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Insomma io mi trovava in una desolazione, che è difficilissima cosa descrivere. Richiamai allora alla mia memoria tutti i tratti di provvidenza esperimentati da me nella vita mia, e mi parve che un presentimento interno mi dicesse: — Non bisogna disperare. — Domandai a titolo di prestanza cinquanta ghinee, non serve dire a chi: mi furono negate. Santo Dio! quanto volentieri vorrei potere dimenticarmene! Io non credo che la morte sia tanta amara quanto fu ed è a me, quando me ne ricordo, quel crudele rifiuto! Uscii allora di casa, e, dopo due o tre lagrime, mi misi a passeggiar per le vie di Londra senza sapere dove e perché. Camminando a guisa di macchina, e ripetendo in me stesso sovente: — Non bisogna disperare — mi trovai senza accorgermi nello strami poco lontano da Tempie bar , dove mi recò in me un bue fuggito dal macello, seguitato da molti cani e da immenso popolo. Non era che pochi passi lungi da me, quando, per salvarmi da quell’animale, entrai sollecitamente in una bottega di libraio, la porta della quale era aperta. Passato il tumulto, mi cadde l’occhio sopra un volume assai ben legato, e la curiositá mi spinse a vedere che libro fosse. Era Virgilio. Risovvenendomi allora delle sorti virgiliane, l’apro, ed ecco il primo verso che mi si presenta:

O passi graviora, dabit deus bis quoque finem. Questo verso accordavasi ottimamente col motto da me adottato: «Non bisogna disperare», lo aveva piú volte avuto in mente il pensiero di stabilire una libreria italiana in quella metropoli. Questo pensiero mi ripassò allor per la testa, e l’esecuzione di quello mi parve possibilissima. Chiesi allora al padrone di quel negozio s’aveva’ alcuni libri italiani. — Troppi

— mi rispose egli. — Verrò a vederli — soggiunsi. — Mi farete piacere se verrete a liberarmene. — In tanto discredito erano i libri italiani in Londra l’anno i8co! Esco allora da quella bottega pien d’un certo coraggio e quasi d’un nuovo spirito di speranza, che non intendeva io medesimo da che procedesse.

Dissi nulladimeno a me stesso: — Voglio credere a Virgilio: «dabit deus bis quoque finem». Bisogna pensare a stabilire in