poi pagato, e forse ripagato, da me medesimo. Tutti questi riflessi non mi passaron per il capo che dopo la sua partenza; ma io li discacciava come tante tentazioni del diavolo. Dio volle però ch’io ne fossi ben presto illuminato. Verso la sera venne la madre da me: ella era solita di lavare a quell’ora e di scopar la bottega. Io stava sul limitar della porta di strada, quando arrivò. Le feci cenno d’entrare, e qualche momento dopo, piuttosto a caso che per sospetto, getto uno sguardo nel magazzino e non vedo la donna : un nastro della sua scuffia appariva dall’orlo interno del banco, e mi accorsi che, stando inclinata, frugolava le mercanzie. Mi ritiro tacendo, per osservarne la fine. Pochi minuti dopo, credendo probabilmente di non esser da me veduta, esce pian piano. Pian piano la seguo, scopro che tiene un fastellaccio sotto il mantello, l’arresto, glielo strappo di mano, torno da me, e lo trovo ripieno d’oggetti rubati nella bottega. Corro da un giudice, vo’alla sua casa con un uffiziale: la donna era giá fuggita e la sua casa era vuota. La fo’ seguire per varie direzioni, ma o non si seppe o non si potè o non si volle trovarne traccia. Seppi alcun tempo dopo che, carica di butino, camminato aveva tutta la notte e s’era ricovrata nella casa d’un contadino, di dove tornò due giorni dopo in cittá. Fatta citare da me davanti un giudice di pace, confessò come dal primo di maggio al ventisei di novembre aveva ricevuto da O*** p*** agente di Lorenzo Da Ponte, per sé, per la sua famiglia e per quella di sua figlia «all thè articles that was macie use of in their families; that she had paid only for about pive or six pounds of coffee and sugar, while she had received about thirty of each; that D*** /j*** fi^d takeíi out of Lorenzo Da Ponte ’s store two pieces of nankeen, one waistcoat, one hat, ciotti far a coat and pantaloons, two or three pair of shoes, and often pieces of doth or muslin etc. for his oivn use’». Vi sono dell’altre accuse; ma ne aggiungerò una sola in inglese, perché l’avvocato, che difese un tal perfido, arrossisca di se medesimo. «She said also, that O*** />*** fidd }i(,y fivehundrcd dollars in his trunk»! La confessione di questa donna fu corroborata poi da quella della figlia. Conobbi allora qual doveva essere il mio destino. Bilanciati i conti, trovai che il frutto di tutte le mie fatiche di sette mesi era ito nelle fauci o sul dosso di due Taidi e nella valigia di quell’onoratissimo yankee. Quel ribaldo ebbe l’ardire di scrivermi e di accusar me di calunniatore !
A questo terribile colpo ne sopravvenne un altro immediatamente, che non lascerò di narrare. L’infedeltá di colui mi fece far la risoluzione di non fidarmi mai piú di stranieri. Noi avevamo in casa nostra una giovane americana, della cui onoratezza, prudenza ed integritá avevamo da dodici anni indubitabili pruove. Commisi a lei la cura del negozio, e pigliai un’altra donna per quella della famiglia. La prima sera, avendomi preparata la cena vicino al foco, si mise a sedere poco lontano da me. Io aveva deposto sulla mensa un libro di conti, in cui teneva alcune Cedole di banco, tra le quali tre ve n’erano di cinquanta piastre ciascuna. Finita la cena, colei si leva in silenzio, piglia quel libro, lo mette sul vicin desco; ma, come veduto aveva il danaro che conteneva, lo prese in maniera da lasciar cadere una parte delle carte. Prima d’andare nella mia camera, ripiglio il mio libro e lo colloco sul capezzale del letto mio. Lontano da ogni sospetto, m’addormento, dormo placidamente; ma qual fu la sorpresa e l’affanno mio, quando, allo svegliarmi al mattino, l’occasione portò che aprissi quel libro e che trovassi che quelle tre cedole appunto erano sparite! Corsi subito al loco dove avea cenato, cercai invano per tutti gli angoli della casa, e allor, chiamata a me quella donna, su cui sol potea cadere il sospetto mio, l’esaminai, la pregai, la minacciai, la feci metter in carcere; ma tutto fu vano. Una mia vicina trovò, pochi giorni dopo, una di quelle cedole celata sotto una pietra smossa dal suo sogliare; fu veduta colei il giorno prima frugolar quella pietra stessa al levar del sole : tutti nulladimeno mi dissero che il provarlo in giudizio sarebbe stato difficilissimo, e mi toccò inghiottire una pillola di cento piastre.
Duoimi dover raccontar tali bagattelle a chi forse aspetta di trovare piú importanti materie in questo volume. Si ricordi però che le cose di questo mondo sono tutte proporzionate allo stato delle persone alle quali succedono, ai tempi e alle circostanze. La storia d’una serie continua di calamitá, che afflíggono un uomo ornai giunto all’ultima vecchiezza, non favorito dalla fortuna, incapace d’ogni atto vile, e solo sostenitore di dipendente famiglia, non è, per mio avviso, meno interessante per l’anime compassionevoli che il racconto d’una battaglia perduta da un gran generale o quel d’una squadra che fatto abbia naufragio a un comandante di mare. Chi non ha l’anima capace di questo nobile sentimento, chi crede che le vicende d’un uomo solo, perché non famoso, perché non grande, non bastino a servire di scola o ad interessare chi legge, non ha bisogno, né per sé né per me, di leggere queste Afemorie. Fu appunto nel tempo in cui trovavami in tanti guai, che mia cognata fini di vivere. Pareva che la sua morte cagion dovesse essere di qualche sollievo a’ bisogni miei. Questa donna era vedova da pochi anni, padrona assoluta d’una considerabile facoltá, acquistata quasi intieramente per la mia caritá e per gli industriosi talenti della sorella; non aveva figli; e, sebbene sapessi ch’ella non mi voleva tutto il suo bene, sperava nondimeno che, condotta al letto di morte, non osasse farmi la ingiustizia di privarmi affatto e per sempre anche di quello che la sorella aveva, per troppa cautela e per una malintesa sororia confidenza, depositato nelle sue mani. Immemore tuttavia delle mie beneficenze e de’ miei sociali diritti, m’escluse da un’ereditá di quattordici a quindicimila piastre! Dio non le attribuisca a delitto i mali e l’avvilimento, che a me cagionarono e a tutta la mia famiglia le disposizioni dettatele da un odio ingiusto e da una sconsigliata vendetta! Per ora non piú di ciò. Dopo tanti rabbuffi della fortuna, e tanti tradimenti di perfidi, mi vidi alla necessitá o di sospendere ogni operazione o di cercar de’ soccorsi altrove per proseguire. Ipotecai allora la casa. Tra effetti e danaro, ebbi una certa somma, che avrebbe forse bastato a porre le cose in buon ordine, se l’ignoranza dell’avvocato, che stipulò le condizioni dell’ipoteca, e la lenta sordidezza del prestatore state non fosser cagione che il soccorso giunse dopo la rotta. Per le lor dilazioni, il danaro, che doveva servire a comperar oggetti vantaggiosissimi, arrivato fuori di stagione, ad altro non servi che a pagare dei debiti, ed io mi ritrovai conseguentemente piú imbarazzato di prima. Erano in questo stato le cose, quando giunse la nuova della pace conchiusa tra l’Inghilterra e gli Stati uniti d’America. Questa pace, poco aspettata, diminuí quasi del cinquanta per cento il valor delle mercanzie. Un bizzarrissimo equivoco era stato cagione, alcun tempo prima, che io riempiessi piú del mio solito i magazzini. Passando un giorno per Reading, mi fermai in una osteria per dar riposo a’ cavalli. Nella camera, in cui entrai, v’era tra gli altri un francese che conoscevami e che gridò, appena videmi: — Oh, monsieur Du Pont! comment vous portez-vous? — In tuon allor basso ma intelligibile, s’udi ripetere da piú bocche: — Du Pont! Du Pont! Du Pont! — Io non sapeva che credere di questa specie d’eco, cagionato dal nome mio. Chiesi un bicchieretto di vino ed uscii dalla camera. Al mio rientrarvi, diverse persone mi fecero cerchio e, come fossero amici miei di trent’anni, mi dissero che udito aveano abbastanza di me per offerirmi le loro mercatanzie a’ termini e prezzi di Filadelfia. Andai allora a’ lor magazzini e ne feci scelta. Dopo aver pagato in contanti gli oggetti che scelsi, mostraronsi tutti desiderosi d’aprire con me traffico piú esteso. Chi m’offriva droghe, chi liquori, chi panni, chi tele, per ricever in pagamento cambiali, danaro, prodotti rurali, come o quando piú mi tornasse. Io non potea capire donde nascesse tanta ansietá di vendermi a credito in persone che si poco mi conoscevano e che d’altronde io sapeva esser molto caute nel trafficare. Io avrei potuto quel giorno portar via tutto Reading, se contenuto l’avesse il mio carro. Non fu se non al momento della mia partenza, quando uno di que’ merendanti mi pregò di salutare il «suo amico e cugino mio Du Pont», potuto spiegare l’enimma. Preso m’avevano tutti costoro per uno della famiglia Du Pont, da cui manipolata è la polvere: corteggiaron cosí nel mercatantuccio di Sunbury il ricco fabbricatore di Brandywine. Vedremo tra poco quanto caro mi costò quell’equivoco. La mia perseveranza, nulladimeno, e i guadagni considerabili, ch’io facea in questa maniera di traffico, avrebbero, se non impedita, ritardata almeno di molto la mia caduta, se un semiavvocato di Sunbury, non so se per malignitá di carattere o per isperanza d’ottenere clienti a un uffizio di poca fama, diede il colpo di grazia al mio credito. Andò a Filadelfia, e, tanto in quella cittá quanto in quelle per cui passava, esagerò le mie sventure, ne creò di novelle, e distrusse ogni confidenza che in me s’aveva in tutta quella parte di Pensilvania. Spaventati da’ suoi rapporti, tutti coloro, che avevano avuto a che fare con me, mi saltarono addosso come tanti cani famelici, e fecero di me e delle cose mie una miserabile carnificina. Il primo a comparire in questo campo di persecuzione fu quel mercadante, che prestato m’aveva il danaro con ipoteca. Fu Levy che il consigliò, fu Levy che intraprese d’agir per lui al suo ritorno a Sunbury, fu Levy che tentò tre volte di far vender sub basta la casa mia, sperando d’ottenerla per sé o per un suo favorito for little or Jiothiug. È ver che le leggi e la costanza mia delusero la sua speranza ; ma il romore di questo tentativo fu a me tanto pernicioso, quanto stata sarebbe la stessa vendita. Due mercadanti di Filadelfia, che solevan mandarmi mercanzie per prodotti, ritennero tutto ciò che loro spedii e rimandarono vuoto il mio carro. Due altri di Reading impiegaron un famoso furfante a ricuperar da me quello eh’io loro dovea, e il primo saluto datomi da costui fu in compagnia dello scerifo. I fittaiuoli, che alcun tempo prima aveano in me molta confidenza, mi chiedevano i pagamenti prima di portare le produzioni. Accadde a quest’epoca che que’ mercadanti di Filadelfia, con cui io m’era associato nella manifattura dell’acquavite, ebbero la disgrazia di fallire, e questo fallimento mi privò di un grande aiuto, ch’io riceveva da’loro fondi e dal loro credito. Con tutto questo torrente di foco, io sarei forse ancora in quell’infelicissimo borgo, se la mano della provvidenza non m’avesse tratto da quello, come talora si trae pei capelli fuori dell’acqua un uom vicino ad annegarsi. A forza di pazienza, di sacrifizi, d’attivitá, dopo aver fatto fronte a tante calamitá e persecuzioni, avea potuto entrar nella mia nuova casa, empier la bottega di mercanzie, pagar o assicurar i pagamenti a’ creditori piú timidi, somministrare del grano a due diversi distillatori e ricuperar un buon credito. Io gioiva in me stesso d’aver trionfato alfine di tanti nemici: ma poco sapeva allora che, uscito dall’acqua, non faceva che correre al foco, in cui mi sforzava a tutto potere di precipitare. Vía la mano invisibile, che venne tant’altre volte al soccorso mio, liberommi anche questa dalle fauci di leoni e di dragoni, e compensò la sofferenza e il coraggio mio con un de’ piú dolci e desiderabili avvenimenti della mia vita. Fúr le tribulazioni di Sunbury che mi hanno ricondotto per vie mirabili alla cara e da me ognor benedetta cittá di New-York; e quai furon, e per gii altri e per me, gli effetti felici del mio ritorno, vedrassi (con gioia il dico) nel rimanente di questo volume. Terminiam la storia di Sunbury.
Erano in questo stato di risorgimento gli affari miei, quando quell’avvocato medesimo annunziò per una seconda volta la vendita della mia casa. Questa novella atterri piú che prima i miei mercadanti, uno massimamente, a cui io doveva seicento ottanta piastre. Io aveva molta parzialitá per lui. Udendolo inquieto, volai a Filadelfia e procurai di persuaderlo ch’io aveva abbastanza da pagar tutti, ma che egli ad ogni modo sarebbe l’ultimo a perdere un soldo con me. Parve soddisfatto, mi compati, mi lodò e mi promise assistenza. Io era tanto sicuro della sua amicizia e della bontá del suo cuore, che lo pregai di vedere tutti quelli, a cui io doveva qualche danaro, e procurar di tranquillarli. Mi servi puntualmente! Partendo da me, mi promise di rivedermi il seguente giorno; ma, invece di ciò, andò immediatamente da un negoziante, a cui io doveva circa cento lire, lo consigliò d’arrestarmi, gl’insegnò il loco di mia dimora, e parti per Sunbury, dove, mentre io sarei stato nelle prigioni di Filadelfia, in virtú di certo stror^ento giudiziario ch’io gli avea dato, sperava aver l’agio d’impossessarsi di tutto il mio. Adottossi il suo consiglio: verso le cinque della sera fui nella mia casa arrestato. Corsi da vari conoscenti ed amici per trovar guarentia: chi non era a casa, chi avea giurato di non segnar il suo nome per chi che sia, e chi si burlava di me. Erano suonate le sei della sera; io era giá alle porte delle carceri, quando quel cortese contestabile, impietosito dal caso e dagli anni miei: — Tolga Dio — disse — ch’io chiuda in una prigione un personaggio dell’etá sua e della sua presenza! Ella ritorni a casa, io la vedrò domattina. — Questa fu la seconda volta in mia vita ch’io trovai in genti di tal mestiere quella pietá, che non ho ancora trovata in mille chiamati «grandi» dal mondo. La mattina mi vide: trovai due mallevadori, e prima che suonassero le nove partii per Sunbury. A Reading seppi che il mio protettore assistente era partito per quel paese quattr’ore prima. Arrivato a quel borgo, s’abboccò con due avvocati, che fecero cercare dello scerifo. Non potendosi ritrovare, si mandaron de’ messaggi per ogni parte, e nella confusione, cagionata dalla fretta che aveasi di porre un sequestro nella mia casa, si riseppe la sua intenzione da molti. I curiosi la sparsero per la borgata; e, appena giunse all’orecchio di «centogambe» Tommaso Robins, ei corse velocemente a casa mia e, a forza di chiacchiere, di proteste, di giuramenti, seppe ottenere da’ miei domestici tre stufe, un carro, sei cavalli e i lor fornimenti. Chiuse le porte, le finestre ed ogni entrata della mia casa, portò il tutto da sé, e, sapendo ch’io doveva giunger la sera, spedi un messaggio alle barriere per informarmi di ciò ch’era accaduto: venne quindi egli medesimo ad incontrarmi, e, affettando la piú cordiale amicizia, me ne disse tante quel traditore, ch’io gli diedi in guardia anche il cavallo mio ed il calessimo. Gli avvocati contrari, pochi di dopo, vennero da me, e ci accordammo assai facilmente. Riapersi i magazzini e ridomandai i miei effetti da Robins. Mi furono rifiutati ! Non perda per caritá il mio lettore il filo curioso di questa storia. Giovanni e Tommaso Robins erano miei mallevadori in due differenti azioni, ma Tommaso doveva a me cento e novantasette piastre in bilancio di varie mercatanzie. Scegliemmo unanimemente G. Grant, soggetto rispettabile di quel borgo, per revisore de’ conti e per arbitro. Esaminate le carte, ordinò eh’ io pagassi la tassa apposta alle distillazioni, per cui Tommaso Robins col fratello del detto Grant era guarentigia, e che per le quattrocento ottantotto piastre dovute da me allo scerifo, per cui erano mallevadore Giovanni e Tommaso Robins, Robins pagar dovesse le centonovantasette dovutemi e il rimanente di tutta la somma si dovesse pagare da me; ma che, ciò fatto, restituiti mi fossero i miei cavalli, il mio carro ed i fornimenti, con tutto ciò che m’apparteneva. Pagai la tassa di distillazione immediatamente, e offersi di pagar al scerifo la parte mia. se Tommaso Robins pagar voleva centonovantasette piastre dovutemi ; ma, come il sudetto Tommaso Robins non aveva al suo comando tal somma, cosí tanto G. Grant che l’altro fratello di Robins ordinarono che rimanessero quegli effetti nelle sue mani, finché potuto avesse ciò fare. Vedremo in breve l’effetto di questa altrettanto ingiusta che sconsigliata sentenza. Chiesi di mandar a Filadelfia il mio carro con un carico di prodotti rurali. N’ebbi per somma grazia la permissione, a patto però di consegnar carro e prodotti ad un carrettiere de’ Robins. Io, che conosceva abbastanza la lunghezza de’ loro artigli, insistei di mandar il mio. Non era questi distante se non dieci miglia da Sunbury, quando quello assassino il raggiunse, gettò tutto il carico sulla strada, ch’io perdei per metá, e tornò trionfante e gioioso con carro e cavalli all’albergo d’iniquitá. Chi potea opporsi a tal perfido nella borgata di Sunbury? Proposi novellamente di pagar la porzione dovuta da me allo scerifo a conto della obbligazione giudiziale di quattrocento ottantotto piastre: mi rispose che non aveva danaro per pagare la sua tangente. Ritenne nulladimeno, col diritto del piú forte, tutti i miei effetti nelle sue mani. Le mie stufe andarono a pagare alcuni altri debiti del signor Tommaso Robins; il carro e i cavalli miei servirono a portar legna, sabbia, sassi, calcina, carbone, ecc. ecc., per la casa del signor Tommaso Robins, pegli amici, creditori e satelliti del signor Tom Robins; e nelle notti de’di festivi vegliarono alle porte de’ vari serragli del signor Tom Robins, poco meno che morti di fame e di freddo. Gridai, pregai, minacciai, chiesi soccorso, chiesi giustizia; ma niente mi valse. Ebbe un giorno l’audacia di farmi dire che, s’io pagassi le quattrocento ottantotto piastre al signor scerifo, egli mi renderebbe carro e cavalli, e pagherebbemi le centonovantasette dovutemi, when convenient; ma che, in caso diverso, ne farebbe una pubblica vendita! Si fece la vendita, ma i compratori erano tutti apparenti; cosí tutto, niente eccettuato, tornò, pochi istanti dopo, alla stalla del nuovo Caco. Altro ripiego allora non rimanendomi, mi vidi sforzato a chiamarlo in giudizio, ripiego periculosae plenum aleae nella corte di Sunbury, come in appresso vedremo. Fissato il di dell’arbitrazione, nominai dal mio canto due de’ piú abili ed onorati cittadini del loco, il signor Luigi Duart, membro del congresso per quella contea, e il signor G. Cawden, rispettabilissimo mercadante di Northumberland. Robins scelse due de’suoi piú intimi amici, ed io non m’opposi, tanto sicuro rendevami la giustizia della mia causa. Il signor O. Gobins, personaggio probo, sensato e avvezzo alle arbitrazioni, fu il quinto giudice scelto dagli altri quattro. Trattai la mia causa 10 medesimo, coll’assistenza però dell’avvocato generale di quel distretto, dell’eloquentissimo signor Bradford. Tommaso Robins parlò per sé. I testimoni si esaminarono, ed anche tra questi vi si trovavano i confidenti di quella triade diabolica: Giovanni, Gilberto e Tommaso Robins. I cinque si ritirarono e unanimemente, anche gli amici, lo condannarono ad un’ammenda di cinquecento piastre, che non era tuttavia piú che la metá de’ miei danni. Alla fine di trenta giorni appellò. Il di della trattazione, che non segui se non quasi due anni dopo, io era a New-York. Due de’ piú cospicui avvocati di quelle corti perorarono per me: or odi umano lettore qual mostruositá s’è veduta in quella occasione. Quell’avvocato medesimo che ricevuto aveva da me una mercede (fees) pe’ suoi consigli, quello che assistito m’aveva al giudizio degli árbitri contra Tommaso Robins, unto le mani da lui e da’ suoi mallevadori, osò presentarsi davanti il giudice del distretto, e un corpo di giurati, 11 piú illuminato de’ quali era uno zoppo bettoliere, capace di tutto fuori che di leggere e scrivere, osò sostenere che Robins non avea abbastanza rubato per .condannarlo a pagar cinquecento piastre al Da Ponte, e che quel bravo galantuomo avea degli altri galantuomini come lui, pronti a giurare e a pruovare quel che diceva. Esaminò questi testimoni (0, pratica orribile nelle corti di Pensilvania; e quegli onesti e sapientissimi giurati decisero uno ore che prò ovini et loto eo il galantomenone Tommaso Robins pagasse come per atto di caritá duecentocinquanta talleri a Lorenzo Da Ponte. Abbassai gli orecchi come un povero asinelio stanco, e adorai nel secreto del mio core una si luminosa sentenza. Minosse, cred’io, non ne proferí mai di piú giuste!
Vuotiamo adesso l’amara coppa! Arrivato il momento in cui questi duecentocinquanta talleri dovevano pagarmisi, i beni di Tommaso R.obins eran divenuti proprietá del fratello Gilberto, del fratello Giovanni, del cognato P***. Il signor W. Brady, scerifo della contea, era volato nella luna e portate seco tutte le carte, i documenti e gli atti di quella corte; le guarentige del signor T***, mallevadore del signor scerifo, aveano anche esse dovuto fallire; e cosí andarono in fumo sei cavalli ed un carro, che m’aveano in punto costato seicento e cinquanta piastre, e che l’avvocato del popolo, i suoi testimoni ed i suoi giurati avevano fatto valerne dugento e cinquanta! Non vi son dunque leggi nella infelicissima Sunbury? Si, signore, risponde Dante: Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Se uno vi ponesse mano, non vi si vedrebbero impuniti tanti delitti, tante usurpazioni, tanti tradimenti. Non avrebbe osato un avvocato di quella corte rimetter fraudolentemente uno stromento di vendita segnato da’ venditori ad un perfido, che per tal maneggio mi scroccò tremila iugeri di terra per men della quarta parte del loro valore reale. E non avrebbe un altro avuto l’ardire di farmi sborsar trecentocinquanta piastre (i) Erano questi stati giá esaminati in prima istanza. per esimere se stesso dal pagamento, esponendomi poi alla dura necessitá di litigar con un assassino, con cui unissi egli stesso per farmele perdere coll’interesse d’ott’anni. E un altro ch’io trassi dalle prigioni, prestandogli una cambiale dovutami da chi l’avea incarcerato, non mi avrebbe negato e tuttavia non mi negherebbe quegli ottantacinque talleri, che lo liberarono dalle carceri e che da quasi nove anni egli ha ricevuto. Eppur queste furono, tra tante e tante altre, l’estorsioni, le soperchierie e i tradimenti da me sofferti da un Bojer, da un sedicente Sightzinger e da un Goodhart, in un borgo della felicissima America, tanto ammirata per le sue leggi, per la sua giustizia e per la sua ospitale filantropia! Ma non fur queste le maggiori miserie sopportate da me in quella «sepoltura del sole»b). E quello, ch’ora m’accingo a raccontare, sará l’ultima pennellata del mio ritratto. Stanco di sopportare tribolazioni e sferzate, vendei tutto il poco che ancora m’appartenea, e divisi il prodotto tra’ creditori. Mi ritirai quindi in una casuccia di legno, fabbricata da me, e v’incaminai un piccolo commercio, i cui profitti appena bastavano a dar un modico alimento alla mia famiglia. Alcune tenui somme di danaro pagatomi da varie persone che mel dovevano; i lavori di quella fedelissima giovine americana, che vivea allor da piú di dodici anni e che vive ora da ventiquattro con noi; e una rigorosissima economia nelle spese domestiche m’avrebbe forse riposto a poco a poco, se non in uno stato di vita comoda, in quello almeno d’una tranquilla e pacifica mediocritá! Tu, che leggi le mie vicende e c’hai un’anima capace di pietá e di giustizia, non inorridire, se puoi, al racconto verace di questa storia. Io era pe’ soliti affari domestici uscito di casa, quando polveroso ed ansante un messaggiero mi si fa incontra, e non ha tempo se non di dirmi : — Per caritá, andate a casa ! — Vi corro tremando; a qualche distanza veggo una ciurma di gente che circonda la detta casa; m’accosto, e nell’entrata di (i) Si aliude al nome del borgo. quella scorgo lo scerifo (che non era ancor fuggito), il fratello di Robins e alcuni loro sgherri, che ne facevano uno spogliamento totale. In meno d’un’ora non v’era piú nulla, nemmeno i Ietti! Ignorando le cagioni di tale fatto, andai all’uffizio del protonotario per esserne informato. Mi fu allora detto che la persona, a cui io doveva i quattrocentoottantotto talleri, ad istanza della quale il mio carro ed i miei cavalli erano stati presi in esazione, e per cui Giovanni e Tommaso Robins divenuti erano sicurezza, era caduta su’ beni di Gilberto Robins, allora defunto, e che Giovanni Robins, suo esecutore e amministratore, era quindi venuto contra me e s’era impadronito legalmente de’ miei effetti, per indennizzazione di quel carro e di quei cavalli, che per volontá e comando specifico del sopradetto Gilberto rimasti erano in mano di Tommaso, e che Tommaso avea venduto, a dispetto delle opposizioni e delle offerte di pagamento di Lorenzo Da Ponte, e tenuto avea pacificamente tutto il prodotto per sé. Ricorsi a’ rispettivi tribunali. Esposi la storia delle mie persecuzioni, e tutto quello che ho potuto ottenere furono i letti, su cui dopo aver versate per poche notti l’ultime lagrime, presi la risoluzione salutare di lasciar Sunbury.
Il giorno quattordici di agosto dell’anno 1818, alle dodici ore della mattina, diedi l’estremo addio a quel per me nuovo Egitto ed a’ suoi fatalissimi abitatori. Arrivai felicemente a Filadelfia, e mia intenzione era di fermarmivi colla famiglia e poi spargervi la lingua e letteratura del mio paese, come aveva fatto a New-York. Un giovinetto italiano arrivato era alcun tempo prima in quella cittá, e seco portato vi aveva i principali tesori della letteratura italiana. Mi parve l’occasione propizia al disegno mio. M’accontai co’ primi letterati di quella capitale, co’ direttori della pubblica libreria; e proposi loro l’acquisto di tutti o di parte de’ libri, che recati avea seco quel giovane. Trovai con sorpresa e cordoglio che non se ne sapeva piú ch’a New-York quand’io vi arrivai. Non mi perdei tuttavia di coraggio. Offersi alcuni libri alla pubblica libreria, pe’ quali s’avesse un saggio della sua bella letteratura. Il signor Collins, uno de’ piú rispettabili cittadini di quella cittá e direttore anch’esso della civica biblioteca, s’adoperava meco con molto zelo e pareva ansiosissimo di ’vedermi riuscire. Mi si diceva però che la biblioteca non aveva allora de’ fondi, ma che sarebbe molto probabile che in poco tempo ne entrassero, e che allora si parlerebbe. Questa lieve speranza bastò per incoraggirmi e per farmi cercar tutti Ì mezzi per acquistare que’ libri. Ipotecai, vendei tutto quel poco che ancor avea, e proposi a quel bravo giovine di comperare la Storia letteraria di Tiraboschi, e duecentocinquanta volumi de’ Classici di Milano, dandogli cento piastre in contanti, e pel rimanente una cambiale a sessanta giorni. La mia proposizione venne da lui accettata, ma al fin de’ sessanta giorni mi fu seccamente detto da certo avvocato poco galante che la biblioteca non aveva fondi e che io poteva tenermi i miei libri. Erano questi nelle mani d’un francese, che, avendo indossata quella cambiale, li tenea come per sicurezza presso di sé. Udita la risposta del signor avvocato, diede nelle smanie, mi caricò d’improperi, e, senza darmi il menomo respiro, mandò que’ libri dal libraio francese, gli ordinò di venderli ad ogni prezzo ; e giá quel caro signor libraio credea d’aver que’ duecentocinquanta volumi per poco piú di centocinquanta piastre, benché sapesse che me ne costavano circa quattrocento! Per non dargli questa vittoria, andai da quel commerciante che aveva la mia casa di Sunbury in ipoteca, gli vendei per tremila piastre una fabbrica che me ne costava cinquemila, e, a conti fatti, non mi rimanevano se non dugento piastre: ma queste bastavano a redimer que’ libri, dove il piú bel fior è raccolto della nostra antica letteratura. Era questa la prima volta che m’era capitata alle mani questa nobile, scelta e giudiziosa collezione, in cui non so se piú deva ammirarsi il coraggio degli editori, la ricchezza delle dichiarazioni o la vastitá, sublimitá e bellezza delle materie. Non posso ridire qual fu la mia gioia nel vedermi padrone assoluto d’un tal tesoro! Dopo aver qualche tempo pensato come disporne, vedendo che in Filadelfia o non si voleva o non si sapeva conoscerne il pregio, parvemi che una voce interna mi dicesse: «mandalo a Nova lorca». Pigliai questa voce come una inspirazione celeste, ed inviai senza dilazione, pel mio troppo presto rapitomi figlio, la metá di quelle gioie preziosissime in questa cittá. Si presentò agli allievi ed amici miei, e senza la menoma difficoltá in tre soli giorni n’ebbe profittevole spaccio. Tornò trionfante a Filadelfia, e insieme col danaro portommi una graziosissima lettera del mio angelo tutelare, signor Clemente Moore, nella quale invitavami a ritornare a New-York per ridarmi interamente alla coltura e diffusione della nostra letteratura e favella. Sarei partito sul fatto per Nova-Iorca, se un affare d’alta importanza non m’avesse trattenuto. Certo Giuseppe Mussi, nolus in Iudea deus, teneva vari stromenti di certe terre, che appartenevano a Giovanni Grahl, padre della mia moglie. Erano questi stati depositati in sua mano dal figlio del sudetto Grahl, in un tempo che eran entrambi falliti, entrambi in prigione. Queste terre furono occupate a certa epoca da persona straniera, che le coltivava e godeva pacificamente, senza che né Mussi né alcuno de’ Grahl ne domandasse il possedimento. In capo a molti anni morirono padre e figlio, e, rimanendo erede l’unica figlia, trovai documenti certi di collusione tra i due incarcerati falliti. Domandai perciò la restituzione di quelle terre dal posseditore, in virtú di nuovi stromenti tratti da’ pubblici uffizi, dove registrate erano come proprietá di Giovanni Grahl. Mussi si oppose, allegando che quelle terre eran sue e che aveva dato tra effetti e contanti a Pietro Grahl da due a tremila piastre. Questo bastò per dar al Drummeller un buon pretesto per rimanerne posseditore. Ebbi varie conversazioni col Mussi, e, non conoscendo abbastanza né le sue astuzie né la sua morale né la sua aviditá, credei colle ragioni e colla piacevolezza poter accomodare le cose. Io non poteva capire come un uomo, arrivato alla decrepitezza, abbastanza ricco, senza famiglia, senza bisogni, potesse tentar di tenere per raggiri e artefizi proprietá su cui non poteva avere il menomo diritto. E quella sua asserzione d’aver dati al figlio Grahl da due a tremila piastre, al punto d’un fallimento e in prigione, mi pareva non solo ridicola ed insostenibile, ma ardita ed ontosa, perché lo dichiarava fraudolente e spergiuro verso quelli che doveva aver ingannato con un finto fallimento. Proposi nullameno di pagargli una certa summa, se restituivami le mie carte ; e facea volentieri tal sacrificio, pel terrore di dover ricorrere alla legge in Pensilvania, e piú ancora per un giusto sospetto, che ogni giorno piú in me cresceva, di dover esser alfine ingannato da’ raggiri, dalla furberia e dalle male pratiche di tal uomo. Narromtni una sera, in cui era un po’ piú del solito bene potus, ch’avendo egli una lite con una vedova per una sua domanda di seicento piastre, non avendo altra via d’ottenerle, offerse un guiderdon di duecento talleri all’avvocato di quella femmina, se gli facea guadagnare la lite; che per tal mezzo la guadagnò, che l’avvocato gli domandò quei dugento talleri, che chiamollo in giudizio; ma ch’egli se la rise dell’avvocato, del giudizio e della vedova, non pagò un soldo ed egli si godette i suoi seicento talleri in pace. Quando la santitá delle leggi può esser profanata si impunemente, qual dev’essere poi il destino del povero? Nulladimeno, dopo aver invano tentate tutte le strade d’un accomodamento, fu giocoforza ricorrere ad avvocati. Ne scelsi due de’ piú accreditati di Filadelfia, esposi le mie ragioni, ed opinione era dell’uno e dell’altro che le sue pretese fossero insostenibili. Mi propose un’arbitrazione, ed io l’accettai. Mi parve piú saggio consiglio quello di rimettermi al giudizio di tre uomini addottrinati che a quello d’un corpo di giurati, scelto generalmente dal basso popolo. Io non poteva dimenticarmi de’ giurati di Sunbury! Ma qual è l’onesto uomo, l’uomo dotato d’onore e di rettitudine, che possa guardarsi dagli artefizi de’ perfidi? Mentre s’agitavan le cose, m’introdusse colui da certo Musgrave, che, a tutte le apparenze, era un personaggio sensato, gentile e onorevole. In pochi giorni divenimmo amici. Parlando di Mussi e del caso mio, mi disse un giorno queste precise parole: — Il Mussi pretende d’esser padrone di molte terre. Io, che so come ne ha ottenuti gli atti di vendita, non gli darei un baiocco di tutte quante. — Io gli offersi mille piastre — risposi allora — per riavere tutte le carte, ma egli ne domanda tremila! — Non un soldo, non un soldo ! —ripigliò vivacemente il signor Musgrave. Affrettiamci alla fine. Scegliemmo gli árbitri. Si fissò il di dell’arbitrazione. Per una certa finezza, che io allora bene non intendeva, un solo avvocato dovea parlare per me, un solo per lui; e, ad onta dell’evidenza delle ragioni da me giá allegate, ad onta che certa carta da lui prodotta colla segnatura del padre Grahl fosse intieramente di carattere diverso da quella ch’io presentai e provai legittima per vari ordini su banchi di Filadelfia, scritti da lui; ad onta finalmente d’un irreprensibile testimonio, che pruovò tutto il contrario di quello che Mussi diceva (e, si noti bene, senza alcun testimonio), que’ tre sapienti árbitri decisero che il signor Giuseppe Mussi dovesse restituire al signor Lorenzo Da Ponte le sue terre, ma che prima gli si dovessero pagare dal signor Lorenzo Da Ponte non tremila piastre, come egli chiedeva, ma tremila e quattrocento, com’era giusto. E chi fu il primo degli árbitri? Il signor Musgrave! E come fini la faccenda? La povera mia famiglia perdé per tale sentenza i soli beni ch’avrebbe potuto ricuperare per materno diritto. Mussi non ottenne niente, nemmeno per la via de’ tribunali, dal posseditore Drummeller; ed io, piú di cinque anni dopo, trovai nelle mani d’un avvocato in New-York un conto di spese di legge, che montava a centosessanta piastre, e che la caritá, umanitá e bontá del signor Giuseppe ridusse poi a centoventi. Questa fu l’ultima calamitá sofferta da me in Pensilvania. Claudite iam rivos, pueri; sat prata bibere. Assestai allora gli affari domestici a Filadelfia, pagai alcuni debitucci della famiglia, e con borsa vuota e con cor pieno di speranze e di gioia, il giorno ventisei di aprile dell’anno 1819 salutai dalla contraria sponda del suo bel fiume la nobile, popolosa ed a me cara cittá di New-York. Mio cortesissimo lettore, t’aspetto alla quinta parte di queste Memorie, in cui ti prometto una scena tutta differente.