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324 | capitolo vi |
non vi è che un modo d’intenderla: l’io a cui piace fare e volere, non è altro che un’espressione continuativa della stessa volontà, che subordina ai motivi, precedentemente affermatisi come permanenti, i motivi transitorii ed accidentali.
La personalità morale di un uomo si identifica appunto con questa volontà continuativa, resultante dei fattori organici e degli elementi assorbiti dall’ambiente esterno. Niun dubbio sorge a questo proposito quando consideriamo la persona altrui; quando invece ci riferiamo a noi stessi, c’inganna facilmente lo sdoppiamento che facciamo dell’io, prendendolo una volta come oggetto, cioè confondendoci, noi soggetto di azione, colla rappresentazione che ci facciamo di noi medesimi.
Una volta che si consideri il nostro io, come oggetto di una rappresentazione, è facile convincersi che non si può attribuire a questa, un contenuto oltrepassante l’idea collettiva di ciò che è relativamente permanente nelle nostre volizioni.
Poichè, se si contrappone a codesta realtà, riguardata come apparente e relativa, una sostanza assoluta o anima, nella quale si faccia consistere la personalità etica, si ricade in uno di quei processi infiniti di definizione, la cui vacuità fu già messa in luce.
Disgraziatamente questa veduta trascendentale dell’anima dominò fino ai nostri giorni la controversia del libero arbitrio, la cui storia si riattacca a quella del problema religioso della predestinazione e della grazia.
Tale aspetto della questione domina ancora il pensiero del Leibniz nella «Teodicea».
Onde il filosofo, pur contrapponendo al fatalismo esterno spinoziano una chiara visione del determinismo psicologico interno, doveva attribuire alla libertà, intesa come spontaneità dell’essere intelligente, un senso metafisico trascendentale.
Questo senso appunto si mostra, con grande nettezza nella evoluzione ulteriore che il determinismo ha ricevuto dalla filosofia del Kant: determinismo fenomenico contrapposto ad autonomia noumenica; cioè volontà libera in sè, per quanto si guardi alla causa intelligibile del volere (?!), ma determinata secondo leggi immutabili, nelle sue manifestazioni. Lo sviluppo naturale di questa distinzione porta infine alla dottrina dello Schopenhauer: la volontà, trascendentalmente intesa come al di fuori dei suoi atti, fuori dello spazio e del tempo, viene a prendere il posto della sostanza, o della cosa in sè, idea della quale già ravvisammo il fondamento antropomorfico.
Queste ultime conclusioni della filosofia classica, sono ai nostri occhi molto istruttive. Poichè ne esce fuori, per una parte, il riconoscimento del determinismo psicologico, nel suo senso umano e positivo; per l’altra la dimostrazione che il problema del libero arbitrio non interessa la ragione pratica, se non in quanto si creda necessario un fondamento trascendente della morale.