Problemi della scienza/Capitolo VI
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capitolo vi.
ESTENSIONE DELLA MECCANICA
A - La fisica come estensione della Meccanica.
§ 1. Sviluppo della filosofia meccanica.
«Spiegare e rappresentare come movimento, tutto ciò in cui si continua il fatto del movimento, e tutto ciò che lo precede», tale è il problema posto dalla filosofia di Descartes, alla cui soluzione tendono in vario modo, da due secoli, gli sforzi dei più grandi teorici della Fisica.
Lasciamo per un momento da parte la veduta di ciò che caratterizza propriamente il pensiero cartesiano, in contrapposto ad altre tendenze affini, e consideriamo nel suo aspetto più generale il processo genetico dei concetti, che riesce alla costruzione della Meccanica, ed alla sua estensione progressiva nella Fisica.
Riconosciamo allora in codesto processo un duplice sviluppo:
I termini dell’uno e dell’altro sviluppo sono stati fissati arditamente da Descartes, prima ancora che la Meccanica venisse costituita con Newton; per una parte la riduzione deve spingersi fino alla soppressione di ogni differenza qualitativa dei dati, toccare cioè ad una perfetta unificazione; d’altra parte l’estensione non deve incontrare alcun limite, l’intiero universo fisico deve trovare la sua adeguata spiegazione nella Meccanica!
Questo grandioso disegno metafisico rappresenta per così dire il quadro ideale, entro cui si muove il progresso della Scienza moderna.
L’enorme lavoro di due secoli ha recato certo alla Fisica notevoli acquisti.
Ma infine ne è uscita ai giorni nostri una conseguenza assolutamente imprevista da coloro che la promossero, cioè una critica nuova di quegli stessi principii già tenuti come verità indiscutibili e rigorose, una ricerca del significato che ad essi può o deve essere attribuito affinchè risultino validi in un ordine più esteso di relazioni e finalmente una correzione propria della Dinamica newtoniana, che più recenti sviluppi additano come plausibile.
Tali sono le vedute caratteristiche del pensiero contemporaneo. Il quale, riconoscendo il valore progressivo della Scienza, respinge anzitutto come assurda la pretesa di conferire alla Meccanica un valore assolutamente rigoroso ed universale, sebbene non possa fissare un limite alla sua estensione e al correlativo perfezionamento dei suoi principii.
Il pensiero iniziale dirigente la filosofia cartesiana, deve essere anzitutto criticamente chiarito nella sua tendenza riduttrice delle differenze qualitative a rapporti di quantità.
§ 2. Quantità e qualità: ipotesi cartesiana.
Quare opium facit dormire? |
Questa celebre risposta del medico di Molière, viene riferita spesso come tipo della spiegazione scolastica, la quale perderebbe invero ogni aspetto ridicolo, se si riducesse, come è nello spirito aristotelico, alla semplice constatazione empirica del fatto proposto, e non avesse la pretesa di aggiungervi qualcosa col creare il nome di una qualità corrispondente.
Contro alla veduta aristotelica si eleva il concetto cartesiano di una spiegazione razionale, basata sopra un supposto metafisico: al disotto delle varie qualità, che sono le apparenze del mondo fenomenico, c’è una sostanza unica suscettibile soltanto di distinzioni quantitative; la spiegazione dei fenomeni si riduce alla conoscenza dei rapporti di quantità ad essa inerenti.
Questo contrasto nel modo d’intendere la «spiegazione», viene illustrato dal Duhem1 sotto l’aspetto storico.
La nostra critica vuole mettere in luce altri aspetti della distinzione fra «quantità» e «qualità», una delle più delicate di cui il filosofo abbia ad occuparsi.
Quantità diconsi gli enti od oggetti di una classe, per cui sieno definite l’eguaglianza e la somma; conseguenza di codeste definizioni è la possibilità di stabilire fra tali oggetti un rapporto (misura dell’uno rispetto all’altro).
Dire che due enti, entro una data classe, sono uguali, significa che «si fa astrazione da certi loro caratteri differenziali, per raccogliere i caratteri similari in una unica rappresentazione astratta».
Il senso proprio della somma è il «riunire» o «mettere insieme» l’uno «accanto» all’altro, o «dopo» l’altro, gli enti presi come parti o addendi; importa cioè la diretta associazione, nello spazio o nel tempo, dei gruppi di sensazioni che corrispondono alle parti sommate.
Riferiamoci a qualche esempio.
§ 3. Esempii: i pesi.
Le distanze, i volumi, i pesi, costituiscono altrettante classi di quantità. Esse vengono pensate come tali dopo che si sono acquisite le nozioni di «distanze uguali», «volumi uguali», «pesi uguali», in relazione a quella di «somma».
Fermiamoci sull’esempio dei pesi.
Prendiamo una bilancia o una stadera, con un certo carico, e poniamo che il corpo A messo sul piatto faccia equilibrio al carico; sostituiamo ad A il corpo B, se l’equilibrio si mantiene diciamo che «i pesi di A e B sono uguali, rispetto alla data bilancia».
Il significato di questa definizione è un’associazione ed una astrazione; distribuiamo i corpi in classi, ponendo in una medesima classe quelli che sono sostituibili l’uno all’altro rispetto ad uno stesso carico della bilancia o stadera, costruiamo quindi il concetto astratto del «peso relativo alla bilancia», concetto rispetto a cui ogni elemento della classe può essere surrogato da ogni altro. Le proprietà formali dell’eguaglianza (cap. III, § 14) rispecchiano codesto processo psicologico di astrazione.
Facciamo ora una seconda astrazione. Confrontiamo bilance o stadere diverse; «se due pesi sono uguali rispetto ad una di esse, sono pure uguali rispetto ad un altra qualsiasi», si può dunque considerare l’uguaglianza dei pesi come una relazione fra i corpi paragonati, indipendente dal riferimento ad una particolare bilancia.
Procediamo a definire la «somma». Somma dei due pesi A, B è il peso del corpo che si ottiene riunendo A e B, o di qualunque altro corpo di ugual peso sostituibile a codesta riunione.
«Dati A e C esiste sempre un peso B che sommato ad uno di essi, dà un peso eguale all’altro».
Da ciò risulta che i pesi si possono considerare come quantità, somme di parti.
Non è però evidente a priori che «somme di pesi uguali sieno uguali». Se infatti A ed A′, equilibrano ugualmente la bilancia con un dato carico, e così pure B e B′, non ne segue che A′ sia sostituibile ad A nella bilancia equilibrata che porta sul suo piatto A + B.
Ma, data la varietà di costruzione possibile, si riconosce che codesta sostituibilità è implicita nella indipendenza del peso dalla bilancia.
Abbiamo quindi le relazioni fondamentali che permettono di riguardare i pesi come una «classe di quantità».
Si può pervenire alla definizione di codesta classe, in altri modi diversi, e la concordanza di essi implica la sussistenza di fatti che vengono generalmente supposti nel concetto del peso. Così, p. es., con una bilancia (è qui essenziale non si tratti di una stadera), si possono confrontare direttamente i pesi di due corpi A e B, ponendoli sui due piatti; la prima cosa da osservare è allora che «l’equilibrio permane quando si permutano A e B», quindi che «se A equilibra B e C, anche B e C si equilibrano fra loro», infine che «l’equilibrarsi di A, B è indipendente dalla particolare bilancia di riferimento ». Si hanno così le proprietà fondamentali inerenti alla «uguaglianza di peso».
§ 4. Quantità di calore.
Un secondo esempio relativo alla definizione di classi di quantità è fornito dal calore.
Le «quantità di calore» cedute o acquistate da un corpo in una variazione di temperatura, si lasciano definire riferendosi alla massa di una data sostanza calorimetrica che varii in corrispondenza alla cessione o all’acquisto suddetto fra due temperature date (l’uguaglianza di temperature si suppone definita in base all’equilibrio termico, come diremo più avanti).
Questo modo di confronto conduce direttamente a fissare che cosa s’intende per quantità di calore «uguali» e per «somma di due quantità di calore».
Si riesce così ad esprimere un processo di astrazione che suppone tre fatti fondamentali, analoghi a quelli riscontrati nel caso precedente: l’indipendenza della relazione definita dalla particolare sostanza calorimetrica di riferimento, la sostituibilità delle quantità di calore designate come uguali nel confronto calorimetrico (proprietà transitiva dell’uguaglianza, cap. III § 14), ed infine l’uguaglianza di somme di quantità uguali.
Il verificarsi dei fatti suaccennati costituisce la condizione essenziale per la possibilità del processo che ci conduce a definire delle quantità.
Perciò in molti casi codesto processo riesce impossibile. Il calore stesso ce ne porge esempio se si cerca di definire, non più la quantità di calore, ma le temperature.
In questo caso si ricorre ad un corpo di confronto, il termometro, prendendo sempre le mosse dal fenomeno del passaggio di calore fra corpi a contatto. Si definiscono in base all’equilibrio termico, le «temperature uguali», e la relazione riesce indipendente dal termometro, e soddisfa alle proprietà formali dell’uguaglianza.
Ma consideriamo ora la somma. Riunendo due corpi ugualmente caldi non si ottiene un corpo più caldo; la temperatura non varia.
Siamo perciò arrestati nel tentativo di considerare le temperature come quantità, somme di parti.
Per riuscire a codesto scopo occorrerebbe possedere non il concetto di «temperature uguali», ma quello di «aumenti uguali di temperatura».
Si potrebbe allora considerare come somma di due aumenti, da A a B, e da B a C, l’aumento di temperatura per cui si passa da A a C, con una riunione di due passaggi successivi.
Ma se ogni termometro di riferimento permette di definire gli aumenti uguali di temperatura, questa definizione è strettamente relativa alla scelta della sostanza termometrica, giacchè «aumenti di temperatura che corrispondono a dilatazioni uguali di una data sostanza corrispondono a dilatazioni disuguali di un’altra». E d’altra parte non vi è nell’aumento di temperatura alcun dato di sensazione che valga a discriminare la scelta di un certo gruppo di termometri.
§ 5. Misura dell’intensivo.
Ora che significato ha l’ipotesi metafisica che postula al disotto di ogni variazione fenomenica un sostrato quantitativo?
Poniamo, p. es., che il calore sia dovuto ad un fluido particolare contenuto nei corpi.
Per un osservatore dotato di sensi abbastanza sottili, il riscaldamento sarebbe dunque accompagnato dalla vista dell’aumento della quantità del fluido. Prendiamo il fenomeno del calore nella sua integrità complessa: impressione tattile e osservazione visiva; facendo astrazione dal primo ordine di sensazioni, riesciamo così a rappresentare le temperature come quantità proporzionali alle densità del fluido calorifico.
L’ipotesi del fluido calorifico ha dunque questo valore, d’indurci a ritenere come associato in modo essenziale alla temperatura un elemento quantitativo. È vero che il riconoscimento di questo non ci è consentito dalla ottusità dei nostri sensi, fortunata circostanza che ci vieta di mettere a cimento le ipotesi metafisiche; ma resta la fiducia che fra le varie associazioni possibili del fenomeno si possa discernere un gruppo di associazioni notevoli, nelle quali si scorga una indiretta constatazione del suo ipotetico sostrato. Di più la rappresentazione del fluido calorifico c’induce, come vedremo, a fare una scelta concreta.
Lo stesso ufficio adempie in generale l’ipotesi cartesiana per riguardo alla misura dell’intensivo.
In una serie fenomenica sia stabilito il senso dell’uguale e del maggiore, in guisa tale che si ottenga per astrazione una serie di gradi di intensità. Or bene questi gradi possono venire associati ai numeri o alle quantità crescenti di una classe; l’ipotesi cartesiana promuove una simile associazione, e in ogni sua espressione concreta la dirige in un senso non arbitrario.
Qui si deve riflettere che la fiducia di trovare una misura dell’intensivo, in rapporto ad un aspetto essenziale dei fenomeni, raggiunge intanto l’effetto di dar pregio all’uso di una misura.
Se anche le associazioni promosse non abbiano un significato reale particolarmente notevole, il fatto che esse conducano a misurare è già un resultato importante, che viene così apprezzato dal Duhem (l. c., pag. 301):
«Cette extension de la notion de mesure, cet emploi du nombre comme symbole d’une chose qui n’est pas quantitative, eût sans doute étonné et scandalisé les péripatéticiens de l’Antiquité. Là est le progrès le plus certain, la conquête la plus durable que nous devions aux physiciens du XVIIe siècle et à leurs continuateurs;.... ils ont établi cette vérité, d’un prix inestimable: Il est possible de discourir des qualités physiques dans le langage de l’Algèbre».
§ 6. Misura naturale o assoluta: temperatura.
Ma, come abbiam detto, l’ipotesi metafisica cartesiana non soltanto conduce ad una rappresentazione quantitativa, o misura dell’intensivo, bensì anche pretende di dirimere l’arbitrarietà pressochè illimitata delle associazioni capaci di fornirla, e vuol porgere quindi una misura privilegiata, naturale o assoluta.
Ritorniamo all’esempio della temperatura.
La misura essendo relativa al termometro resta definita a meno di una sostituzione
τ = f (t),
dove f designa una funzione crescente arbitraria.
Orbene l’ipotesi del fluido calorifico, ci fa concepire l’idea di una misura assoluta delle temperature, ossia ci guida a ricercare «se alle variazioni che i corpi subiscono nel riscaldamento, si trovi associata qualche quantità, la quale non dipenda dalla qualità del corpo, e si accresca quindi ugualmente, fra temperature uguali, per corpi diversi».
Invero se si assume codesta ipotesi rappresentativa, la quantità di calore Q contenuta da un corpo, sarà una quantità di fluido, proporzionale al volume occupato e alla densità t, e t rappresenterà la temperatura assoluta.
Quindi; l’ipotesi del fluido calorifico porta ad ammettere che le quantità di calore acquistate o cedute da corpi diversi nel passaggio da temperature uguali a temperature uguali, sieno proporzionali.
Questa conseguenza è lungi dall’essere verificata in generale, ma essa si verifica nel caso limite di trasformazioni reversibili (adiabatiche), per le quali la condizione della indistruttibilità del calore, supposta dalla ipotesi, trovasi realizzata.
E l’importante è questo, che la definizione positiva della temperatura assoluta, a cui si è condotti in rapporto alle trasformazioni reversibili, riesce affatto indipendente dall’ipotesi del fluido calorifico; essa permane come espressione di un fatto, comunque l’ipotesi suddetta si chiarisca inadeguata a spiegare la conversione del calore in lavoro meccanico, e la reciproca produzione del calore per mezzo dello sfregamento o della percussione dei corpi ecc.
Il fatto supposto nella definizione della temperatura assoluta può essere riconosciuto attraverso ipotesi rappresentative differenti; così, p. es., attraverso la teoria cinetica dei gas (cfr. § 10), dove si prenda come temperatura assoluta la forza viva media delle molecole gassose in movimento.
Le due rappresentazioni contengono ugualmente quel fatto in quanto esprimono certe associazioni di dati sensibili. Ma esse si ricoprono soltanto in parte, e la seconda rappresentazione dà qualcosa di più, cioè conduce a fissare lo zero: sicchè la temperatura resta definita a meno di un fattore dipendente dalla scelta dell’unità di misura, mentre dalla prima rappresentazione essa veniva determinata a meno di una sostituzione lineare
τ = at + b.
Ed il significato di codesta scelta di uno zero assoluto è il riconoscimento di un massimo di quantità di calore (o di lavoro) che può fornire un gas.
Si avverta infine che il fatto fondamentale posto a base della definizione delle temperature assolute, si integra mercè la teoria cinetica, col riconoscimento che le quantità di calore acquisite o fornite dai varii gas, sono proporzionali fra loro (legge di Joule) ed alle rispettive dilatazioni, donde un accordo dei termometri a gas, che tuttavia sussiste soltanto in quell’ordine di approssimazione in cui si applica la teoria cinetica nella sua forma più semplice.
§ 7. Ricapitolazione e critica.
Dalla discussione precedente possiamo raccogliere la seguente conclusione:
La rappresentazione di una serie di dati fenomenici come quantità, è il resultato di un certo processo di associazione ed astrazione, che suppone dei fatti.
Il successo del procedimento, per ogni cerchia di associazioni, è vincolato alla sussistenza dei fatti accennati. Ma, dove questi non sussistano, può essere reso possibile allargando le associazioni stesse, cioè facendo corrispondere ai dati fenomenici altri dati quantitativi che nella realtà vi si colleghino.
Tuttavia la rappresentazione quantitativa così ottenuta rimane una convenzione arbitraria, fino a che non si determini un gruppo di associazioni notevoli, rispetto a cui la convenzione stessa abbia carattere invariante.
L’ipotesi metafisica esprime la fiducia generica di poter riconoscere simili invarianze (misure naturali o assolute), e ne promuove la ricerca tostochè si concreti in un appropriato sistema di immagini.
Ma vi è di più. L’ipotesi suddetta abilita a considerare i rapporti fenomenici cui si collegano le nostre aspettazioni, come esprimibili mediante rapporti quantitativi fra le misure (naturali) di certi dati; e le immagini adottate soccorrono a questa traduzione analitica della realtà fisica, sia guidandoci a riconoscere i nominati rapporti, sia agevolando la loro interpretazione. In ciò sta il valore dell’ipotesi metafisica relativamente al progresso della Scienza.
A dir vero abbiamo interpretato in tal modo la Metafisica della quantità, rilevandone il contenuto positivo. Codesta Metafisica ha di più la pretesa che le immagini corrispondano ad una realtà inaccessibile ed universale.
Essa ammette dunque anzitutto che le sue ipotesi abbiano valore di fatti, cioè implichino sensazioni possibili per un osservatore dotato di sensi abbastanza sottili: in secondo luogo che esse possano ricevere una espressione concreta atta a render conto di tutti i rapporti possibili fra gli ordini più varii di fenomeni.
La prima pretesa, a chi volesse prenderla in un senso positivo, limiterebbe enormemente la costruzione delle immagini; un esame comparato di quelle effettivamente costruite, mostra subito che codesti limiti non vengono punto rispettati; che le ipotesi suddette più che ingrandire snaturano le immaginarie sensazioni; che ragionando su di esse si è costretti ad inibire una serie di conseguenze contraddittorie, cui non si saprebbe sfuggire ove si attribuisse loro un contenuto di fatto (cfr. cap. I).
Ritenuto dunque che l’ipotesi metafisica rappresenti in ogni sua espressione concreta un modello, proprio a figurare un certo ordine di fenomeni reali, resta a vedere se sia concepibile che si raggiunga un modello unico, adeguato alla realtà universale.
L’assurdità di questa pretesa si rende manifesta a chi consideri i modelli parziali come resultato di associazioni ed astrazioni, giacchè un modello universale implicherebbe una estensione trascendente di tale processo psicologico.
Discendendo all’esame dei particolari vedremo ancor meglio come la costruzione di un modello stia sempre a rappresentare un parallelismo stabilito fra due serie fenomeniche, ed abbia quindi necessariamente un valore di riduzione relativo e limitato, in quanto nessuna serie può essere presa come assolutamente isolata da tutte le altre.
Altro ancora vi sarebbe da dire intorno alla sostanza cartesiana, priva di differenze qualitative. Ma se anche tali obiezioni non fossero note, che vale confutare un filosofo? Nulla di più facile, ma anche di più inutile, ha detto Schopenhauer.
La metafisica della quantità, sebbene non possa essere accettata come tale, resta sempre l’idea direttrice di un secolare movimento scientifico, che abbiamo chiarito in senso positivo come un processo psicologico associativo. Importa perciò di vedere in qual modo essa si attui concretamente in una Fisica considerata come estensione della Meccanica.
Vogliamo dunque passare in rassegna gli sviluppi teorici che, attraverso una visione dinamica dei fenomeni fisici, tendono a fissare i rapporti quantitativi di taluni dati presi come caratteristici, e a riconoscere in questi rapporti la piena determinazione delle aspettazioni di fatto.
E ci proponiamo di rilevare e di spiegare:
§ 8. I due tipi di meccanismo: cartesiano e newtoniano.
I dati della Meccanica sono qualitativamente varii: dati geometrici e cinematici estensivi; e dati dinamici intensivi (le forze). Lo sviluppo interno della filosofia meccanica tende alla loro riduzione progressiva.
Nell’indirizzo propriamente cartesiano si cerca di ridurre i dati intensivi agli estensivi, per cui la rappresentazione quantitativa si ottiene immediatamente, in rapporto alle sensazioni visive; in questo senso dunque si domanda una spiegazione delle forze. All’opposto il tipo newtoniano accoglie le forze, come azioni elementari tra le particelle dei corpi, nel numero dei dati primitivi, e cerca di unificarle e di sottomettervi la spiegazione di altri dati estensivi, in ispecie vuole spiegare i legami per mezzo delle forze.
I due tipi di meccanismo rappresentano una differenza di concezioni che può essere illustrato sotto diversi aspetti:
Infatti la tendenza cartesiana a polarizzare le rappresentazioni nel senso ottico deve essere interpretata soprattutto come uno sforzo verso l’associazione più unificata dei dati sensibili, imperocchè le immagini visive hanno generalmente un posto preminente nelle costruzioni psicologiche, e ad ogni modo non riescono eliminate dalla intuizione delle forze, del movimento ecc.
All’opposto la tendenza newtoniana ad un modello tattile-muscolare, che si sovrappone all’intuizione visiva in una costruzione astratta, deve essere riguardata soprattutto come uno sforzo verso l’associazione più estesa dei dati sensibili.
La prima tendenza ha dunque un prevalente valore economico rispetto alla scienza compiuta ed un valore psicologico di stimolo alla ricerca; la seconda risponde meglio agli uffici della previsione scientifica. Ma soprattutto il successo delle due tendenze si collega al loro alternarsi.
E così la Gnoseologia positiva compone il dissidio in una veduta superiore del processo scientifico!
Se si prende come scopo superiore l’associazione più unificata ed estesa dei varii dati sensibili, si riconoscerà infatti che lo alternarsi dei due sviluppi ha condotto più vicini a questo scopo.
Ai primi tentativi in senso cartesiano siamo debitori soprattutto della teoria cinetica dei gas; ma l’ulteriore sviluppo degli studii sull’elasticità (sia la ricerca di una rappresentazione più approssimata delle proprietà dei gas, sia in ispecie quella di una rappresentazione dei solidi e dei liquidi) si concreta in una spiegazione di tipo newtoniano. Questa si svolge complicandosi nella teoria meccanica del calore ed assorge alla forma più astratta della Meccanica energetica; dove tuttavia le vedute sulla localizzazione e sul moto dell’energia (connesse ai progressi delle teorie elettriche) vengono a riaffermare la tendenza opposta verso il modello cartesiano.
Un progresso della spiegazione meccanica nel senso cartesiano si riconosce invero più distinto nelle teorie ottico-elettro-magnetiche; la nozione dei legami si estende con Maxwell, W. Thomson, ecc.; l’immagine visiva dell’atomo acquista più largo ufficio nei recenti sviluppi; e tuttavia si riafferma l’indirizzo opposto in un modello elettrico della Dinamica.
Sebbene un così vario e vasto movimento di pensiero non faccia capo ad una conclusione unica, si può dire sinteticamente che gli accennati sviluppi hanno condotto per una parte ad unificare le forze, per l’altra ad estendere i legami, e quindi si sono avvicinati in diverso modo ad un’associazione più unificata ed estesa dei dati sensibili.
Tali vedute risulteranno chiarite dall’esame degli sviluppi proseguiti nei varii campi della Fisica. Ma soprattutto quest’esame ci mostrerà come i molteplici acquisti parziali giustifichino un periodo critico della scienza, dove il difetto di verificazione sembra suscitare una nuova evoluzione induttiva della Meccanica.
§ 9. Le forze ridotte ad urti: la gravitazione.
I tentativi di spiegare la forza erano all’ordine del giorno nel secolo decimosettimo; sotto l’impulso di Gassendi, Descartes, Huyghens si cercava di giustificare le proprietà dinamiche della materia, rievocando le antiche immagini di Democrito e di Epicuro: corpuscoli mobili, loro urti, movimenti vorticosi di liquidi circostanti.
Notiamo particolarmente, in quest’ordine d’idee, l’ipotesi che fa nascere la gravitazione universale dall’urto di corpuscoli ultramondani, sulla quale è basato un tentativo di spiegazione di Fatio de Duilliers, rinnovato più tardi dal Lesage.
Che significato ha una tale spiegazione della forza?
Osserviamo dei corpi elastici, che si muovono urtandosi fra loro. Appaiono tre momenti del fenomeno; moto, forza e moto. La forza, uscente dal campo della visione, che si presenta successivamente come «effetto» e come «causa», può essere idealmente soppressa da chi associ i due momenti del moto, riattaccandoli al fatto dell’urto descrittivamente considerato. Si ha così una successione d’immagini visive, il cui rapporto una volta conosciuto, permetterebbe di eliminare, e quindi in tal senso di spiegare, il dato «forza».
La difficoltà nascerà appunto nel determinare codesto rapporto, senza rievocare l’immagine tattile-muscolare; chè se invece si ricorra a questa, attingendo le leggi elementari dell’urto alla considerazione delle forze elastiche, evidentemente il resultato raggiunto avrà soltanto un valore relativo di riduzione.
Nelle ipotesi di Fatio e di Lesage questa riduzione sarebbe significativa: la forza newtoniana, a distanza, verrebbe rappresentata come un effetto di forze elementari esercitantisi a contatto (conforme al progresso cui tende generalmente la rappresentazione della causa), ne risulterebbe in particolare una correzione alla teoria di Newton dipendente da «una velocità finita di propagazione della gravità», ipotesi che non si è concretata per altro, fino ad oggi, in accordo colle osservazioni dei moti planetari (cfr. cap. V, § 29), ma che, come vedremo, si riaffaccia ai giorni nostri in una nuova forma.
§ 10. Teoria cinetica dei gas.
Daniele Bernouilli nel 1738, è ricorso similmente agli urti di particelle mobili per spiegare la pressione dei gas. Così è sorta la teoria cinetica dei gas, ripresa dopo un secolo da Krönig e da Clausius (1856-57) e condotta ad un più alto grado di perfezione da Maxwell, Boltzmann, e Van der Vaals.
Nella rappresentazione primitiva di Bernouilli le particelle elementari del gas si movevano in linea retta fino all’incontro colla parete del recipiente, tutte con una medesima velocità uniforme, dalla quale scaturiva naturalmente una misura della temperatura. Questa veduta dovette esser corretta quando si volle tener conto degli urti fra molecole, che non possono essere trascurati ove si accordi a queste una dimensione non nulla. Per effetto di tali urti le velocità molecolari, se anche fossero supposte uguali in principio, debbono divenire varie entro larghi limiti, e tali quindi debbono ritenersi.
Si tratta allora di rappresentare gli effetti medii del fenomeno secondo le leggi della probabilità; in particolare la forza viva media fornirà la misura naturale (o assoluta) della temperatura, conformemente alla legge di Joule.
Le conseguenze di queste premesse sono molto notevoli2. Se si prescinde dalle dimensioni molecolari, si ottengono come prima approssimazione le leggi dei gas espresse dalla formula
pv = RT
(p = pressione, v = volume specifico, T = temperatura, R = cost. per tutti i gas).
Sono le leggi di Boyle, Gay-Lussac, Avogadro pei così detti gas perfetti.
Aggiungasi l’importante relazione fra i due calori specifici a volume costante e a pressione costante, (cp, cv) ed il peso molecolare (μ):
Queste leggi non sono esattamente confermate dall’esperienza pei gas reali; gli scarti in vario senso, attinenti a varie condizioni, domandano di essere spiegati spingendo la teoria ad un secondo ordine di approssimazione; e, come Bernouilli ha previsto, si ottiene già una correzione tenendo conto delle dimensioni molecolari, ma questa è ben lungi dal soddisfare alle esigenze sperimentali. Evidentemente una correzione ulteriore deve essere cercata risalendo alla rappresentazione della molecola stessa, che si è assimilata ad una sfera elastica impenetrabile.
Questa immagine un po’ grossolana dovrà essere modificata. In qual senso?
La molecola appare già, nei riguardi chimici, come un sistema meccanico complesso, tanto che certi fenomeni c’inducono ad ammetterne una dissociazione in ioni. Pertanto a perfezionare la teoria cinetica si ricorse all’ipotesi di un campo d’azione variabile colla temperatura, e di forze repulsive esercitantisi fra le molecole entro questo campo; si fissò anzi l’attenzione sopra una legge particolare .
Questi sviluppi, ci allontanano, ognun lo vede, dal meccanismo cartesiano, che, secondo l’idea primitiva si presentava come atto a spiegare la forza originata dalla pressione di un gas; ma essi segnano un progresso estensivo della teoria nello studio delle proprietà dei gas, quantunque gli stessi fondatori si accordino nell’attribuire alle ipotesi adottate un carattere provvisorio.
§ 11. Teoria dell’elasticità: i solidi.
Supponiamo d’altronde che il meccanismo più semplice, fondato sull’ipotesi dell’urto di sfere elastiche, si mostrasse adatto a proseguire teoricamente lo studio delle proprietà gassose in accordo colle più precise esperienze.
Nondimeno la forza elastica dei gas non potrebbe allora ritenersi perfettamente spiegata, se non si accetti come data la nozione della elasticità dei solidi. Alla quale, come già avvertimmo, si deve necessariamente ricorrere per spiegare le leggi dell’urto, ove queste non vogliano riguardarsi astrattamente come un puro fatto ottico, prescindendo da un momento essenziale del fenomeno. Alla stessa nozione si fa capo ove si cerchi di rappresentarsi più generalmente la natura fisica dei legami riducendoli a forze fra i punti del corpo (cap. V § 24), e tentando in ispecie di spiegare in questo senso la rigidità approssimata dei corpi solidi, l’incompressibilità dei liquidi, e le reazioni elastiche che ne derivano.
Le difficoltà di formarsi una simile rappresentazione dello stato solido e liquido della materia, appariscono più grandi che nel caso dei gas.
Riassumiamo a larghi tratti la storia dell’argomento.
Ispiratosi alla concezione astronomica di Newton, e a talune vedute emesse da questo stesso autore intorno ai fenomeni di capillarità, Boscovich (1763) ha ideato una generale rappresentazione della materia come un sistema meccanico costituito da punti dotati di massa, esercitanti gli uni sugli altri reciproche azioni e reazioni, uguali e contrarie, che, per ogni coppia di punti, sono dirette secondo la congiungente di essi e dipendono dalla loro distanza (forze centrali).
Siffatta teoria fu condotta innanzi, fino alla trattazione di problemi concreti, dalla scuola di Laplace. Questi in particolare portò ad un alto grado di compiutezza la spiegazione dei fenomeni di capillarità, trattati secondo lo stesso indirizzo newtoniano da varii predecessori.
E codesto indirizzo giunge con Poisson alla costruzione di una dottrina che, sotto il nome di Meccanica fisica, si contrappone alla Meccanica analitica di Lagrange, tentando di ridurre sistematicamente la nozione dei legami a quella delle forze.
Nel 1821 , riattaccandosi alle vedute di Poisson, sottoponeva per primo ad una trattazione analitica i principii della teoria dell’elasticità dei solidi; i quali venivano poi sviluppati, secondo varie vedute, da Cauchy, Poisson, Green e Lamè.
Importa di esaminare più da vicino le conclusioni di questi studii.
Immaginiamo di partire dalle ipotesi seguenti:
Si possono allora scrivere le equazioni dell’equilibrio dei solidi elastici, ed in queste figurano 15 coefficienti indipendenti. Se il corpo è isotropo, i coefficienti si riducono ad uno solo, ed in particolare si trova che il coefficiente di compressibilità cubica e quello di trazione stanno fra loro nel rapporto 3 : 2.
A queste conseguenze delle vedute di Navier e di Poisson si contrappongono i resultati della trattazione più generale secondo il principio dei lavori virtuali (cap. V, § 26).
Si ammetta che:
Allora il principio dei lavori virtuali conduce (con Green) ad equazioni dell’elasticità più generali, ove figurano 21 coefficienti indipendenti al posto di 15. Nel caso dei solidi isotropi si hanno due coefficienti indipendenti il cui rapporto può avere un valore qualsiasi.
Ora la maggiore generalità di questa seconda teoria corrisponde veramente a casi possibili; infatti mentre i coefficienti di elasticità dei metalli si accordano in una certa misura colle previsioni della prima teoria, il caso di un solido quasi-incompressibile come la gelatina vi sfugge.
Resta dunque a chiarire in qual modo le ipotesi a) debbano essere modificate.
A tale scopo si è proposta una modificazione dell’ipotesi 3), che ricorre anche in alcuni dei più autorevoli trattati recenti; essa consiste nell’ammettere che:
Queste ipotesi contraddicono direttamente la Statica classica; la prima nega il principio della resultante, la seconda il principio statico di azione e reazione!
È naturale che si sia cercato di sfuggire ad una tale conclusione; Poisson ebbe già a tentarlo ricorrendo ad ipotesi sulla forma delle particelle atomiche, ma a dir vero tali considerazioni appaiono un po’ artificiose.
W. Thomson ha indicato una soluzione più soddisfacente, proponendo di modificare l’ipotesi a) 2) o la a) 1), e soprattutto quest’ultima.
Ammettere che i punti materiali di un solido in equilibrio siano effettivamente in moto, cioè che dove noi vediamo la quiete si tratti di equilibrio statistico, nel senso della teoria cinetica dei gas, è un modo di sciogliere la difficoltà che potrebbe sembrare ardito a priori, ma che riceve un conforto dalla teoria meccanica del calore.
Se accettiamo questa modificazione, le forze centrali esercitantisi fra ì punti in moto non possono sostituirsi ad ogni momento, con forze parimente centrali esercitantisi fra le posizioni medie; in questo senso si spiegano le ipotesi 3′) e 3′′) come semplificazioni schematiche della rappresentazione.
Risulta dalla discussione precedente in qual modo l’ipotesi di un meccanismo newtoniano permetta di spiegare l’elasticità dei solidi, nello stesso senso che il principio dei lavori virtuali.
E ciò che abbiam detto pei solidi potrebbe ripetersi pei liquidi.
Tuttavia a questa teoria cinetica della materia si rimprovera di essere in generale poco feconda di conseguenze positive, benchè la rappresentazione che essa fornisce si riattacchi allo sviluppo della teoria meccanica del calore.
Verremo fra un momento a questo tema. Vogliamo ora esaminare una obiezione alla teoria generale dell’elasticità, che viene suscitata dall’esperienza.
§ 12. Alterazioni permanenti.
L’ipotesi fondamentale che permette di calcolare il lavoro delle forze interne di un solido elastico per una deformazione infinitesima, consiste nell’ammettere che esso dipenda per ogni elemento dalla deformazione locale attuale, e non da quella del rimanente solido, nè dalla serie delle configurazioni precedenti per cui il solido stesso può esser passato.
Una ovvia conseguenza di queste ipotesi è che cessando la forza deformante il solido elastico deve riprendere il suo primitivo stato (naturale), ed in generale che le deformazioni elastiche subite non debbono modificare la sua elasticità.
Ora queste conclusioni sono direttamente contraddette dalle alterazioni permanenti, che per analogia coi fenomeni chiamati da Ewing di isteresi magnetica, si denominano anche fenomeni di isteresi elastica. E si tratta di una contraddizione che investe le basi stesse della teoria meccanica dell’elasticità.
G. Robin nelle sue lezioni di Termodinamica generale insisteva sulla circostanza che i principii della Meccanica contengono una ipotesi di non-eredità, poichè si postula in essi che lo stato futuro del sistema dipenda dalle condizioni statiche attuali. Ed in alcune pagine suggestive del suo recentissimo libro su «La Science moderne et son état actuel»3 E. Picard sviluppa considerazioni interessanti sopra una Meccanica dove si abbia al contrario da tener conto della eredità: certe equazioni funzionali vi prenderebbero il posto delle equazioni differenziali classiche.
Le alterazioni elastiche permanenti, come in generale i varii fenomeni d’isteresi, sembrano richiedere una tale profonda modificazione.
Ma non è escluso che si tratti soltanto di casi d’eredità apparente.
Per far rientrare questi casi nella Meccanica classica, basta infatti ammettere che non si sia tenuto conto di tutti gli elementi notevoli determinanti il fenomeno, cioè basta considerare il sistema come parte di un sistema più ampio, cui si applichino i postulati meccanici.
Questo modo di risolvere la difficoltà darebbe luogo a molte riflessioni. Ma lasciamo da parte per il momento questi casi aberranti, salvo a riprenderli in considerazione più tardi, nelle conclusioni finali della nostra critica.
E dalla teoria cinetica della materia passiamo agli sviluppi termodinamici che vi si collegano.
§ 13. Teoria meccanica del calore: conservazione dell’energia.
Se, come già ammetteva Descartes, il calore è un movimento disordinato delle particelle elementari della materia, e il movimento si lascia spiegare mediante forze centrali, ci deve essere un equivalente meccanico del calore. Questa conseguenza è contenuta implicitamente nel principio delle forze vive (cap. V, § 28); essa precede di un secolo la scoperta della conservazione dell’energia.
Il merito di questa scoperta è conteso fra varii ricercatori, e alla questione di priorità si lega il problema, assai più interessante per il filosofo, di riconoscere i legami fra la speculazione teorica e la conquista sperimentale.
Ora, senza entrare in una disamina troppo minuta, diremo che:
La rappresentazione del fluido calorifico cui sono direttamente ispirate le prime ricerche calorimetriche di Black e di Crawford, è da riguardare come il motivo fondamentale per cui il riconoscimento dell’equivalenza fra calore e lavoro ha tardato tanto a seguire il principio delle forze vive.
La suddetta rappresentazione è invalidata direttamente dalle esperienze di Rumford e Davy, il quale nel 1812 veniva ricondotto a considerare il calore come una forma di movimento; tuttavia gli studii sulle macchine termiche intrapresi da Sadi Carnot nel 1824 ritengono sempre l’immagine del calorico indistruttibile. Soltanto alcuni anni più tardi Carnot rettificava queste vedute e giungeva a riconoscere un equivalente meccanico del calore; ma le sue note in proposito rimasero inedite, per quarant’anni ancora dopo la sua morte, avvenuta nel 1832.
Nel decennio che corre fra il 1830 e il 1840 diversi pensatori si avvicinano all’idea che il calore sia movimento, e ne traggono la veduta della permanenza di ciò che oggi si chiama energia; citiamo p. es. un lavoro di Mohr (1837) rivendicato da Tait.
Da ciò risulta che fa rappresentazione meccanica del calore deve riconoscersi più o meno esplicitamente quale idea direttiva nella ricerca di una equivalenza fra calore e lavoro, e quindi deve essere ritenuta preparatrice della scoperta che si riattacca ai nomi di Mayer (1842) Joule e Colding (1843).
Senza discutere i meriti rispettivi di questi tre scopritori, basta infatti constatare che, qualunque fossero le loro vedute personali, essi trovavansi di fronte ad una questione già posta; appunto nell’aver posto la questione si ravvisa l’influenza della teoria sulla conquista sperimentale, cioè il valore euristico del modello che fa del calore una forma di movimento.
Contro questa tesi invano si addurebbero le opinioni personali del Mayer che rifiuta tale concezione meccanica; tanto più che nella ricerca del Mayer stesso si scorge già postulata a priori la permanenza di un quid comune al calore e al lavoro, e, senza dimostrare questo fatto, si ottiene la determinazione numerica dell’equivalente termodinamico dal confronto dei calori specifici dell’aria.
Il rapporto del principio di equivalenza colla teoria meccanica del calore appare nettamente compreso da Joule e da Colding; e rifulge di luce più viva nei lavori di Helmholtz (1847). Se si considera ogni sistema isolato come un meccanismo newtoniano, per modo che esista un potenziale o una energia potenziale (la cui variazione locale misura la forza), vi è luogo a considerare la enegia totale del sistema, cioè la somma della suddetta energia potenziale e della energia cinetica o forza viva, come decomposta in diverse energie aventi un proprio significato fisico: in una energia meccanica apparente (cinetica e potenziale), in una energia termica o quantità di calore, ed in generale anche in altre energie (elettrica, fotica ecc.). La somma delle varie energie nominate si mantiene costante.
Questo è il principio generale della conservazione dell’energia, che abbraccia in particolare l’equivalenza termo-dinamica.
Rileviamo esplicitamente che il principio della conservazione dell’energia deve essere oggi ritenuto come un principio sperimentale, indipendentemente dall’ipotesi delle forze centrali.
Tale affermazione non contraddice al legame riconosciuto fra l’ipotesi e il principio. Questo è una conseguenza di quella, ma non viceversa. Quindi se varie e concordanti esperienze verificano direttamente la conservazione dell’energia, si viene a porre la validità del principio stesso sopra una nuova base, mentre l’ipotesi iniziale che suggerì la scoperta riceve soltanto una conferma indiretta ed incompleta.
Ora la concorde fiducia nel principio dell’energia riposa sopra due ordini di prove:
§ 14. Secondo principio della Termodinamica.
Il secondo principio della Termodinamica non trae affatto la sua origine da rappresentazioni meccaniche del calore, ma è suggerito dall’analogia della «caduta di calore» col moto di un fluido; vedremo anzi le difficoltà che si incontrano per conciliarlo col meccanismo.
La scoperta si riattacca agli studi di Sadi Carnot sulle macchine termiche; occorse soltanto rettificare i resultati ottenuti da questi nell’ipotesi del fluido calorifico, mettendoli in armonia col principio dell’equivalenza fra calore e lavoro; ciò fece Clausius nel 1850.
Il postulato fondamentale di Clausius è che «il calore non può passare da un corpo più freddo ad uno più caldo, senza impiego di lavoro e senza che contemporaneamente altro calore passi da un terzo corpo ad un quarto a temperatura più bassa». Da questo postulato si deduce un principio equivalente, che esprime l’impossibilità del così detto moto perpetuo di seconda specie, cioè «non è possibile trasformare calore in lavoro, togliendo calore da una sola sorgente a temperatura uniforme».
Combinando tale principio con quello dell’equivalenza, si perviene al teorema di Carnot-Clausius, che enunciamo nella sua forma più generale relativa ai cicli reversibili, tralasciando alcune restrizioni di secondaria importanza di cui si fa uso nella sua dimostrazione.
Si abbia un sistema di corpi che, dopo un ciclo chiuso di trasformazioni reversibili, ritorni allo stato iniziale; si calcolino, lungo la linea di trasformazione s, la quantità di calore Q e la temperatura (assoluta) T del sistema, si ha allora
4.
Per conseguenza se per un ciclo aperto di trasformazioni reversibili si valuta l’integrale di Clausius , si ottiene una quantità dipendente soltanto dallo stato del sistema e non dalla serie delle trasformazioni eseguite. Questa quantità prende il nome di entropia.
Il teorema di Carnot-Clausius può assumersi come secondo principio della Termodinamica, e si tratta ora di vedere in qual modo si riesca a fornirne una spiegazione meccanica.
Facciamo l’ipotesi che il calore sia l’espressione sensibile di movimenti interni (invisibili) delle molecole. Nelle trasformazioni termodinamiche di un corpo vedremo allora un sistema meccanico pel quale si distingueranno due parti componenti l’energia totale:
Ma questa seconda energia si potrà ritenere trascurabile di fronte alla prima, se ci si limiti a considerare trasformazioni lente, ove le velocità del moto visibile sono piccolissime rispetto alle velocità molecolari.
Per interpretare meccanicamente il secondo principio della Termodinamica occorrerà dunque assegnare l’espressione dinamica di una quantità rappresentante la temperatura T, che per ogni trasformazione elementare sia un divisore integrante della variazione dQ.
Inoltre se conformemente al punto di vista della teoria cinetica dei gas, si considera l’equilibrio termico come un equilibrio statistico, deve essere verificata la proprietà fondamentale della temperatura, cioè unendo due sistemi in equilibrio statistico corrispondenti allo stesso valore di T, si deve ottenere un sistema parimente in equilibrio statistico, cui corrisponda il medesimo T.
La rappresentazione dei gas che vien portata dalla teoria cinetica (§ 10) conduce tosto alla definizione della temperatura (assoluta) T in guisa da soddisfare alle condizioni enunciate; ciò è conseguenza del fatto che l’ipotesi cinetica contiene le leggi dei gas perfetti.
La rappresentazione meccanica dei liquidi e dei solidi si accorda meno facilmente col secondo principio della Termodinamica.
I principali tentativi per costruire un meccanismo atto a simulare questi corpi, sono dovuti a Boltzmann (1866), Clausius (1871), H. Helmholtz5 (1884) e J. W. Gibbs6 (1902).
Questi tentativi, in ispecie quelli più notevoli dei due ultimi autori citati, lasciano intravedere la possibilità della desiderata spiegazione meccanica, sebbene non porgano al problema una risposta intieramente soddisfacente.
Nei meccanismi costruiti da Helmholtz (sistemi monociclici, ove hanno luogo dei moti nascosti a regime permanente, p. es. moti vorticosi o vibratorii) si riesce a definire T, come proporzionale all’energia cinetica molecolare media, in guisa che sia per ogni trasformazione elementare un divisore integrante della variazione dQ, ma non si vede bene come sia soddisfatta da T la seconda proprietà fondamentale sopra ricordata.
Gibbs si è preoccupato prima di tutto di rispondere a questa condizione e vi è riuscito sotto ipotesi generalissime, considerando sistemi composti in un immenso numero di elementi (corpi) svariatissimi. Disgraziatamente questi sistemi si allontanano dal tipo del meccanismo newtoniano, poichè si considerano forze emananti da centri fissi, in luogo di azioni reciproche delle parti in movimento.
Pei sistemi di Gibbs, soddisfatta una particolare condizione (distribuzione canonica), si può dunque definire una certa quantità (modulo di distribuzione) T, che gode della proprietà fondamentale suindicata: affinchè la riunione dei due sistemi a distribuzione canonica in equilibrio statistico, dia luogo ad un sistema canonico in equilibrio statistico, è necessario e sufficiente che i due sistemi dati abbiano lo stesso modulo di distribuzione. Però le equazioni di equilibrio statistico pei sistemi di Gibbs, non concordano esattamente con quelle della Termodinamica; vi è uno scarto, il quale tuttavia tende a ridursi col crescere del numero dei parametri da cui dipende la determinazione di ciascun elemento del sistema, sicchè le leggi termodinamiche appariscono qui come limite delle meccaniche.
§ 15. Fenomeni irreversibili.
Sarebbe arrischiato di voler trarre da questo resultato una conclusione qualsiasi. Evidentemente i sistemi immaginati da Gibbs non costituiscono la sola possibile illustrazione meccanica delle leggi termodinamiche. Non sembra dunque escluso che, anche senza uscire dal tipo di meccanismo newtoniano, si possa giungere alla costruzione di un modello meccanico assai generale, che soddisfi rigorosamente alle condizioni desiderate.
Ma vi è un altro aspetto del problema che deve richiamare la nostra attenzione.
Noi abbiamo considerato fino ad ora soltanto fenomeni termodinamici reversibili; ora questo è soltanto un caso limite del caso generale in cui si hanno fenomeni irreversibili, pei quali il teorema di Carnot-Clausius deve essere modificato, sostituendo una diseguaglianza all’eguaglianza considerata di sopra. Se allora si definisce anche in questo caso la variazione d’entropia7, si giunge al resultato seguente:
In ogni trasformazione irreversibile di un sistema isolato, la entropia va continuamente crescendo.
Una medesima tendenza sembra dunque sollecitare i fenomeni della natura in un senso determinato.
Come può accordarsi questo colla rappresentazione meccanica?
Una delle conseguenze più ovvie della forma propria alle equazioni di Lagrange è la reversibilità dei movimenti: dunque ogni meccanismo, in quanto è retto da tali equazioni conformemente ai principii della Dinamica, non può offrirci esempio di fenomeni irreversibili.
La difficoltà sembra a prima vista inestricabile. Nondimeno due spiegazioni sono state proposte per dirimere il paradosso.
Helmholtz osserva che la reversibilità appartiene soltanto ai sistemi meccanici completi; pei sistemi incompleti si può avere un’apparente irreversibilità. Così accade p. es. pel pendolo di Foucault, a cagione dei movimenti della terra che completano il sistema.
Ora dunque si può ammettere che i fenomeni irreversibili, datici dall’esperienza, sieno soltanto una parte visibile di fenomeni completi in cui entrano movimenti nascosti; l’irreversibilità costituirebbe così l’apparenza dei fatti che nella loro integrità sarebbero reversibili.
Non bisogna illudersi sulla portata di una tale spiegazione. Il Duhem giustamente osserva che essa rende conto dell’esistenza di processi irreversibili, ma non ci dice perchè questi obbediscano tutti ad una comune tendenza, perchè accanto ai sistemi apparentemente isolati ove l’entropia va crescendo non se ne trovino di quelli per cui avviene l’opposto.
Assai più soddisfacente è la spiegazione della irreversibiltà proposta dai fondatori della teoria cinetica dei gas.
Consideriamo un sistema composto di un immenso numero di elementi moventisi in tutti i modi possibili, p. es. quello che abbiamo indicato come modello di un gas; una trasformazione del sistema corrisponde al passaggio da uno stato ad un altro, ogni stato essendo definito dalle velocità degli elementi in grandezza e direzione.
Mancando una conoscenza precisa del processo, è impossibile dire quale sarà la trasformazione del sistema dopo un tempo t. Ma nell’insieme di tutte le trasformazioni possibili appariscono come più probabili quelle che ci avvicinano ad una distribuzione delle velocità indicata da Maxwell, per cui diventa massima una certa funzione H (che avrà così l’ufficio dell’entropia), corrispondente ad uno stato di piena disorganizzazione del sistema.
È lecito dunque affermare che dopo un tempo t sufficientemente grande, la trasformazione del sistema avverrà molto probabilmente nel senso dell’accrescimento di H. È vero che una siffatta trasformazione sarebbe sempre teoricamente invertibile; ma la trasformazione inversa non dovrà riguardarsi come ugualmente probabile alla data, giacchè la continuazione di essa per un valore più grande di t, ci condurrebbe probabilmente ad uno stato disorganizzato pel quale H avrebbe un valore più grande.
Fermiamoci sui punti delicati di questo ragionamento.
Quantunque le trasformazioni possibili del nostro sistema si presentino a coppie, stando accanto a ciascuna l’inversa, non ne segue perciò che ognuna di esse sia ugualmente probabile come l’inversa; questa conseguenza sarebbe legittima soltanto se le trasformazioni suddette fossero in numero finito, mentre esse sono infinite. L’irreversibilità appare così come un effetto di media, in una serie di fenomeni individualmente reversibili. Per questo lato nulla vi è da obiettare.
Si rilevi però il carattere della spiegazione ottenuta; essa aggiunge alla rappresentazione meccanica il principio sperimentale che vuole verificata in un gran numero di casi la legge della probabilità.
Tale principio suppone d’altronde una eguaglianza di condizioni nello svolgersi dei fenomeni elementari sovrapposti di cui si cerca l’effetto di media.
Ora chi ci assicura che una disposizione primitiva del nostro meccanismo non potrebbe alterare codesta eguaglianza e rendere quindi inapplicabile la legge suddetta? Il Boltzmann (op. c.) conviene in questo punto che la teoria si fonda sopra un’ipotesi; crediamo che una più precisa determinazione di essa possa essere desiderata.
Non si può negare ad ogni modo il valore di una spiegazione che si dimostra atta ad approfondire lo studio di casi concreti, costruendo, p. es. una teoria cinetica della diffusione dei gas, ed illustrando così meccanicamente un fenomeno irreversibile.
D’altronde non è neppure il caso di lagnarsi che la teoria meccanica delle trasformazioni irreversibili lasci intravedere come possibile, in particolari condizioni, un rovesciamento del corso naturale dei fenomeni, in contraddizione al secondo principio della Termodinamica. Chi ci assicura che il postulato di Clausius non possa subire qualche eccezione? p. es. nei fenomeni della vita?
Ricorre qui spontanea al ricordo la concezione del demone di Maxwell, distributore dell’energia. Scegliendo in un gas le molecole dotate di maggior velocità e separandole dalle altre, il demone potrebbe elevare la temperatura di una parte di esso a detrimento dell’altra, senza fornire alcun lavoro.
Ma un tale fenomeno sembra esigere necessariamente una forza di scelta.
Respingendo l’uso di un tal mezzo, G. Lippmann8 ha proposto una esperienza ideale per cui nelle ipotesi della teoria cinetica si riuscirebbe a toglier calore da un gas a temperatura uniforme, collocato in un campo magnetico, contraddicendo così al postulato di Clausius. Si tratta di approfittare delle correnti indotte alternate che si generano pel moto delle cariche elettriche portate dalle molecole, tenendo conto delle piccole differenze nella distribuzione delle velocità.
A vero dire questi effetti non potrebbero rendersi sensibili, e perciò non costituirebbero una effettiva contraddizione al principio termodinamico, preso nella sua accezione reale, come un fatto d’esperienza. Ma, se non c’inganniamo, si può opporre al ragionamento del Lippmann un’altra osservazione: un gas a temperatura uniforme ammette sempre, nelle ipotesi della teoria cinetica, piccolissime differenze di temperatura in punti diversi; sembra dunque che tali differenze, riducendosi progressivamente, possano essere utilizzate come una infinitesima caduta di calore per produrre effetti del medesimo ordine, conformemente al secondo principio della Termodinamica.
§ 16. Meccanica energetica.
Consideriamo gli sviluppi precedenti sull’elasticità e sul calore come un tentativo di verificare più estesamente la Meccanica newtoniana.
La possibilità della verifica resta subordinata all’ipotesi di movimenti nascosti; la quale ipotesi vedremo assumere un’estensione maggiore nelle teorie elettro-magnetiche, dove si postuleranno anche masse nascoste.
Ora questa costruzione ipotetica di un mondo invisibile, paragonata ai fatti d’esperienza ch’essa vuole spiegare come conseguenze dei principii adottati, viene a contenere un’arbitrarietà tanto più illimitata, in quanto che i fenomeni irreversibili ci costringono a moltiplicare i movimenti nascosti, e a ritenerne soltanto gli effetti di media secondo la legge dei grandi numeri.
Riguardata sotto questo aspetto la Fisica assume un carattere di limite per riguardo alla Meccanica, e la verifica di questa viene in definitiva a mancare, poichè si apre l’adito a possibili modificazioni dei principii meccanici, che sieno di natura da essere eliminate in un computo di media.
La conclusione precedente si può esprimere dicendo che la spiegazione meccanica dei fenomeni fisici, contiene delle ipotesi indifferenti rispetto alle conseguenze che costituiscono i principii generali dei fenomeni stessi.
Dalla tendenza ad eliminare l’indifferente rimane quindi giustificato un ulteriore sviluppo induttivo della Dinamica, dove i principii suddetti vengono presi come premesse più generali al posto dei principii newtoniani. Questo sviluppo riscontriamo appunto nella costruzione di una Meccanica energetica, a cui Helmholtz ha dato origine.
Supponiamo di partire da un meccanismo newtoniano, cioè da un sistema di punti in moto fra cui intercedano forze centrali. Restano allora definite una energia potenziale ed una energia cinetica, che, secondo le varie rappresentazioni meccaniche, assumono un significato fisico diretto traducendosi in quantità misurabili; e si possono porre i due postulati fondamentali seguenti:
La maggior estensione di questi postulati in confronto alla Meccanica classica, risulta dalle osservazioni seguenti:
Tuttavia importa mettere in vista che una spiegazione meccanica, conforme alla Dinamica classica, si può ritenere come una spiegazione energetica, soltanto sotto la condizione che le forze ammettano un potenziale, cioè che valga il principio delle forze vive (cap. V § 28).
L’Energetica è dunque una Meccanica più generale, soltanto se si ritenga escluso il caso di forze senza potenziale. Il qual caso, dove i fenomeni non obbediscono alla conservazione dell’energia, può essere considerato come un artificio volto ad isolare una Meccanica ristretta di sistemi incompleti, e a surrogare in questa ciò che è dovuto a forme d’energia non propriamente meccaniche.
§ 17. Materia ed energia.
La Meccanica energetica come la classica si urta nella difficoltà di spiegare i fenomeni irreversibili, e se vuole eliminare le considerazioni di media e di limite è costretta ad ammettere forme d’energia qualitativamente diverse, e ad accogliere quindi nuovi postulati sulla trasformazione di queste. Appunto in tal senso procedono, con intedimenti utilitarii, certi nuovi sviluppi nel campo della Fisica-chimica9.
Non è nostro proposito di farne l’esame.
Vogliamo invece raffrontare qui, sotto varii aspetti, le concezioni fondamentali della Meccanica energetica e della Meccanica classica.
Abbiamo già rilevato (cap. V § 20) che la critica delle circostanze determinanti del moto tende a distinguere:
Le locuzioni «interno» ed «esterno» hanno qui un significato relativo. Sono presi come elementi interni i dati forniti da esperienze sul corpo, dove intervengono bensì altri corpi (istrumenti ecc.), ma che restano indipendenti dal movimento di cui è proposta la determinazione, cioè che possono effettuarsi sul corpo, a volontà, p. es. in condizioni di quiete. Sono presi invece come dati esterni al corpo mobile quelle condizioni di cui si può constatare l’azione portando entro il campo un altro corpo qualsiasi (a parità di massa); ed è per astrazione che questi dati, indipendenti in una certa misura dal corpo mobile, si considerano come esterni ad esso.
Ora abbiamo già avuto occasione di notare che la distinzione schematica suaccennata corrisponde imperfettamente alla realtà, quando si riguardino i fatti conosciuti nella loro più vasta estensione. Infatti da una parte il confronto delle masse di corpi chimicamente irriducibili ci conduce ad esperienze di movimento, ove entrano, almeno implicite, le forze. D’altra parte i campi di forze newtoniani ci mostrano già una dipendenza della forza, che si vuol prendere come dato esterno, dalla massa su cui essa agisce; ed i fenomeni elettrici ecc. c’indicano di più una dipendenza delle forze stesse dallo stato fisico del corpo mobile, cioè da caratteri di esso che, in una prima intuizione almeno, si presentano come interni.
Lo sviluppo di simili considerazioni induce naturalmente a ritenere fittizia la distinzione rappresentativa fra caratteri o rapporti interni ed esterni di un corpo, presa in un senso generale.
Questa critica investe la stessa idea che ci formiamo della materia, a cui si riattacca la distinzione precedente.
Si dovrà dunque intendere che l’attribuire certe proprietà ad una materia, significa riconoscere l’associazione di certi dati fenomenici che vien fatta corrispondere astrattamente ad un oggetto, il corpo materiale, soprattutto perchè vi si connette una certa localizzazione e quindi una disponibilità dei fenomeni stessi; speciale importanza sotto tale riguardo hanno i corpi solidi, che fungono anche da recipienti per i liquidi e per i gas.
Ora la disponibilità della materia corrisponde ad una serie di invarianti sovrapposti, relativi a gruppi di trasformazioni fisico-chimiche; la massa è uno di questi invarianti, relativo, al gruppo di tutte le trasformazioni suddette; certi campi di forze che riattacchiamo ad un corpo, p. es. le attrazioni newtoniane, hanno pure un senso relativamente invariante. E queste invarianze si esprimono dicendo che per un corpo isolato la massa è costante ecc., dove l’isolamento è un’ipotesi fittizia che rende un’astrazione in forma semplificata.
Accanto agli invarianti suddetti, ed anzi più generale di essi, si presenta l’energia, cioè la somma delle varie energie, di un sistema isolato.
Il significato dell’energia stessa può essere definito, in virtù delle varie trasformazioni possibili, riducendosi per equivalenza ad una forma determinata, sia p. es. ad un lavoro, che corrisponde allora direttamente ad un determinato gruppo di sensazioni tattili-muscolari, e può essere apprezzato più precisamente mediante opportuni istrumenti.
Ora la scuola che ha trovato in Ostwald il suo teorizzatore muove dalla veduta fondamentale che l’energia possa essere riguardata come un oggetto al pari della materia, che anzi questa debba essere ritenuta come una forma particolare di energia.
La tesi ha sollevato alte grida. Si è parlato di immaterialità della materia e di materializzazione dell’energia, come se sotto queste parole si nascondesse un fatto di capitale importanza, e si è invocato il senso comune; prudente salvaguardia per chi vuol risparmiarsi la critica delle espressioni scientifiche!
Il vero è che le espressioni sopra riferite non coprono alcun dubbio di fatto, e che la veduta energetica non vuol per nulla cambiare la realtà, ma soltanto modificare le immagini che ce ne formiamo, o meglio le immagini che ricorrono nello studio astratto dei rapporti fisici, imperocchè le intuizioni della materia non vengono certo bandite dalla interpretazione concreta della teoria.
La critica del concetto di materia che sta a base della veduta energetica, e la concezione dell’energia come di un «oggetto», non possono dar luogo ad alcuna giustificata obiezione. Ma si può discutere soltanto circa il valore di queste immagini in confronto a quelle suggerite dall’idea della materia, ed in particolare alle immagini atomiche.
Gli energisti ritengono assorbite nel concetto della energia tutti gl’invarianti parziali connessi alla materia, ed in ispecie la invarianza della massa. Essi respingono d’altra parte ogni rappresentazione atomistica.
Queste vedute non ci appariscono sufficientemente giustificate; ed è notevole che mentre la teoria atomica conserva un ufficio importante nella Chimica, rappresentazioni analoghe vengano portate con frutto nei nuovi studii sull’elettro-magnetismo.
§ 18. Localizzazione e movimento dell’energia.
Vi sono d’altronde due modi di rappresentazione energetica dei fenomeni.
Il primo, che risponde a scopi utilitari parziali (soprattutto nella recente Fisico-chimica), tende a prescindere dagli elementi visivi che si connettono ai rapporti locali, prosegue insomma e conclude ad una più alta astrattezza il tipo del modello meccanico newtoniano.
Ma di contro a questo sorge un diverso sviluppo nel senso cartesiano, che può dirsi rappresentato dalle teorie sulla localizzazione e sul movimento dell’energia.
Qui l’energia viene per così dire materializzata, poichè la si assimila ad un fluido diversamente denso nelle varie regioni dello spazio, e la spiegazione dei fenomeni è ridotta a descrivere il moto di codesto fluido.
Queste immagini scaturiscono dalla teoria dell’elettricità (cfr. § 21). Maxwell dapprima ha localizzata l’energia elettrica nei dielettrici, e Poynting ha rilevato la semplicità con cui questa si muove: a meno di una deformazione che non altera i volumi, il flusso è normale al piano delle forze elettrica e magnetica, e proporzionale all’area del loro parallelogramma.
Più recentemente il Volterra ha proposto un modo di localizzare l’energia newtoniana ed elastica, e ne ha descritto il moto. Un vero modello ottico delle migrazioni dell’energia.
Di questi resultati speculativamente belli non si potrebbe apprezzare oggi il valore positivo.
Essi ci forniscono però una intuizione più sintetica delle discriminazioni fra proprietà interne ed esterne della materia. E relativamente alle nostre considerazioni hanno questo interesse: mostrano come il dualismo tra l’indirizzo cartesiano ed il newtoniano, che abbiamo riattaccato al contenuto sensibile delle immagini, si prosegua ancora nello sviluppo dei concetti energetici.
§ 19. Spiegazione elastica dei fenomeni ottici ed elettromagnetici.
Accanto agli sviluppi della Meccanica, nelle teorie generali della elasticità e del calore, sono da noverare quelli concernenti la luce, l’elettricità e il magnetismo. Dei quali vogliamo ora brevemente discorrere.
Anzitutto due sono i punti di riattacco di quest’ordine di fenomeni fisici al concetto generale della elasticità:
La riunione di queste due vedute ha condotto Maxwell a fondare quella generale teoria elettro-magnetica, a cui l’Ottica viene subordinata.
§ 20. Ottica.
Senza entrare in una minuta indagine storica, possiamo facilmente renderci conto della genesi delle idee che hanno portato ad una teoria meccanica della luce. Basta tener presenti:
Nonostante le accennate analogie, Newton a cui risale la teoria meccanica del suono (corretta poi soltanto in un punto da Laplace) ha fondato la prima teoria ottica sopra una ipotesi essenzialmente diversa, cioè sulla emissione di una sostanza dai corpi luminosi. Nè è difficile spiegarsi la ragione del diverso cammino prescelto.
Perchè i fenomeni luminosi non si adattano ad essere spiegati col movimento della materia che cade sotto i nostri sensi, l’ipotesi dell’emissione viene a colmare il vuoto con un presupposto cui spetta per dir così un grado minimo di astrazione, e che riposa d’altronde sopra talune associazioni spontanee di cui trovasi traccia nel comune linguaggio. Aggiungasi che l’idea di assimilare più profondamente la luce al suono, mediante una teoria ondulatoria, doveva incontrare come incontrò difatti al suo nascere, alcune serie difficoltà.
Comunque, la teoria dell’emissione raggiunse per opera dei continuatori di Newton un alto sviluppo e, mercè un certo numero d’ipotesi supplementari, condusse Laplace a render ragione delle prime proprietà della riflessione e della rifrazione.
Ma i progressi nello studio sperimentale di quest’ultimo fenomeno, ed in ispecie la misura della velocità della luce nei mezzi diversamente rifrangenti, si mostrarono inconciliabili coll’insieme delle ipotesi adottate.
Si affermò pertanto di fronte all’ipotesi newtoniana, la teoria rivale, ideata da Huyghens, sviluppata da Young e da Fresnel, la quale dando risalto all’analogia fra suono e luce, tende a rappresentare il fenomeno luminoso come vibrazione di un mezzo elastico, l’etere, riempiente l’intero spazio.
E questa teoria mostrò sempre più la sua fecondità, giungendo p. es. (con Fresnel stesso) a spiegare i fenomeni di diffrazione, previsti da Poisson.
Ora il problema fondamentale che Fresnel dovette risolvere, consiste nello stabilire un’adeguata concezione della elasticità ipoteticamente attribuita all’etere.
Anzitutto l’ipotesi più facile che consiste nell’assimilare l’etere ad un mezzo gassoso estremamente rarefatto, si mostra inconciliabile coi fatti. Invero i fenomeni di polarizzazione e d’interferenza, unitamente ai resultati delle misure d’intensità nello studio della riflessione e della rifrazione, conducono necessariamente ad ammettere che le vibrazioni luminose sono trasversali.
Pertanto l’etere si presenta come dotato di una elasticità in un certo senso opposta a quella dei gas, giacchè in questi si trasmettono soltanto onde longitudinali e non trasversali, gli scorrimenti delle molecole non incontrando alcuna resistenza elastica.
Come ci rappresenteremo un tal mezzo?
Se non vogliamo scostarci dalle condizioni abituali di un modello meccanico, dobbiamo o assimilarlo ad un solido, dotandolo di incompressibilità, o all’opposto attribuirgli una compressibilità infinita.
Questa seconda ipotesi è stata adottata generalmente da Fresnel, mentre F. Neumann e Mac-Cullagh hanno svolto un’altra teoria dove si adotta sistematicamente la prima.
Le due vedute conducono a supporre che per la luce polarizzata la vibrazione di una particella d’etere sia rispettivamente perpendicolare o parallela al piano di polarizzazione. Ma sembra difficile decidere fra i due casi col l’esperimento; anzi l’analisi di Poincarè tende a dimostrare che la differenza fra di essi costituisce un’ipotesi indifferente, almeno nel campo proprio dell’Ottica dei corpi in quiete. Tuttavia una recente esperienza fotografica di Wiener, viene da questi interpretata come una conferma delle vedute di Fresnel.
Per quanto si attiene alla facilità della rappresentazione, c’è evidentemente molto di subiettivo; l’etere di Fresnel è un mezzo elastico completamente nuovo, che si riesce ad immaginare soltanto ove si pensi ad un gas in cui l’ufficio dell’elasticità sia sostituito a quello della viscosità; l’ipotesi dell’etere solido ci offre più difficilmente una rappresentazione dei rapporti fra l’etere stesso e la materia, e ci obbliga a postulare una forza particolare (detta di Kirchhoff) per spiegare la differente elasticità dell’etere sulle due facce della superficie che separa mezzi diversamente rifrangenti.
Avremo occasione di vedere più tardi come l’elasticità dell’etere venga spiegata sotto un aspetto nuovo mediante movimenti stazionarii (§ 24). Ma anche rispetto alla nuova concezione si ripresenta nella teoria della luce la reciprocità di spiegazioni, cui abbiamo accennato.
§ 21. Elettro-statica.
I tentativi di una spiegazione meccanica dei fenomeni elettrici ed elettro-magnetici, si lasciano riattaccare a due vedute fondamentali di Clerk Maxwell, le quali dovrebbero sovrapporsi e congiungersi in una teoria sintetica, ma fra cui permane tuttavia una difficoltà di accordo che l’autore non è riuscito a superare completamente. Indagando e criticando i fatti con una logica potente e con una mirabile intuizione delle analogie, nei singoli dominii dell’esperienza, Maxvell ha preferito di serbare diverse costruzioni parziali, colla fiducia che le apparenti contraddizioni debbano scomparire in una visione più estesa dei rapporti fisici, anzichè essere arbitrariamente eliminate per spirito di composizione sistematica.
Un primo ordine di analogie, che forma nell’opera di Maxwell una dottrina a sè, è la teoria elastica delle azioni elettrostatiche.
A quel modo che l’Ottica suggerisce la rappresentazione di un mezzo elastico, traverso a cui si trasmettono le onde luminose, l’attrazione e la repulsione a distanza fra corpi elettrizzati conduce Maxwell a supporre un mezzo elastico sui generis interposto fra i conduttori; le pressioni e tensioni del mezzo si traducono appunto nelle azioni elettriche. E questa ipotesi rappresentativa trova il suo fondamento nelle esperienze di Faraday, da cui risulta l’ufficio importante dei dielettrici nei fenomeni elettrici.
Come si vede, il tentativo maxwelliano tende a ridurre le forze fra corpi distanti a forze esercitantisi per contiguità. Tuttavia il sistema d’immagini in cui vien tradotta questa idea direttrice, solleva gravi obiezioni.
Beltrami ha osservato che le tensioni producentisi nel mezzo maxwelliano non soddisfano alle condizioni differenziali che si trovano valere in generale per i mezzi elastici, ove si ammetta come proprietà caratteristica di questi, che lo stato di tensione prodotto da una deformazione infinitesima dipenda, per ogni elemento, da tale deformazione, e non dalla successione degli stati traverso a cui il corpo sia passato in precedenza.
Queste obiezioni non intaccano la possibilità di una spiegazione elastica delle azioni elettro-statiche, ma mostrano che questa non può essere data sotto la forma semplice proposta da Maxwell, dove le tensioni dipendono dallo stato locale delle forze del campo. Si può bensì, in altro modo, far corrispondere ad un campo di forze elettro-statiche, come in genere ad ogni campo di forze, una ben determinata deformazione di un mezzo elastico equilibrato sotto la azione delle forze suddette. In questo senso il Somigliana ha risoluto il problema di assegnare la deformazione e il corrispondente stato di tensione che spetta ad un mezzo elastico capace di spiegare le azioni elettro-statiche.
Ma qui le tensioni dipendono da tutto il campo di forze dato.
§ 22. Elettro-magnetica.
Anche nella trattazione dei fenomeni elettro-magnetici Maxwell è guidato dall’idea direttrice di spiegare le forze a distanza con azioni esercitantisi per contiguità. Cerchiamo di interpretare, senza imporci vincoli troppo ristretti, il pensiero che regge questa trattazione.
Prendiamo le mosse dalle analogie colla teoria meccanica del calore.
Come in questa teoria si è condotti dai rapporti fra calore e lavoro alla ipotesi che il calore corrisponda ad un moto intimo delle particelle dei corpi, così i fatti dell’induzione elettro-magnetica, cui si lega produzione di lavoro meccanico, suggeriscono analogamente l’idea che l’energia elettro-magnetica sia da riguardare come una forma di movimento.
Maxwell insiste in ispecie sull’analogia fra i fenomeni d’auto-induzione delle correnti e le forze d’inerzia per trarne la veduta che alla corrente corrisponde «qualcosa che si muove». Ma, poichè i suddetti fenomeni dipendono dalla forma del circuito e dal mezzo ambiente, rigetta l’ipotesi che ciò che si muove sia della elettricità nel filo conduttore. Una intuizione conforme allo spirito sintetico di Faraday gli suggerisce invece di pensare al movimento di un fluido che riempia il dielettrico circostante.
Ora si tratta di spiegare con una tale ipotesi i varii fenomeni d’induzione elettro-magnetica. Questo è appunto lo scopo della teoria che Maxwell sviluppa nella 4ª parte del suo Trattato di elettricità e magnetismo.
E la spiegazione è ottenuta nel senso della Meccanica energetica (§ 16), le cui vedute trovarono qui per la prima volta una importante applicazione concreta.
Esponiamo i principii direttivi della teoria maxwelliana, riferendoci per semplicità al caso della Elettro-magnetica dei corpi in quiete entro un mezzo omogeneo. Nella impossibilità di determinare il meccanismo nascosto che corrisponde ai fatti visibili, si possono tuttavia esprimere col principio di Hamilton le relazioni che passano fra due forme d’energia date nel campo dell’esperienza, cioè fra l’energia elettrica che (indipendentemente dalle ipotesi più particolari del precedente paragrafo) può riguardarsi come energia potenziale, e l’energia elettro-magnetica da riguardarsi come energia cinetica o forza viva. La teoria elettro-statica fa conoscere la espressione della prima energia in funzione delle cariche elettriche, delle distanze ecc.; il modo come la seconda energia dipende dalle intensità delle correnti elettriche e dai rapporti geometrici dei circuiti viene criticamente indagato da Maxwell.
Ora le anzidette relazioni energetiche rappresentano bene i fatti dell’induzione elettro-magnetica.
Da esse si passa poi naturalmente alle equazioni di un campo elettro-magnetico, le quali esprimono che lo stato futuro del campo è determinato da quello attuale, e dove figurano legati diversi elementi che entrano nelle combinazioni integrali rappresentanti le due energie suindicate.
Il contenuto positivo delle equazioni nominate verrà chiarito più oltre, seguendo Hertz e Levi-Civita.
Dagli sviluppi di Maxwell non scaturisce una figurazione adeguata del meccanismo nascosto dei fenomeni elettro-magnetici, ma soltanto lo schema di un mezzo che grossolanamente si può rappresentare come un sistema cellulare contenente un fluido.
Il movimento del fluido corrisponde all’energia elettro-magnetica, e le reazioni elastiche, cioè le pressioni e tensioni determinate da codesto movimento nelle pareti delle cellule, danno luogo all’energia elettro-statica.
Abbiam già rilevato che l’importanza di questo schema sta nella rappresentazione e nel legame posto fra i varii fenomeni elettro-magnetici e in ispecie fra i fenomeni d’induzione.
Diventa quindi possibile di proseguire la visione immaginativa dei fenomeni suddetti al di là del campo dell’esperienza. E così appunto Maxwell è stato condotto alla sua più importante scoperta.
Egli ha osservato che oscillazioni elettro-magnetiche periodiche estremamente rapide dovrebbero produrre fenomeni analoghi a quelli della luce. Le onde luminose potranno dunque riguardarsi come un caso particolare di codeste oscillazioni, corrispondenti ad una lunghezza d’onda estremamente piccola.
Queste vedute teoriche ricevono nell’opera maxwelliana una limitata conferma; la più saliente è il riscontro che la velocità della luce è sensibilmente uguale al rapporto delle due unità di quantità elettrica nei sistemi di misura elettro-statico ed elettro-magnetico; il confronto fra le proprietà ottiche ed elettriche dei corpi dà resultati meno soddisfacenti, se si domandano accordi quantitativi un po’ precisi.
Vent’anni dopo le oscillazioni elettriche venivano realizzate sperimentalmente da Hertz, e misuratane quindi la velocità di propagazione, si ritrovava conformemente alla previsione teorica la velocità della luce!
Da quel giorno nuove analogie tra i fenomeni ottici ed elettro-magnetici si sono venute accertando in gran numero, p. es. si sono ripetute per le onde elettro-magnetiche le varie esperienze sulla riflessione, la rifrazione ecc., procedendo soprattutto in questo senso l’opera di Augusto Righi10.
Così si può dire che il concetto generale della teoria elettro-magnetica della luce costituisce ormai un acquisto sicuro per la Scienza.
§ 23. Contenuto positivo della teoria di Maxwell.
Nell’opera di Maxwell si riconoscono sovrapposte vari costruzioni parziali che, per una parte tendono ad una rappresentazione meccanica dei fenomeni ottico-elettro-magnetici, e per l’altra riescono ad un collegamento fra varii dati fenomenici, espresso dalle equazioni di un campo elettro-magnetico.
Ora in queste equazioni figurano elementi di vario ordine, cioè dati relativi al modello meccanico accanto a dati definiti da esperienze possibili; quindi la necessità di un lavoro di critica volto a riconoscere il contenuto positivo della teoria maxwelliana.
Appunto una tale critica ha condotto Heaviside e Hertz a trasformare e semplificare le equazioni di Maxwell.
Hertz soprattutto, a prescindere dall’estensione delle equazioni suddette a mezzi cristallini anisotropi, ha il merito di avere spiegato lucidamente il significato di codeste equazioni in due memorie classiche, consacrate rispettivamente alla elettro-magnetica dei corpi in quiete e dei corpi in moto11.
Ci riferiremo qui al primo caso.
Poniamo che in un mezzo omogeneo o nel vuoto, siano dati più corpi immobili sede di fenomeni elettrici ed elettro-magnetici; resta così definito un campo elettro-magnetico, cioè per ogni punto sono definiti, in funzione del tempo, due vettori: la forza elettrica e la forza magnetica. La forza elettrica è la forza che si eserciterebbe in ogni punto del campo sopra una massa elettrica unitaria che ivi sia trasportata; essa viene definita indipendentemente dalla distinzione delle forze di origine elettro-statica ed elettro-magnetica di cui esprime la resultante. La forza magnetica viene definita in modo del tutto analogo alla forza elettrica.
Le definizioni date hanno un significato positivo in rapporto ad esperienze possibili, a parte la difficoltà pratica di misurare la forza elettrica in unità elettro-statiche.
La conoscenza del campo delle forze elettriche e magnetiche determina poi completamente il corso dei fenomeni ed in ispecie dei fenomeni elettro-dinamici, indipendentemente dalla conoscenza dei corpi elettrizzati, delle correnti e dei magneti che hanno servito a definire il campo stesso. Ciò in base ad un’ipotesi fondamentale generalmente accolta come estensione della legge di Ohm, verificata pei fenomeni permanenti: la corrente elettrica in un conduttore è vettorialmente proporzionale per ogni punto alla forza elettrica che vi agisce.
Il campo delle forze elettriche e quello delle forze magnetiche sono in una stretta dipendenza l’uno dall’altro. Hertz assume senz’altro come ipotesi le equazioni che esprimono tale dipendenza, le quali, riferendosi ad un mezzo coibente omogeneo ed isotropo, possono tradursi come segue:
Se il campo è un conduttore questa seconda legge va modificata nel senso che alla variazione della forza si aggiunge quella dovuta alla corrente, la quale è (come notammo) proporzionale alla forza stessa.
Le nominate equazioni, a cui era giunto ugualmente Heaviside trasformando e semplificando quelle di Maxwell, determinano la conoscenza del campo elettro-magnetico futuro, dato lo stato attuale; esse ci dicono infatti come ogni perturbazione elettro-magnetica locale si propaghi nello spazio e nel tempo.
Alle equazioni del campo elettro-magnetico occorre aggiungere soltanto le equazioni di condizione che esprimono la conservazione dell’elettricità e del magnetismo, la prima delle quali serve a differenziare l’etere (vuoto) dalla materia.
Si può allora interpretare queste equazioni e dedurne, come Hertz mostra, le note leggi fisiche; in primo luogo quelle relative ad un regime permanente, sia p. es. la legge di Ohm per i circuiti chiusi, i principi di Kirchhoff pei conduttori in derivazione, la regola di Ampère e la legge di Biot e Savart; poi le leggi dell’induzione che l’esperienza ci fa conoscere per circuiti chiusi ecc.
La verifica delle conseguenze tratte dalle equazioni del campo elettro-magnetico, giustifica secondo Hertz queste equazioni stesse assunte come ipotesi fondamentale della teoria.
Ma perchè la verifica appaia veramente dimostrativa dell’ipotesi, importa stabilire che questa può essere dedotta a sua volta da alcune delle leggi fisiche sottoposte all’esperienza.
Ciò appunto è stato fatto da T. Levi-Civita13, il quale riprendendo la teoria di Helmholtz, e correggendola coll’ipotesi di un tempo di propagazione delle azioni a distanza, ha fatto vedere che essa conduce alle equazioni di Hertz.
Vogliamo spiegare più precisamente questo importante risultato.
Si ammetta che:
Possiamo dunque concludere che: Gli sviluppi di Hertz e di Levi-Civita pongono in luce il contenuto positivo della teoria elettro-magnetica di Maxwell. Per mezzi omogenei ed isotropi in quiete, questa teoria equivale alla somma del principio di conservazione dell’elettricità e delle leggi di Coulomb, Biot e Savart ed F. Neumann, corrette coll’ipotesi di un tempo di propagazione delle azioni a distanza.
§ 24. L’elasticità riguardata come movimento.
Mentre la critica positiva della teoria maxwelliana riesce ad eliminare dalle equazioni del campo ogni distinzione fra forze elettriche di origine elettro-statica e forze di origine elettro-magnetica, anche le speculazioni intorno al modello meccanico dei fenomeni tendono d’altra parte a sopprimere codesta distinzione.
Maxwell aveva riguardato le forze elettro-statiche come vere forze elastiche, e le forze elettro-magnetiche come forze d’inerzia o forze apparenti dovute a movimenti nascosti; uno sviluppo della rappresentazione meccanica nel senso cartesiano conduce a ritenere anche le azioni elettro-statiche come effetto di moti nascosti, e più generalmente a spiegare l’elasticità come una forma di movimento.
Questa idea si è presentata per la prima volta a Mac-Cullagh (1839) il quale nella spiegazione delle proprietà ottiche dei cristalli fu condotto ad immaginare l’etere luminoso non più come un mezzo elastico propriamente detto, ma come un mezzo dove avvengono certi movimenti stazionarii che simulano una elasticità rotazionale. Fitz Gerald ebbe a notare come questo modello si adatti nel miglior modo ad accordare la rappresentazione dei fenomeni ottici ed elettro-magnetici. Ma le difficoltà di figurazione sono state tolte da W. Thomson mercè il modello concreto di un etere girostatico.
Il fondamento della costruzione consiste nella proprietà degli assi permanenti di rotazione che si osserva nel giroscopio. Con quattro giroscopii articolati a losanga si può comporre un sistema che simula l’elasticità di una molla. Se s’imprime a tutto il sistema una rotazione, l’asse presenta una resistenza ad essere spostato dalla sua direzione. Collegando quindi una infinità di sistemi elementari siffatti, si riproduce il modello di un etere capace di rappresentare la rotazione del piano di polarizzazione della luce in un campo magnetico (fenomeno osservato da Faraday).
Uno sviluppo ulteriore della sua idea costruttiva conduce Thomson ad immaginare un modello idrocinetico delle azioni elettro-dinamiche, nel quale la impenetrabilità e l’inerzia della materia, ove si effettuano dei moti stazionarii, producono dunque delle forze apparenti analoghe alle azioni amperiane delle correnti.
Accanto a questo modello è da citare quello proposto da C. A. Bierknes per le azioni elettro-statiche (o newtoniane), dove queste azioni si producono come effetto del moto vibratorio di sfere pulsanti entro un liquido.
Accade tuttavia nei modelli citati che le azioni simulate sono inverse alle azioni reali: ma Poincarè ha mostrato come questa inversione si possa togliere modificando l’interpretazione dei modelli stessi15.
Vi è di più un’altra difficoltà nel modello di Bierknes; infatti egli ha dovuto supporre che le sfere pulsanti abbiano ugual periodo ed egual fase (o fasi differenti di π), il che appare inammissibile.
Si può togliere questa difficoltà supponendo un moto di contrazione o di dilatazione continuo, invece che alternativo.
Questo caso corrisponde appunto alla rappresentazione di una particella elettrizzata ove si costruisca una estensione dell’Ottica di Fresnel adattata ai fenomeni elettro-magnetici, cioè una teoria in qualche modo reciproca di quella costruita recentemente da Larmor come estensione dell’Ottica di Mac-Cullagh di Neuman16.
Mentre le speculazioni accennate mirano a rappresentare in concreto le forze elettriche come forze d’inerzia, Hertz veniva condotto ad immaginare che una spiegazione analoga debba valere in generale per tutte le forze, cioè che queste possano sempre sostituirsi coi movimenti di masse nascoste vincolate.
Nella sua Meccanica postuma si trova appunto una giustificazione astratta di questa veduta, ed il disegno di una trattazione della scienza del moto da cui ogni nozione propria di forza resta bandita.
L’ipotesi fondamentale è dunque che esistano, connesse colla materia visibile, masse invisibili, per modo che ogni fenomeno ed in particolare ogni movimento della materia visibile, importi in generale un movimento della invisibile; la legge del movimento si riduce ad una generalizzazione del postulato d’inerzia di Galileo-Newton.
Ogni sistema isolato si muove per modo che la successione delle sue posizioni risponda ad una condizione di minimo, che può essere espressa dal principio di minimo sforzo di Gauss, analoga a quella cui soddisfa la retta fra le possibili traiettorie di un punto nello spazio, e la geodetica fra le possibili traiettorie di un punto sopra una superficie.
Le forze apparenti non sono che le reazioni dei legami.
Lo schema abbozzato da Hertz non è stato condotto da lui fino alla trattazione di problemi determinati, dove appaia in qual senso e modo possa risolversi convenientemente l’arbitrarietà che rimane nella scelta dei moti nascosti, e qual partito possa trarsi da codesta ipotesi per la spiegazione dei fenomeni.
Ma le rappresentazioni meccaniche dell’elettro-magnetismo sopra citate, p. es. il modello di Bierknes, possono valere come illustrazione del programma hertziano.
D’altronde si può osservare che i varii sviluppi della Fisica-meccanica analizzati fin qui tendono in generale a ridurre le forze al tipo elastico, sicchè per realizzare l’idea di Hertz importa costituire in modo completo, secondo le vedute di Thomson, una trattazione della elasticità riguardata come movimento.
§ 25. Elettro-magnetica dei corpi in movimento: teoria di Hertz.
Lo sviluppo speculativo che tende alla spiegazione meccanica dei fenomeni elettro-magnetici fa capo ad un modello di tipo cartesiano teoricamente generale e perfetto, benchè non ancora svolto adeguatamente in modo concreto. Ma le speculazioni intorno a questo meccanismo nascosto restano troppo lontane dalle applicazioni concrete della teoria, la quale, come abbiam visto, ha un contenuto indipendente dalle sue basi meccaniche.
Ove si tratti di proseguire queste applicazioni, di perfezionare e di estendere il modello elettrico dei fenomeni ottici, le forze elettriche possono venir assunte come dati primitivi senza investigarne la possibile riduzione.
Così appunto accade nelle equazioni hertziane, che abbiamo considerato nel § 23 limitandoci alla Elettro-magnetica dei corpi in quiete; così ancora nei nuovi sviluppi a cui ha condotto il tentativo di coordinare i varii fenomeni elettro-magnetici dei corpi in movimento, ed in particolare nella teoria di Lorentz.
Vogliamo render conto in breve di queste dottrine lasciando da parte gli sviluppi precedenti di Maxwell; e prendiamo le mosse dalla trattazione della elettro-magnetica dei corpi in movimento di Hertz, cercando d’interpretare la genesi dell’idea direttrice che l’ispira.
Se consideriamo un mezzo indeformabile in quiete (o ritenuto come tale), e determiniamo in esso un campo elettro-magnetico (mediante corpi immobili, elettrizzati o magnetizzati o percorsi da correnti) troviamo che in ogni punto la forza elettrica e magnetica sono legate dalle equazioni differenziali, il cui contenuto è stato analizzato nel § 23.
Ora queste equazioni si possono estendere in due sensi.
In primo luogo si può ammettere che esse valgano comunque il campo elettro-magnetico sia prodotto da corpi che si muovano entro il mezzo dato. Così p. es., un corpo elettrizzato che si muove darà luogo in ogni punto ad una variazione progressiva della forza elettrica, e quindi ad una perturbazione del tutto analoga a quella generata da una corrente: ciò è d’accordo colle esperienze di Rowland che assimilano la corrente elettrica per convezione (trasporto) alla corrente per conduzione (voltaica).
In secondo luogo, se i fenomeni si propagano entro mezzi diversi che si muovano l’uno rispetto all’altro, si può supporre una indipendenza relativa di questi, cioè ritenere che in ognuno si abbia un campo elettro-magnetico proprio, definito dalle medesime equazioni hertziane prese come relative al mezzo stesso.
Hertz assume appunto tale ipotesi, completandola per riguardo al caso di mezzi materiali deformabili.
Si è facilmente condotti a questa estensione mercè le considerazioni seguenti.
Dalle equazioni differenziali riferentisi ad un mezzo indeformabile, si possono desumere leggi integrali (una delle quali fu assegnata da Maxwell) che esprimono la variazione del flusso di forza elettrica o magnetica attraverso una superficie chiusa, per il flusso della forza magnetica o rispettivamente elettrica lungo il contorno. Hertz assume come ipotesi fondamentale che queste leggi valgano per un mezzo in movimento, in senso relativo ad esso, cioè rispetto a circuiti materializzati deformantisi col mezzo.
La teoria di Hertz viene presentata dall’autore come un insieme di ipotesi compatibili con un piccolo numero di esperienze sul trasporto dei corpi elettrizzati e sugli effetti d’induzione del moto di circuiti attraversati da correnti; e l’autore stesso rileva la circostanza che in queste esperienze si tratta sempre di movimenti con velocità piccole rispetto alla velocità della luce.
La necessità di una correzione emerge dai fenomeni ottici che si presentano nei corpi in moto relativo, ed in ispecie dalla aberrazione astronomica.
Sia B un mezzo impolarizzabile, A una sorgente di onde elettro-magnetiche o luminose, e poniamo per fissare le idee che A sia a grande distanza da B in guisa da dare origine ad onde piane; così B può rappresentare la nostra atmosfera ed A una stella. Per ipotesi B si muove rispetto ad A.
Se si tien conto delle equazioni ai limiti nel passaggio dal mezzo di A al mezzo B, la teoria hertziana conduce ad ammettere che le onde emesse da A vengano come catturate e trascinate da B nel suo movimento, conservando in B il carattere di onde piane. Ne risulta che la velocità relativa di propagazione di queste onde in B, è quella stessa V che esse avrebbero se B fosse in quiete rispetto ad A.
A questa conseguenza contraddice l’aberrazione della luce, nota fino da Bradley. Infatti l’aberrazione implica che la luce proveniente dalla stessa A continui a muoversi entro l’atmosfera B colla stessa velocità V rispetto ad A, e quindi (designando con v la velocità della terra) con una velocità V - v rispetto alla terra.
Per spiegare l’aberrazione astronomica, si può cercare di sostituire al principio hertziano, esprimente una relatività locale dei fenomeni elettro-magnetici, un principio di relatività esteso che si armonizza col punto di vista sintetico di Faraday-Maxwell.
Consideriamo per semplicità un mezzo indeformabile B che si muova rispetto ad A, sede di fenomeni elettro-magnetici.
Si può ammettere che per un osservatore interno a B, e trascinato col mezzo, i fenomeni si presentino come se il mezzo B si estendesse fino a comprendere A.
Per giustificare una tale ipotesi, basta rappresentare i fenomeni elettro-magnetici come perturbazioni di un etere, definite dai punti singolari che corrispondono alle cariche elettriche portate da A.
Il procedere delle perturbazioni suddette col moto di A rispetto a B, si può raffigurare semplicemente ponendo che l’etere stesso sia trasportato con A rispetto a B.
La stessa ipotesi si lascia esprimere ritenendo l’etere immobile con A, e B in movimento. Se A è una stella, B la terra, v la velocità di B rispetto ad A, V la velocità di propagazione della luce in un mezzo come la nostra atmosfera, si trova allora che la luce proveniente dalla stella si propaga nella atmosfera terrestre colla velocità V - v.
Da ciò il fenomeno dell’aberrazione, spiegato nel modo che corrisponde alle vedute di Fresnel nella teoria ondulatoria.
Ma la spiegazione vale soltanto per il fatto elementare osservato da Bradley.
Gli astronomi di Greenwich hanno misurato l’aberrazione con un telescopio riempito d’acqua; la diversa velocità di propagazione delle onde luminose nell’acqua dovrebbe condurre qui ad un angolo d’aberrazione diverso; invece l’angolo non muta.
Questo resultato fu interpretato da Fresnel nel senso che «rispetto all’acqua l’etere non resta più fisso ma viene parzialmente trascinato».
Il trascinamento parziale delle onde luminose nella materia in moto viene poi confermato dagli esperimenti di Fizeau, anche recentemente ripetuti da altri; il movimento dell’acqua dà luogo ad uno spostamento nelle frange prodotte da due raggi luminosi interferentisi.
Di qui resulta che le più estese esperienze riferentisi ai fenomeni ottico-elettro-magnetici dei corpi in movimento, non possono venire spiegate neppure da un’ipotesi di relatività estesa come quella sopra enunciata. I suddetti fenomeni dipendono dal moto relativo dei corpi, dalla velocità di propagazione nel mezzo ove vengono constatati e da qualcos’altro, cioè (attenendosi all’esperienza) da caratteri qualitativi della materia che costituisce il mezzo suddetto.
Si tratta di costruire una teoria atta a render conto delle complesse condizioni dei fatti.
§ 26. Teoria di Lorentz.
La teoria di Lorentz17 (1892) è stata costruita a questo scopo. Il concetto fondamentale consiste nell’attribuire il trascinamento parziale delle onde elettro-magnetiche nella materia in moto, alla modificazione del campo prodotta da cariche elettriche che, per ipotesi, verrebbero trascinate dalla suddetta materia.
Per fissare le idee si consideri un corpo A ritenuto come fisso rispetto all’etere, ed un corpo B che si muova rispetto ad A (e all’etere stesso); si trovano sovrapposte entro B due serie di perturbazioni, relative ad A e a B, queste ultime progrediscono col moto di B, ed il resultato complessivo equivale all’ipotesi di un trascinamento parziale dell’etere entro B.
Il caso precedente può essere generalizzato ove si considerino più corpi A, B, C,... in moto relativo. In tal caso non si ha più motivo di ritenere che l’uno o l’altro di questi corpi, da cui vengono emesse onde elettro-magnetiche, sia fisso rispetto all’etere.
Per superare la difficoltà Lorentz postula un sistema di riferimento assoluto, cioè un etere indipendente dalla materia, le cui parti non variano le une rispetto alle altre, e a questo etere preso come immobile si confronta il moto dei corpi.
Il postulato è veramente arbitrario e darà luogo a conseguenze che dovremo poi esaminare; ora cerchiamo di renderci conto del modo come la prima ipotesi fondamentale venga concretata da Lorentz, in un sistema di immagini atomistiche.
Nell’antica teoria di Poisson si avevano due fluidi elettrici, il positivo ed il negativo (cfr. cap. II, § 26); Lorentz riprende in sostanza questa concezione, ma riguarda i due fluidi come costituiti di particelle materializzate (elettroni) il cui trasporto costituisce le correnti.
Egli adotta poi sul magnetismo l’ipotesi di Ampère, che esso sia la manifestazione di correnti nelle particelle del magnete.
Si ha così una veduta unificata dei varii fenomeni elettro-magnetici.
È soprattutto interessante di riconoscere come un raffronto geniale di fatti diversi abbia condotto a ridurre ad un unico tipo le tre specie di correnti elettriche, cioè:
L’ipotesi unificatrice di Lorentz trova la sua base nelle considerazioni seguenti:
Ora in qual modo le vedute di Lorentz porgono un sistema di ipotesi determinate, traducibili colle equazioni di un campo elettro-magnetico?
Per l’etere libero vengono assunte senz’altro le equazioni di Hertz; lo stesso ha luogo per l’etere contenuto nella materia ove non si trovino particelle elettrizzate, salvo la necessità di tener conto delle forze che gli elettroni esercitano sulla materia stessa. Tutta la difficoltà sta nel comprendere come debbono essere modificate le equazioni suddette pel campo interno ad un elettrone, cui vengono attribuite dimensioni finite. Non cercheremo di chiarire questo punto, e ci limiteremo ad osservare che s’introduce qui qualche ipotesi solo parzialmente giustificata a priori, la quale potrà essere poi indirettamente confermata dalle conseguenze dedotte.
Una volta assegnate, per dir così, le leggi elementari dei fenomeni, non si ha che da sovrapporle per dedurre in generale le equazioni rappresentanti, secondo Lorentz, il campo elettro-magnetico più generale. Occorre perciò tener conto per ciascun punto della media degli effetti prodotti dal movimento degli elettroni.
Si ha quindi una teoria cinetica statistica del movimento degli elettroni, che ricorda la teoria cinetica dei gas.
E l’importante è questo: la teoria, non soltanto rende conto dei fatti in vista dei quali fu costruita, ma porge una buona spiegazione delle esperienze di Faraday sulla rotazione del piano di polarizzazione della luce in un campo magnetico, e conduce a prevedere nuovi rapporti fra la luce e il magnetismo, in ispecie la decomposizione delle righe dello spettro in un campo magnetico, verificata da Zeeman.
È vero che nuove esperienze su questo fenomeno hanno portato a modificare in parte le previsioni e a complicare le primitive vedute di Lorentz, ma la scoperta sperimentale razionalmente disposta dalla teoria significa sempre un successo di questa.
Ed il successo è tanto più saliente nel caso che ci occupa, perchè risponde ad un desiderato dell’Ottica elettro-magnetica: scoprire nuovi rapporti positivi fra la luce e l’elettro-magnetismo.
§ 27. Critica: il principio d’azione e reazione.
L’interesse suscitato dalla teoria di Lorentz, il suo successo nella spiegazione dei fatti noti e nella previsione di fatti nuovi, hanno richiamato su di essa la critica dei più illustri scienziati ed hanno dato impulso a più estesi tentativi di verificazione.
Dal punto di vista della Dinamica classica, la teoria di Lorentz ha un grave difetto: non soddisfa al principio newtoniano d’azione e reazione. Almeno il principio non è soddisfatto se si vuole intendere nel solo modo che abbia un significato positivo, cioè come relativo alla materia.
È facile rendersi conto che questa conseguenza risulta non tanto dalle vedute particolari di Lorentz, ma dall’ufficio che, secondo le idee maxwelliane, si attribuisce all’etere come propagatore delle azioni apparentemente a distanza.
Un corpo investito dalla luce subisce una pressione, già prevista da Maxwell e Bartoli, e verificata sperimentalmente da Lebedef; e, quantunque si tratti di esperimenti delicati, il resultato appare tanto più credibile in quanto si riavvicini alle circostanze del movimento delle comete, che avevano già indotto il Faye ad invocare un’ipotesi analoga.
Ora la pressione di Maxwell-Bartoli non si concilia col principio newtoniano d’azione e reazione, perchè il momento in cui la luce investe un corpo non coincide con quello in cui essa emana dalla sorgente.
Ma vi è di più. Una analisi approfondita di Poincarè ha messo in luce che la violazione del principio newtoniano è necessariamente legata ad ogni teoria elettro-magnetica che voglia render conto del trascinamento parziale delle onde luminose.
Si giunge bene a comprendere questa necessità se si riprendono un momento in esame le ipotesi di Hertz.
Fra due corpi elettrizzati A e B in quiete relativa, si esercitano delle forze elettrostatiche, conformi al principio newtoniano; ma se A e B si muovono, e l’azione si propaga con velocità finita, la forza che agisce su ogni punto di A non è più diretta verso i punti di B da cui emana. Sopravviene però come termine correttivo nelle equazioni di Hertz, l’azione amperiana fra gli elementi di corrente che corrispondono al moto di A e B; e pertanto per le azioni complessive il principio newtoniano viene soddisfatto.
Ma supponiamo ora che la propagazione della forza che emana da A su B, venga modificata dal moto di un mezzo che accompagni B (è questa in sostanza l’ipotesi che corrisponde al trascinamento anzidetto); ciò porta a modificare la direzione della forza complessiva agente su B, cioè ad invalidare quell’accidentale compenso che si faceva nella teoria hertziana: il principio newtoniano d’azione e reazione non sussiste più!
E giacchè questa conclusione proviene, non tanto dalle ipotesi particolari di Lorentz, ma dalle esperienze di Fizeau, la caduta del principio stesso s’impone come un fatto.
Ne discuteremo più avanti le conseguenze.
§ 28. Il principio di relatività.
Ora ecco un’altra circostanza più grave, solo in apparenza legata alla precedente.
La teoria di Lorentz lascia prevedere la possibilità di constatare il moto della materia rispetto all’etere, cioè un vero moto assoluto che non dipende dalle relazioni fra i corpi!
Si è discusso intorno alla possibilità di una esperienza verificatrice. Si è trovato dapprima che nelle esperienze terrestri i fenomeni luminosi non possono permettere di riconoscere il movimento della terra in un ordine di approssimazione in cui si trascuri il quadrato dell’aberrazione astronomica. Ma come diremo, si sono immaginate esperienze più delicate in cui si dovrebbe avere un resultato apprezzabile; l’esito è stato negativo.
A vero dire ciò non ha provocato alcuna meraviglia; ma conviene rendersi conto dei motivi che conducono ad una così strana previsione nella teoria di Lorentz. Non si tarderà a riconoscere che i successi della teoria non portano veramente, come si potrebbe credere, nessuna presunzione a priori in favore dell’ipotesi che l’esperimento ha invalidato.
Lorentz ha tratto la sua concezione degli elettroni da un geniale ravvicinamento di fatti diversi; il valore delle sue ipotesi deriva appunto dalle osservazioni preliminari che in esse sono contenute. Ma nel riferire il moto degli elettroni ad un etere fisso, indipendente dai corpi, l’illustre fisico ha seguito un criterio arbitrario, per quanto comodo agli scopi della trattazione matematica. Ora è appunto questa ipotesi arbitraria, questa specie di assoluto posto a base della teoria, che si ritrova nelle deduzioni ulteriori; le quali sotto tale rispetto non acquistano dunque una maggiore credibilità per essere state concatenate ad ipotesi aventi un’origine attendibile.
Ma esaminiamo le conseguenze a cui si è condotti dagli sviluppi della teoria.
Un sistema materiale S si muova rispetto all’etere di una traslazione p. es. uniforme.
Due punti materiali elettrizzati A e B, legati ad S, non esercitano più fra loro una semplice azione elettrostatica, ma generano due correnti la cui azione amperiana diminuisce la prima. A vero dire questa correzione sarebbe da considerare in senso positivo come non esistente se essa non dipendesse dalla posizione di A e B rispetto al senso della traslazione, giacchè in tal caso non potrebbe essere misurata da un osservatore trasportato con S, bensì soltanto da chi potesse fare confronti con ciò che avviene nell’etere immobile. Ma la suddetta azione amperiana dipende dalla direzione della retta AB, e però diventa virtualmente constatabile con esperienze interne ad S.
Un’esperienza ottica effettiva, compiuta da Michelson nel 1881 e ripetuta da questo stesso sperimentatore insieme a Morley nel 1887, risponde appunto al problema posto dalle considerazioni precedenti.
Si tratta schematicamente di questo:
In S sono dati tre punti A, B, C vertici di un triangolo isoscele, rettangolo in A; AB è la direzione del moto traslatorio di S, AC è perpendicolare a questa; allora le velocità di propagazione della luce da A in B, e da A in C debbono essere diverse.
L’esperimento fatto sulla terra, presa come sistema S, non lascia constatare alcuna differenza; orbene il calcolo di questa differenza mostra che essa è dell’ordine del quadrato dell’aberrazione e però dovrebbe essere apprezzabile!
In tal modo dall’esperienza di Michelson si è tratta la conferma del principio di relatività: mediante esperienze ottico-elettro-magnetiche interne ad un sistema mobile, non si può determinare il moto traslatorio di questo rispetto all’etere.
Per spiegare tale resultato negativo Lorentz stesso e Fitz-Gerald hanno fatto l’ipotesi che tutte le lunghezze dei corpi in moto subiscano un piccolo accorciamento nel senso della traslazione; quindi le distanze AB, AC che nell’esperimento appariscono uguali, in realtà (cioè rispetto all’etere) sieno da riguardare come diverse.
Per rendere plausibile questo accorciamento (che per la terra è dell’ordine del quadrato dell’aberrazione) e per ottenere la spiegazione completa del principio di relatività (almeno nel caso della traslazione uniforme) si è ricorso ad altre ipotesi, cioè che le forze molecolari da cui in definitiva dipendono le dimensioni dei corpi sieno d’origine elettro-magnetica, che la materia stessa sia una riunione di elettroni (§ 31) e che questi in luogo di conservare una forma sferica invariabile (Abraham) subiscano una contrazione come se l’etere prema su di essi nel movimento, e si riducano quindi ad ellissoidi schiacciati, sia conservando lo stesso volume (Bucherer, Langevin) sia conservando due assi uguali (Lorentz)18.
Quest’ultima ipotesi è veramente la sola che, combinata alle precedenti, renda conto del principio di relatività, e secondo Poincarè19 si giustifica ammettendo che l’etere eserciti sull’elettrone deformabile e compressibile una pressione costante, il cui lavoro sia proporzionale alla variazione di volume.
Ora le ipotesi sopra accennate portano una radicale trasformazione nella Dinamica classica, la quale viene sostituita con una nuova Dinamica elettrica, di cui diremo più avanti. Ci limitiamo qui a riassumere il resultato a cui si è condotti nella questione che ci occupa.
Il principio di relatività pei fenomeni elettro-magnetici si può spiegare nella teoria di Lorentz mediante le seguenti ipotesi e considerazioni:
S’immagini il tempo vero t definito rispetto ad un osservatore fisso, legato all’etere; un osservatore trasportato nel moto della materia, il quale comunichi col primo mediante segnali ottici (o elettrici ecc.), adotta una misura del tempo τ, dove
τ = at + b
(cfr. cap. V, § 8); a e b sono costanti locali, dipendenti la prima dalla velocità di traslazione (supposta uniforme) e la seconda anche dalla distanza dell’osservatore mobile dall’osservatore fisso.
La teoria esige che si consideri π corrispondente alle indicazioni positive degli orologi in S, attesochè l’accordo di orologi diversi si stabilisce in S come se il tempo impiegato dalla luce per andare da un punto A ad un punto B sia indipendente dal verso del segmento AB, ciò che non vale più per riguardo al tempo vero, nelle ipotesi di Lorentz.
§ 29. Etere e materia.
La spiegazione del principio di relatività pei fenomeni elettro-magnetici, è stata messa dal Poincarè (l. c.) sotto una forma matematica suggestiva, che possiamo tradurre nel modo seguente:
Si ponga a base della Geometria ed in ispecie della definizione della congruenza delle figure, il gruppo delle trasformazioni (movimenti geometrici) che corrispondono ad ipotetici movimenti dell’etere solidificato; allora il trasporto dei corpi solidi internamente ad un sistema materiale mobile S, le misure del tempo di propagazione della luce ecc., definiscono ugualmente entro S una medesima congruenza apparente delle figure, affetta dal moto di S rispetto all’etere; la quale esprime una relazione invariante, non più rispetto al gruppo dei movimenti geometrici, bensì rispetto ad un nuovo gruppo di trasformazioni (il gruppo dei movimenti apparenti, trasformati dei movimenti geometrici reali mediante una trasformazione di Lorentz).
In questo enunciato una nozione trascendente della congruenza si vede contrapposta a quella sperimentalmente definita; presa la prima come una realtà metafisica, la seconda come un’apparenza fisica!
Una simile conseguenza si riattacca alla rappresentazione di un etere indipendente dalla materia, posta a base della teoria.
Ma la critica tende ad emanciparci da una tale specie di assoluto; relegando l’ipotesi della fissità dell’etere fra quelle che non possono cadere neppure indirettamente sotto il controllo di esperienze possibili, si viene infatti a toglierle ogni significato, e a ravvisarvi soltanto un puro artificio.
Quest’artificio potrà sembrar comodo agli effetti della trattazione matematica, ma non si può negare che esso abbia anche un lato pericoloso, dappoichè ha potuto giustificare per qualche tempo dei dubbii che non avevano alcun fondamento di credibilità. Tuttavia non ci rammaricheremo troppo di questi dubbii che, affrontati apertamente, e prima di tutti dal fondatore della teoria, hanno dato origine ad un tentativo di unificazione delle forze, che si presenta come una seducente promessa per l’avvenire.
Vogliamo soltanto accennare alla via che, secondo il nostro punto di vista, dovrebbe eliminare a priori le questioni fittizie che derivano dal suaccennato artificio.
Si tratta di guadagnare una più soddisfacente rappresentazione dell’etere, la quale deve essere relativa alla materia.
Non bisogna dimenticare che l’etere è soltanto un intermediario dei rapporti fra i corpi materiali; perciò questi corpi sono effettivamente il dato, e da essi conviene muovere per costruire una rappresentazione dell’etere.
Ora i rapporti fra etere e materia vengono investigati nello studio dei varii modelli meccanici (§ 24), ma generalmente da un punto di vista opposto. Si presume dato un fluido con certe proprietà, immagine semplificata dei fluidi reali (p. es. un fluido omogeneo infinitamente compressibile, o analogo ad un solido, mobile o immobile ecc.) e si considera la materia come luogo di punti singolari di codesto fluido etereo; sia che i punti materiali sieno pensati come vortici o come punti di torsione ecc.
Speculazioni di questo genere stanno a significare il tentativo di cogliere mediante analogie, i rapporti fenomenici che si concepiscono connessi all’insieme dei corpi; il loro valore sta appunto nella veduta di una solidarietà universale di tutte le cose sensibili, contrapposta come correttrice alle intuizioni stesse della materia, cioè alle distinzioni di caratteri interni ed esterni che vi si connettono.
Ma ad esprimere la solidarietà del mondo sensibile, e a correggere le distinzioni astrattamente conseguite rispetto ad esso, ben difficilmente si potrà riuscire in modo adeguato mediante un modello preso a priori!
Non vi è quindi da stupirsi se anche i modelli ideati da uomini di genio rendono ben poco conto dei rapporti che si ha in vista di spiegare, e se teorie prescindenti da ogni modello meccanico riescono ugualmente allo scopo conoscitivo.
Noi domandiamo di definire l’etere come qualcosa che tenga in ogni posto e in ogni istante di tutte le materie più o meno lontane, sia p. es. come un insieme di particelle che emanano dai corpi materiali o si concentrano in essi; particelle i cui movimenti sono connessi ai fenomeni della materia e possono esser conosciuti, almeno nei loro effetti di media, per mezzo dei rapporti fisici fra i corpi.
Crediamo che una qualche rappresentazione unificatrice di questo genere non tarderà a sorgere nel campo della Fisica delle radiazioni, ove si considerano oggi come radicalmente distinte le radiazioni emissive (scariche di elettroni) e le vibratorie (non deviate da una forza magnetica); sarà in qualche modo il risorgimento di un’Ottica dell’emissione, radicalmente trasformata.
Senza arrestarci sulle difficoltà di un tale programma ci limitiamo a rilevare che la concezione dell’etere da noi domandata eliminerebbe a priori dalla Elettro-magnetica dei corpi in moto, le questioni fittizie che nascono dal prendere un sistema assoluto di riferimento. Si tratterebbe soltanto di sapere per ogni mezzo e per ogni ordine di fenomeni che vi si svolgano, quali sono le particelle eteree a cui debbonsi attribuire i fenomeni stessi; e se nei fenomeni di origine interna al mezzo si fanno intervenire soltanto le particelle che emanano dai corpi di questo, il principio di relatività resta assicurato a priori20.
§ 30. Dinamica dell’elettrone: radiazioni.
Abbiamo accennato (§ 28) come la spiegazione del principio di relatività pei fenomeni elettro-magnetici sia stata ottenuta mercè i più recenti sviluppi della teoria degli elettroni, dai quali è scaturita una Dinamica elettrica.
Il punto di partenza della nuova dottrina è lo studio delle varie radiazioni deviate da un campo magnetico (raggi catodici, di Becquerel ecc.) che, per spiegarne le proprietà, si è indotti a riguardare come scariche di elettroni.
Se si accetta questa ipotesi (di Becquerel e di J. J. Thomson), si ha nelle radiazioni suddette un esempio di corpi elettrizzati che si muovono con velocità enormi, poco inferiori a quella della luce; le velocità che si presentano nella Dinamica consueta sono in confronto piccolissime.
Per trattare il movimento degli elettroni nei raggi catodici ecc., occorre considerare che l’accelerazione o il ritardo di questo moto implica una corrente, la quale modifica il campo elettro-magnetico. Tenendo conto di questa modificazione vi è luogo a costituire una Dinamica dell’elettrone, i cui principii trovarono appunto nello studio dei raggi nominati un’applicazione ed una conferma (Abraham, Schwarzschild, Kaufmann ecc.).
L’equazione vettoriale del moto di un elettrone si può porre sotto una forma analoga all’equazione newtoniana del moto di un punto materiale. Scriviamo quest’ultima designando con m la massa del punto, con ag l’accelerazione e con fg la forza, di direzione g; si ha:
m ag = fg;
Ora al posto di m si deve sostituire un’espressione del tipo m + mg scrivendo dunque:
(m + mg) ag = fg;
la quantità mg che si aggiunge alla massa propria m dell’elettrone non è più una costante, ma dipende dalla forma geometrica dell’elettrone stesso, dalla sua carica elettrica, dalla grandezza e dalla direzione della velocità rispetto a g; essa ha ricevuto il nome di massa elettromagnetica.
Applichiamo l’equazione anzidetta al caso dei raggi considerati come scariche di elettroni negativi.
Una forza elettrica o magnetica devia codesti raggi, e dalla deviazione ottenuta, dal calcolo della carica trasportata e del calore svolto, si può desumere in varii modi una misura della massa complessiva m + mg. Pei raggi la cui velocità si avvicina ad un decimo di quella della luce, si trova che tale massa è circa un migliaio di volte più piccola di quella dell’atomo di idrogeno.
Ma per raggi catodici con grandi differenze di potenziale tra gli elettrodi, dotati di velocità che salgono fino ai 9/10 di quella della luce, Kaufmann ha trovato masse molto superiori.
I vari resultati sperimentali si lasciano bene rappresentare supponendo che la massa elettro-magnetica mg prevalga grandemente su m, ed anche prendendo m = 0. In tale ipotesi la massa di un elettrone è puramente elettro-magnetica, cioè la produzione delle forze d’inerzia, che occorrono per accelerare il moto di un elettrone o sono generate dal ritardarlo, si spiega come un fenomeno elettro-magnetico21.
§ 31. Dinamica elettrica.
La Dinamica dell’elettrone conduce ad una spiegazione della Dinamica newtoniana, la quale si presenta come una teoria approssimata dei movimenti con velocità piccole (Wien, 1901).
Poniamo dapprima che un punto materiale possa riguardarsi come un elettrone, e consideriamo p. es. la massa elettro-magnetica m1 di questo nella direzione del movimento (massa longitudinale). Designando con V la velocità della luce, con v la velocità dell’elettrone, con e la sua carica, con r il suo raggio (preso l’elettrone come sferico), si ha
Analogamente la massa trasversale dell’elettrone (relativa alla direzione perpendicolare alla prima) si sviluppa mediante una serie procedente per le potenze di , il cui primo termine e sempre m0.
Si deduce quindi che se la v è piccola in confronto a V, la massa elettro-magnetica dell’elettrone si riduce sensibilmente alla costante m0.
Ciò significa appunto che, per velocità piccole, vale in via approssimativa come legge del moto dell’elettrone la legge newtoniana.
Ora dalla Dinamica dell’elettrone si passa ad una nuova Dinamica elettrica dei corpi, mercè alcune ipotesi sulla costituzione della materia e sulle forze; si è quindi condotti ad estendere la spiegazione elettrica della legge newtoniana del moto al caso di un punto materiale, che invero non può più essere riguardato come un elettrone unico, ma si presenta invece come un aggregato di elettroni.
Una teoria elettrica della materia è stata sviluppata dal Lodge (1902); essa consiste nel ritenere l’atomo costituito da un sistema di elettroni positivi e di elettroni negativi, questi ultimi moventisi intorno ai primi come satelliti.
Tale determinazione del modello risulta dal confronto delle varie radiazioni, in ispecie dalle differenze fra i raggi di elettroni negativi e i raggi di elettroni positivi (raggi canali, raggi α del radio).
La teoria elettrica della materia conduce ad una teoria elettrica delle forze. Le forze interne della materia (elastiche, chimiche ecc.) vengono rappresentate come resultanti dalle azioni che si esercitano fra gli elettroni costituenti; la gravitazione ammette pure, come diremo, una spiegazione elettrica.
Si deduce quindi che le leggi del moto di un corpo, riguardato come punto materiale, sono le stesse che reggono il moto di un elettrone; cioè il movimento è rappresentato dall’equazione vettoriale
fg = mg ag,
che è, nella forma, analoga all’equazione newtoniana, ma dove la massa elettro-magnetica mg non è più una costante, bensì dipende dalla velocità e dalla direzione del moto rispetto a quella g della forza.
Ora mg è la somma dei vettori corrispondenti agli elettroni che costituiscono il corpo (punto materiale) in moto, e dipende quindi:
Non si può dire che le velocità di questi movimenti sieno trascurabili di fronte a quella della luce, giacchè accade di fare l’ipotesi che esse sieno notevolmente superiori alle velocità dei moti consueti. Ma se le dimensioni della particella di materia sono grandi rispetto a quelle dell’elettrone, la massa elettro-magnetica totale che corrisponde ai suddetti moti interni proviene da un computo di media e può quindi ritenersi come una costante.
Ma trattandosi di velocità piccole rispetto alla velocità della luce, questo moto esterno non modifica sensibilmente la massa elettro-magnetica.
In definitiva dunque mg può ritenersi come una costante, cioè: per velocità relativamente piccole le leggi del moto della Dinamica elettrica trovano un espressione approssimata nelle leggi della Dinamica newtoniana.
Questa conclusione è molto interessante. Essa rappresenta una inversione nel problema classico della filosofia meccanica. In luogo di spiegare i fenomeni elettro-magnetici con un modello meccanico, si riesce a porgere un modello elettrico della Meccanica stessa, il quale implica anzi una presunta correzione di questa.
Tale è il resultato a cui fa capo il tentativo più progredito di unificare le forze, nell ordine delle idee newtoniane: ne esce fuori una Dinamica non newtoniana da cui le leggi classiche derivano come caso limite!
§ 32. Spiegazione elettrica della gravitazione.
Approfondiremo più avanti il significato di questo sviluppo induttivo della Dinamica. Vediamo intanto le conseguenze positive che ne scaturiscono per la teoria della gravitazione, in rapporto all’Astronomia planetaria.
Riprendendo un’idea di Mossotti, Lorentz (1900) ha fatto l’ipotesi che l’attrazione newtoniana fra i corpi si spieghi come resultante delle azioni fra gli elettroni in essi contenuti; basta perciò ammettere una piccola differenza fra l’attrazione e la repulsione che una carica elettrica esercita su due altre equivalenti di nome contrario.
La teoria elettrica della materia suffraga l’ipotesi.
Ora da questa deriva la conseguenza che la gravitazione si deve propagare colla velocità della luce, e ciò sembra contraddire le conclusioni di Laplace e di Léhman Filhès (cfr. cap. V § 29).
Ma per questi autori il tempo di propagazione della gravità era la sola ipotesi correttrice introdotta.
Invece Poincarè tenendo conto delle altre piccole correzioni, in rapporto alle ipotesi della Dinamica elettrica sopra accennate, annunzia22 essere giunto a riconoscere un certo compenso, per cui la divergenza della legge newtoniana invece di essere dell’ordine dell’aberrazione astronomica (come nei calcoli di Laplace) diventa dell’ordine del quadrato di essa.
Appare dunque possibile che il propagarsi della gravitazione colla velocità della luce si concilii colle osservazioni astronomiche.
È ciò che proseguite ricerche dovranno dirci.
Se in ispecie da queste emerga una correzione dei piccoli scarti della teoria newtoniana (cap. V § 29), le ipotesi della Dinamica elettrica ne saranno raffermate23.
§ 33. Conclusioni: generale Dinamica non-newtoniana.
Raffrontiamo gli sviluppi trattati nei precedenti paragrafi, e vediamo quali conclusioni ne risultino per riguardo ad una verificazione più precisa della Meccanica o ad una correzione di questa.
L’idea direttrice di proseguire lo studio della Fisica come estensione della Dinamica, si trova fino ad un certo punto giustificata a posteriori dal successo delle previsioni deduttivamente stabilite, sulla base di osservazioni ed esperienze che porgono nei varii dominii le ipotesi complementari.
Tuttavia il successo non è completo, e tutto sommato si deve constatare che:
Emerge quindi la conclusione che:
La Fisica, anzichè porgere una verifica più precisa della Meccanica classica, conduce piuttosto a correggere i principii di questa scienza, presi a priori come rigorosi.
E risulta anzi che la correzione portata dall’Ottica elettro-magnetica investe il principio d’inerzia generalizzato, mercè cui il principio newtoniano d’azione e reazione si deduce da una simmetria statica (cap. V, § 22).
Ora si tratta di vedere quale tipo d’ipotesi possa venir sostituita a codesto principio in una generale Dinamica non-newtoniana, ove si tengano fermi i postulati implicitamente contenuti nei concetti fondamentali e le leggi dell’equilibrio e del moto incipiente (cfr. cap. V, § 23). Si tratta quindi di riattaccare a questo quadro le correzioni che si sono presentate innanzi (§§ 12, 31) ed in ispecie di mostrare come la Dinamica elettrica si riduca appunto ad una determinazione particolare dell’ipotesi non-newtoniana.
Cerchiamo di renderci conto della modificazione che s’introduce nelle vedute classiche, quando si lasci cadere il principio di inerzia generalizzato, e perciò riferiamoci ad un caso schematicamente semplice.
Più corpi A, B, C.... immobili rispetto alle direzioni delle stelle, definiscano un campo di forze entro una certa regione spaziale S.
Ciò significa che portando un punto materiale P in una posizione qualunque di S si deve esercitare una forza nota per tenerlo fermo, forza che per generalità potremo supporre dipendere dalla massa m di P.
Immaginiamo d’imprimere a P un impulso; il moto di P si continua sotto l’azione dell’impulso iniziale e della forza definita come sopra per ogni posizione di S; il principio d’inerzia generalizzato permette di sommare semplicemente queste due circostanze determinanti, ossia di sommare quelle che risultano definite per ogni istante: la velocità di P in quell’istante e la forza che compete a P per la sua posizione attuale.
In definitiva la previsione del moto futuro di P viene dedotta dal sovrapporre la conoscenza di queste circostanze determinanti:
Tali circostanze definiscono lo stato attuale del fenomeno di movimento di un punto isolato, e lo stato futuro dipende dallo stato attuale e non dagli stati precedenti (cfr. § 12).
Questa ipotesi di non eredità corrisponde al principio d’inerzia generalizzato. Essa implica in particolare che il campo S non venga modificato dal moto di P, almeno in questo senso: la presenza di P in S modifica il campo di forze definito dai corpi A, B, C..., cioè muta il resultato delle esperienze che si effettuino sopra altri punti tenuti fermi in S; ma questa modificazione essendo pensata come istantanea non si ha da tenerne conto nello studio del moto di P stesso, cioè la presenza di P nel campo ad un istante anteriore non modifica la forza che agisce su P nella sua posizione attuale.
Ora lasciamo cadere il principio d’inerzia generalizzato, e (conservando gli altri concetti e principii della Meccanica) cerchiamo di riconoscere il tipo generale di un’ipotesi non-newtoniana, da assumere, al posto del principio abbandonato, come determinatrice del moto.
Questa ipotesi potrà far dipendere il moto futuro di P da tutti gli stati precedenti, cioè prendere la forma di una ipotesi d’eredità; ma se si vuole una rappresentazione dei fatti per mezzo di cause elementari (cap. II, § 33), bisogna ammettere che codesti stati abbiano indotto per contiguità delle modificazioni che possiamo riconoscere attualmente nel campo.
In questo modo all’ipotesi di eredità si sostituisce una ipotesi di solidarietà del campo:
Se un punto isolato P si muove in un campo S, rispetto ai corpi immobili A, B, C...., che si ritengono come circostanze determinanti del moto, il suo movimento futuro dipende dalla sua massa, dalla sua posizione, dalla sua velocità attuale, e dalle forze che nell’istante attuale potrebbero essere virtualmente determinate con esplorazioni del campo; tali forze dipendono alla lor volta non soltanto da A, B, C...., ma anche dal precedente moto di P, come se P non fosse isolato ma contenuto in un mezzo che si muova con esso.
La rappresentazione di questo mezzo fittizio che contraddice le circostanze sperimentali assunte nell’ipotesi di isolamento (ambiente vuoto) sta a significare che non possonsi distinguere per astrazione le circostanze determinanti interne ed esterne nei fenomeni di moto, e riesce infine ad esprimere un’ipotesi di solidarietà di tutte le cose sensibili.
Gli sviluppi della Meccanica energetica e quelli dell’Ottica elettro-magnetica ci famigliarizzano, per due vie diverse, con una simile veduta; ma a nostro avviso si oltrepassa la misura quando si vogliono sopprimere le distinzioni che si riattaccano al concetto primitivamente dato della materia (cfr. §§ 17, 19), piuttosto che ritenerle come una prima approssimazione necessaria nello sviluppo delle conoscenze, la quale deve essere progressivamente corretta per integrazioni successive.
Emerge dalla critica precedente che se si lascia cadere il principio d’inerzia generalizzato, vi è luogo a costruire una generale Dinamica non-newtoniana dove si estenda l’osservazione dei dati determinanti il moto
Le alterazioni permanenti dei corpi elastici (fenomeni d’isteresi elastica) ci avevano suggerito l’ipotesi 1); i fenomeni ottico-elettro-magnetici ci hanno porto la veduta 2), la quale è atta a render conto dell’eredità apparente che si riscontra p. es. nella isteresi magnetica, poichè basta postulare una modificazione dell’etere circostante.
Ora importa rilevare più esplicitamente che:
La Dinamica elettrica è una determinazione particolare della dinamica non-newtoniana, che nasce dal sostituire il principio di inerzia generalizzato con un’ipotesi di solidarietà del campo di moto, lasciando fermi i principii dell’equilibrio e del moto incipiente.
Infatti abbiamo avvertito (con Wien) che le leggi della Dinamica elettrica porgono approssimativamente quelle della Dinamica newtoniana, e l’approssimazione è tanto maggiore quanto più piccola è la velocità del mobile, sicchè le leggi dell’equilibrio e del moto incipiente risultano esatte.
La circostanza che le ipotesi della Dinamica elettrica conducano alla validità approssimativa della Dinamica newtoniana, non dipende del resto dalla particolare determinazione di quelle ipotesi.
Infatti se riprendiamo in generale l’ipotesi di solidarietà del campo di movimento di un punto P, vediamo che questa c’induce a ritenere una progressiva variazione locale del campo (dipendente dal moto di P ecc), la quale si propaghi con una certa velocità v.
Il principio d’inerzia generalizzato corrisponde a prendere v = ∞, e questa posizione può assumersi senza errore apprezzabile, tutte le volte che la velocità di P sia abbastanza piccola rispetto a v.
Il grado di piccolezza non può essere fissato a priori, poichè esso dipende fra l’altro dal sistema di riferimento del moto.
Il principio d’inerzia è già verificato con buona approssimazione, per velocità assai piccole, nella Dinamica terrestre; ma la approssimazione è migliore e si riscontra anche per velocità più grandi quando si riferisca il moto ad un sistema di direzioni astronomicamente fisse. Ciò racchiude in qualche modo una veduta della solidarietà universale, di cui la Dinamica newtoniana era stata già costretta a tener conto.
Da quanto precede trarremo le conclusioni seguenti:
Gli sviluppi della filosofia meccanica rappresentano il tentativo di spiegare la Fisica, ravvisandovi la verificazione delle ipotesi fondamentali di una Meccanica, assunta come generale e rigorosa.
Le deduzioni e le esperienze proseguite durante due secoli, sembrano all’opposto invalidare una di quelle ipotesi, e lasciano pensare che alla Meccanica newtoniana debba surrogarsi una Meccanica non-newtoniana nella quale si ritengano le leggi dell’equilibrio e del moto incipiente. Le recenti teorie elettro-magnetiche vorrebbero anzi determinare l’ipotesi complementare della nuova Dinamica; ma a prescindere da questa determinazione vi è luogo a ritenere che il principio d’inerzia generalizzato abbia una validità approssimata tanto più precisa quanto più piccola è la velocità del movimento rispetto alla velocità della luce.
Ed è a nostro avviso interessante il riconoscere come parte più ferma della Meccanica, quella che rappresenta insomma «la parte comune a tutte le Meccaniche relative a sistemi di riferimento qualsiansi»24.
§ 34. Spiegazione fisica: valore dei modelli meccanici e delle equazioni.
Dagli sviluppi dei precedenti paragrafi abbiamo già tratto un primo ordine di conclusioni in rapporto alla verificazione della Dinamica; ne deduciamo ora altre conclusioni riferentisi al valore dei modelli meccanici e al senso delle spiegazioni nella Fisica.
Dobbiamo perciò riattaccarci a quanto fu detto in principio di questo capitolo.
L’ipotesi di un invisibile sostrato meccanico dei fenomeni fisici si può interpretare positivamente come un processo d’associazione e d’astrazione che fa capo ad una rappresentazione dei rapporti fenomenici mediante i rapporti quantitativi di certi dati, cioè mediante le equazioni determinatrici dei fenomeni.
Abbiamo scorto del resto due indirizzi di spiegazione, dove si assumono come dati elementari del supposto fenomeno dinamico i «legami» o all’opposto le «forze», e si tende a ridurre gli uni agli altri. Questi due indirizzi che si riattaccano ai nomi di Descartes e di Newton, s’intrecciano e si alternano nel progresso scientifico di cui abbiamo tentato di ricostruire il quadro, e convergono in una più intima associazione dei dati sensibili ed in un riavvicinamento delle immagini, onde da una parte si allarga il concetto dei legami, e dall’altra si unificano le forze in un tipo, p. es. elastico o elettrico.
Ma nel contrasto fra la tendenza cartesiana e la newtoniana si riconosce non soltanto un criterio di scelta delle immagini primitive, ottiche o tattili-muscolari, bensì anche una disposizione a valutare diversamente il momento genetico associativo ed il momento attuale astratto della rappresentazione mediante rapporti di quantità.
Sotto questo aspetto, le due tendenze appariscono oggi più lontane che mai, imperocchè le tesi più radicali vengono ugualmente sostenute, sia che «la spiegazione fisica consista nel modello meccanico», sia all’opposto che «essa consista nelle equazioni determinatrici, all’infuori di ogni modello».
Questa differenza nel modo d’intendere la «spiegazione fisica» viene riattaccata di solito alla differenza psicologica che separa gli spiriti immaginativi ed i logici; ma vi è di più una diversità di ufficio dei due tipi di spiegazione per riguardo a due momenti del progresso scientifico, cioè allo sviluppo propriamente inventivo che gl’immaginativi soprattutto promuovono, e alla sistemazione della Scienza acquisita di cui i logici hanno ad occuparsi.
Il correlativo di «spiegare», cioè «comprendere», significa per gli uni e per gli altri essere abilitati a certe previsioni, ma queste non si aggirano ugualmente per tutti nel medesimo campo.
Ora è evidente che la spiegazione sintetica, cui corrisponde il massimo di comprensione, risulterà da un coordinamento critico dei varii tipi di spiegazione, che porga non soltanto la somma delle varie previsioni richiedibili, ma anche un’adeguata conoscenza dei rapporti fra i campi differenti a cui esse si riferiscono.
Illustriamo questo concetto, sviluppando sotto forma di tesi ed antitesi le due vedute relative al valore conoscitivo ed euristico delle equazioni e dei modelli.
Tesi. La possibilità di fornire un modello meccanico per un gruppo di fenomeni A, importa che i dati misurabili di questi possano essere ad ogni momento determinati, una volta fissati i parametri arbitrarii.
Il valore conoscitivo del modello sta dunque nelle equazioni che permettono codesta determinazione, equazioni resultanti ugualmente, come parte comune, dai varii modelli possibili.
Qui è da osservare una differenza essenziale fra due casi:
Antitesi. Un modello meccanico relativo ad un gruppo di fenomeni A, prolunga le sensazioni in una visione immaginativa di essi, e suggerisce quindi la scoperta di nuovi rapporti:
A questo titolo il valore euristico dei modelli meccanici adeguati ad A, risiede propriamente in certi caratteri suggestivi delle immagini, nella diversa possibilità estensiva, ed in generale nelle differenze dei modelli suddetti.
Si raffrontino ad esempio l’Ottica ondulatoria e l’Ottica elettro-magnetica: il modello elastico, per analogia col suono, suggerisce più presto la scoperta del principio di Döppler; il modello elettro-magnetico, che equivale al precedente per mezzi non dotati di conducibilità elettrica o di permeabilità magnetica, lascia invece prevedere nuovi rapporti fra corpi conduttori ed opachi (Maxwell) o fra i fenomeni luminosi e la magnetizzazione del campo (Lorentz-Zeeman).
Come conclusione riteniamo che i due modi di spiegare i fenomeni fisici, per mezzo di equazioni o di modelli, rispondano a due forme diverse di conoscenza, le quali sono da integrare l’una coll’altra. La prima (almeno nel caso tipico di equazioni aventi un senso positivo) contiene per così dire un gruppo chiuso di previsioni precise; la seconda un gruppo di previsioni non più determinate a priori, ma estendibili.
Pertanto chi voglia veramente comprendere una teoria fisica, nel più alto senso della parola, deve percorrerne in ambo i versi il processo, cioè
Ora per chi abbia penetrato lo spirito di un tal modo di comprendere, riesce evidente che il punto centrale è una veduta sintetica dei rapporti generali attraverso uno schema semplificato, dove si faccia astrazione dai particolari tecnici delle esperienze e dagli sviluppi di calcolo.
Sarebbe estremamente desiderabile che coloro i quali trattano problemi di Fisica teorica avessero sempre cura di mettere in vista quest’aspetto sintetico delle spiegazioni prima ed all’infuori dei particolari delle esperienze o dei calcoli. Le trattazioni troppo analitiche non formeranno ostacolo a pochi spiriti superiori che riusciranno in qualunque modo a trarne fuori la sintesi; ma forse il voto che c’ispira la nostra debolezza può trovare accoglienza presso il maggior numero.
B - L’ipotesi meccanica e i fenomeni della vita.
§ 35. Introduzione.
Il modo di comprendere la «spiegazione meccanica» come «modello», non toglie valore alla tendenza unificatrice delle rappresentazioni parziali dei fenomeni, la quale mira ad un progresso estensivo della Scienza.
Tutti i problemi effettivi suscitati dalla filosofia meccanica possono quindi essere ripresi in esame nella loro nuova posizione scientifica. E pur venendo messo da parte il concetto trascendente della universalità del meccanismo, resta ancora aperto il discutere intorno ai limiti che esso potrebbe raggiungere.
Ora, per ciò che si riferisce alla spiegazione meccanica nella Fisica, si tratta soltanto di sapere fino a che punto sieno da tener fermi i principii classici della Dinamica newtoniana, ma in un senso generale è da ammettere che un tale modo di spiegazione sia ricevibile, che almeno possa ritenersi lo spirito del determinismo meccanico: riguardare i dati della realtà fisica futura come suscettibili di previsione, mercè relazioni quantitative che risultano determinate da alcune circostanze caratteristiche del presente o del passato.
Il proposito di proseguire quest’ordine di considerazioni, estendendo la spiegazione meccanica ai fenomeni della vita, dà luogo invece a discutere alcuni problemi pregiudiziali su cui vogliamo brevemente intrattenerci.
Diciamo anzitutto della possibilità di una spiegazione siffatta, e poi del suo valore, ossia della utilità scientifica che può derivarne.
La questione della possibilità di fornire (nel più largo senso) un modello meccanico pei fenomeni della vita, ci conduce a:
§ 36. Obiezioni preliminari.
Contro all’ipotesi meccanica in Biologia si adducono anzitutto come argomenti alcune frasi fatte, di cui è opportuno denunziare la vacuità.
Si oppone p. es. la spontaneità, il cambiamento di tutto ciò che vive, all’inerzia, alla immutabilità della materia, e dall’antagonismo delle immagini evocate con queste parole si pretende trarre una irriducibile contraddizione.
Ora, se la «spontaneità» è qui presa come «attività» o «possibilità di cambiamento per condizioni interne», si deve dire che l’immagine di una materia assolutamente passiva non risponde affatto al concetto portato da un coordinamento dei varii rapporti fisici, dove la materia si manifesta sempre come un insieme di energie. In questo senso sembra assai più adeguata la veduta che tutto intorno a noi è vivente ed attivo, salvo una differenza di grado, nell’intensità o nella rapidità del mutamento, e nella relativa importanza dei fattori interni ed esterni sul corso dei fenomeni.
Ma le obiezioni suindicate, ed altre analoghe, muovono evidentemente da ragioni sentimentali.
La vita non è data a noi soltanto come oggetto di rappresentazione; le previsioni che vi si collegano suscitano nello spirito nostro il timore o il desiderio, corrispondono a fini voluti o disvoluti.
Ebbene l’ipotesi meccanica è incapace di spiegare i sentimenti associati alla rappresentazione di ciò che vive, o di suggerire una norma alla volontà; peggio ancora quella ipotesi sembra contraddire ai sentimenti suddetti con una veduta deterministica dei fatti psicologici, che esamineremo più avanti.
Che valore hanno queste ragioni di sentimento?
Rispondiamo senza esitazione: nessuna. Ma crediamo opportuno di giustificare tale risposta.
Fra il sapere da una parte, il sentire e il volere dall’altra, passa questo rapporto: Il sapere è indipendente dal sentimento e dalla volontà, poichè implica un rapporto ipotetico fra la volontà e la sensazione susseguente (Capitolo II). Il sentimento e la volontà sono alla lor volta indipendenti dal sapere; la Scienza non può modificare le emozioni che accompagnano gli oggetti conosciuti; essa non può dettar norma alla volontà se non in modo relativo, cioè dove si tratti dei mezzi, o dove si tratti di fini che vengano riconosciuti in contrasto con altri fini superiori, più fortemente voluti.
Ora, per chi comprenda chiaramente tali rapporti, è assurdo chiedere ad una teoria scientifica la spiegazione dei sentimenti, o pretendere che le immagini accolte come istrumento di previsione suscitino quei sentimenti stessi che accompagnano i fatti rappresentati.
Per conseguenza cade l’accennata obiezione pregiudiziale contro la possibilità dell’ipotesi meccanica sui fenomeni della vita. Questa ipotesi risponde ad un atteggiamento contemplativo dello spirito in cui si vuol prevedere, e si astrae dai sentimenti pei quali le previsioni richieste acquisteranno un valore relativamente ad un diverso atteggiamento (attivo) dello spirito stesso.
§ 37. Determinismo biologico.
Ma la previsione è possibile? O vi si oppone la «spontaneità» di ciò che vive?
Ecco un problema positivo che sorge dalle divergenze rappresentative sopra esaminate; è il problema del determinismo biologico.
Il senso di questo consiste invero nell’ammettere che ai fatti vitali «possano riferirsi previsioni determinate secondo l’ordine di coesistenza e di successione causale», e quindi che quelli possano formare oggetto di una conoscenza scientifica illimitatamente progrediente.
Ora il principio deterministico non può essere dimostrato a priori; esso esprime una supposizione generale che si giustifica ugualmente nei varii campi del sapere mercè il successo delle previsioni stabilite, cioè col progredire della Scienza.
Ma tra i fenomeni della vita ed i fenomeni fisici non vi è a questo riguardo alcuna differenza che non si possa spiegare colle condizioni complesse del fatto fisiologico, sia che si tratti di esseri viventi o anche semplicemente dei loro organi o tessuti.
L’apparente contraddizione di fenomeni diversi che si producono in circostanze sensibilmente uguali, si risolve con una discriminazione approfondita di queste.
Esempii luminosi in proposito trovansi esaminati e discussi da Claude Bernard nella sua «Introduction à la médecine expérimentale»; ai quali molti altri ormai potrebbero aggiungersi, recati dai più recenti progressi delle scienze biologiche.
Vogliamo ricordarne uno solo altamente istruttivo, citando il resultato degli studii sulla malaria (Laveran, Marchiafava, Golgi, Ross, Grassi, Dionisi, Bignami e Bastianelli); il quale reca una confortante promessa che l’etiologia delle malattie abbia ad uscire da quella vaga oscurità di spiegazioni onde si è reso celebre il medico di Molière.
§ 38. Determinismo psicologico e libero arbitrio.
Ma per verità il determinismo biologico non sarebbe seriamente contestato da alcuno, se dall’accoglierlo nel più largo senso come supposizione generale, non scaturisse la conseguenza che anche i fenomeni psicologici, ed in particolare il nostro pensiero e la nostra volontà, possano essere compresi ugualmente in un rapporto di determinazione causale.
Un sentimento di ripugnanza si connette a questa veduta; sentimento che si attenuerebbe invero se potessimo isolare dal mondo conosciuto la nostra propria persona, che sparirebbe infine del tutto se fosse possibile di escludere dalla conclusione l’uomo o gli animali superiori, per limitarla soltanto agli esseri inferiori della scala zoologica, tanto lontani da noi.
Al contrario una riflessione scientifica più matura ci vieta di separare così arbitrariamente ciò che appare congiunto in una serie continua. La nostra causa resta legata a quella dei vibrioni e delle amebe. Poichè si progredisce per gradi dalle infime forme della vita alle superiori, poichè anche i fenomeni dell’intelligenza si sviluppano insensibilmente dagli animali all’uomo, e poichè essi fan parte della vita come cause e come effetti, bisogna risolversi ad una scelta unica; o ammettere in tutta la sua estensione il determinismo biologico e psicologico, o negarlo e accettare l’idea della spontaneità, in un senso che esclude o limita a priori in questo dominio la possibilità della previsione.
Per dirimere la difficoltà, giova anzitutto considerare il così detto problema del libero arbitrio, distinguendo in esso la questione scientifica che concerne il determinismo psicologico degli atti umani, e la questione morale che si lega al giudizio di essi26. La sovrapposizione di quest’ultimo ordine di argomenti nel campo scientifico è una intrusione indebita, dalla quale dobbiamo emanciparci se vogliamo acquistare una veduta scientificamente serena.
Ma se ciò sia concesso, e si guardi soltanto ai fatti della volontà altrui, ogni oscurità è eliminata.
La domanda «se la volontà sia determinata dagli antecedenti», presa positivamente, significa soltanto questo «se le altrui deliberazioni sieno prevedibili da chi conosca bene gli antecedenti del deliberante». Ora, purchè si pongano fra questi antecedenti anche i sentimenti e la volontà della persona di cui si discute, la risposta affermativa non è dubbia.
Osservazioni dirette vengono in appoggio alla tesi deterministica, indipendentemente dai motivi generali che confermano il determinismo fisiologico; e ciò in modo tanto più sicuro quanto più si eliminino le cause d’errore, provenienti dall’incompleta conoscenza dei moventi che agiscono nello spinto altrui, e dalla complessità dei fatti, mutabili per piccolissime variazioni di codesti motivi.
All’intuizione della ragionevolezza delle azioni umane (cioè della loro dipendenza da motivi) che risulta dalle predette osservazioni, si aggiungono altri dati obiettivi, p. es. la regolarità statistica dei fatti sociali, così bene messa in luce dal Quételet ecc.
Ma non giova insistere su codesti argomenti. Essi bastano certo, per chi abbia eliminato dalla sua mente ogni prevenzione d’ordine morale, a costituire nel loro insieme una prova induttiva del determinismo psicologico, o se si preferisce a giustificare anche in questo campo la fiducia in una possibile scienza, non diversa da quella che si riferisce a tutti gli altri ordini di fatti, da noi compresi come rapporti invariabili di coesistenza e di successione.
Se il determinismo psicologico solleva difficoltà, queste non provengono da ragioni di ordine scientifico.
Perchè dunque si ha repugnanza ad accoglierlo?
La risposta è chiara: Perchè la tesi deterministica sembra contraddire all’intuizione immediata che ciascuno ha della libertà del proprio volere. Perchè al concetto di questa «libertà» si legano le idee direttrici che stanno a base dei nostri apprezzamenti morali.
Importa dunque mostrare che, ove l’anzidetta intuizione dei fatti volontarii venga interpretata rettamente, libertà e determinismo non si contraddicono.
La tesi della volontà libera, secondo l’attestazione della nostra coscienza, afferma:
Essa ha, come la prima, una reale sussistenza. Da essa noi attingiamo la fiducia in noi stessi. In essa riponiamo il vero fondamento della nostra responsabilità, onde ci teniamo al massimo grado responsabili di quelle azioni che furono premeditatamente volute, come conseguenza di una matura deliberazione alla quale abbiamo subordinato una serie di atti, e quindi in connessione coi caratteri permanenti della nostra personalità. All’opposto invece crediamo di avere meno responsabilità nelle azioni improvvise, imputandoci tuttavia quanto ad esse, di non esserci premuniti contro il motivo sopravveniente (tentazione) coll’inibirne l’effetto sul nostro volere; per modo che questa responsabilità svanisce quasi ai nostri occhi se l’azione fu mossa da un motivo forte ed inaspettato.
Tutto ciò è perfettamente conforme al comun senso degli uomini e, come si è detto, è necessario alla vita pratica, che esige la fiducia nel nostro stesso volere.
Ma in tutto ciò non si trova nulla di contrario alla tesi deterministica della prevedibilità dei fatti volontarii. Contraddizioni apparenti si possono trarre soltanto da un modo di ragionare vizioso, affetto di trascendentalismo.
In due modi si fa entrare qualcosa di trascendente.
In primo luogo coll’applicare alla libertà del volere un vecchio argomento di Locke e di Leibniz, che ha invero un significato originario diverso.
Se si concede un secondo grado di volizione, consistente nel «voler volere», si deve accordarne un terzo e poi un quarto e così via fino all’infinito.
Da questo infinito scaturisce per taluno un concetto trascendente della volontà che determina sè stessa, onde l’arbitrium indifferentiae per cui la previsione riesce impossibile. Ma l’argomento poggia sopra un equivoco.
Quando si dice che possiamo «voler volere», la volontà presa come soggetto, non è la stessa cosa della volontà formante oggetto della volizione. La volizione di secondo grado non implica dunque il non senso di una volontà che determina sè stessa, bensì il fatto psicologico che un atto del volere può venire subordinato ad un altro precedente. Ora, evidentemente questa subordinazione (che è del resto soggetta in parte alle contingenze esteriori) non può andar oltre un numero finito di gradi, dato il tempo richiesto dall’atto del volere. Non è dunque neppure il caso di discutere il precedente istrumento dialettico (preso in prestito dalla Teologia naturale) e di rilevare che da una serie infinita di cause non si può argomentare, senza contraddizione, ad una causa prima che sia causa di sè stessa.
Un altro modo di argomentare, in apparenza più profondo, introduce viziosamente un concetto trascendente della personalità umana. La frase «io posso fare e volere secondo mi piace, sia pure in contrasto coi motivi agenti sulle mie determinazioni»27 esprime una rappresentazione della persona che agisce, come al di fuori della serie delle sua stesse volizioni.
Ora, se ad una frase siffatta si vuole accordare un senso intelligibile, non vi è che un modo d’intenderla: l’io a cui piace fare e volere, non è altro che un’espressione continuativa della stessa volontà, che subordina ai motivi, precedentemente affermatisi come permanenti, i motivi transitorii ed accidentali.
La personalità morale di un uomo si identifica appunto con questa volontà continuativa, resultante dei fattori organici e degli elementi assorbiti dall’ambiente esterno. Niun dubbio sorge a questo proposito quando consideriamo la persona altrui; quando invece ci riferiamo a noi stessi, c’inganna facilmente lo sdoppiamento che facciamo dell’io, prendendolo una volta come oggetto, cioè confondendoci, noi soggetto di azione, colla rappresentazione che ci facciamo di noi medesimi.
Una volta che si consideri il nostro io, come oggetto di una rappresentazione, è facile convincersi che non si può attribuire a questa, un contenuto oltrepassante l’idea collettiva di ciò che è relativamente permanente nelle nostre volizioni.
Poichè, se si contrappone a codesta realtà, riguardata come apparente e relativa, una sostanza assoluta o anima, nella quale si faccia consistere la personalità etica, si ricade in uno di quei processi infiniti di definizione, la cui vacuità fu già messa in luce.
Disgraziatamente questa veduta trascendentale dell’anima dominò fino ai nostri giorni la controversia del libero arbitrio, la cui storia si riattacca a quella del problema religioso della predestinazione e della grazia.
Tale aspetto della questione domina ancora il pensiero del Leibniz nella «Teodicea».
Onde il filosofo, pur contrapponendo al fatalismo esterno spinoziano una chiara visione del determinismo psicologico interno, doveva attribuire alla libertà, intesa come spontaneità dell’essere intelligente, un senso metafisico trascendentale.
Questo senso appunto si mostra, con grande nettezza nella evoluzione ulteriore che il determinismo ha ricevuto dalla filosofia del Kant: determinismo fenomenico contrapposto ad autonomia noumenica; cioè volontà libera in sè, per quanto si guardi alla causa intelligibile del volere (?!), ma determinata secondo leggi immutabili, nelle sue manifestazioni. Lo sviluppo naturale di questa distinzione porta infine alla dottrina dello Schopenhauer: la volontà, trascendentalmente intesa come al di fuori dei suoi atti, fuori dello spazio e del tempo, viene a prendere il posto della sostanza, o della cosa in sè, idea della quale già ravvisammo il fondamento antropomorfico.
Queste ultime conclusioni della filosofia classica, sono ai nostri occhi molto istruttive. Poichè ne esce fuori, per una parte, il riconoscimento del determinismo psicologico, nel suo senso umano e positivo; per l’altra la dimostrazione che il problema del libero arbitrio non interessa la ragione pratica, se non in quanto si creda necessario un fondamento trascendente della morale.
Ma, considerata come priva di senso la rappresentazione trascendentale di una volontà e di una personalità etica al di là delle sue manifestazioni, risulta chiaramente che la tesi del libero volere non contraddice al determinismo.
L’una e l’altra tesi conservano nei rispettivi campi tutto il loro valore. La possibilità di una estensione illimitata della scienza psicologica, non toglie l’apprezzamento delle azioni umane, in quanto esse sono volute o non volute per riguardo ai dati fini.
Vero è che la tesi deterministica ha potuto esercitare una influenza scoraggiante sopra alcune deboli volontà, in seguito ad erronea interpretazione. Stuart Mill stesso ha subìto tale effetto e ci attesta di essersene liberato in un passo significativo della sua Autobiografia: «La teoria che per la prima volta io comprendeva nel suo vero senso, non apparisce più scoraggiante, ed, oltre al sollievo che ne venne al mio spirito, cessai di soffrire del peso così grave per chi mira a riformare le opinioni altrui, di ritenere che una dottrina sia vera e la contraria moralmente benefica».
Ma a simili effetti di erronea interpretazione, si possono contrapporre i vantaggi che una volontà non inferma può tratte dalla teoria deterministica rettamene intesa; imperocchè l’esatta conoscenza del peso relativo dei motivi che ci spingono alle deliberazioni, l’apprezzamento adeguato del modo come siamo capaci di reagire agli stimoli e d’inibirne gli effetti, c’insegna a rafforzare la nostra volontà stessa, operando sopra noi medesimi in modo da assicurare il trionfo della nostra personalità permanente sopra le mutabili eccitazioni esterne.
§ 39. Fisicismo.
Sgombrato il terreno dalle difficoltà psicologico-morali, ritorniamo alla considerazione scientifica dei fenomeni della vita.
Il determinismo implica genericamente la più estesa possibilità di cogliere nella serie di questi fenomeni degli invariabili rapporti di coesistenza e di successione; l’ipotesi meccanica aggiunge una idea limitativa, in quanto suggerisce la possibilità di scegliere come circostanze determinanti, dei dati aventi un significato fisico, all’infuori della vita.
Questo modo particolare d’intendere il determinismo biologico prende il nome di fisicismo; esso può concretarsi più precisamente nelle seguenti richieste:
E quando il fisicismo si consideri non tanto come aspirazione remota, quanto nella sua efficienza pratica relativamente allo stato attuale della Scienza, si aggiungono implicitamente le seguenti ipotesi:
Ora appunto a quest’ultima veduta contraddicono i resultati degli studii di cinquant’anni; i quali infirmano perciò il fisicismo, nel senso pratico che viene definito dalle precedenti richieste, all’infuori della credenza in un progresso remotissimo.
Risulta infatti che non si può trattare la Fisica biologica facendo astrazione dalla condizione essenziale della vita.
Soltanto pochi rapporti fisici generali, sovrastanti alla varietà delle condizioni, si trovano verificati senza mutamento nel dominio biologico; tali p. es. la conservazione della materia o dell’energia. Ma nelle leggi meno estese che si riferiscono alla diffusione o all’osmosi o alla conducibilità elettrica ecc. si incontrano ad ogni passo eccezioni e contraddizioni apparenti.
Ecco qui una torpedine, vivente bottiglia di Leyda, la cui carica elettrica si compie in circostanze paradossali. Mentre il funzionamento delle macchine elettriche è impedito così facilmente dall’umidilà dell’isolatore, vediamo una carica che non si perde nell’acqua circostante di cui pure i tessuti dell’animale sono imbevuti!
Non si potrebbe negare o attenuare l’importanza di simili fatti ben accertati quand’anche si trattasse di rare eccezioni, ma a fortiori dobbiamo tenerne conto dato il loro numero e la loro rilevante frequenza, e dato che si tratta di differenze le quali si palesano già nei primi gradi della vita. La Fisiologia generale della cellula, quale Max Verworn ce la presenta nel suo eccellente trattato, e la Fisica dei tessuti, ne porgono esempii molteplici e caratteristici.
Citiamone uno soltanto. Le cellule vive della vessica impediscono la diffusione dell’acqua; eppure non si trova una membrana impermeabile che spieghi l’ostacolo! Bisogna dire che un tessuto umido si oppone al passaggio dell’acqua in forza della vita, poichè perde questa proprietà tostochè sopravviene la morte.
Fenomeni di tal genere possono sempre conciliarsi con un fisicismo teorico, ove si postuli il sovrapporsi di rapporti troppo complessi per essere decomposti negli ipotetici elementi fisici; ma essi suggeriscono un atteggiamento positivo del pensiero che, rinunziando almeno provvisoriamente ad una spiegazione analitica, si volge ad una spiegazione sintetica nella quale il fatto di vivere sia preso come condizione fondamentale ad esprimere il resultato medio delle circostanze elementari sovrapposte.
Or dunque, in luogo di scegliere esclusivamente come determinanti dei dati fisici, si prenderanno tutte le circostanze notevoli che si presentano connesse alla vita, senza indagare la loro riduzione ulteriore; ed in luogo di semplificare arbitrariamente a priori il determinismo fisico nei mezzi viventi, si cercherà di riconoscere le differenze caratteristiche alte a porgere nel loro insieme una definizione positiva della vita.
A questo scopo si rivolgono fra l’altre alcune belle ricerche del nostro G. Galeotti, dalle quali risulta che il plasma vivente impedisce la diffusione di certe sostanze, che esso vieta in generale lo stabilirsi dell’equilibrio osmotico, ed in certi casi esercita una particolare opposizione agli ioni mossi da forze elettromotrici.
§ 40. Spiegazione teologica.
In ciò che precede ci siamo riferiti soprattutto ai fenomeni fisici svolgentisi in un mezzo vivente; a più forte ragione emerge quindi la necessità di una spiegazione sintetica dei fenomeni propriamente fisiologici. La nostra critica fa vedere che un tal modo di spiegazione non contraddice all’ipotesi meccanica ed al fisicismo teorico che ne deriva, purchè si tolga a questo ogni significato pratico come indirizzo di ricerca attuale.
Ma si tratta ora di riconoscere se almeno il fisicismo teorico non imponga qualche limite alla spiegazione accolta in Fisiologia, ed in ispecie se esso non implichi di riguardare come priva di senso ogni spiegazione teleologica.
Constatiamo anzitutto il fatto che dà origine al problema.
La maggior parte delle conoscenze fisiologiche ricevono una forma inversa di quella dove ci rappresentiamo un nesso fra cause ed effetti. Vi è luogo a riscontrare tale circostanza quasi in ogni ordine di fenomeni della vita, e non soltanto nello studio sintetico dell’essere vivente, bensì anche nella Fisiologia dei tessuti.
Se p. es. si voglia comprendere di quali sostanze un tessuto ostacoli la diffusione, si è indotti a fare appello all’idea di un utile o di un bisogno del plasma di reagire in un modo piuttosto che in un altro, come se l’antecedente potesse esser determinato dal conseguente anzichè viceversa. Questa stessa idea entra già nella cosidetta legge della reazione cellulare, la quale sembra porre il concetto del fine alla base di ogni spiegazione nelle scienze della vita.
Ma un tal modo di spiegare i fatti solleva gravi repugnanze in coloro che prendono come modello le scienze fisiche. Sembra a prima vista che fra la veduta teleologica ed il fisicismo, pur teoricamente compreso, sussista un contrasto irriducibile; ed i fisicisti ne deducono che ogni spiegazione teleologica debba essere rigorosamente eliminata come priva di senso.
Esamineremo fra un momento se il contrasto accennato possa comporsi; osserviamo intanto che non si saprebbe veramente attenersi nella pratica ad una regola così semplice.
Infatti coloro che vi aderiscono non sono poi capaci di sostituire qualcos’altro alle numerose discriminazioni di casi senza legame apparente, cui il fisiologo perviene apprezzando certe differenze in rapporto ai fini della vita.
I fisicisti risponderanno che queste sono spiegazioni verbali senza senso e senza valore, un velo gettato sulla nostra ignoranza, che si può ben togliere senza rimpianto, se pure null’altro venga sostituito al suo posto.
Così sarebbe infatti se le espressioni teleologiche dovessero prendersi nel senso di un vitalismo mistico, confondendo il punto di vista rappresentativo della conoscenza e quello attivo della volontà.
Ma si può trovare in esse un significato positivo e perciò contestiamo sotto questo aspetto la critica dei fisicisti!
Non è vero che l’utile o il danno di un vivente sieno espressioni vuote di senso, poichè esse racchiudono un fatto che può essere sperimentalmente conosciuto.
Non è vero che le spiegazioni ove si fa appello all’idea che qualcosa risponde ad un fine della vita sieno prive di valore, poichè dall’invocare simili circostanze determinanti si ottengono in varii gruppi di fenomeni delle previsioni significative.
Ed è in vista di ciò che, nonostante tutte le repugnanze, la spiegazione teleologica permane nelle scienze della vita.
Resta soltanto da darne una conveniente interpretazione, e da mostrare che questa non implica più un irriducibile contrasto collo spirito del determinismo meccanico.
Distinguiamo due tipi di spiegazione in cui entra in diverso modo l’idea di un fine:
Il primo caso si lascia subito riattaccare al determinismo consueto, imperocchè riconosciamo come causa dell’azione non propriamente il fine proposto, ma la sua rappresentazione, che risulta dal rievocare ed associare in diversi modi delle sensazioni precedenti.
Il secondo caso difficilmente si riconduce al primo, a meno che non si ricorra all’ipotesi di una Provvidenza, la quale determini la realtà attuale subordinatamente allo scopo di un futuro, così come noi stessi foggiamo una macchina capace di esercitare certe funzioni.
Ora, chiunque voglia fare astrazione dal valore morale e religioso di una simile ipotesi per giudicarla soltanto sotto l’aspetto conoscitivo, dovrà ammettere che essa non ha un valore scientifico, giacchè non ci abilita a previsioni oppure ci porge previsioni che trovansi indifferentemente vere o false, senza fornirci un criterio di scelta possibile.
Resta a vedere se le spiegazioni biologiche del secondo tipo possano accordarsi coll’idea che ci formiamo del determinismo, indipendentemente dall’ipotesi di un intervento provvidenziale.
L’accordo è effettivamente possibile se s’interpreti la spiegazione teleologica in un senso positivo, come esprimente un primo grado di conoscenza.
Invece di paragonare questa spiegazione a quella cui si mira nel più alto sviluppo della Fisica, dove dalle cause note si procede agli effetti ignoti, la paragoneremo alla spiegazione che nella Fisica stessa trova posto come primo grado della ricerca induttiva, quando si tratta di ricavare le ipotesi dalle osservazioni preliminari, cioè dall’effetto noto si vuol risalire alle cause.
Anche i problemi fisici possono assumere in tal senso un aspetto teleologico. E basti trarre all’uopo qualche esempio dalla Meccanica e dall’Astronomia.
Si possono immaginare in vario modo dei sistemi meccanici che si trovino in un certo stato di equilibrio stabile; ogni piccolo movimento prodotto da una perturbazione qualsiasi genera forze riconducenti il sistema alla posizione iniziale. In simili casi la stabilità essendo data come una condizione da soddisfare, il problema è di cercare le forze che ne spiegano la sussistenza.
In un senso esteso della parola, anche il sistema planetario ha una stabilità, verificata praticamente entro i limiti dell’osservazione, la quale si affacciò agli astronomi come un problema da risolvere.
Ed il problema fu sciolto, non da Newton che dubitò che le mutue attrazioni planetarie dovessero distruggere il regime permanente del sistema, bensì da Laplace che riconobbe come lo effetto delle perturbazioni sugli elementi delle orbite tenda a compensarsi periodicamente, all’infuori d’una piccola variazione secolare; onde fu ristabilita la superba armonia della legge che il suo autore medesimo aveva rotto coll’ipotesi di un intervento provvidenziale.
Un’altra questione analoga è la stabilità dell’anello di Saturno. Essa costituisce un fatto che possiamo rappresentarci come resultato di cause ignote, che si tratta di trovare. Ora se si fa la ipotesi più semplice che l’anello sia costituito da una materia compatta, e si valutano le forze attrattive esercitantisi fra le varie parti del corpo e l’azione su di esso della massa di Saturno, non ne risulta un equilibrio stabile; perciò appunto si è indotti a discutere ipotesi diverse, cercando una disposizione della materia che risponda alle condizioni poste.
Queste condizioni, prese così come un fine da soddisfare, preesistono alla disposizione incognita della massa dell’anello, soltanto nell’ordine delle nostre conoscenze, il quale si presenta come inverso di quello che ci raffiguriamo essere l’ordine reale.
Dopo questi esempii riesce più agevole comprendere il procedimento esplicativo della Biologia, ove si parla della rispondenza di un organo ad una funzione, o di un modo di reagire in rapporto con un fine utile. Si possono trasformare queste espressioni in guisa da togliere ogni apparenza di contrasto col determinismo fisico. Si tratta invero di ritenere che, fra i molteplici elementi del fatto, la vita ci appare sinteticamente data prima che i suoi supposti fattori, non già nella realtà ma nell’ordine delle conoscenze; quindi dalla funzione nota risaliamo ai caratteri dell’organo capaci di spiegarla; dalla circostanza che il plasma vive inferiamo come probabilissima una certa facoltà di esso di reagire nel senso utile, almeno finchè si tratti di stimoli che non ne cagionano la morte ecc.
Un tale procedimento esplicativo sarebbe perfetto e si convertirebbe in una spiegazione del tipo fisico, se nel risalire dall’effetto dato alle cause si riuscisse a determinare l’intiero gruppo delle cause notevoli, il cui concorso consente la riproduzione sperimentale del fenomeno. Ciò non si è per anco ottenuto nelle spiegazioni propriamente fisiologiche, ma nondimeno vi è in esse un grado di conoscenza positiva che le precedenti osservazioni mettono in luce.
Giungiamo invero a risalire dagli effetti, che ci rappresentiamo come «fini» nella vita, a talune fra le cause prossime che concorrono a produrli, e da queste via via alle più nascoste condizioni concomitanti e alle cause più lontane.
Soltanto qui la catena è più complicata e più lunga e non ci è dato invertire la serie, così come non è dato al chimico di spiegare un quadro di Raffaello coll’analisi dei colori che lo compongono.
§ 41. La vita e i principii termodinamici.
Fino ad ora non abbiamo trovato alcuna irriducibile contraddizione fra l’ipotesi meccanica e le scienze della vita.
Per proseguire il nostro esame dobbiamo sottoporre ad una verifica i principii della Fisica che risultano dalle ipotesi meccaniche più generali. Sorvoliamo sulla conservazione della materia, che permane nella vita, e parliamo dei principii energetici ed in ispecie di quelli della Termodinamica.
Anzitutto il principio della conservazione dell’energia è verificato anche nei fenomeni della vita.
All’infuori di ciò non si sa nulla di positivo.
Sarebbe molto interessante istituire ricerche approfondite in ordine al secondo principio della Termodinamica.
Nell’ipotesi meccanica, questo appare come un effetto di media in un sistema disorganizzato. Ora nel nostro caso l’applicazione del postulato della media solleva gravi dubbi.
Che cosa esprime finalmente codesto postulato? Esso traduce con un computo numerico l’ipotesi di una certa regolarità statistica di un gran numero di fenomeni, le cui differenze non possono essere riattaccate a cause sistematiche. La regolarità statica simula bene lo stato di ciò che appare omogeneo, o tende ad una certa omogeneità. Ma il carattere proprio della materia vivente è all’opposto una intima eterogeneità, il pensiero che questa ricopra una organizzazione del movimento, si affaccia molto naturale.
Ma d’altra parte rimane difficile di accordare una tale ipotesi col regime permanente della vita. Accanto ad un sistema cinetico organizzato sembrano possibili infiniti sistemi disorganizzati, per modo che il passaggio dall’uno agli altri corrisponda a variazioni infinitesime; perciò non si saprebbe spiegare la persistenza di uno stato organizzato.
Come si vede l’ipotesi meccanica da sola non basterebbe forse a dedurre la validità del postulato di Clausius nella vita, ma lo fa ritenere probabile.
Ora, comunque si apprezzino le ragioni teoriche, la risposta non può venire che dall’esperienza; l’investigazione termodinamica dei processi fisiologici deve risolvere il problema se il postulato di Clausius sussista ancora nei fenomeni della vita.
La questione sembra più accessibile dal lato dei vegetali; ed alcuni resultati intorno all’intervento della luce nelle trasformazioni chimiche che ne accompagnano i processi, lasciano aspettare una risposta affermativa.
§ 42. L’ipotesi meccanica e i problemi della evoluzione.
Emerge dall’analisi precedente che, almeno nello stato di sviluppo attuale, le scienze della vita non recano alcuna contraddizione all’ipotesi meccanica.
Ma questa conclusione è puramente negativa, e si tratta ora di apprezzare il valore positivo dell’ipotesi stessa.
La nostra tesi è che l’ipotesi meccanica può ritenersi indifferente al progresso della Biologia.
Anzitutto la discussione del § 39 ha mostrato che la veduta di un fisicismo teorico suggerita dal modello meccanico, non può interpretarsi come un indirizzo pratico di ricerca: la remota possibilità del nominato modello resta sotto questo riguardo senza influenza sopra il tipo della spiegazione nei fenomeni della vita.
In secondo luogo è facile constatare che l’ipotesi meccanica nella sua generalità non determinata è incapace di risolvere in un senso piuttosto che in un altro i generali problemi della Biologia, sia p. es. di portare un appoggio all’una o all’altra fra le correnti di pensiero, epigenetiche e preformistiche, che entrano in campo a spiegare l’evoluzione organica.
Si possono immaginare diverse serie di modelli meccanici, dotati entro certi limiti di un certo regime permanente, in guisa da dar luogo ai seguenti casi:
Orbene, a parte la difficoltà di precisare questi modelli, si scorgerà facilmente che essi mostrano la possibilità di conciliare indifferentemente col meccanismo, le tre specie d’ipotesi fondamentali invocate a spiegare l’evoluzione degli esseri viventi, nelle quali si attribuisce un diverso peso alle cause di variazione interne ed esterne (ambiente)28. Tali sono le ipotesi seguenti:
§ 43. Irrilevanza della spiegazione meccanica in Biologia.
Le considerazioni precedenti mettono in vista che l’ipotesi meccanica, presa nella sua generica indeterminatezza, è indifferente al progresso delle scienze della vita.
Ma vi è di più. A parte la estrema difficoltà d’indagare l’ipotetico meccanismo per ogni dato ordine di fenomeni della vita, vi è luogo a domandarsi qual valore potrebbe avere, relativamente alle questioni che c’interessano, la descrizione particolare di quello e la conoscenza dei rapporti quantitativi connessivi.
Abbiamo già rilevato quale sia il valore proprio della spiegazione meccanica dei fenomeni fisici. Le difficoltà di una spiegazione integrale sono divise in due parti:
Il meccanismo dei fenomeni non ne esaurisce la conoscenza neppure nei casi in cui esso può essere più precisamente descritto: le vibrazioni di una corda che il matematico rappresenta come fatto ottico, mediante la serie di Fourier, contengono dei rapporti d’armonia, che possono bene associarsi alla forma della serie, ma costituiscono sempre una interpretazione o associazione aggiunta alle sensazioni visive in essa simboleggiate.
Ora la soluzione del problema 1) ha un’importanza relativa tanto più grande quando la maggior parte delle domande poste si riferiscono a misure: all’opposto invece, le cosidette equazioni determinatrici esprimenti l’ipotesi meccanica fondamentale, divengono tanto meno significative quanto più cresca l’uso delle ipotesi complementari, che soccorrono alla loro interpretazione.
Ebbene, se classifichiamo i problemi fisici in una serie dove l’interesse della spiegazione meccanica vada decrescendo, i problemi della vita si presenteranno come caso limite nella serie suddetta.
La spiegazione meccanica apparisce dunque come irrilevante in questo campo della Scienza.
È interessante raffrontare la conclusione precedente a quella cui Du Bois Reymond venne condotto, trattando il problema meccanico della vita.
L’impossibilità di esaurire il fatto biologico nella spiegazione meccanica apparve chiara all’illustre filosofo; ma questa impossibilità venne interpretata da lui in un senso agnostico!
Ebbene ciò dipende soltanto dall’avere accolto una veduta inadeguata della spiegazione scientifica, costretta nei limiti arbitrarii di una Metafisica quantitativa.
Il problema è insolubile perchè è posto male. E la pretesa conclusione agnostica si riduce al riconoscimento che i rapporti formanti oggetto delle previsioni biologiche, in una parte minore dei rapporti fisici, possono essere compresi come rapporti quantitativi, anche se si ammetta la possibilità di un modello meccanico.
§ 44. Conclusione.
La nostra conclusione è che, nello stato attuale delle conoscenze, l’ipotesi meccanica appare non contraddittoria ai fenomeni della vita ma indifferente per lo studio di questi.
Tuttavia la suddetta ipotesi ebbe in passato un importante ufficio, in primo luogo perchè in una forma netta affermò l’indipendenza del sapere dal sentimento (cfr. § 36), in secondo luogo come unificatrice delle vedute scientifiche. Attraverso il meccanismo nascosto si è imparato a scorgere anche nella vita un oggetto proprio di Scienza, ed a comprendere l’intimo nesso del procedimento che vien messo in opera in campi di studio separati soltanto per una necessità di divisione del lavoro, ma sovrapposti nella previsione concreta, cioè uniti nella realtà.
Per rendersi conto adeguatamente del resultato conseguito in tal modo, è d’uopo riportarsi ai tempi di Descartes, quando le idee di Harvey sulla circolazione del sangue incontravano ostacolo nei pregiudizii correnti sulla forza dell’anima, cui si faceva appello in ogni processo della vita.
Fu immenso progresso aver compreso che vi è una Fisica sola, la quale si estende senza arresto ai fenomeni vitali; e fu magnifica intuizione approssimata quella che portò a ritenere i fatti fisici come leggi semplici ed uniformi sovrastanti alla varietà delle condizioni.
L’effetto complicatore di queste è una veduta correttiva, da trascurare in una prima approssimazione.
Risulta di qui un giusto apprezzamento della tendenza unificatrice del meccanismo; essa porge una rappresentazione adeguata allo sviluppo iniziale delle scienze della vita; soltanto da un punto di vista più progredito appare che la veduta unificata è costruita con criteri un po’ ristretti ed unilaterali, poichè si accoglie come perfetto e generale il tipo di una scienza più sviluppata ed a questo si pretende di subordinare troppo rigidamente ogni altra forma di sapere.
Quindi la veduta della filosofia meccanica viene modificata dai progressi della Biologia, la quale reagendo a sua volta sulla Fisica, ci prepara a comprendere una unificazione superiore, cioè un tipo di Scienza più perfetto e generale, che contenga le varie forme particolari separate dalle esigenze della Tecnica.
Questo tipo superiore, adeguato ai varii dominii del sapere, non è un rigido schema di disposizione dommatica, e neppure una stratificazione di acquisti che si aggiungano semplicemente l’uno all’altro. È processo di associazione e d’astrazione che opera sui dati sensibili costruendo i concetti rappresentativi degli invarianti reali; è sviluppo di composizione e di scomposizione, che si esplica nelle due fasi induttiva e deduttiva e riesce ad una progressiva estensione e correzione delle nostre previsioni.
Come nelle varie forme dell’evoluzione della vita, lo sviluppo anzidetto può essere più lento e lungo, o più rapido e breve; le fasi induttiva e deduttiva possono disegnarsi come momenti distinti del processo scientifico, siccome bene si osserva nella Fisica, o all’opposto intrecciarsi e quasi confondersi come accade nella Biologia.
Ora il confronto è interessante sotto due aspetti reciproci: soltanto dalla Fisica ci è dato trarre una veduta del grado di perfezione cui potranno tendere in avvenire le scienze della vita; ma la enorme complicazione di queste, e la instabilità che ne deriva nelle spiegazioni biologiche, ci rendono più chiaro il movimento della Scienza, che rispetto a taluni ordini di fenomeni fisici riesce visibile soltanto nei secoli. Giungiamo in tal modo a comprendere che la conoscenza esatta è soltanto una conoscenza bene approssimata, la quale potrà essere tenuta come soddisfacente soltanto per riguardo ad una certa cerchia di previsioni, ma rispetto ad una cerchia più estesa dovrà subire tosto o tardi una correzione, ove si aggiungano le condizioni complicatrici trascurate.
Richiamiamo un esempio da argomenti già innanzi trattati.
La Dinamica di Galilei-Newton sembra richiedere oggi, dopo due secoli, un’ipotesi correttiva in questo senso: la distinzione astratta di certi dati determinanti del moto, interni ed esterni al corpo mobile, viene integrata con un postulato di eredità (influenza determinante del moto passato) o di solidarietà del campo di moto (§ 33).
Ebbene le parole stesse con cui si designa l’ipotesi correttiva alludono all’analogia con certi ordini di circostanze determinanti che appariscono nella vita. I biologi che studiano l’evoluzione delle specie organiche, tendono appunto a separare (come nel movimento) i fattori interni ed esterni della variazione (preformismo ed epigenesi), e fanno continuamente appello all’idea della eredità e alla solidarietà degli organi. In uno studio più complicato, il punto di vista sintetico si è dunque affacciato prima e s’impone con più evidenza; in una teoria apparentemente semplice esso si affaccia soltanto quando si chiede una precisione maggiore.
Così possiam dire che lo sviluppo delle scienze della vita si presenta come una ricapitolazione abbreviata di quello delle scienze fisiche!
Note
- ↑ «L’évolution de la Mécanique». Révue générale des Sciences, 1903, p. 63, 119, 171, 247, 301, 352.
- ↑ Cfr. L. Boltzmann: «Vorlesungen über Gastheorie», Leipzig, 1896-98.
- ↑ Paris, Flammarion.
- ↑ Se la temperatura non è uniforme occorre separare il sistema in tante parti elementari e considerare la somma degli integrali di Clausius. Cfr. Poincarè: «Thermodynamique». Carrè, Paris, 1892 (pag. 224).
- ↑ «Wissenschaftlische Abhandlungen», Bd. III, pag. 176. Cfr. H. Poincarè: «Thermodynamique», pag. 392.
- ↑ «Elementary Principles in Statistical Mechanics», New-Jork e Londra. Cfr. T. Duhem, l. c.
- ↑ Cfr. Poincarè, op. cit., pag. 229.
- ↑ Rapports du Congrès international de Physique, Paris, 1900, tom. I.
- ↑ Cfr. Duhem, l. c.
- ↑ Cfr. «L’Ottica delle oscillazioni elettriche», Bologna, Zanichelli, 1897.
- ↑ «Wiedemann’s Annalen», t. 40, 41 (1890) e «Nuovo Cimento», t. 28.
- ↑ Il curl designa un’operazione geometrica sui vettori, che dipende dalla variazione locale del vettore nel campo.
- ↑ Cfr. il «Nuovo Cimento», 1897.
- ↑ Il Levi-Civita fa espressamente rilevare che è essenziale di scegliere la legge potenziale di F. Neumann fra le varie leggi elementari d’induzione per circuiti aperti che sono compatibili colle esperienze relative a circuiti chiusi, e ne deduce un argomento in appoggio di questa legge in confronto ad altre che sono state proposte.
- ↑ «Electricité et optique». Paris, 1901, p. 616 e seg.
- ↑ Cfr. Poincarè, l. c.
- ↑ Si confronti per la bibliografia l’articolo di Lorentz nel Band V2 Heft 1 della Encyclopädie der mathematischen Wissenschaften. Leipzig, Teubner, 1904.
- ↑ Cfr. i Proceedings dell’Accademia di Amsterdam, maggio 1904.
- ↑ Comptes rendus de l’Acad. des Sciences. Paris, juin 1905.
- ↑ A quest’ordine d’idee sembrano in qualche modo accostarsi le vedute più recentemente sviluppate da Walter Ritz. Cfr. Rivista di Scienza «Scientia», v. VI, 1908. (Aggiunta alla 2ª edizione).
- ↑ Per una critica della Dinamica degli elettroni cfr. T. Levi-Civita, Rivista di Scienza «Scientia», V. IV, 1907. Per la generale Dinamica elettrica vedi gli articoli di C. Fabry nella stessa Rivista nn. IV, V (1907, 1908). (Aggiunta alla 2ª edizione).
- ↑ Comptes rendus, l. c.
- ↑ Il calcolo conduce invero ad una perturbazione del moto del perifelio di Mercurio che procede nel senso dato dall’osservazione effettiva, ma non spiega che una piccola parte del fenomeno reale. Per la critica delle teorie della gravitazione cfr. il più recente articolo di Walter Ritz, Rivista di Scienza «Scientia», n. X, 1909. (Aggiunta alla 2ª edizione).
- ↑ Posteriormente alla prima edizione di quest’opera abbiamo riassunto le nostre vedute intorno al principio d’inerzia e alle Dinamiche non-newtoniane in un articolo inserito nel n. II della Rivista di Scienza, 1907.
- ↑ Cfr. p. es. Voigt: «Kompendium der theoretischer Physic», Bd. II, p. 554 e seg.
- ↑ Circa i rapporti della questione colle recenti teorie nel diritto penale vedasi Mario Calderoni: «I postulati della scienza positiva e il diritto penale», Firenze, Ramella, 1901.
- ↑ Cfr. la disputa vivace descritta da A. Herzen: «Le cerveau et l’activité cérébrale». Paris, F. B. Baillière, 1887.
- ↑ È appena necessario rilevare che, indipendentemente dall’apprezzamento dei suoi fattori, l’ipotesi dell’evoluzione è accettata generalmente in base ai seguenti motivi:
1) Le prove dirette fornite dalla Paleontologia.
2) Le prove indirette che si traggono dalla Geografia botanica e zoologica.
3) L’evoluzione spiega una serie di fatti anatomici e zoologici, p. es. gli organi rudimentali ecc.
4) L’evoluzione porge un criterio direttivo sintetico nella ricerca scientifica, ed ha perciò un valore efficiente nei progressi odierni delle scienze naturali.