Problemi della scienza/Capitolo V
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo IV | Capitolo VI | ► |
capitolo v.
LA MECCANICA
Significato reale
e sviluppo psicologico dei principii.
§ 1. La Meccanica come estensione della Geometria.
Prescindiamo dai dubbii che la critica getta sulla validità rigorosa dei postulati geometrici, rispetto a possibili esperienze future. La Geometria si presenta allora come una scienza puramente deduttiva, la scienza modello dei filosofi razionalisti!
Ma questo carattere di perfezione logica le compete soltanto come dottrina teorica, cioè come regola statistica (cap. IV, § 7). Se invece si considerano i resultati della Geometria nel loro contenuto reale, relativo a casi concreti, se cioè si prendono i rapporti geometrici come una parte delle relazioni fisiche (cap. IV, § 6), gli sviluppi deduttivi divengono incapaci a fornirci da un certo punto in poi, una previsione più precisa.
Il separare con un’astrazione la Geometria dalla Fisica è utile soltanto fino a che codesti casi si considerino come dati nel loro insieme, in condizioni fisiche indifferenti; ma dove all’opposto sia possibile di classificare le loro differenze, così da apprezzare la influenza sistematica che esse esercitano sulla previsione, si riuscirà a proseguire la Geometria integrando i suoi concetti coll’associarvi nuovi dati sensibili, per modo da renderne più determinata l’applicazione scientifica.
In questo senso una prima estensione della Geometria è costituita dalla Meccanica, la quale giunge a determinare una scelta fra i varii rapporti di posizione dei corpi riguardati geometricamente come possibili, tenendo conto di tempo, forze, masse ecc.
Ora questi nuovi elementi riescono non soltanto associati ai dati spaziali, ma anche subordinati alla rappresentazione geometrica nel processo costruttivo dei concetti meccanici, appunto perchè questo viene dopo, come acquisto psicologico, alla Geometria.
Abbiamo già avvertito (cap. IV, § 6) che tale gerarchia dei concetti, rispecchiantesi nell’ordine di esposizione dommatica della Scienza, non ha valore di subordinazione necessaria. Non è vietato di alterare quest’ordine, di costruire cioè una Meccanica indipendente da qualche ipotesi geometrica, la quale si lascerà allora tradurre con una ipotesi meccanica equivalente. In tal modo la Meccanica può condurre ad una più estesa verifica o anche ad una correzione degli stessi principii geometrici.
Prendiamo p. es. il postulato V d’Euclide sulle parallele.
La Statica ordinaria si fonda su di esso; ma una critica approfondita permette di riconoscere quale sarebbe una Statica non-euclidea: due forze uguali perpendicolari ad un’asta rigida AB nei suoi estremi, darebbero una resultante perpendicolare ad AB nel suo punto medio O, precisamente come nel caso euclideo; ma, a differenza di questo caso, la resultante non sarebbe più uguale alla somma delle due componenti (Foncenex, Lagrange, D’Alembert, Genocchi, De Tilly). Ecco dunque un’espressione statica del postulato geometrico delle parallele, una supposizione nuova che riconosciamo contenuta in esso, il cui verificarsi, nell’ordine del rigore sperimentale, costituisce una nuova prova della Geometria euclidea; se all’opposto questa verificazione avesse lasciato scorgere una differenza apprezzabile dal previsto, essa avrebbe potuto condurre a correggere i principii stessi di quella Geometria.
Ma gli sviluppi della Meccanica non hanno dato motivo a correzioni di codesto genere, sicchè può dirsi che la Meccanica ha formato una più estesa verificazione della Geometria. Invero se in taluni fenomeni riesce più difficile verificare i principii meccanici, non è apparso in alcun modo possibile di recare a codeste esperienze una correzione sistematica, modificando qualcuna delle già accettate cognizioni geometriche. La qual conclusione si accorda d’altronde coll’ordine di esattezza della Geometria, desunto dalle verifiche più dirette (cfr. cap. IV, § 10).
§ 2. Programma.
Volendo considerare la Meccanica come estensione della Geometria, si presenta assai naturale di trattare la materia in quest’ordine:
L’aggiunta del tempo allo spazio, conduce senz’altro a quell’ordine di nozioni che costituiscono la Cinematica, ossia la Geometria estesa dei movimenti.
Ma, poichè una discussione approfondita sul movimento pone in rapporto le nozioni cinematiche colle dinamiche, abbiamo rimandato questa discussione, attribuendola alla terza parte del nostro programma.
La separazione fra la Statica e la Dinamica è conforme alla tradizione storica, solo di recente mutata da alcuni, e s’impone secondo il nostro modo di considerare le forze.
Diremo ancora che allo scopo di riavvicinare le due trattazioni e di adottare nella Dinamica la semplificazione classica, ci siamo limitati in principio alla Meccanica dei punti, quantunque nella Statica potesse essere stato vantaggioso di considerare subito anche i sistemi. Le questioni relative a questi si troveranno dunque discusse nell’ultima parte del capitolo, così per la Statica come per la Dinamica.
§ 3. Tempo: Successione e durata.
Di due sensazioni o di due gruppi di sensazioni (fenomeni) noi avvertiamo che l’uno è prima e l’altro poi, oppure che essi sono contemporanei. L’intuizione che esprimiamo colle parole «prima e poi» porge un criterio ordinativo dei fenomeni in una serie (successione temporale).
Parlando di due fenomeni A, B e di altri due C e D, noi soliamo anche comparare l’intervallo di tempo passato fra A e B e quello fra C e D, dicendo che essi sono uguali o che l’uno è maggiore dell’altro. Questo giudizio ci conduce ad un apprezzamento quantitativo, cioè ad una misura del tempo o della durata.
È chiaro che la misura delle durate, ove sia stabilita, involge il criterio della successione temporale. Ma all’opposto la nozione del prima e del poi non ci fornisce alcun criterio per confrontare due intervalli di tempo che non abbiano un principio (o un termine) comune.
§ 4. Tempo psicologico e tempo fisico.
I giudizii di tempo, sia di successione, sia di durata, possono riferirsi a diverse serie fenomeniche; nello stesso modo come i giudizii relativi alle lunghezze possono istituirsi relativamente a diverse serie di corpi che vengano comparati come linee. Ogni serie fenomenica ci porge in questo senso una scala temporale, dove è dato almeno il prima ed il poi, e dove può esser fornito un criterio comparativo delle durate.
Il concetto astratto del tempo sorge per associazione ed astrazione da quello di tutte le possibili scale temporali.
Il tempo astratto, che pensiamo come tempo fisico, costituisce dunque la supposizione di una scala temporale nella quale hanno posto tutti i fenomeni possibili, a differenza del tempo fisiologico o patologico che è la scala di tutti i fenomeni percepiti.
La supposizione del tempo fisico implica in particolare:
L’accordo delle rappresentazioni associate, e la conseguente verifica delle previsioni che ne scaturiscono, metterà in luce il carattere reale del tempo.
Si abbiano tre fenomeni A, B, C, e tre osservatori, uno dei quali osservi A e B, il secondo B e C, il terzo A e C. Se il primo osservatore trova che
B succede ad A,
il secondo che
C succede a B,
si può prevedere e si verifica di fatto che per il terzo osservatore
C succede ad A.
Questo è il significato dell’accordo fra le rappresentazioni temporali di uomini diversi e si vede chiaro come vi sia implicita la possibilità di associare più scale temporali relative ad essi, in una unica scala relativa ad un osservatore ipotetico.
L’associazione delle rappresentazioni temporali relative a luoghi diversi, incontra una difficoltà nel fatto seguente: talune sensazioni che associamo pensandole come inerenti ad un fenomeno localizzato, le quali si presentano contemporanee ad un osservatore sul luogo del fenomeno, si presentano invece come successive ad un osservatore che si trovi in un luogo diverso. Così p. es. la luce e il suono relativi alla scarica di un fucile.
A rendere possibile l’associazione suaccennata interviene quindi una ipotesi, cioè che le fasi parziali di un fenomeno, successive nello spazio, sieno anche successive nel tempo (tempo di propagazione). E questa ipotesi è suffragata dall’esperienza relativa ai fenomeni che si riflettono sul luogo iniziale.
Pertanto, affinchè si possa stabilire un’associazione delle rappresentazioni temporali relative a luoghi diversi occorre:
Prescindendo dalla misura, di cui parleremo tra poco, la propagazione quasi istantanea della luce (o della elettricità) serve in pratica a stabilire l’associazione voluta.
Ma il concetto della contemporaneità così posto non è rigoroso, ed anzi contiene un errore apprezzabile; infatti è noto che Roemer in base a considerazioni astronomiche, e Foucault con una diretta esperienza sulla terra, hanno misurato la velocità della luce (circa 300.000 km. al 1’’), la quale si è trovato poi esprimere anche la velocità di propagazione delle onde elettriche.
A prescindere dunque dal criterio della misura, la successione temporale viene così resa indipendente dallo spazio soltanto nell’ordine d’approssimazione indicato dalla velocità della luce; in quest’ordine d’approssimazione, molto elevato rispetto alla pratica ordinaria, si possono agevolmente verificare sulla terra le previsioni concrete a cui conduce l’ipotesi di tale indipendenza.
§ 5. Proprietà della successione temporale.
Le proprietà dell’ordine che concepiamo come tempo fisico ci vengono imposte da condizioni associative delle varie scale temporali possibili.
Se prendessimo una sola scala costituita da una serie fenomenica periodica, questa ci darebbe una rappresentazione del tempo come di un ordine chiuso; ma la varietà delle nostre sensazioni nel loro complesso c’impone di considerare il tempo come un ordine aperto, il quale si estende poi indefinitamente nei due sensi colla supposizione di fenomeni possibili, successivi o precedenti a quelli delle serie date. Le serie fenomeniche periodiche si lasciano quindi associare per contemporaneità alle serie non periodiche, dando a ciascun fenomeno di esse una serie di posti ripetuti.
La continuità dell’ordine temporale è un’ipotesi relativa al concetto del tempo fisico, cui siamo indotti dal voler associare in una scala temporale astratta tutte le scale temporali possibili, e segnatamente quelle che tengono alla rappresentazione genetica delle diverse serie lineari di punti tattili o visivi (cfr. cap. IV). Il tempo psicologico non è continuo, perciocchè sono momenti di esso tutti i fenomeni percepiti l’uno dopo l’altro, i quali si presentano in una serie numerosa.
§ 6. Durata.
La nozione di un ordine secondo cui i fenomeni si succedono non esaurisce il contenuto della nostra conoscenza del tempo. Generalmente vi si aggiunge una determinazione metrica della durata che è anzitutto relativa alla serie fenomenica presa come scala temporale.
Un criterio della misura del tempo ci viene dato generalmente da ogni serie di fenomeni acustici o visivi, che si succedano ad intervalli distinti, ma assai frequenti da riempire tutto il campo psicologico dell’attenzione; l’apprezzamento quantitativo delle durate relativamente alle serie suddette è fornito dal contare le pause.
In una serie visiva continua, p. es., nella serie d’impressioni che corrisponde al tracciamento di una linea descritta da un punto mobile, si può stabilire una misura delle durate associando gli intervalli di tempo agli archi descritti dal punto mobile, i quali si misurano secondo le loro lunghezze.
I criterii anzidetti, riferentisi ad una o ad un’altra serie fenomenica presa come scala temporale, porgono una misura del tempo puramente relativa; le misurazioni fornite da serie acustiche o visive diverse, non sono comparabili fra loro. La misura istituita riferendosi convenzionalmente ad una serie particolare, serve soltanto a stabilire un più preciso modo di previsione del prima e del poi entro la serie scelta come scala di riferimento.
Mediante una misura convenzionale del tempo possiamo far corrispondere i successivi istanti ai valori di una variabile t esprimente l’intervallo di tempo trascorso a partire da una certa origine.
Se al posto di t si prende una funzione crescente arbitraria
τ = f (t),
si ha un’altra misura convenzionale del tempo, la quale può avere un qualche significato concreto per riguardo ad un’altra scala temporale opportuna.
Di fronte a questo concetto della misura del tempo, puramente relativo alle diverse serie di fenomeni successivi, sta la veduta, che Newton ha accolto sotto l’influenza della filosofia medioevale, di un tempo assoluto indipendente dai fenomeni, nel quale è dato un criterio di confronto vero o matematico delle durate.
Questa veduta è giustamente combattuta dal Mach1, con ragioni storiche, psicologiche e linguistiche.
A noi basta riscontrare in essa il medesimo modo d’intendere trascendentalmente il processo dell’astrazione, che già abbiamo più volte criticato.
Se dunque il tempo assoluto si deve riconoscere privo di senso, dovrà anche concludersi che la misura del tempo è puramente relativa?
A questa conclusione sembra fermarsi la maggior parte dei critici geometri; così ad es. P. Wolkmann2, e, per quanto vediamo, se pure meno esplicitamente, vi aderisce il Mach, ove confronta la misura del tempo a quella della temperatura.
A dirimere l’arbitrarietà della sostituzione
τ = f (t),
che figura nella misura del tempo, s’invoca una scelta convenzionale della scala di riferimento, misurando gl’intervalli di tempo come proporzionali agli spazii percorsi da un mobile su cui non agiscano forze. Si prende così il principio d’inerzia non più come esprimente un rapporto tra forza, moto e tempo, ma come una definizione del tempo. La quale, si badi bene, non può ridursi in ogni modo ad una pura convenzione perchè implica un fatto supposto «se due mobili, non soggetti a forze, compiono contemporaneamente due spazii a, b, essi compieranno del pari contemporaneamente spazii proporzionali ad a e b».
Questa è ad ogni modo una veduta troppo ristretta dei fatti che trovansi impliciti nell’ordinaria misura del tempo. E basti notare che codesta misura è anteriore alla scoperta del principio di inerzia!
Il senso comune accorda una misura naturale del tempo cui attribuisce in confuso un valore fisico proprio.
Quale significato può darsi a codesta opinione, quando sia eliminata dalla domanda ogni concetto trascendentale di un tempo indipendente dai fenomeni?
Paragoniamo la nozione della misura del tempo a quella delle temperature e a quella delle lunghezze.
Il tempo, come la temperatura, come l’arco di una linea o (in particolare) il segmento di una retta, può essere rappresentato da una variabile numerica t crescente in un dato verso.
Ogni funzione crescente f (t), presa in luogo di t, conduce egualmente nei tre casi a rappresentare la successione ordinata dei tempi, delle temperature o delle lunghezze lineari; e si possono costruire un orologio, un termometro, e un metro convenzionali, rispondenti ad una scelta arbitraria della funzione f (t).
Per l’orologio basta riferirsi ad un istrumento fondato sul movimento opportunamente vario di un lapis sopra un quadrante, il quale indichi durate uguali in rispondenza ad intervalli di tempio per cui la funzione f (t) riceve accrescimenti uguali. Per il termometro basta che le dilatazioni della sostanza termometrica sieno apprezzate sopra una scala in cui si segnino come accrescimenti di temperatura uguali quelli corrispondenti ad uguali accrescimenti di f (t); questi accrescimenti di temperatura convenzionalmente uguali saranno d’altronde in diverso rapporto cogli aumenti di volume della sostanza termometrica, secondo la natura della sostanza prescelta. Quanto al metro, se ne potrà foggiare uno convenzionale, secondo la condizione fissata, servendoci di un filo elastico graduato, diversamente teso nelle sue varie parti, ove per altro si dispongano le cose in guisa che un tratto qualunque del filo venga sempre ad essere teso nel medesimo modo allorchè con un movimento riprenda la medesima posizione.
Ora i varii termometri convenzionali rappresentano ugualmente bene le nostre sensazioni di aumento di temperatura; infatti la sensazione che proviamo nel passaggio da 0° a 1° e quella relativa al passaggio da 20° a 21°, rispetto ad un ordinario termometro a mercurio, non hanno nulla di comparabile, onde, se un altro termometro c’indichi il secondo aumento come doppio del primo, non abbiamo nella sensazione alcun criterio per preferire l’una all’altra fra le due indicazioni3.
Ma lo stesso non possiamo dire dei varii metri convenzionali possibili. Infatti uno solo fra questi metri, quello costituito da un filo solido inestendibile, si accorda colle sensazioni della lunghezza lineare fornite dall’organo tattile. Noi riguardiamo perciò quel metro come misuratore naturale delle lunghezze, e riconosciamo che la possibilità di questo modo di misura suppone un fatto generale, cioè la proprietà d’invarianza dei corpi solidi rispetto all’organo tattile, e degli uni rispetto agli altri, nel movimento.
Ora, che cosa diremo dell’orologio? Esiste un orologio le cui indicazioni rispondano ad una sensazione di durata relativa a certe serie fenomeniche nettamente distinte che abbiamo in vista allorchè parliamo di una misura naturale del tempo? E vi è qualche fatto generale che si esprima col reciproco accordo delle indicazioni fornite dalle scale temporali suddette?
Insomma, oltre alla sensazione inerente al contare le pause in una qualsiasi serie di fenomeni distinti, esiste una sensazione della durata relativa a serie fenomeniche isocrone, che possa confrontarsi alla sensazione tattile della lunghezza, o invece non si trova nella durata alcun significato sensibile proprio, come accade per la quantità dell’aumento di temperatura?
Rispondiamo alle domande precedenti:
Noi abbiamo la sensazione del ritmo di certe serie acustiche che denominiamo isocrone; le varie serie di suoni che sentiamo come isocrone ci porgono misure del tempo confrontabili l’una coll’altra, portano cioè, sebbene in limiti di sensazione ristretti, ad un medesimo apprezzamento delle durate uguali, e quindi ad una medesima misura naturale del tempo.
Che l’udito ci porga un apprezzamento assai preciso dell’isocronismo, e che vi sia accordo nella sensazione del ritmo musicale, è un fatto incontestabile, almeno per rispetto agli orecchi esercitati alla musica.
Si può dubitare tuttavia che si tratti di una sensazione originaria dell’udito, piuttostochè del resultato di un’associazione con certi movimenti muscolari, i quali in una serie di successive ripetizioni tendono ad effettuarsi regolarmente.
Tutti sanno che i musicisti ricorrono ad un processo di questo genere allorchè si tratta di battere il tempo. E l’isocronismo dei movimenti lentamente ripetuti della mano o del piede, è forse in connessione col ritmo di certe funzioni organiche e segnatamente del polso.
Si potrebbe dire pertanto che l’orecchio ci porge la nozione dell’isocronismo, e quindi delle durate, per associazione col senso muscolare, come analogamente l’occhio ci fornisce la nozione delle lunghezze per associazione coi dati del tatto.
Ma qualunque veduta si abbia intono a ciò, resta sempre che «mediante una serie di movimenti ripetuti, accompagnati da suoni, possiamo stabilire una misura del tempo, nella quale gli uomini si accordano in limiti ristretti ma abbastanza precisamente, come dinanzi ad un oggetto di sensazione propria della durata».
E poichè alle sensazioni di durata si riferiscono di continuo previsioni avverate, possiamo parlare della durata come di qualcosa di reale.
Ogni orologio le cui indicazioni rispondano alla sensazione anzidetta, dovrà dunque riguardarsi come un misuratore del tempo fisico, a differenza di un altro orologio convenzionale qualsiasi. E per mezzo di un tale orologio noi avremo quindi il mezzo di estendere la misura naturale del tempo al di là dei limiti ristretti a cui ci costringe il ricorso ad una serie musicale isocrona.
L’accordo fra le sensazioni di durata già ci assicurano un certo accordo fra gli orologi graduati naturalmente; ma un accordo più preciso, ove si riscontri, costituirà un fatto generale che ci proponiamo di riconoscere.
§ 7. Il postulato della misura del tempo.
Nell’estendere l’apprezzamento comparativo delle durate, al di là dei limiti della sensazione primitiva, seguiamo la medesima via che si suole percorrere in questioni analoghe.
Partiamo dalla supposizione che l’uguaglianza delle durate esprima un carattere reale dei fenomeni, entro limiti più precisi di quelli fissati dalla sensazione immediata. Allora siamo indotti a supporre che questa uguaglianza debba riscontrarsi per tutti quei fenomeni svolgentisi in determinate condizioni costanti, che riattacchiamo a cause uguali.
Sebbene una supposizione siffatta sia priva di un senso rigoroso, essa ci conduce direttamente a ricercare
Le supposizioni che rispondono alle domande 1) 2) 3) costituiscono il postulato fondamentale della misura del tempo, a cui facciamo appello direttamente o indirettamente nella costruzione e nella correzione degli orologi. L’accordo degli orologi così costruiti, entro i limiti in cui è possibile ottenerlo, costituisce la verifica del postulato stesso; la verità del postulato può tenersi ipoteticamente come rigorosa, fino a che non si riscontrino errori sistematici, ma soltanto errori accidentali che tendano ad eliminarsi nella media.
Cerchiamo di apprezzare l’estensione del postulato introdotto.
A tale scopo riflettiamo che:
Ed i varii criterii di misura così ottenuti si accordano assai precisamente colla misura degli orologi terrestri e più precisamente fra loro; inoltre l’accordo ottenuto può sempre rendersi più preciso mercè opportune correzioni e confronti, secondo il postulato fondamentale.
È veramente notevole che il grado di esattezza delle verifiche accennate giunga ad un limite praticamente rigoroso, e non è affatto strano che piccole differenze si manifestino nelle misure fornite dagli orologi, quando si rifletta alle tante cause di variazione delle circostanze ritenute uguali: la variabile temperatura che influisce sulla caduta dell’acqua o della sabbia attraverso un piccolo foro o sulla lunghezza del pendolo, e di cui non si riesce bene a compensare gli effetti; le cause stesse che possono modificare la gravità in un dato luogo della terra; le condizioni del sistema planetario, lentamente mutabili all’infuori delle variazioni periodiche; la variazione dello stesso universo astronomico che riteniamo come condizione costante!
Chiariti i fatti supposti nella misura del tempo, crediamo ancora opportuno avvertire che non si sarebbe in alcun modo autorizzati a ritenerli come verità necessarie. Due clessidre si sono vuotate una volta in modo contemporaneo, come escludere a priori che in un’esperienza successiva una di esse non si vuoterà prima dell’altra?
Contro la possibilità dell’ipotesi si addurrebbe invano il sentimento di evidenza che accompagna il postulato della misura del tempo. Infatti tale evidenza tiene soltanto a ciò che il postulato esprime la condizione necessaria perchè la durata possa essere associata ad altri dati sensibili nel concetto di un fenomeno; ma il verificarsi di codesta condizione costituisce propriamente il fatto, sperimentalmente riconosciuto, di cui si tratta: la realtà obiettiva della durata.
§ 8. Sulla indipendenza del tempo dal luogo.
Ammettiamo il postulato analizzato nel precedente paragrafo; la misura del tempo riesce stabilita in un dato luogo, per modo che la variarle «tempo» resta fissata in ogni istante a meno di una sostituzione lineare intera:
τ = at + b.
Le costanti a, b dipendono da due scelte convenzionali arbitrarie; cioè dalla scelta dell’unità di misura, e dalla scelta dell’istante iniziale.
Per paragonare due durate in luoghi diversi A, B si presentano due criterii:
Che i due criterii di confronto si accordino nel medesimo giudizio sulle durate uguali in luoghi diversi, si può ritenere implicito nello stesso postulato anzidetto, congiunto alla supposizione geometrica fondamentale delle simmetrie fenomeniche (omogeneità dello spazio), ma soltanto sotto la condizione che A e B trovinsi in quiete relativa, e dopochè si sia verificato che l’intensità del fenomeno non influisce sulla velocità di propagazione.
Immaginiamo una doppia segnalazione reciproca da A in B e da B in A, p. es., mediante la luce; i due tempi di propagazione debbono, a condizioni pari, ritenersi uguali per ragione di simmetria. Possediamo quindi il mezzo di misurare direttamente il tempo di propagazione impiegato da A in B, tutte le volte che la segnalazione possa riflettersi su A; basta dimezzare l’intervallo trascorso dalla partenza al ritorno dell’onda luminosa o elettrica ecc.
Su questo principio è fondata la misura della velocità della luce fornita dalle esperienze di Foucault.
Ora è chiaro che perveniamo quindi a fissare, in modo teoricamente preciso quanto si vuole, il giudizio di contemporaneità in luoghi diversi, sempre sotto la condizione di quiete relativa.
Ben inteso l’accordo sperimentale dei diversi giudizii che così possono ottenersi costituisce un fatto; ma la supposizione di questo è da ritenersi contenuta nel postulato della misura del tempo.
Dunque in virtù di quel postulato fondamentale si può:
Tanto basta a trasportare la medesima rappresentazione numerica del tempo stabilita per un luogo A in ogni altro luogo B che trovisi in quiete relativa rispetto ad A.
In ciò consiste l’indipendenza del tempo dal luogo. Ma si tratta di una indipendenza relativa.
Se B varii rispetto ad A, cresca cioè o diminuisca la distanza AB, il criterio della segnalazione (ottica, elettrica ecc.), non permette più di fissare la simultaneità degli istanti iniziali; ove si adotti semplicemente codesto criterio, come se A e B fossero fissi, si troverà nella rappresentazione del tempo una costante addittiva locale, che potrà essere avvertita soltanto ove sia possibile di ricorrere all’altro criterio del trasporto, cioè coll’invio di un orologio da A in B.
Ma vi è di più. Nelle circostanze predette, il criterio della segnalazione non varrà neppure a stabilire l’uguaglianza di due durate relative a fenomeni svolgentisi rispettivamente in A e B; il tempo sarà ancora affetto da una costante locale moltiplicativa.
Insomma, trattandosi di luoghi in moto relativo, e data l’impossibilità del trasporto di un orologio da un luogo all’altro, il tempo resta determinato a meno di una sostituzione lineare.
τ = at + b,
dove a e b sono costanti locali dipendenti dalle velocità relative.
Questa idea del tempo locale ha un ufficio importante nella teoria elettromagnetica di Lorentz e nei recentissimi sviluppi di Poincarè cui accenneremo nel cap. VI.
§ 9. Sviluppo storico ed evidenza dei principii.
Nella sua classica opera «Die Mechanik in ihrer Entwickelung»4, E. Mach studia profondamente lo sviluppo storico dei concetti e dei principii meccanici, richiamando e discutendo i problemi e le esperienze particolari da cui essi hanno preso origine e forma determinata.
Da questa esposizione, cui dovremo riferirci più volte nel seguito, appare che si possono, fino ad un certo punto, distinguere l’insieme degli esperimenti e delle riflessioni da cui è sorta la Statica, e quello che ha condotto alla Dinamica. La prima nasce in parte dai geometri greci, e soprattutto da Archimede, e si svolge nei tempi moderni, per opera di Stevin, Varignon, Galileo ecc. fino a Newton. La seconda è scienza intieramente moderna, la cui fondazione si riattacca essenzialmente ai nomi di Galileo, Huyghens e Newton. Come trapasso fra l’una e l’altra ci sembra meriti di essere menzionato il tentativo di costruzione cinematica di Des Cartes.
La storia del progresso delle idee porge insegnamenti istruttivi, mostrandoci la graduale estensione acquistata dai concetti, e facendoci vedere come l’esperimento istituito in casi particolari sia stato l’occasione di riconoscere e di fissare certe associazioni dei dati sensibili, che in parte si possono attribuire ad un anteriore lavoro istintivo di coordinazione delle osservazioni ed esperienze più familiari. Allorchè lo spirito umano giunge ad un tale riconoscimento, prova l’impressione di scoprire, all’infuori della esperienza, qualcosa di generale che altri riceverà come principio evidente.
S’insiste oggi da più parti, e con ragione, su questo punto, che «l’evidenza dei principii non costituisce in nessun caso una prova a priori contro esperienze possibili»; e noi non abbiamo motivo di ritornare sopra una questione sufficientemente discussa nel campo della Geometria.
Ma, a parer nostro, si procede in questo senso tropp’oltre, quando si viene a deprezzare l’evidenza intuitiva, mettendo in luce gli errori a cui essa ha condotto, senza tener conto sufficiente che questi hanno potuto essere corretti mercè una più giusta interpretazione. A questo titolo si avrebbe ugual motivo di deprezzare anche l’esperimento diretto, poichè esso non ci assicura dai pericoli di una interpretazione erronea.
Or dunque mentre ci appare non dubbio che l’evidenza intuitiva debba cedere in un eventuale conflitto di fronte ai responsi criticamente valutati dell’esperimento, ci piace rilevare che in fatto tali conflitti non si sono chiusi mai con una vera condanna della intuizione, ma hanno costretto questa ad abbracciare un campo più largo di dati sensibili, eliminando così l’apparente contraddizione.
Queste riflessioni si adattano bene al caso delle rappresentazioni meccaniche.
I deprezzatori dell’intuizione insistono sulla circostanza che certi principii da noi tenuti come evidenti, contraddicono direttamente alle vedute dei nostri più antichi predecessori. Nessun argomento sembra più proprio di questo a stabilire irrefutabilmente che l’evidenza non ha alcun rapporto con uno sviluppo psicologico secondo leggi determinate, ma poggia soltanto sopra un fondamento storico; a meno che non si volesse ammettere un mutamento dello spirito umano, ipotesi su cui non vale la pena di fermarsi.
Un esempio convincente, nel senso anzidetto, sembra esser porto dal principio d’inerzia, di cui consideriamo qui soltanto la parte geometrica cioè «il movimento rettilineo di un punto materiale, su cui non agiscano forze». Se, come oggi si pretende, questo principio partecipa, in un senso che risulterà poi precisato, alla evidenza delle simmetrie geometriche, in qual modo i Greci lo avrebbero misconosciuto? in qual modo poterono essi pensare che i movimenti naturali sieno circolari?
Ebbene, la contraddizione è da interpretarsi nel senso che la rappresentazione nostra e quella dei Greci non si riferiscono al medesimo «spazio meccanico». Nella serie delle associazioni ed astrazioni successive, per cui si è formato, come vedemmo, il concetto geometrico dello «spazio», è occorso di eliminare dai varii «spazii fisiologici», le dissimmetrie relative all’osservatore. Ora il punto di vista generale si è guadagnato nella Geometria, attraverso le rappresentazioni ottiche, astraendo dalla dissimmetria sistematica che la gravità introduce nei dati tattili-muscolari. Ma nello sviluppo integrativo della rappresentazione spaziale, dove si tien conto dell’«aspetto del movimento» sulla superficie terrestre, si introduce un’altra dissimmetria sistematica attinente alla rotazione della terra, di guisa che il primo prodotto dell’associazione ed astrazione degli «spazii fisiologici meccanici» è una rappresentazione geocentrica. Per superare questa tappa, e giungere al grado astratto corrispondente a quello della Geometria, occorse emanciparsi dal punto di vista geocentrico nella considerazione dell’universo, ed ognun sa come a ciò sieno stati condotti i fondatori della Dinamica, poichè i progressi dell’Astronomia venivano appunto a convalidare il sistema di Copernico.
Non è inutile, pel nostro scopo, osservare che nella rappresentazione geocentrica l’ipotesi del movimento circolare, accolta dai Greci, risponde ad una veduta semplificata dei fatti astronomici, comunque si sia cercato di convalidarla colla pretesa nobiltà del cerchio fra tutte le linee!
Per chi riconosca l’origine sperimentale delle conoscenze intuitive, può sembrare assurdo di dare a queste, nell’ordinamento della Scienza, un posto in qualche modo privilegiato; la fiducia che in esse riponiamo, comunque possa venire spiegata psicologicamente, costituirà un argomento di diffidenza nel confronto colle esperienze volontariamente proseguite e coscientemente criticate. Ma le cose appariranno in un aspetto diverso se si rifletta che queste esperienze e questa critica, almeno in un primo periodo di sviluppo, riescono facilmente incomplete ed unilaterali, laddove l’elaborazione incosciente dei dati sensibili rappresenta una più grande molteplicità di confronti ripetuti secondo diversi rapporti; perciò la conoscenza intuitiva ha un valore probabile superiore a quello della conoscenza sperimentale, purchè l’una e l’altra si riferiscano al medesimo ordine di relazioni; è invece nella delimitazione del campo di applicabilità, e nell’allargamento progressivo di questo, che l’esperienza voluta vince l’intuizione.
Perciò, senza pretendere di ridurre ogni conoscenza scientifica a rivestire un carattere intuitivo, è vivamente da desiderare che gli acquisti sperimentali promuovano uno sviluppo adeguato della rappresentazione intuitiva, per la quale i fatti nuovi si riattacchino alla gran massa delle conoscenze istintive, più antiche, mediante concetti maggiormente estesi; il riattacco costituisce una garanzia che non vi è contraddizione logica fra le varie parti del nostro sapere, poichè ne sarebbe stato impedito il proseguimento di certe associazioni ed astrazioni, effettivamente compiutesi.
Queste riflessioni ci conducono a riconoscere che non è fuor di luogo il tentativo, più volte rinnovatosi nella storia della Meccanica, di porre il suo fondamento su principii evidenti.
Si ebbe torto soltanto a sforzare codesta evidenza, sia interpretandola come necessità a priori sulla base di argomenti metafisici, sia estendendola al di là del suo proprio campo.
Il tentativo cui si è accennato conduce soprattutto al resultato di distinguere una prima categoria di principii, i quali si presentano come il presupposto fondamentale di una rappresentazione astratta dei dati meccanici, dove questi vengono associati subordinatamente ai concetti di spazio e di tempo, e da ciò appunto traggono la loro evidenza.
Ma questi postulati evidenti, che costituiscono le premesse della Statica e della Cinematica, non bastano a fondare la Dinamica; occorre aggiungervi delle ipotesi suggerite direttamente dall’esperienza e soltanto in parte connesse a talune rappresentazioni intuitive, le quali insomma non hanno più nulla di evidente. Qui soprattutto ciò che vi è d’arbitrario nella nostra costruzione scientifica, si spiega collo sviluppo storico; all’opposto una interpretazione psicologica della storia non consente di ammettere egualmente una determinazione indifferente dei primi principii, comunque essi si sieno rivelati in modo parziale e successivo nello studio di problemi particolari.
§ 10. Concetti fondamentali.
Lo sviluppo della Meccanica pone in luce, oltre ai concetti di spazio e di tempo, i concetti fondamentali di: punto materiale, forza, movimento, massa e legami.
I concetti nominati si presentano generalmente connessi a certe rappresentazioni, e quando si sia eliminato l’elemento subiettivo, resta in essi un insieme di rapporti, che si presentano come supposizioni implicite. I principii meccanici, propriamente detti, pongono fra i concetti stessi delle relazioni che costituiscono le ipotesi esplicite della Meccanica.
Codeste relazioni permettono di definire formalmente qualcuno dei suddetti concetti per mezzo dei rimanenti. Si ha così una riduzione che viene proseguita da taluni tanto innanzi da condurre ad una interpretazione nominalistica della Meccanica.
§ 11. Nominalismo matematico.
La tendenza al nominalismo, che investe oggi tutti i dominii della Fisica teorica, merita qualche speciale considerazione.
Codesta tendenza costituisce in un certo senso il pericolo correlativo ai vantaggi di un’applicazione sempre più estesa delle Matematiche, ed ha come causa determinante particolare una illeggittima estensione dei criteri formali della critica, che sembra generare un falso concetto del rigore scientifico.
Il rigore fisico chiede che le conoscenze vengano appoggiate al massimo numero di fatti, controllate colla massima varietà di prove, e che le relazioni enunciate sieno sempre accompagnate da uno specchio di dati sperimentali, onde desumere il grado di approssimazione secondo cui esse possono tenersi valide.
Una rappresentazione matematica della realtà fisica atta a soddisfare a tali requisiti, sarebbe fornita da una analisi di approssimazione come quella che ha formato oggetto delle interessanti meditazioni del Robin. Ma generalmente riesce utile sotto diversi aspetti, e talora può dirsi necessario, di procedere più speditamente ad un’astrazione preliminare di un certo gruppo di dati empirici, enunciando come postulati le relazioni che nella loro forma semplice ed esatta sono supposte rappresentare la parte più notevole dei rapporti reali, e rigettando quindi sull’intiera teoria gli errori provenienti dalle piccole differenze trascurate.
Un corpo di dottrina così costituito può assorgere ad una forma concettuale ben definita, per modo che lo sviluppo deduttivo si compia in esso rigorosamente, senza alterare il contenuto delle ipotesi. Ma per contro, nei riguardi della realtà, la teoria sviluppata rimane sempre una rappresentazione approssimata; i postulati appariscono affetti da un errore, che soltanto nuove osservazioni ed esperienze, modificanti le ipotesi adottate, potranno progressivamente correggere.
Ora, in ogni momento dello sviluppo scientifico, il rigore chiede che codesti errori sieno possibilmente apprezzati fissando ad essi un qualche limite, ma soprattutto che essi non vengano nascosti, che la coerenza formale della teoria non faccia illusione sul carattere approssimato delle conoscenze contenutevi.
È mai possibile che un progresso logico nella critica delle definizioni e dei postulati valga a rimuovere o a diminuire siffatti errori?
La domanda stessa deve apparire assurda a chi abbia compreso il significato della astrazione compiuta. Essa ci ha permesso di spezzare il problema in due parti: l’una ipoteticamente semplice, l’altra illimitatamente complicata, ma i cui elementi esercitano sulla previsione effettiva una più piccola influenza. Resta pertanto al teorico piena libertà di rimaneggiare le premesse ipotetiche ai suoi scopi di trattazione matematica, ma deve essere lungi da lui la pretesa di conferire con ciò alla teoria un senso fisico più rigoroso.
Egli può tuttavia ridurre il numero dei postulati enuncianti codeste premesse; e la cosa è molto facile. Quei postulati si presentano infatti sotto la forma generale di equazioni fra quantità, che s’immaginano definite mediante certi processi di misura; basterà dunque assumere un’equazione di tal genere come definizione di una delle quantità suddette in luogo della misura corrispondente. Così al posto di una serie di esperienze, necessariamente inesatte, si pone un atto libero di convenzione che ha un senso logico preciso. Ecco dunque eliminato dalla teoria un elemento di errore perchè è eliminato il fatto a cui l’errore stesso si riferiva.
Un simile procedimento ammette, in qualche caso, giustificazioni, in vista di scopi particolari. Quando, p. es., si tratti di riconoscere i cambiamenti da introdurre in un sistema d’ipotesi prese in una certa gerarchia, dove una data forma, che si ritiene capace di ricevere un contenuto più preciso, viene assunta come premessa fondamentale; si ha allora un procedimento di discriminazione dei fatti supposti per cui si costruisce una teoria tanto meno espressiva quanto più plastica.
Ma, pur restringendone il senso, una teoria perfetta non potrà mai essere raggiunta!
Si provi infatti a trasformare tutti i postulati in semplici definizioni. Ecco eliminato ogni errore ma anche ogni conoscenza effettiva; il rigore assoluto della dottrina, così concepito come forma pura, si riduce ad un non senso!
Da una siffatta trasformazione non è a credere neppure che il matematico teorico possa ricavare qualche vantaggio.
Per lui c’erano soltanto delle equazioni da trattare analiticamente, secondo le regole precise dell’Analisi. Soltanto egli sapeva che codeste equazioni rappresentano ipotesi imperfettamente verificate, ed è riuscito a nascondere ai propri occhi codesta imperfezione. La sua libertà di sviluppo matematico resta, come prima, teoricamente incondizionata; ma egli si è privato di una veduta dei motivi capaci di dirigere la sua ricerca ad uno scopo fisico.
I danni di un tal modo di procedere appariscono più gravi quando si guardi al confronto fra la teoria e l’esperienza, nelle verifiche e nelle applicazioni concrete. In difetto di una critica preventiva di ciò che la teoria stessa vuole effettivamente significare, si corre il rischio di adottare una misura del rigore pratico in diretto contrasto coi criteri strettamente paurosi del rigore teorico: cioè di prendere le quantità che comparivano nei calcoli da una deteminazione sperimentale qualsiasi, senza confronto alcuno; ed infine di interpretare la costruzione teorica in tanti sensi diversi, non distinti nettamente fra loro, in vista dei fatti che al momento occorre di giustificare.
È proprio questo il resultato a cui vogliono giungere i ricercatori di un assoluto rigore?
No certo; ma essi sembrano non accorgersi che questa sarebbe la conseguenza immancabile del nominalismo, a cui conduce una visione incompiuta della Scienza ed una pretesa trascendentale.
Coerentemente ai criterii che emergono dalla critica precedente noi ci proponiamo ora di analizzare i concetti fondamentali della Meccanica, mettendo in luce le varie ipotesi implicite ed esplicite in essi contenute, ed in ispecie le prime che compariscono spesso nell’acquisto psicologico di codesti concetti come condizioni per l’associazione dei dati empirici mediante rappresentazioni astratte.
§ 12. Punto materiale.
Quantunque i primi problemi di Statica effettivamente trattati concernano dei sistemi relativamente complicati, come la leva, la puleggia, il piano inclinato, se si guardano gli sviluppi ulteriori appare conveniente di cominciare lo studio della Meccanica col prendere come caso elementare quello dei «punti materiali».
Tale finzione è pienamente giustificata in conformità di quei criterii semplificativi della indagine scientifica, che P. Volkmann caratterizza come principii d’isolamento e di superposizione delle circostanze fenomeniche. Importa però di arrestarsi un momento a dilucidare il concetto del «punto materiale».
Ma prima di ciò avvertiremo che codesta finzione potrebbe essere eliminata. Infatti G. A. Maggi nei suoi «Principii della teoria matematica del movimento dei corpi»5 ha mostrato come si possa fondare tutta la Meccanica dei corpi estesi senza riguardare il corpo come un sistema di punti.
Questo resultato, che ha un interesse filosofico e matematico, deve essere segnalato, se pure sembri a noi, sotto varii aspetti, opportuno di conservare un posto alla rappresentazione del punto materiale, soprattutto per i motivi seguenti:
Ma le difficoltà inerenti al concetto di «punto materiale» non possono essere passate sotto silenzio.
Sotto quali condizioni è lecito trattare un corpo come un punto materiale?
La prima condizione, che si ha di solito in vista, è che le sue dimensioni sieno assai piccole relativamente a quelle di cui si considerano i rapporti. A questo titolo, un granello di sabbia nello studio del movimento sopra la terra, e altrettanto bene un astro nei movimenti celesti, possono venire riguardati come punti.
Ma alla suddetta condizione se ne aggiunge un’altra, cioè che nei fenomeni considerati sia indifferente la posizione del corpo, preso come mobile intorno ad uno dei suoi punti. A questo titolo, p. es., una piccola sorgente di luce polarizzata, assimilabile ad un elemento di superficie, non può venire riguardata come un punto nei fenomeni ottici.
Vedremo più tardi l’importanza della accennata considerazione per la critica di taluni concetti fondamentali.
Procediamo a trattare successivamente della Statica e della Dinamica del punto, e poi dei sistemi.
§ 13. Forza.
«La forza è la causa oppure l’effetto del movimento».
Coloro che conferiscono a questo giudizio il valore di una definizione della forza, sono responsabili della perturbazione di idee per cui si ritiene da molti che la forza sia un concetto metafisico, nel senso peggiore della parola equivalente a «non senso».
Infatti l’affermare che qualcosa è causa di qualcos’altro, non può avere significato alcuno, se non si tratti di riconoscere il legame di successione invariabile fra due fenomeni, già definiti come tali per mezzo di sensazioni.
L’esistenza di una forza è un fatto fisico, che viene definito da sensazioni muscolari di sforzo o di pressione. Sotto questo punto di vista la forza non ha nulla di misterioso o di metafisico, più che il moto o un altro fenomeno qualsiasi, la cui definizione reale si riduce sempre, in ultima analisi, ad un gruppo di sensazioni producentisi in certe condizioni volontariamente disposte.
Coloro che vogliono bandire dalla Meccanica l’idea della forza, se, sotto alcuni aspetti, possono giustificare la loro veduta collo scopo di una riduzione dei dati primitivi della scienza del movimento, in verun modo hanno diritto di pretendere che la idea anzidetta sia meno intelligibile di alcun’altra idea geometrica e cinematica, o che la spiegazione di essa involga difficoltà di un ordine superiore. Poichè un concetto fisico sempre si spiega ugualmente coll’indicarne il contenuto sensibile.
Tuttavia i tentativi di eliminare il concetto della forza, palesano la tendenza a sostituire la spiegazione muscolare dei fenomeni con una spiegazione ottica, sia in un senso generale attraverso l’ipotesi di enti fittizii (cfr. cap. VI), sia nel campo circoscritto della Meccanica astronomica, dove i fenomeni si presentano direttamente alla vista.
In questo campo veramente i dati muscolari appariscono come una supposizione, che taluno deride rilevando il carattere antropomorfico della forza attrattiva newtoniana: forse che l’attrazione fra terra e luna o fra terra e sole suppone le sensazioni muscolari di questi corpi?
Ma, se si lascia da parte lo scherzo, non si troverà nulla di ridicolo nella supposizione che un uomo posto sulla terra possa provare sensazioni muscolari corrispondenti all’attrazione lunare o solare; la prima si rivela a noi nelle maree, e la seconda può pure essere messa in evidenza, come modificatrice della gravità, mediante delicate esperienze. Si ha infatti una deviazione del filo a piombo che sale circa a 2’’ nelle 24 ore, e che è stata recentemente misurata da S. Newcomb e Von Sterneck, come dovuta all’attrazione solare, in conformità della previsione teorica. Si noti che anche la supposizione di sensazioni muscolari per riguardo ad un uomo portato fuori della terra, conserva un significato, se pure divenga praticamente non verificabile.
Ad ogni modo una Dinamica astronomica ristretta ai dati visivi può essere edificata bandendo la supposizione della forza. Basterà considerare (col Mach) il principio newtoniano d’azione e reazione, come un rapporto fra le accelerazioni dei punti materiali in moto, ove entrano certi coefficienti (masse).
Ma se può riuscire interessante di ottenere così una descrizione cinematica dei movimenti dei corpi celesti, indipendente dalla Statica, non si deve dimenticare che questa ha un valore assai ristretto, e che in ispecie porge una teoria della gravitazione nella quale la caduta dei corpi sulla terra viene disgiunta dal peso, e dove, p. es., le esperienze verificatrici di Cawendisch, non saprebbero trovar posto.
Che dire di una veduta la quale riesce a mutilare in tal modo le nostre conoscenze?
Ora veramente si deve avvertire che la considerazione del Mach, sopra riferita, non tende a sostituire in modo sistematico la forza con una definizione nominale, riguardandola cioè come il prodotto di una massa per una accelerazione. Ma in questo senso procede piuttosto la costruzione della Meccanica di Kirchhoff. Ed ecco che la forza così introdotta, p. es., nella teoria dell’elasticità, non esprime più il contenuto sensibile di ciò che ci rappresentiamo in questo campo come «tensione».
Mentre nei riguardi dell’Astronomia la trattazione ottica della Meccanica poteva essere sotto un certo aspetto giustificata, l’estensione di questo indirizzo in una Meccanica generale non ha più alcun fondamento, se si eliminino i pregiudizii sulla «forza», e quei motivi che spiegano ma non rendono affatto accettabile il nominalismo matematico (cfr. § 11).
Le considerazioni svolte innanzi c’inducono a prendere la forza come concetto primitivo della Meccanica.
Il senso si rende più preciso mediante l’uso di appropriati istrumenti, e si estende mediante la supposizione che si collega al concetto di un campo di forze.
Un campo di forze si prende come dato (in rapporto a dati corpi e fenomeni che lo definiscono) allorchè si ammette la possibilità di riconoscere una forza agente sopra un certo punto materiale che venga trasportato nelle varie posizioni del campo.
Ora occorre rendere determinato il concetto della forza, analizzando i dati delle sensazioni che vi si connettono.
§ 14. Dati geometrici della forza.
Le sensazioni inerenti ad una forza determinano:
Per ciò occorre anzitutto acquistare la nozione di «forze uguali applicate a punti diversi e diversamente dirette».
Questa nozione ci viene primamente fornita, se pure in modo poco preciso, dal confronto delle sensazioni di sforzo e di pressione, che possiamo provare in posizioni diverse. Il giudizio di eguaglianza tra due forze, che esso permette, si rende quindi più preciso mercè l’associazione delle sensazioni suddette a dati fisici, come, p. es., al tendersi o al piegarsi di una molla o di un filo elastico ecc., attesochè tali tensioni e pressioni connesse a certi corpi mobili, soddisfino sensibilmente alle due proprietà fondamentali:
Il procedimento da cui sorge così una rappresentazione delle «forze uguali» appare del resto parallelo a quello per cui s’introduce in Geometria la nozione di «figure uguali» mercè il moto dei corpi solidi, il quale soddisfa a certe condizioni d’invarianza rispetto all’organo tattile di un osservatore.
Ora deve essere notata la circostanza che una forza, comunque data sopra la terra, può venire sostituita da una forza di tensione uguale, esercitata da un peso per mezzo di un filo avvolto ad una puleggia; questa sostituzione offre il vantaggio di fissare le forze in modo facile e determinato, e di porgere una semplice immagine concreta degli elementi attinenti alla forza.
Nel fatto le forze generate per mezzo di pesi sono le prime cui si riferirono i fondatori della Statica; ma, quando i bisogni progrediti della tecnica e gli sviluppi della Scienza attrassero l’attenzione su altre forze, i principii posti ebbero un’estensione naturale immediata.
All’immagine concreta anzidetta si può riattaccare l’acquisto della misura di una forza, e quindi la determinazione del suo elemento intensivo per mezzo di un numero o di un segmento.
Basta infatti considerare le tensioni esercitate per mezzo di un filo a cui si facciano sopportare 1, 2, 3.... pesi uguali, notando che comunque si proceda ad una siffatta valutazione delle forze (per mezzo di materie pesanti diverse ecc.) si trova sempre che «i multipli di forze uguali sono uguali».
Le esperienze che porgono così la misura (statica) di una forza costituiscono un caso particolare di esperienze più generali, ripetibili idealmente anche fuori della terra.
«Più forze agenti nella medesima direzione sopra un punto materiale possono sostituirsi a tutti gli effetti (di tensione, pressione ecc.) con una forza unica che si dice la loro somma». E se si vuole che la somma statica di più forze ugualmente dirette venga rappresentata dalla somma geometrica di queste, ne risulta che «ad ogni forza corrisponde (a meno di un fattore che dipende dall’unità di misura) un segmento orientato, ben definito in grandezza oltrechè in posizione».
§ 15. Principii di simmetria statica.
Una progressiva idealizzazione porge già, come abbiam visto, una semplice immagine geometrica della forza agente sopra un punto materiale. Ora a questa immagine si riattaccano i primi principii della Statica, con una tale evidenza che si dura fatica a riconoscere in essi qualcosa di più di una conoscenza geometrica.
Si tratta di certe simmetrie delle forze in equilibrio, che fino nella trattazione dei primi problemi di Statica si trovano adoperate in modo implicito, come nozioni già possedute:
È opportuno osservare che questi principii rispondono ad esperienze ovvie e familiari, le quali tuttavia (quanto al secondo) si riferiscono al caso di tensioni per mezzo di fili o di pressioni per mezzo di corpi solidi. Ma se la nostra mente cerca di rendersi conto del fondamento a cui essi si appoggiano, sorge l’idea che, secondo il principio di ragion sufficiente, si deducano dalla simmetria delle figure rappresentative; cioè nel primo caso dalla simmetria rispetto al piano perpendicolare in O alle due forze, nel secondo dalla simmetria dello spazio rispetto al segmento AB e al suo punto medio (indipendenza dalle rotazioni intorno alla retta AB e invertibilità del segmento).
Sarebbe un’illusione lo scorgere qui una dimostrazione geometrica dei suddetti principii statici. Le osservazioni ed esperienze sulle forze e sull’equilibrio, benchè molto prossime a quelle da cui sorge la Geometria, involgono veramente qualcosa di più che non è necessariamente compreso nella rappresentazione acquistata dello spazio fisico; tuttavia il contenuto di questa rappresentazione è estendibile, e le considerazioni precedenti mostrano che può estendersi in guisa da subordinare ad essa i dati statici presi in esame.
In altre parole i principii di simmetria della Statica, esprimono già in parte che «le immagini geometriche (segmenti orientati) sono adeguate alla rappresentazione delle forze, relativamente ai fenomeni fisici dell’equilibrio». Sotto questa forma appare il loro contenuto reale come una condizione di possibilità per quella rappresentazione cui si lega la loro evidenza.
§ 16. Composizione delle forze.
La somma di forze ugualmente dirette non è altro che un caso di «composizione delle forze».
Il principio generale di questa, si lascia separare in due parti, l’una statica e l’altra dinamica:
Questo secondo postulato riconosciuto da D’Alembert nella Dinamica dei sistemi, costituisce già nel caso del punto una supposizione che la critica deve mettere in luce, ma che esce dal dominio proprio della Statica strettamente intesa.
La scoperta del principio di composizione delle forze si è raggiunta storicamente, in modo induttivo, attraverso casi particolari; Stevin ci è arrivato appunto in base alla composizione delle forze perpendicolari, indirettamente conosciuta. Più tardi, cioè in seguito alle costruzioni dinamiche di Galileo e di Newton, Varignon riuscì a stabilire più esplicitamente la composizione delle forze deducendola da quella dei movimenti, e trattando la Statica come un caso particolare della Dinamica.
Per l’una e per l’altra via il resultato fu acquisito nella sua forma concreta (parallelogramma delle forze), e, soltanto dopo la scoperta, si pensò da D. Bernouilli e da Foncenex di dedurre la regola di composizione dal principio astratto dell’esistenza della resultante e dai principii di simmetria. Questo metodo fu perfezionato da D’Alembert e da Poisson, e ripreso ai giorni nostri da Battaglini, Genocchi, Darboux, Siacci, Andrade, in varii sviluppi interessanti.
Il Mach osserva che non si tratta qui di una dimostrazione geometrica. D’accordo con lui su questo punto, non sappiamo invece dividere l’opinione che codesto modo di trattare il problema sia da condannare come un non senso storico e psicologico. Se sta in fatto che la regola concreta di composizione di due forze fu trovata prima, e che essa viene porta da facili esperienze, ci sembra d’altra parte che una nozione implicita dell’esistenza di una resultante deve supporsi come idea direttrice delle ricerche conducenti alla sua determinazione. Infatti un’osservazione elementare ci rivela tutti i giorni che se un punto è tirato da più fili, occorre esercitare sopra di esso una trazione in un senso determinato affinchè si abbia l’equilibrio, esattamente come se il punto fosse tratto, nel senso opposto, da un filo unico. Ora si ha qui un esperimento semplicissimo, che può essere riguardato in un certo senso come qualitativo relativamente alla determinazione quantitativa della resultante, e a cui si è disposti per conseguenza ad attribuire un più forte valore di prova.
Si ammetta, come supposizione fisica, il postulato che «un sistema di forze concorrenti equivale staticamente ad una forza unica ben determinata (resultante)». Per valutare questa forza occorre sapere che:
Questi principii costituiscono altrettante supposizioni fisiche, ma queste si appoggiano, come i principii di simmetria di cui pure qui ricorre l’uso, alla supposizione generale che «le forze sieno adeguatamente rappresentate, in tutti i riguardi statici, dalle loro immagini geometriche». Ed è giusto il fondamento della loro evidenza, la quale implica dunque una più larga coordinazione concettuale dei vari dati sensibili.
Non a torto, secondo noi, l’intelletto si riposa in siffatta evidenza, poichè essa esclude la possibilità di correggere le esperienze verificatrici del principio senza turbare profondamente la visione generale di tutti i rapporti statici, desunta dal confronto di osservazioni ed esperienze conscie ed inconscie.
§ 17. Fondazione della Dinamica.
Lo sviluppo storico della Dinamica da Galileo, a Huyghens a Newton, fa capo essenzialmente a due principii generali: l’equazione del moto di un punto, e il principio dinamico d’azione e reazione.
Cerchiamo di renderci conto in qual modo ed in qual senso codesti principii si sieno determinati nella sistemazione newtoniana, e quali ipotesi implicite si riattacchino ai concetti da essi legati.
L’equazione del moto di un punto materiale, contenuta nelle due prime leggi di Newton, esprime che «le forze sono proporzionali alle masse e alle accelerazioni impresse, ed hanno la stessa direzione di queste». La formula vettoriale è
f = m ω.
Si assegna così una determinazione quantitativa del rapporto causale che le più elementari esperienze fanno conoscere tra forza e moto, e vi compare un coefficiente m che dipende dal punto.
È opportuno rendersi conto delle difficoltà che si sono dovute superare per giungere alla formula anzidetta.
Osserviamo anzitutto che le forze generalmente prodotte coi muscoli, o col piegamento di una molla ecc., ove non siano equilibrate da una resistenza, hanno una durata brevissima e si traducono in un impulso, che si misura direttamente dalla velocità del corpo lanciato.
Quando si tratta invece di una forza continua, p. es. della gravità, la constatazione sensibile di essa come effetto muscolare, si compie in modi diversi per un corpo in moto, a seconda della velocità con cui la nostra mano accompagna (e ritarda) il movimento. Aggiungasi ancora l’influenza dell’attrito nella trazione sopra la terra, per cui la forza traente appare sensibilmente proporzionale alla velocità del moto.
Da tutto ciò emerge che la prima idea, suggerita da un grossolano empirismo, conduce al principio aristotelico delle forze proporzionali alle velocità; soltanto un’analisi penetrante ha potuto condurre alla scoperta che le forze sono in relazione, non colle velocità, ma colle accelerazioni impresse.
Ora come si è fatta la correzione?
Vi è qui un problema storico da investigare più profondamente. Galileo riconobbe la falsità del principio aristotelico? Certo almeno nei suoi studii sulla caduta dei gravi è implicitamente considerata una forza (la gravità) come indipendente dal movimento e si riconosce che essa è proporzionale all’accelerazione.
Ma la questione cui si collega lo sviluppo dello stesso concetto di forza, riesce chiarita ove si richiami il dibattito sopravvenuto fra le scuole di Des Cartes e di Leibniz, «se la velocità (v) o il suo quadrato debba prendersi come misura di una forza agente sopra un punto mobile».
Sappiamo oggi che sussiste la proporzione di Des Cartes se si considerano forze costanti (f) agenti durante un certo tempo (t), e quella di Leibniz se ci si riferisce a forze agenti per un certo cammino (s) del mobile. Le quantità
f t = m v
ed
hanno ricevuto rispettivamente i nomi di «quantità di moto» e «forza viva»; la prima misura l’impulso della forza, la seconda l’energia cinetica (E) acquistata dal mobile o il lavoro compiuto.
Differenziando la prima delle due equazioni soprascritte si ottiene la equazione fondamentale di Newton
differenziando la seconda si avrebbe un’altra equazione
che porge ugualmente la misura dinamica della forza, e può prendersi come punto di partenza in una Dinamica energetica.
L’equazione fondamentale del moto di un punto materiale
f = m ω,
riassume una serie di fatti che le conferiscono il senso fisico proprio.
Questo senso deve essere determinato con una conveniente interpretazione, la quale esige di:
Galileo, nello studio della gravità, aveva preso come sistema di riferimento «la terra», come misura della massa «il peso». Newton, passando nel campo dell’Astronomia, dovette modificare tali concetti, e cercò di conferir loro una base assolutamente generale, assumendo: come sistema di riferimento uno spazio in quiete assoluta, come massa un numero appartenente al corpo preso isolatamente da tutti gli altri (prodotto della massa per la densità). Ma alla deficiente definizione di questo numero supplì col portare dalla Statica nella Dinamica il principio d’azione e reazione, assunto dunque come un «rapporto fra le accelerazioni» dei punti in movimento.
Una veduta trascendente dominò lo spirito del sistematore della Dinamica e lo condusse ad enunciare definizioni e principii in tal forma che, strettamente presi, riescono in parte privi di significato.
Ma una nuova sistemazione dei principii emerge dalla stessa opera newtoniana, se con opportuna critica si cerchi di trarre fuori le premesse supposte dagli sviluppi positivi della dottrina, generalmente accolti come acquisto non contestato fino ai nostri giorni.
Una critica siffatta ci proponiamo appunto di svolgere nei seguenti paragrafi, discutendo successivamente:
Trarremo infine da questo esame alcune conclusioni generali intorno ai principii della Dinamica.
§ 18. Movimento.
Il concetto geometrico del movimento è affatto relativo.
Essendo dato un insieme di corpi, si dice che essi si muovono, gli uni rispetto agli altri, quando le loro mutue distanze variano col tempo. Una tale definizione, perfettamente simmetrica rispetto ai varii corpi, non ci permette in alcun modo di distinguere quale fra i corpi considerati veramente si muova, e quale resti fermo; anzi le parole sottolineate, se non ci si riferisca a qualcos’altro, restano prive di significato.
La scelta di un corpo, di forma invariabile, che voglia riguardarsi come fisso, è dunque la scelta di un sistema di riferimento del moto, che, sotto l’aspetto geometrico o cinematico, è affatto convenzionale ed arbitrario. La sensazione del movimento di un oggetto qualunque corrisponde dapprima a una scelta personale di questo sistema di riferimento; i cambiamenti di posizione degli oggetti vengono riferiti a noi stessi. Nè si andrebbe oltre a questa concezione fisiologica del moto, se l’aspetto dei fenomeni non variasse in corrispondenza a quella sensazione che chiamiamo il movimento di noi stessi.
Per associazione e astrazione delle diverse rappresentazioni fisiologiche del moto, si è indotti alla rappresentazione fisica in cui si assume la terra come sistema di riferimento; e questa scelta, in quanto si studino i fenomeni sulla terra, s’impone a tutti gli spiriti.
Quanto tempo ci volle perchè l’uomo venisse a riconoscerne la relatività nel campo dell’Astronomia!
E che rude lotta contro una credenza radicata nei cervelli, che in mancanza di ragioni si pretese di sostenere colla violenza!
Ma infine lo studio più profondo dei movimenti interni del sistema solare ha imposto a tutti la scelta di un riferimento più comodo, il sole, che in luogo della terra sia preso come fisso.
Eppure il sole stesso si muove, oltrechè di una rotazione intorno a sè stesso, anche di una traslazione rispetto all’insieme delle stelle lontane.
Quale fra queste si dovrà ritenere come fissa, dal momento che esse mutano di posizione le une rispetto alle altre, come si desume dal confronto delle osservazioni astronomiche più antiche, e dai recenti studii spettroscopici in base al principio di Döppler?
In mancanza di un sistema di corpi, che ragionevolmente potesse prendersi come fisso a preferenza di altri, si è voluto dare al moto assoluto un significato prescindente dai corpi; concepito lo spazio come un oggetto invariabile di riferimento, si è ritenuto il moto una variazione di posizione dei corpi rispetto allo spazio. Tale è la concezione trascendentale accolta da Newton.
Tuttavia è per noi inutile di confutarla, dappoichè abbiam visto nel cap. IV non esservi alcun oggetto rispondente alla parola «spazio».
D’altronde, dati i progressi del pensiero critico, nessun filosofo moderno potrebbe attribuire un significato al moto assoluto, definito nel modo detto innanzi.
Ma questa definizione ricompare sotto una nuova forma quando si postula (p. es. dal Wolkmann) un etere riempiente l’universo, rispetto a cui il moto venga considerato. È ben inteso che bisogna ritenere le parti di questo etere invariabili di posizione le une rispetto alle altre.
Il postulato dell’etere può in tal modo condurre ad attribuire un senso positivo al moto assoluto?
La risposta involge la discussione di qualche questione di fatto.
È evidente che la parola «etere» surrogata semplicemente allo «spazio vuoto» non dice nulla di più. Ma diverso è il caso se si ammette p. es. un’azione ritardatrice di attrito esercitata dall’etere sulla materia in moto, postulando in sostanza, in luogo della legge d’inerzia, la tendenza dei corpi ad uno stato limite di quiete relativa; allora questo stato limite viene preso come sistema di riferimento del moto cui si vuol attribuire un senso assoluto.
Però all’ipotesi anzidetta manca una base di fatto.
Più plausibile sembra considerare il «movimento relativo all’etere» come «movimento relativo alla luce o ad altri fenomeni elettro-magnetici», riattaccandosi ad un ordine di fatti cui appartiene l’aberrazione astronomica.
Ci riserviamo a ritornare nel cap. VI sulle questioni che qui prendono origine; ma diciamo fin d’ora che nell’aberrazione suddetta e nei fenomeni analoghi, le esperienze non mettono in luce nulla di più che il movimento dei corpi, gli uni rispetto agli altri.
Ritorniamo dunque al movimento relativo dei corpi.
Non potendo trovare qualcosa di fisso nel confronto di essi, individualmente presi, si affaccia naturalmente l’idea di derivare qualcosa di fisso dal loro insieme. Così p. es. nel sistema planetario si presenta non arbitraria la scelta del baricentro, come punto fisso di riferimento.
Ma presumibilmente (ammessa l’infinità dell’universo astronomico6) non esiste un baricentro del sistema di tutti i corpi celesti, cioè un punto limite dei baricentri dei diversi sistemi parziali di corpi, indipendente dall’ordine in cui i suddetti corpi vengano presi.
Tuttavia se l’universo astronomico non ci porge dei punti che possano ragionevolmente ritenersi come fissi, una semplice osservazione ci conduce a determinare delle direzioni fisse o quasi fisse relativamente all’insieme dei corpi.
L’osservazione a cui alludiamo è la seguente:
Mentre il processo dei mezzi ottici ci fa scoprire stelle a distanze sempre più grandi, le loro velocità relative, per quanto si può arguire dalle variazioni angolari dei raggi visuali e dal principio di Döppler, non superano certi limiti, comparativamente piccoli.
Ora se a questa osservazione si dà il valore di un postulato generale, ne consegue che: le rette congiungenti i punti materiali lontani (stelle) tendono col crescere delle distanze a direzioni che restano invariabili le une rispetto alle altre.
Che codeste direzioni limiti sieno da ritenere come astronomicamente fisse, apparirà naturale poichè esse rappresentano un ideale sistema di riferimento relativo all’insieme di tutti i corpi celesti. Per essere più esatti, poichè in realtà codesto limite è irraggiungibile, diremo che l’universo astronomico, ove si accolga il postulato anzidetto, ci porge un sistema di direzioni tanto più fisse quanto più lontano si riesce a spingere l’osservazione.
Il valore pratico della determinazione anzidetta si rileva dal fatto che i raggi visuali condotti dalla terra a tutte le stelle propriamente dette, conducono già a direzioni i cui angoli non variano sensibilmente che dopo anni, e porgono quindi un riferimento sufficiente per i bisogni ordinarii; una correzione progressiva si può introdurre, ove occorra, mediante un confronto delle variazioni angolari, cioè scartando le stelle più vicine che variano più rapidamente delle altre la loro orientazione.
È molto notevole che le leggi della Dinamica newtoniana conducano d’altra parte a ritrovare le direzioni fisse sopra definite. Ed un tale acquisto compensa ampiamente l’infelice espressione di Newton, che ha ammesso il concetto del moto assoluto come dato a priori.
Come abbiamo detto l’equazione del moto di un punto materiale fu considerata dapprima implicitamente da Galileo, nel caso della gravità, e come relativa alla terra; ma un confronto più largo dei dati astronomici porta a correggere codesta legge, mostrando che essa ha un valore più preciso ove sia riferita alle direzioni delle stelle. Ora se oggi si vuol dare un senso positivo alla supposizione che Newton accoglie implicitamente, col moto assoluto, sembra che si debba enunciare il seguente Postulato:
Le leggi dinamiche si verificano tanto più precisamente quando si riferiscano ad un sistema di assi le cui direzioni si accostino di più alle direzioni astronomicamente fisse.
Mercè le leggi dinamiche si può dare alle «direzioni fisse» un altro senso che non dipende più direttamente dall’Astronomia, ma che è pur sempre relativo. Ciò può esser fatto sia riferendosi ai moto di un punto materiale, sia al moto di un corpo solido, nel qual caso la Dinamica permette di determinare certi assi e piani invariabili, cioè assi e piani che formano angoli costanti con quelli determinati analogamente per un altro corpo mobile.
Importa di riconoscere più precisamente che in tutte queste determinazioni si trovano soltanto direzioni o giaciture di piani invariabili e nulla di più.
A tal fine prendiamo come punto di partenza la legge newtoniana del moto, e distinguiamo i sistemi di riferimento in due categorie:
Uno qualunque dei sistemi della prima categoria (α) può essere designato convenzionalmente come fisso, e si può parlare di movimento (se si preferisce anche di movimento assoluto) rispetto ad α. Ma si tratta di vedere che cosa ci sia d’arbitrario in tale convenzione, cioè in qual modo i sistemi della prima categoria anzidetta possano muoversi l’uno relativamente all’altro.
A tal fine, tenuta ferma la nostra convenzione, supponiamo di trovarci entro una gabbia chiusa P, la quale si muova in un modo qualunque negli spazii celesti; si domanda se e come esperienze opportune sul moto dei corpi entro P, possano darci delle indicazioni intorno al moto della gabbia stessa rispetto ad α. Imaginiamo di portare con noi istrumenti, coi quali possiamo esplorare il campo interno a P, determinare direttamente ed indirettamente le forze agenti sopra un punto materiale che si muova in esso ecc.
Si prendono generalmente le forze determinate colle esplorazioni anzidette entro P come forze assolute, cioè indipendenti dal moto di P, ed allora un’analisi matematica della questione conduce al resultato che:
Il movimento del sistema P rispetto ad α può essere determinato, con esperienze interne a P, a meno di una traslazione uniforme.
Cioè: I sistemi di riferimento della prima categoria, rispetto a cui vengono soddisfatte le leggi dinamiche, sono in quiete relativa, o si muovono l’uno rispetto all’altro di una traslazione uniforme.
Questa conclusione è erronea perchè tutte le possibili esperienze che mettono in luce delle forze entro P hanno un significato relativo in parte al moto di P.
È opportuno di spiegare più largamente il valore della nostra critica.
Un qualunque modo di constatazione sensibile di una forza ci fa conoscere o la forza relativa al sistema cui appartiene l’istrumento preso come fisso, o le differenze fra le forze che agiscono nei diversi punti del campo accessibile. Una forza che agisca ugualmente, con una stessa intensità e direzione, su tutti i punti di un campo è inapprezzabile, e relativamente a questo, ove si faccia astrazione dai corpi circostanti, si può riguardare come inesistente.
È vero che noi constatiamo, trovandoci su di essa, l’urto di una locomotiva, ma ciò avviene perchè la nuova forza opponendosi al moto agisce soltanto sul materiale che ci trasporta, non sulla nostra persona.
Parimente noi constatiamo la gravità agente ugualmente sui corpi posti sopra la terra; ma questa constatazione riesce possibile grazie alla resistenza della terra stessa che essendo sostenuta dagli strati inferiori è impedita di cadere, e si trova quindi come non soggetta alla medesima forza.
Se invece noi ci trovassimo chiusi in una gabbia cadente al suolo, proveremmo la sensazione della mancanza della gravità a cui siamo abituati; ma la nostra situazione durante la caduta, sarebbe affatto simile a quella di chi si trovasse analogamente in una gabbia posta fuori della sfera d’attrazione terrestre; soltanto l’urto colla terra risolverebbe ad un tratto, in un modo terribile il dubbio dell’ipotetico viaggiatore celeste che tentasse indagare il moto della sua prigione!
Dunque, restando entro una gabbia P, le esperienze interne non ci dicono nulla intorno alle traslazioni di P rispetto ad un sistema α della prima categoria, preso come fisso.
La cosa è diversa per le rotazioni di P.
Infatti se P ruota intorno ad un asse, potremo riconoscere entro il campo, contrariamente al postulato fondamentale della Dinamica newtoniana che esamineremo nel § 22, delle apparenti forze non posizionali che agiscono sui corpi in moto, le quali corrispondono alle forze centrifughe composte del teorema di Coriolis. In un modo praticamente più semplice, ma in sostanza equivalente potremo riconoscere il moto rotatorio di P con esperienze sul moto dei corpi solidi, giacchè constateremo p. es. che gli assi permanenti di diversi giroscopii mutano tutti ugualmente di direzione facendo fra loro angoli costanti e che occorre una forza per deviarli. Pertanto la conclusione positiva della nostra analisi è che:
La nozione della forza relativa ad un sistema di riferimento, permette di determinare, con esperienze interne interpretate conformemente ai principii della Dinamica, il movimento del sistema rispetto ad α soltanto a meno di una traslazione qualunque.
In altre parole: i sistemi della prima categoria, rispetto a cui valgono le leggi dinamiche non sono necessariamente in quiete relativa, ma possono muoversi, l’uno rispetto all’altro, di una traslazione qualunque (uniforme o non uniforme).
Una illustrazione delle cose dette vien porta dalle esperienze per le quali si è dimostrato sulla terra che questa gira intorno a se stessa; cioè dal pendolo di Foucault, e dalla deviazione orientale dei gravi cadenti, prevista in base al teorema di Coriolis, e constatata da Tadini (1796) e più perfettamente da Reich (1831).
Il fatto contenuto nell’affermazione «la terra gira», a parte il confronto colle stelle, è dunque questo: nei fenomeni di movimento sopra la terra, analizzati con sufficiente esattezza, si riscontrano le stesse circostanze caratteristiche che si mostrano ad una ispezione grossolana nel movimento sopra un corpo ruotante, p. es. sopra un vascello che descrive un cerchio ecc.
L’affermazione che la terra gira intorno al sole ha teoricamente un significato analogo, ma non sembra che le esperienze suindicate possano farsi in modo tanto preciso da mettere in luce le circostanze di cui si tratta. Se però si confronta il movimento della luna intorno alla terra alla caduta di un grave, le perturbazioni di quel moto sono da interpretare in un senso analogo alle esperienze di Tadini e di Reich.
Una prova indiretta della rotazione della terra intorno al sole, si può avere anche sulla terra dalle esperienze che misurano la variazione della gravità durante il giorno (cfr. § 13).
L’analisi svolta fa vedere che il concetto dinamico del movimento, da Newton preso come assoluto, contiene implicitamente un fatto, cioè l’accordo di varii modi di determinazione di un sistema di direzioni facenti angoli invariabili.
L’analisi di codesto concetto deve soprattutto mettere in luce il fatto accennato; e ciò si ottiene lucidamente ove si assumano come direzioni di riferimento le direzioni astronomicamente fisse, e si postuli quindi (nella legge d’inerzia ecc.) la relativa fissità di altre direzioni definite dal moto dei corpi in date condizioni.
Si accede così alla proposta del Mach, che ha trovato ormai largo favore presso gl’intelletti più positivi.
Nei seguenti paragrafi parlando di «movimento» sottintenderemo appunto la suddetta determinazione astronomica del sistema di riferimento. Ma avremo occasione di notare esservi luogo a separare una parte più generale della Dinamica, anteriore alla legge d’inerzia, che vale quando si considerino forze e movimenti in relazione ad un sistema di riferimento qualsiasi.
§ 19. Massa.
Allorchè si vogliono indagare le circostanze determinanti del movimento dei corpi, si presenta naturale di distinguere per quanto è possibile i caratteri per dir così interni del corpo mobile, e le relazioni esterne di esso con altri corpi ecc.
Questa distinzione si affaccia assai nettamente nei primi casi dove si tratta di moto impresso con uno sforzo muscolare o colla trazione di un elastico ecc.; si ha allora una relativa indipendenza fra due elementi determinanti che si sovrappongono nel fenomeno, quello che misuriamo come sforzo ecc. (la forza) e quello che riattacchiamo al corpo mobile, cioè il suo peso o la sua massa.
Peso e massa appariscono dapprima esattamente la stessa cosa, ma il Mach spiega acutamente in qual modo possano distinguersi mediante una esperienza ove due pesi sospesi ad una puleggia costituiscono un sistema in equilibrio indifferente, il quale tuttavia non può essere messo in moto senza impiegare uno sforzo proporzionale alla somma dei due pesi.
Newton avendo riconosciuto nella massa qualcosa di distinto dal peso, arrivò a rappresentarsela come quantità di materia, e volle spiegarne il concetto colla sua Definitio I: «Quantitas materiae est mensura eiusdem orta ex illius densitate et magnitudine conjunctim».
Questa definizione viene generalmente criticata, perchè introduce al posto della massa un nuovo concetto non definito, la densità, altrettanto oscuro come quello che si vuole spiegare.
È tuttavia ingiusto di ritenere che, a causa di ciò, la definizione newtoniana sia affatto priva di significato.
La rappresentazione che è in essa contenuta può infatti interpretarsi come un insieme di condizioni definitrici, volte a caratterizzare un invariante additivo rispetto ad un certo gruppo di trasformazioni fisiche dei corpi (movimenti, compressioni e dilatazioni).
Cerchiamo di spiegare questa veduta.
Cominciamo dall’osservare che il confronto dei corpi ci conduce a raffigurarceli mediante concetti astratti, relativamente a cui possiamo parlare di corpi fisicamente uguali, e quindi di corpi omogenei. L’astrazione suddetta sta a significare il riconoscimento che i corpi designati come «uguali» possono venire sostituiti l’uno all’altro nei varii ordini di fenomeni (fisici, chimici ecc.).
Ora dal concetto generale di uguaglianza fisica si può procedere ad astrazioni ulteriori relativamente a certi ordini di fenomeni; corpi sostituibili rispetto a questi godranno di una uguaglianza relativa più generale, o avranno, se si preferisce, certi caratteri uguali.
Un modo generale di promuovere simili processi d’astrazione consiste nel considerare gruppi di operazioni o trasformazioni (fisiche, chimiche ecc.) mediante le quali certi corpi disuguali possano ridursi uguali.
L’astrazione conduce allora a definire una relazione di «uguaglianza» soddisfacente alle proprietà transitiva e simmetrica (capitolo III, § 14), purchè si tratti proprio di un gruppo di trasformazioni, nel senso che i matematici attribuiscono alla parola «gruppo», cioè:
Il più semplice gruppo di trasformazioni dei corpi è il gruppo dei movimenti, ed è nel concetto dell’uguaglianza fisica che essa non venga alterata dai movimenti; ciò si esprime dicendo che ogni uguaglianza fisica è invariante rispetto al gruppo nominato.
Un altro semplice gruppo di operazioni fisiche si ha dal dividere in parti e dal riunire in diversi modi i frammenti di un corpo; questo gruppo conduce ad una uguaglianza fisica più generale che prescinde dalla forma geometrica.
Viene dopo questo caso la considerazione del gruppo G costituito da movimenti, divisioni e ricomposizioni, compressioni e dilatazioni dei corpi.
La rappresentazione newtoniana della massa come «quantità di materia» conduce a cercare di definire per ogni corpo un numero positivo che
Ciò appunto si esprime dicendo che la massa viene definita come un variante additivo dei corpi rispetto al suddetto gruppo G.
L’esistenza di tale invariante implica un fatto supposto che deve essere postulato.
La necessità di questo postulato risulta dall’osservare che il gruppo più ristretto costituito dai movimenti e dalle divisioni e ricomposizioni, ammette uno ed un solo invariante addittivo «il volume».
Il postulato che qui occorre può essere enunciato nel modo più semplice riferendosi a corpi omogenei:
Sieno A e B due corpi omogenei fisicamente uguali, e si operi su B mediante divisioni e ricomposizioni, compressioni e dilatazioni; se dopo un ciclo qualsiasi di operazioni si giunge ad un corpo omogeneo contenente una parte uguale ad una parte di A, questo corpo ha lo stesso volume di A.
Limitiamoci per un momento a considerare un insieme di corpi le cui parti possano ridursi uguali con trasformazioni del gruppo G. Si può scegliere un corpo omogeneo di riferimento A, e prendere per ogni sua parte la massa proporzionale al volume, quindi definire la densità di un corpo elementare B (ritenuto omogeneo) come il rapporto inverso del suo volume a quello di un elemento trasformato uguale ad una parte di A. Allora la massa risulta definita, secondo la definizione di Newton, come prodotto del volume per la densità.
Il procedimento di astrazione che conduce a definire la massa secondo la rappresentazione newtoniana, non si applica, come abbiam visto, all’insieme di tutti i corpi, ma soltanto ad un insieme ristretto di corpi, riducibili entro il gruppo G.
Ma questo gruppo G si estende allorchè, in base alla rappresentazione atomica, si figurano i corpi chimicamente riducibili come ottenuti mediante ideali divisioni e ricomposizioni (compressioni e dilatazioni) di parti. Ed il gruppo G esteso ammette ancora l’invariante addittivo, definito pel gruppo ristretto, perchè il postulato sopra enunciato sussiste nella più vasta comprensione.
Questa è appunto la scoperta di Lavoisier, il cui principio della conservazione della materia può essere espresso nel modo seguente:
Sieno A e B due corpi omogenei fisicamente uguali, e si operi su B mediante trasformazioni fisico-chimiche interne; se dopo un ciclo di trasformazioni si giunge ad un corpo omogeneo contenente una parte uguale ad una parte di A, questo corpo riprende lo stesso volume di A.
Si può quindi ritenere definita la massa per un sistema di corpi chimicamente riducibili, come invariante addittivo delle trasformazioni fisico-chimiche.
Questa definizione corrisponde nella teoria atomica al numero delle particelle elementari dei corpi.
Ora la precedente definizione della massa si estenderà a tutti i corpi ove sia lecito adottare l’ipotesi rappresentativa dell’unità della materia, il cui senso positivo consiste:
La questione delle trasformazioni iperchimiche è oggi nuovamente all’ordine del giorno, dopochè Ramsay ha raccolto l’elio dalla emanazione del radio, ed ha interpretato l’esperienza come una trasformazione riduttrice dell’atomo. Non è escluso dunque che il progresso della Scienza possa attribuire un significato positivo alla definizione della massa basata sull’ipotesi rappresentativa dell’unità di materia, a parte le difficoltà pratiche di confrontare le masse in quest’ordine di idee.
A prescindere dalle problematiche trasformazioni iperchimiche, le trasformazioni chimiche fanno capo a qualità di materia irreducibili; in altri termini, per esprimerci col linguaggio matematico, esse costituiscono un gruppo intransitivo rispetto al sistema dei corpi.
Importa quindi di vedere che l’invarianza addittiva rispetto a codesto gruppo non basta a definire in modo determinato la massa di un corpo.
Invero si considerino gli elementi chimici, designati con
A1 A2 ...;
a ciascuno di questi appartiene un invariante addittivo, rispettivamente
m1 m2 ...,
che contiene un fattore di proporzionalità determinabile ad arbitrio mediante la scelta delle unità di paragone. Ora una qualsiasi espressione del tipo
a1 m1 + a2 m2 + ...,
costituisce un invariante addittivo pei corpi composti
A1 + A2 + ...,
rispetto al gruppo delle trasformazioni fisico-chimiche.
L’espressione considerata contiene anzi tutti gli invarianti addittivi possibili; la massa vi rientra quindi corrispondentemente ad una determinazione particolare delle costanti a1 a2 ...; ma appunto codesta determinazione non viene fornita dalle trasformazioni chimiche. E, accanto alla massa, restano indiscernibili da essa sotto tale riguardo, altri invarianti addittivi, alcuni dei quali hanno un senso notevole e vengono considerati perciò nella Chimico-fisica, p. es. i caratteri volumetrici in rapporto al cosidetto 0° assoluto, certi caratteri ottici, calorimetrici ecc.
Da ciò che precede emerge che l’ordine di considerazioni e di rappresentazioni per cui si tende a definire la massa di un corpo come un carattere interno, cioè indipendentemente dall’influenza che corpi esterni possono esercitare sul suo movimento, riesce soltanto ad una imperfetta determinazione di questo carattere.
L’analisi svolta conduce nondimeno a riconoscere che:
Esiste una classe di fenomeni di movimento (provocati coi muscoli o con pressioni elastiche ecc.) che si svolgono ugualmente ove si sostituisca al corpo mobile, ritenuto come un punto materiale, un altro corpo (punto) chimicamente riducibile di massa uguale; laddove la sostituzione di masse disuguali muterebbe il fenomeno.
Possiamo ritenere schematicamente questi casi di moto, come casi in cui il moto è indipendente dalle condizioni fisico-chimiche del mobile, salvo a ricondurre più tardi il riconoscimento di codesta indipendenza alla esplorazione del campo di forze in cui avviene il moto.
Ora se s’immagina di avere direttamente definito la classe dei movimenti anzidetti, si possono definire come «uguali» le masse di corpi chimicamente riducibili, che possano sostituirsi in quei movimenti.
E l’importante è che questa definizione si estende al caso di corpi qualunque, perchè sussiste il seguente
Postulato della massa. Allorchè il movimento di un punto materiale A è indipendente dalle condizioni fisico-chimiche del mobile, si può, senza alterare il movimento, sostituire ad A un corpo formato da un’altra qualità di materia, presa in un rapporto quantitativo determinato con A.
In base a questo postulato si definiranno come uguali le masse di corpi chimicamente irriducibili che possano sostituirsi nei movimenti considerati, e si giungerà alla definizione generale della massa, risolvendo l’arbitrarietà che in essa rimaneva.
Il postulato della massa afferma in sostanza «l’indipendenza del moto dalla qualità della materia che si muove». Ma codesta indipendenza è subordinata a condizioni di cui si è tenuto conto nell’enunciato, e che si possono determinare in modo più espressivo in base alle considerazioni seguenti.
Se ci rappresentiamo le forze che in ogni istante agiscono sui corpi in movimento, possiamo supporre che queste dipendano dalla qualità di materia dei corpi stessi o dal loro stato fisico; ma ammettiamo poi che il movimento risulti indipendente dalla qualità di materia, in quanto questa non modifichi le forze considerate.
Questo criterio rende più precisa l’applicazione del nostro postulato di sostituibilità. P. es., un punto A viene tirato da un filo elastico; in questo caso la forza non dipende dalla natura di A, quindi si deve ammettere che anche il moto segua ugualmente se ad A si sostituisca un altro punto materiale B, presa la quantità della materia di B in quella misura che costituisce una massa uguale ad A. Ora il postulato deve interpretarsi nel senso che le due masse di A, B riconosciute uguali nell’esperienza anzidetta, potranno venire surrogate l’una all’altra in un altro qualsiasi fenomeno di movimento, sotto le condizioni sopra notate. P. es., una molla preme su A, anche qui la forza non dipende dalla natura di A, quindi il moto di A deve seguire ugualmente come quello di B, quando questo corpo (invece di A) venga soggetto alla pressione della medesima molla.
Invece se A è una sfera elettrizzata in vicinanza di un’altra sfera analoga, sopra A agisce una forza dipendente dallo stato del corpo medesimo; in questo caso la sostituzione di B ad A, altera le forze e quindi anche il movimento corrispondente.
§ 20. Postulato della massa e principio dinamico di azione e reazione.
Dalla precedente analisi risultano due modi di procedere per astrazione ad una definizione della massa, definendo le «masse uguali»:
La prima via non conduce ad una definizione puramente determinata, ma mette in luce un fatto importante cioè un rapporto fra le trasformazioni fisico-chimiche della materia e la legge del moto.
La seconda via, cui ad ogni modo si deve ricorrere per completare la definizione della massa, conduce a riconoscere un fatto generale consistente nell’accordo di diverse sostituzioni possibili di masse uguali nel movimento.
Questo fatto che costituisce il nominato postulato della massa, può riguardarsi come contenuto nella equazione del moto quando si pone innanzi la considerazione delle forze; ma si può anche analizzare sotto un aspetto diverso, a prescindere dalle forze, cercando di eliminare ciò che vi è di sovrabbondante nella definizione di masse uguali. Conviene a tale scopo:
Quest’analisi conduce a porre in relazione il concetto della massa col principio newtoniano d’azione e reazione.
Per definire le «masse uguali» è assai naturale di confrontare i corpi mediante esperienze elementari in cui essi entrino soltanto a coppie, ritenendo una coppia come isolata dall’influenza di corpi esterni allorchè questi sono molto lontani in guisa da non esercitare un’influenza sensibile.
Tale idea viene appunto sviluppata dal Mach7, che prende come punto di partenza il principio newtoniano d’azione e reazione.
Siamo condotti in tal modo ad analizzare il significato di questo principio.
Ed anzitutto giova osservare che Newton scorse in esso una semplice estensione del principio di simmetria statica (§ 15) ammettendo implicitamente che «le forze, resultanti dalle azioni dei corpi gli uni sugli altri, agiscano sui corpi stessi nel movimento come nell’equilibrio», cioè «agiscano come propagantisi istantaneamente». Se si ammette questa ipotesi, che non partecipa in alcun modo all’evidenza della simmetria statica, il principio statico d’azione e reazione fornisce il principio dinamico newtoniano, il quale in virtù della legge del moto si traduce in un «rapporto fra le accelerazioni dei punti materiali in moto».
È appunto in questo senso, reso indipendente dal concetto di forza, che il Mach assume il principio dinamico d’azione e reazione.
L’analisi del Mach (che integriamo qui rilevando esplicitamente la supposizione 3)) conduce ad esprimere i postulati contenuti nel principio suddetto, nel modo che segue:
A, C , B, C , A + B, C,
il rapporto della accelerazione di C a quella di A + B è la somma dei rapporti delle accelerazioni di C ad A e di C a B.
Basandosi sui postulati precedenti si può porre la Definizione: il rapporto delle masse di due punti materiali è il rapporto inverso delle accelerazioni che essi prendono, quando sieno confrontati in una coppia isolata.
(È opportuno aggiungere l’osservazione che le trasformazioni fisico-chimiche entro i corpi confrontati possono bensì alterare le accelerazioni suddette, ma non il loro rapporto).
Dalla definizione precedente risulta in ispecie il senso della locuzione «masse uguali», ed il postulato 2) esprime la proprietà transitiva dell’uguaglianza. La massa risulta quindi definita per astrazione, ed il suo carattere addittivo è contenuto nel postulato 3).
Per chi accetti incondizionatamente il principio dinamico di azione e reazione, espresso dai postulati 1) 2) 3), il postulato della massa, preso in senso meccanico stretto, appare equivalente a codesto principio. E diventa allora indifferente la scelta delle osservazioni o esperienze definitrici del «rapporto di massa», quali possono ottenersi riferendosi, p. es., alla gravitazione (Vaschy), all’urto (Andrade) ecc.
Occorre tuttavia tener presenti le condizioni a cui deve soddisfare un corpo per essere ritenuto come un punto materiale (§ 12), e si deve notare che esse trovansi difficilmente realizzate nell’urto, dove la forma e l’orientazione dei corpi urtantisi influiscono sul fenomeno in guisa da condurre a sensibili deviazioni dalla legge teorica.
Osserviamo ora che l’equivalenza ammessa dal Mach, fra il principio dinamico d’azione e reazione (postulati 1) 2) 3)) e il postulato della massa, è relativa alla sistemazione della Dinamica newtoniana.
Suppongasi che il principio dinamico d’azione e reazione, e più propriamente il postulato 1), non sussista in generale, o almeno che, in un ordine di approssimazione apprezzabile, la sua validità si restringa ad una classe di casi. Allora la definizione della massa che vi è appoggiata dovrà riferirsi ad uno di questi casi, ma il postulato della massa inteso secondo il § 19, esprimerà ancora qualcosa relativamente ai fenomeni di moto per cui la condizione 1) non è soddisfatta.
In questo senso il postulato della massa ci appare più espressivo del principio dinamico d’azione e reazione. Da ciò si rileva il valore delle diverse rappresentazioni che conducono ai due concetti, presi dal Mach come identici.
Osserveremo infine che, indipendentemente dall’accoglienza del principio dinamico generale d’azione e reazione, il procedimento indicato dal Mach può condurre ancora ad una definizione delle masse, purchè si riferiscano le ideali esperienze definitrici a quei casi in cui si tratta di corpi a contatto o di punti legati distaccantisi per la rottura del legame dalla posizione d’equilibrio, e dove si assuma il principio dinamico d’azione e reazione in un senso ristretto, quale si presenta nella Meccanica di Hertz.
Così appunto il Volterra, nelle sue lezioni di Meccanica di Pisa (1890), confronta le accelerazioni prese da due punti materiali rigidamente connessi costituenti una coppia isolata, nel momento in cui si rompe l’equilibrio per l’infrangersi del legame.
Si può osservare che, ove non si voglia qui escludere il concetto di forza, l’esperienza ideale accennata riconduce il confronto delle masse a quello delle accelerazioni assunte da diversi punti materiali soggetti a forze uguali. Ci si riattacca così alla legge fondamentale del moto, che (come vedremo) porge il più naturale fondamento al confronto delle masse di corpi chimicamente irriducibili, in uno sviluppo che segua fin dove è possibile la veduta 1) caratterizzata in principio di questo paragrafo.
§ 21. Legge fondamentale del moto.
La legge fondamentale del moto di un punto materiale si compendia, come abbiamo detto, nell’equazione vettoriale
f = m ω.
Volendo istituire una analisi dei fatti supposti dalla legge del moto, conviene anzitutto richiamare le circostanze dello sviluppo storico che vi ha condotto.
L’acquisto è, come dicemmo, il frutto di una induzione, per cui la legge del moto dei gravi di Galileo venne estesa da Newton al caso di forze qualsiansi variabili (caso cui si riferiscono numerosi studii di Huyghens).
La formulazione di Newton è contenuta nelle due leggi seguenti:
Lex I. Corpus omne perseverare in statu suo quiescendi vel movendi umformiter in directum, nisi quatenus a viribus impressis cogitur statum illum mutare.
Lex II. Mutationem motus esse proportionalem vi impressa, et fieri secundum lineam rectam qua vis illa imprimitur.
La Lex I esprime quel principio d’inerzia cui il Mach osserva Galileo essere stato condotto come a caso limite, dallo studio del moto dei gravi sul piano inclinato.
La Lex II viene interpretata come esprimente da sola l’equazione generale del moto
f = m ω,
la quale nella sua espressione matematica comprende, per f = 0, la Lex I. Onde vi è qui, pel Mach, un difetto di sovrabbondanza!
La nostra veduta è un po’ diversa.
Anzitutto crediamo che per comprendere lo spirito della sistemazione newtoniana occorra eliminare il concetto affatto recente che la legge del moto sia una definizione dinamica della forza.
Per Newton la legge suddetta doveva esprimere una relazione fra due elementi che egli riguardava come già noti: la forza da un lato, e il prodotto della massa per l’accelerazione dall’altro.
Ma in qual modo poteva egli ritenere come nota la forza, se non sotto l’aspetto statico?
Se si ammette che la forza di cui si parla nella Lex II sia definita staticamente, la Lex II stessa assume un significato più ristretto dell’equazione differenziale
f = m ω
resta infatti determinata a priori una delle costanti arbitrarie dell’integrale, in rapporto al sistema di riferimento. E per restituire alla legge tutta la generalità, in cui viene adoperata più tardi, occorre aggiungere una supposizione nuova che Newton ha creduto di esprimere adeguatamente colla legge d’inerzia (Lex I).
Interpretiamo dunque il testo newtoniano in questo senso: la Lex II si riferisca al moto incipiente, la Lex I al moto su cui non agiscono forze; la legge generale del moto (f = m ω) risulta dalla somma delle due leggi newtoniane, dove per verità si assume implicitamente un’ipotesi non dichiarata che analizzeremo nel paragrafo seguente.
Riscontriamo i fatti supposti dalla legge del moto incipiente, dove si ritenga dunque che la forza sia definita staticamente, nell’equilibrio che precede il moto.
Il resultato di questa analisi si traduce in un sistema di postulati e di definizioni, che andiamo appunto ad enunciare, dove prendiamo la massa come un invariante addittivo delle trasformazioni fisico-chimiche, e però definita soltanto nel confronto di corpi chimicamente omogenei.
Postulato I. — Se una forza agisce sopra un punto materiale fermato, questo, ove non sia più ritenuto, comincia a muoversi nella direzione della forza.
Postulato II. — L’accelerazione impressa ad un punto dato è proporzionale alla misura statica della forza.
Postulato III. — Forze uguali imprimono a punti materiali (chimicamente) omogenei di massa uguale, uguali accelerazioni.
Postulato IV. — Se due forze f1, f2, agendo separatamente sopra due punti materiali M1, M2, gl’imprimono una uguale accelerazione ω, una forza uguale alla somma f1 + f2 agendo sopra il punto M1 + M2 ottenuto dalla riunione dei due dati, gl’imprimerà ancora la medesima accelerazione ω.
A questi postulati si può appoggiare la
Definizione. — Le masse di due punti materiali eterogenei si dicono uguali, se forze uguali agendo su di essi, imprimono loro accelerazioni uguali.
Ciò che questa definizione contiene di sovrabbondante è una conseguenza del postulato II: se due forze uguali ad f, imprimono ai punti materiali M1, M2 una medesima accelerazione ω, forze uguale a 2f imprimeranno loro una medesima accelerazione 2 ω ecc.
Inoltre il concetto della massa che risulta così definito, soddisfa ai requisiti che già abbiamo analizzato, il carattere addittivo della massa essendo contenuto nel post. IV.
A completare ì precedenti postulati occorre ancora integrare il post. II, richiamando il principio di Galileo che vedremo poi esteso da D’Alembert nella Dinamica dei sistemi (§ 27). Lo enunciamo come
Postulato V. — Più forze applicate ad un punto materiale, producono la stessa accelerazione (resultante dalle accelerazioni parziali) che la loro resultante statica.
Ora è importante istituire l’osservazione seguente:
I postulati I.... V, che esprimono la legge fondamentale del moto incipiente, valgono pel movimento (incipiente) relativo ad un sistema qualsiasi cui vengano riferiti insieme forze e moto, anche se si tratta di assi le cui direzioni variano rispetto a quelle astronomicamente fisse.
Invero sia α un sistema di assi aventi direzioni astronomicamente fisse, β un sistema comunque variabile rispetto ad α, P un punto in equilibrio rispetto a β che ad un dato momento cominci a muoversi rispetto a β stesso.
La legge del moto incipiente afferma che: se si riferiscano a β tanto la forza agente su P quanto il moto di P stesso, la forza è (in senso vettoriale) proporzionale all’accelerazione. Ora questo enunciato si converte nel seguente: la forza relativa a β è proporzionale alla variazione dell’accelerazione valutata rispetto ad α.
E risulta quindi, pel teorema di Coriolis, che la legge è indipendente dal sistema di riferimento.
Appunto in vista di questa indipendenza Reech e Andrade8 hanno avuto l’idea di sostituire l’espressione classica della legge del moto, colla proporzionalità della forza alla variazione dell’accelerazione.
Tra la formula anzidetta e la nostra vi sono due differenze:
La prima restrizione è soprattutto essenziale pel nostro scopo di mettere in vista un’ipotesi non dichiarata, che interviene nella successiva estensione della legge del moto.
§ 22. Principio d’inerzia generalizzato.
Abbiamo accennato che la legge generale del moto si ottiene integrando la legge del moto incipiente (Lex II di Newton) con quella d’inerzia, e aggiungendo di più un’ipotesi non dichiarata.
Infatti il passaggio dal caso del moto incipiente al caso generale, mediante il principio della resultante, richiede che la forza agente sopra un punto in movimento possa valutarsi come se il punto fosse istantaneamente fermato.
Questa ipotesi delle forze posizionali si presentava a Newton molto naturalmente, perchè la sua Dinamica (comunque rivestita di un aspetto universale trascendente) è infine l’estensione al campo astronomico della Dinamica terrestre di Galileo. Appunto questo sviluppo estensivo spiega ai nostri occhi il modo come Newton è giunto alla enunciazione generale dei principii, e la forma in cui li ha espressi.
Ora se vogliamo postulare esplicitamente ciò che occorre aggiungere alla legge del moto incipiente, in luogo della Lex I, enunceremo il seguente principio d’inerzia generalizzato:
In ogni istante il movimento di un punto materiale avviene come se questo sia lasciato muovere a partire da uno stato di quiete, purchè
È appena necessario di rilevare come questa legge postuli un fatto, verificabile con sufficiente approssimazione, tutte le volte che sia sufficientemente verificata l’ipotesi.
La Dinamica può anche correggere l’applicazione del principio, tenendo conto, p. es., della resistenza del mezzo entro cui un dato corpo si muove; si tratta allora di considerare anche il movimento del mezzo, o almeno di trarre da questo l’intervento di una forza nuova, dovuta, p. es., alla compressione del fluido o alla sua inerzia ecc., che dipende dalla velocità del dato mobile.
In questo senso delle forze dipendenti dalla velocità s’introducono nelle equazioni della Dinamica classica a surrogare nel moto di un sistema parziale ciò che tiene ad un sistema più ampio, dove i punti materiali si muovono sotto l’azione di forze posizionali.
Restano da chiarire due punti, cioè:
Osserveremo ancora che nella legge d’inerzia particolare, si distinguono due supposizioni: la conservazione della direzione nel moto, e la conservazione della velocità.
La prima è conforme all’intuizione geometrica del moto, se si pensano le forze come «azioni dei corpi», poichè un punto su cui non agiscano forze ci appare allora come un punto su cui non influiscono i possibili mutamenti dei corpi (lontani), e quindi la traiettoria del moto come una linea «che resterebbe invariata facendo ruotare l’universo astronomico attorno ad un suo elemento», cioè come una retta.
La conservazione della velocità è un principio paradossale rispetto alle esperienze familiari e rappresenta una induzione astratta, guadagnata come vedemmo da Galileo in un caso particolare, a cui conduce per continuità l’ipotesi delle forze posizionali congiunta alla legge del moto.
Il principio dinamico d’azione e reazione, preso come rapporto generale fra le accelerazioni dei punti materiali in moto, è una conseguenza del principio di simmetria statica congiunto al principio d’inerzia generalizzato, purchè si ritengano le forze come «azioni fra i corpi».
Il principio dinamico d’azione e reazione, nel senso ristretto hertziano, risulta già dal combinare la legge del moto incipiente e il principio di simmetria statica.
§ 23. Apprezzamento sintetico dei principii.
L’analisi dei concetti e dei postulati della Meccanica del punto, ci ha condotto ad enumerare le supposizioni implicite ed esplicite della scienza, le quali possono ora venir disposte nell’ordine seguente:
I postulati 2) e 4) valgono per l’equilibrio e pel moto relativi ad un sistema di riferimento qualsiasi. Soltanto il postulato 6) esige che le direzioni degli assi di riferimento siano astronomicamente fisse.
Tenuto conto di questo motivo, del modo di acquisto dei postulati stessi, dei loro rapporti di subordinazione ecc., apparirà ora naturale di stabilire una gerarchia dei principii:
In una forma più suggestiva enunceremo le precedenti conclusioni dicendo che:
I postulati 1)....5) definiscono una Meccanica più generale, valida rispetto a qualsiasi sistema di riferimento, la quale comprende l’equilibrio e il moto incipiente. Affinchè la Dinamica conduca a previsioni determinate occorre aggiungere a codesto sistema un’ipotesi, che nella Dinamica astronomica è espressa convenientemente dal principio d’inerzia generalizzato. Si potrebbe modificare questa ipotesi assumendo al suo posto qualche legge più complicata, come saremo condotti a fare nel cap. VI; ad ogni modo il principio d’inerzia generalizzato esprimerebbe codesta legge con un’approssimazione tanto più grande quanto più piccole sono le velocità considerate, cioè nei casi relativamente prossimi al moto incipiente. E questo è il caso del sistema planetario!
Qualche difficoltà potrà nascere soltanto dal considerare velocità enormemente più grandi (v. cap. VI).
§ 24. Statica dei sistemi: legami.
Ci siamo riferiti fino ad ora alla Meccanica del punto materiale; ma in molti casi si hanno effettivamente a considerare dei corpi con dimensioni non trascurabili, ed anzi non si può prescindere da una certa rappresentazione di questi nella definizione stessa della «forza che agisce sopra un punto».
La forma, la grandezza, e in generale i caratteri geometrici dei corpi in equilibrio o in movimento, sono strettamente associati a certi elementi sensibili che designansi col nome di natura del corpo, nonchè alle forze che agiscono su questo.
Si può pensare il corpo come costituito da punti materiali fra cui si esercitino certe azioni o forze interne, ed allora la concezione del corpo si riduce a quella di un «sistema di punti e di forze»; il problema dell’equilibrio e del moto si trova quindi ricondotto ai principii della Meccanica del punto. Ma le forze di cui si tratta sono veramente una supposizione che il più spesso può essere determinata da una verifica.
Riesce invece facile di riconoscere che, in molti casi familiari, certi caratteri geometrici si mantengono costanti indipendentemente dalle forze applicate (o variano in un certo rapporto con queste); si può allora esprimere l’osservazione ponendo ipotetici legami fra i punti del corpo, riguardato dunque come «un sistema vincolato da condizioni geometriche».
Una tale supposizione deve essere presa semplicemente come la semplificazione ideale di un fatto accertato a posteriori, sia, p. es., del fatto che le mutue distanze dei punti di un corpo solido rimangono, dentro certi limiti approssimativamente invariabili.
Se al concetto dei legami si voglia sostituire quello dianzi accennato di un sistema di forze interne, o se all’opposto, come diremo nel cap. VI, si vogliano riguardare tutte le forze come reazioni dei legami, la considerazione simultanea di forze e legami impone alla nostra rappresentazione delle condizioni sovrabbondanti; ma essa sta in tal caso a significare che alcuni resultati (p. es. certi legami) vengono presi al posto di certi dati incogniti (forze interne) nella determinazione del fenomeno.
Rimandando dunque al cap. VI ogni questione intorno alla possibilità di ridurre codesti concetti primitivi, noi riterremo nel seguito forze e legami come elementi che hanno un significato positivo rispetto all’esperienza, e mercè i quali si rende possibile una trattazione dei fenomeni visibili senza allargare la rappresentazione ad un mondo invisibile. Avremo agio però di rilevare in più punti la necessità di ammettere fra i due concetti alcuni rapporti, che invero si collegano alle rappresentazioni suaccennate.
§ 25. Leva e piano inclinato: principio dei momenti statici.
La nozione dei legami si può dire implicita fin dall’inizio della Statica.
Infatti l’equilibrio di sistemi, come la leva e il piano inclinato, ha occupato Archimede e Stevin, prima che questi venisse condotto a considerare la composizione delle forze applicate ad un punto.
La storia della fondazione della Statica ci addita il cammino percorso dagli scopritori dei principii fondamentali dell’equilibrio, principii che si riattaccano alle nozioni dei momenti statici e dei lavori virtuali.
L’uguaglianza dei momenti statici come condizione d’equilibrio della leva è stata scoperta da Archimede, il quale ha preteso dedurla da postulati relativi a casi elementari di simmetria e dissimmetria, cioè «equilibrio ottenuto con pesi uguali attaccati a bracci uguali», e «disequilibrio derivante dall’attaccare pesi disuguali a bracci uguali o pesi uguali a bracci disuguali».
Il Mach rileva nella dimostrazione di Archimede un errore necessario; ed invero il ragionamento fa tacito uso dell’ipotesi che «senza alterare l’equilibrio, un peso applicato ad un braccio della leva possa essere diviso in due parti uguali che vengano allontanate simmetricamente dal punto di applicazione», ossia che «forze uguali e parallele, applicate perpendicolarmente ad un asta rigida possano venir sostituite da una resultante applicata al centro dell’asta, la quale sia parallela alle componenti ed uguale alla loro somma».
Resta nondimeno da apprezzare se l’ipotesi implicitamente postulata da Archimede, per l’evidenza intuitiva o per le condizioni in cui può essere verificata dall’esperimento, non rappresenti qualcosa di più credibile del teorema che «l’equilibrio della leva corrisponde all’uguaglianza dei momenti statici». Ora sotto questo rapporto non possiamo condividere il giudizio dispregiativo del Mach; ci pare indubbio che la dimostrazione di Archimede sia veramente istruttiva.
Il suo valore, riguardato secondo il nostro punto di vista, diventa tanto maggiore se si tien conto degli sviluppi relativi alla composizione delle forze parallele agenti sui punti d’un sistema rigido, sviluppi che procedono in un senso analogo a quelli del § 16.
Una trattazione di Foncenex, corretta poi da D’Alembert e Laplace, permette infatti di dedurre una legge di composizione delle forze parallele dirette nello stesso verso, la quale riesce determinata a meno di una costante k, dalle ipotesi seguenti:
La legge ordinaria, cioè «la resultante di due forze parallele ugualmente dirette è uguale alla somma delle componenti», è compresa nella precedente più generale, e corrisponde a fare in questa k = ∞.
Ora Genocchi ha mostrato che, in relazione al postulato di Euclide sulle parallele, si deduce appunto k = ∞; ed i postulati statici ch’egli adopera nel suo ragionamento sono i seguenti:
Mercè questi sviluppi si acquista la veduta che la condizione d’equilibrio della leva, espressa dal principio dei momenti statici, all’infuori della verifica diretta pòrtane da esperienze quantitative, può essere riattaccata indirettamente ad esperienze in qualche modo qualitative, che si collegano in una rappresentazione sintetica di fenomeni.
Anche per altri sistemi semplici si può ottenere, in un senso analogo, una dimostrazione del principio dei momenti statici come condizione d’equilibrio.
Citiamo ad esempio la condizione d’equilibrio d’un grave sul piano inclinato, dedotta da Stevin appellandosi al postulato che «una catena chiusa omogenea avvolta ad un triangolo, trovasi in equilibrio». Anzi questo procedimento appare tanto più suggestivo che anche il Mach ne dà un giudizio favorevole.
§ 26. Principio dei lavori virtuali.
Il principio d’equilibrio basato sul confronto dei momenti statici costituisce il fondamento della Statica dei sistemi in una fase di sviluppo anteriore alle conoscenze dinamiche, nella quale le prime elementari esperienze esplicite vengono riattaccate immediatamente ad intuizioni dell’equilibrio stesso, indipendentemente dalla considerazione dei movimenti possibili.
Una fase ulteriore di sviluppo è contrassegnata dal ricorso a considerazioni dinamiche, ed in ispecie al confronto dei lavori virtuali, cioè dei lavori eseguiti dal sistema per piccoli (teoricamente infinitesimi) spostamenti conciliabili coi legami.
(Ricordiamo che dicesi lavoro eseguito da una forza f per uno spostamento di un punto, il prodotto della forza per la proiezione dello spostamento sulla direzione della forza stessa).
Una prima osservazione di Stevin sull’equilibrio dei sistemi di pulegge, ed un’osservazione analoga più generale di Galileo a proposito del piano inclinato, perfezionata poi da Torricelli10, hanno condotto al principio d’equilibrio riconosciuto nella sua più vasta comprensione da Giovanni Bernouilli (1717), e posto poi da Lagrange a base della Meccanica analitica.
Il principio dei lavori o delle velocità virtuali, si enuncia come segue: La condizione necessaria e sufficiente per l’equilibrio di un sistema vincolato, soggetto a forze qualunque, è che il lavoro eseguito dalle forze per uno spostamento virtuale del sistema sia nullo.
Questo principio esprime una supposizione molto generale, relativa però alla natura dei legami del sistema, e si deve riguardare (conformemente al punto di vista storico) come un acquisto induttivamente conseguito mercè una progressiva estensione del concetto stesso dei «legami».
La dimostrazione classica che si suol dare oggi del principio suddetto11, mette bene in evidenza che la sua validità in generale per tutte le macchine usuali dipende da un’analisi delle varie specie di legami che in queste vengono combinati.
Il procedimento dimostrativo si appoggia dunque alla constatazione che il principio sussiste per i casi elementari: punto libero, punto mobile sopra una superficie, punti legati, superficie che ruzzolano l’una sull’altra ecc. E tale constatazione si compie mercè un confronto diretto delle esperienze relative a questi casi, o mercè il confronto della condizione d’equilibrio espressa dall’annullarsi dei lavori virtuali con altre particolari condizioni d’equilibrio, che si suppongono note in base ad esperienze anteriori, conscie od inconscie, rievocate in una visione immaginativa dei fenomeni.
Appare quindi che il principio dei lavori virtuali collega con una supposizione generale un insieme di fatti, in parte rappresentanti come evidenti e trae dal loro insieme altri fatti che cadono sotto il controllo di svariate esperienze esplicite.
Importa insistere su questo punto che: la validità del principio dei lavori virtuali, in quanto si presuma dedotta dai postulati statici e da certe condizioni elementari di equilibrio delle macchine più semplici, è limitata dalla natura dei legami.
Ma nulla osta ad uno sviluppo induttivo del principio che importi la sua applicazione a casi irriducibili ai tipi esaminati; con ciò si estende veramente la supposizione contenuta nel principio stesso, e si lascia alle conseguenze dedotte di legittimarne il significato più comprensivo.
Come esempio notevole di una tale estensione si può citare il caso a cui si è condotti dal prendere il legame d’invarianza delle distanze in un senso infinitesimale; ciò accade appunto nei problemi d’equilibrio dei fili e delle superficie flessibili e inestendibili. Un’altra estensione si ha nel problema dell’equilibrio idrostatico ove si assume come legame l’invarianza di volume ecc.
In un senso diverso si estende il principio dei lavori virtuali quando si trattano casi dove non si prendono veramente le forze come date, ma, lasciando da parte ogni ipotesi su queste, si valutano direttamente i lavori che entrano in gioco; così, p. es., nella teoria dell’elasticità (cap. VI). Ci si accosta in tal modo a quello sviluppo della Meccanica classica che si concreta nella costruzione della Energetica (cap. VI).
Importa finalmente accennare a due osservazioni.
La prima è che il principio d’equilibrio espresso dall’annullarsi dei lavori virtuali si riferisce sempre a casi in cui i legami stessi sono relazioni geometriche traducibili con equazioni. Se più generalmente si considerino anche legami espressi da diseguaglianze (legami unilaterali) anche il principio stesso deve essere trasformato, come è noto, in una diseguaglianza.
La seconda osservazione è che il principio dei lavori virtuali, come in genere la Meccanica, si riferisce al caso limite in cui si può fare astrazione dagli attriti. Deve essere però menzionato il recente tentativo di Almansi di trattare l’attrito come un caso di forze con legami (in parte unilaterali); dacchè sembra resultarne un’estensione assai interessante.
§ 27. Dinamica dei sistemi: principio di D’Alembert.
Una osservazione di Huyghens nello studio del moto oscillatorio, ripresa in altre forme da Giacomo e poi da Giovanni Bernouilli, è stata elevata a principio generale da D’Alembert (1743).
Un sistema di forze U agenti sopra un corpo costituito di punti vincolati, può essere sostituito agli effetti del moto, da un sistema di forze V applicate agli elementi (punti) del corpo, uguali ai prodotti delle masse di questi per le accelerazioni effettivamente generate dalle U.
Le equazioni del moto del corpo si trovano quindi espresse dalle condizioni di equivalenza statica dei sistemi di forze U e V, cioè dalle condizioni di equilibrio del sistema delle forze perdute U — V.
Abbiamo già rilevato (§§ 16, 21) come questo principio contenga una supposizione di fatto già nel caso del punto materiale. Importa ora osservare che il principio generale di D’Alembert è una conseguenza del postulato di Galileo relativo alla Dinamica del punto, ove si accettino talune ipotesi implicite che si riattaccano al concetto dei legami.
Infatti la dimostrazione del principio generale di D’Alembert si trae tosto dall’ammettere che:
In ispecie l’ipotesi 3) esprime una rappresentazione dei legami e delle loro reazioni, che vengono pensate come opponentisi a cambiamenti di distanze o a certi movimenti dei punti del sistema, e restano quindi invariate allorchè permangono queste circostanze determinanti.
Il principio di D’Alembert preso insieme a quello dei lavori virtuali, ha permesso a Lagrange di tradurre in equazione il problema del moto di un sistema vincolato, tutte le volte che i legami siano espressi da equazioni e si riducano infine ai tipi elementari considerati.
Le equazioni del movimento di un sistema esprimono sotto una forma matematica precisa che «il movimento stesso è determinato dalla conoscenza delle forze applicate, dei legami, e delle posizioni e velocità (iniziali) dei punti del sistema in un dato istante». Queste equazioni racchiudono come caso particolare le condizioni d’equilibrio.
Nello sviluppo deduttivo della Meccanica analitica si è riconosciuto utile di trasformare il principio di D’Alembert, o meglio il teorema che da esso si ottiene usufruendo del principio dei lavori virtuali, in altre forme equivalenti suscettibili spesso di una più rapida applicazione.
Il principio di Gauss del minimo sforzo ed il principio di Hamilton, sono appunto trasformazioni dell’anzidetto teorema di D’Alembert-Lagrange; ma quanto al primo principio è da osservare che esso ha per Gauss un significato più generale, in quanto comprende anche il caso di legami unilaterali.
§ 28. Principii delle forze vive e della minima azione.
Riferiamoci espressamente al caso dei sistemi cui si applica il teorema di D’Alembert-Lagrange.
Poichè questo teorema conduce alle equazioni del movimento, il movimento stesso risulta determinato date le forze, i legami, e le posizioni e velocità (iniziali) dei punti del sistema che possono assumersi ad arbitrio in un dato istante.
Deriva da ciò che ogni altro principio determinante il moto di sistemi siffatti,
Il citato principio di Gauss, che si estende anzi ad una classe più generale di fenomeni, e similmente il principio di Hamilton, offrono esempii del primo caso.
L’interesse di ricercare principii più restrittivi, corrispondenti al secondo caso, si collega alla veduta che «le forze e i legami non sieno elementi arbitrarii del fenomeno dinamico», ed in ispecie che i loro reciproci rapporti implichino una limitazione, la cui conoscenza diventi quindi necessaria per procedere più innanzi nella previsione concreta dei fatti.
Se, p. es., si ammetta di estendere la concezione astronomica newtoniana delle forze come «azioni dei punti materiali, esercitantisi secondo il principio dinamico d’azione e reazione» (forze centrali), e se si riducano quindi i legami ai casi che possono risultare da tali forze (cfr. cap. VI), si verrà appunto ad introdurre una condizione restrittiva che permetterà di dedurre dal teorema di D’Alembert-Lagrange qualche principio determinante più espressivo.
Effettivamente l’ipotesi delle forze centrali conduce anzitutto a stabilire un resultato di grande importanza fisica, cioè il principio delle forze vive, dal quale risulta poi una più semplice determinazione del movimento.
Facciamo brevemente la storia di questo principio.
Per primo Huyghens, nello studio dei movimenti pendolari, ebbe ad osservare che «la variazione della somma delle forze vive dei punti di un sistema in moto è uguale ed opposta a quella dei lavori eseguiti dalle forze», e questo teorema si estende al caso generale cui si riferiscono le equazioni di Lagrange.
Ma vi è di più: la variazione della forza viva o del lavoro può venire spesso valutata senza conoscere le traiettorie percorse nel movimento, dipendentemente soltanto dalle configurazioni iniziale e finale del sistema. Il germe di questa osservazione trovasi in Galileo; questi notò che l’acquisto di forza viva di un grave cadente dipende soltanto dall’altezza verticale della caduta; Huyghens ed Eulero dettero all’osservazione di Galileo un significato più esteso.
Finalmente Daniele Bernouilli riconobbe che l’osservazione stessa ha un valore generale nell’ipotesi delle forze centrali. Infatti in tal caso le forze ammettono un potenziale, dipendente soltanto dalla configurazione del sistema, e «la variazione della forza viva del sistema in moto si misura in ogni istante da quella del potenziale».
Questo è appunto il principio delle forze vive, che (come vedremo nel cap. VI) prelude a quello della conservazione della energia.
Per i sistemi soggetti a forze che ammettono un potenziale, il principio delle forze vive permette di ridurre quelli di Gauss e Hamilton ad una espressione più semplice, la quale costituisce il cosidetto principio della minima azione.
Il movimento avviene in modo che la variazione del valore medio della forza viva del sistema in ogni intervallo di tempo risulta minima.
Questo principio precede storicamente Gauss; fu enunciato dapprima, in forma un po’ vaga, da Maupertuis, e precisato da Eulero; Lagrange avvertì il suo legame col principio gaussiano.
§ 29. Verificazione della Dinamica.
Risulta dai precedenti paragrafi che uno sviluppo psicologico dei dati empirici è riuscito a proseguire le associazioni ed astrazioni rappresentate dai concetti di spazio e di tempo, colla costruzione di una Statica e quindi di una Dinamica che comprende la Statica stessa come caso particolare.
Codesto sviluppo psicologico può riguardarsi come una serie d’induzioni, procedenti in parte da esperienze inconscie, in parte da esperienze consciamente eseguite e coordinate alle prime per modo da estendere la visione immaginativa o intuizione dei fatti.
La varietà di queste esperienze, la loro intima associazione in un sistema generale di supposizioni, mercè cui vengono ad accordarsi e a controllarsi le une colle altre, costituisce un accertamento preventivo delle supposizioni stesse, e porge quindi una garanzia del loro valore in un ordine molto elevato di approssimazione, quantunque sia legittimo a questo riguardo di discriminare i principi classificandoli in una gerarchia (cfr. § 23).
Per una più precisa e certa valutazione della Dinamica, si impone ora di sottoporre ad una verifica le conseguenze che se ne deducono.
Il teorema di D’Alembert-Lagrange, che riassume le supposizioni della Dinamica prese nel loro insieme, esprime un rapporto generale fra certi dati empirici: movimento di un corpo, forze agenti sui punti di esso (cioè campo di forze entro a cui il corpo si muove), distribuzione di massa (densità) del corpo stesso, e legami fra i suoi punti.
I principii della Meccanica, in ispecie quelli della Meccanica del punto, possono pensarsi come determinazioni particolari di quel rapporto, corrispondenti a condizioni ipoteticamente semplici; e però la deduzione del teorema di D’Alembert-Lagrange dai principii suddetti, significa che il fenomeno dinamico viene spiegato nella sua complessità come la sovrapposizione di un certo numero di fenomeni elementari.
Ora la verificazione della Dinamica esige una serie di casi concreti in cui i supposti dati (moto, forze, ecc.) possano venire valutati coll’esperienza, in un certo ordine di approssimazione.
Occorre dunque in particolare che:
Queste condizioni si trovano assai bene soddisfatte in due casi, che rientrano appunto nel campo dei fenomeni dal cui studio è sorta la Dinamica:
Qui il sistema completo può ritenersi costituito di corpi solidi, e sebbene s’ignori il modo di variare della loro densità, è lecito di fare astrazione da questa conoscenza riguardando i corpi stessi, ora come punti, ora come sfere o ellissoidi omogenei o la cui densità cresca con una certa uniformità verso il centro. Nelle principali questioni dell’Astronomia di posizione l’errore inerente a tali ipotesi riesce trascurabile, e però basta valutare nel loro insieme le masse e le forze che vi agiscono.
Ora queste determinazioni sono in parte legate fra loro, e dipendono da una ipotetica estensione di certe esperienze; così p. es. da quelle di Cawendisch, di Carlini, di Airy, e dalla constatazione delle forze prodotte dalle maree, messe a riscontro colle osservazioni astronomiche, si argomentano nel modo più diretto le attrazioni interplanetarie; dalle esperienze di Bessel sul pendolo, confrontate alle osservazioni astronomiche, si argomenta che la misura della massa è proporzionale all’attrazione che essa esercita ecc. Tuttavia è da rilevare che il grado di esattezza delle accennate esperienze terrestri appare generalmente inferiore a quello delle osservazioni astronomiche, dalle quali appunto, mediante opportuni confronti, si trae d’ordinario una correzione dei valori delle masse.
Pertanto il procedimento di verificazione della Dinamica che viene esperito dagli astronomi, ha questo significato:
La verificazione della Dinamica resta subordinata all’accoglimento di ipotesi sulle forze e sulle masse che vengono alla lor volta direttamente verificate dal confronto delle osservazioni astronomiche con certe esperienze terrestri, nell’ordine di approssimazione più ristretto di queste ultime.
Una verificazione più precisa della Dinamica è fornita dalla Astronomia planetaria, soltanto in questo senso: si può determinare una ulteriore approssimazione delle masse e delle forze in guisa da rappresentare nel loro insieme le osservazioni astronomiche, e stabilire delle previsioni, le quali si trovano confermate entro limiti di grandissima precisione; cioè con uno scarto angolare di 15″, ossia di 1″ di tempo, pel moto della luna in due secoli e mezzo, e parimente con uno scarto massimo di 8″ di angolo, o di metà di 1″ di tempo, pel moto di Mercurio in un secolo (uno spostamento di 41″ del perifelio); per gli altri pianeti lo scarto suddetto resta inferiore ad un angolo di 2″, quantunque conduca ad errori apprezzabili relativamente al nodo di Venere e al perifelio di Marte12.
Dinnanzi a tali resultati il sentimento primo e più forte è sentimento di compiacenza e di ammirazione, che eleva l’animo in un’apoteosi della Scienza.
Ma chi già possiede illimitata fiducia nel progresso di questa, trarrà dal successo nuova lena alla ricerca di una conoscenza anche più precisa.
Ed invero gli scarti sopra riferiti, benchè praticamente minimi, sono ancora apprezzabili coi nostri delicati istrumenti e superano i limiti d’errore prevedibili nell’applicazione della teoria newtoniana; essi richiedono pertanto una spiegazione adeguata.
Ora si è condotti a scegliere fra le ipotetiche spiegazioni seguenti:
Trattandosi di un ordine di approssimazione molto elevato è difficile dire se, conformemente all’ipotesi 2), non sia possibile una determinazione della funzione f (r) che restringa gli errori entro limiti trascurabili; ma una tale ipotesi certo deve apparire poco soddisfacente senza il conforto di qualche rappresentazione, ed è quindi per recare un piccolo peso alla nostra fiducia nella Dinamica.
L’idea di correggere l’ipotesi dell’attrazione, ammettendo un tempo finito di propagazione, si è presentata a Laplace, il quale tuttavia non ha considerato questa correzione come riguardante i principii stessi della Dinamica newtoniana e però connessa verosimilmente a qualche altra correzione di questi. Il calcolo di Laplace, rinnovato da Léhman Filhés (1884), ha portato ad una velocità di propagazione milioni di volte più grande di quella della luce; e sembra impossibile discernere una tale velocità da una propagazione istantanea13.
Lasciamo a questo punto la verificazione astronomica della Dinamica; il grado di approssimazione raggiunto, a dir vero già meraviglioso, sembra difficilmente sorpassabile entro questo campo di osservazioni, al quale si dovrà dunque ritornare soltanto dopo un confronto di più larghe esperienze (cfr. cap. VI).
All’infuori dei due casi principali, su cui ci siamo fermati innanzi, giova considerare quale verifica della Dinamica ci porgano altri ordini di fenomeni più complessi, e particolarmente in qual modo una tale verifica venga porta dal funzionamento delle macchine.
Ora tutti sanno che qui le previsioni della teoria esigono correzioni molteplici; le forze, le masse, i legami e i movimenti, che ci appariscono come parte visibile del fatto, non bastano più a determinarlo; occorre considerare accanto a questi degli elementi perturbatori, ed in prima linea l’attrito cui si collegano fenomeni di riscaldamento, elettrizzazione ecc. Si è quindi costretti a riconoscere che la Dinamica rappresenta in tali casi una conoscenza grossolanamente approssimata, e di più che le condizioni suddette hanno un’influenza sistematica, e non possono quindi essere trascurate neppure in una teoria statistica.
Tuttavia codesto apprezzamento verrà modificato nel senso di una verifica più precisa della Dinamica ove si riesca ad estendere l’insieme dei dati visibili, tenendo conto, p. es., dei movimenti vibratorii messi in evidenza dal suono ecc.
Ora codesta estensione è teoricamente illimitata, se si ammetta di oltrepassare mediante ipotesi il campo dell’esperienza. Accanto alla parte visibile dei fenomeni, si sarà indotti così a costruire un mondo ipotetico invisibile, che allontanandosi sempre più da ciò che cade sotto i sensi, assumerà il significato di un intermediario fittizio fra gli oggetti reali (cap. II).
La Dinamica estesa in tal modo potrà dirsi verificata se la corrispondenza stabilita fra gli enti fittizii e la realtà fisica condurrà ad una conoscenza adeguata dei varii rapporti fenomenici, ed in particolare ad una soddisfacente correzione delle previsioni sul movimento.
Ma una siffatta verifica resterà ad ogni modo subordinata all’accoglimento di altre ipotesi ausiliarie, poste a base della rappresentazione mercè cui si valutano le forze. Quale valore sia pertanto da attribuirle esamineremo nel capitolo VI.
Qui vogliamo concludere la nostra critica coll’osservazione seguente:
In una interpretazione estesa della Dinamica soltanto certe combinazioni dei dati elementari di questa assumeranno per definizione il significato di oggetti reali, e la verifica sperimentale porterà direttamente sui rapporti di tali oggetti, cioè su certi teoremi dedotti dai principii ipotetici, presumibilmente non equivalenti alle premesse. Onde si affaccerà naturale l’idea di prendere i teoremi stessi al posto dei principii come supposizioni fondamentali di una teoria generalizzata.
Per tal modo l’interpretazione fisica degli sviluppi deduttivi della Meccanica, riuscirà a proseguire con una serie di induzioni successive il procedimento di acquisto dei concetti della Scienza, conformemente alle vedute illustrate nel cap. III.
Come essa possa riuscire di più ad una vera correzione della Meccanica classica, vedremo nel cap. VI.
Note
- ↑ «Die Mechanik in ihrer Entwickelung» 4.te Auflage, Leipzig, Brockhaus, 1901, (pag. 232-237).
- ↑ «Einführung in des Studium der theoretischen Physik». Leipzig, Teubner, 1900. Cfr. anche l’articolo di Poincarè, su «La mesure du temps» che leggiamo nel volume testè comparso «La valeur de la Science». Potrà sembrare strano che certe considerazioni sviluppate in questo libro per giustificare la conclusione nominalistica, si assomiglino a taluni degli argomenti che noi abbiamo adoperato collo scopo opposto. Ma il motivo fondamentale della differenza sta nella veduta trascendente del filosofo francese (cfr. cap. IV), a cui si contrappone lo spirito della nostra critica.
- ↑ Circa il significato della temperatura assoluta cfr. cap. VI.
- ↑ Op. cit. a pag. 255.
- ↑ Milano, 1896.
- ↑ Relativamente a questa ipotesi cfr. S. Arrhenius «Die Unendlichkeit der Welt» in Rivista di Scienza «Scientia», N. X, (1909).
- ↑ Op. cit. pg. 226. Cfr. Vaschy «Nouvelles Annales de Mathématique», 1895. Maggi op. cit. e «Enseignement mathématique», 1901.
- ↑ «Leçons de Mécanique physique» Paris, 1898.
- ↑ Per i rapporti della questione col postulato d’Euclide, cfr. R. Bonola: «La Geometria non-euclidea», Bologna, Zanichelli, 1906.
Si troverà anche qui un resoconto del modo di trattazione del problema che è dovuto a Lagrange. Nonostante l’interesse e la semplicità di questo metodo, gli preferiamo tuttavia quelli citati nel testo, perchè in essi non ricorre alcuna intuizione dinamica, il che sembra conforme allo spirito della questione. Lagrange invece postula implicitamente che «sieno sostituibili rispetto all’equilibrio legami che permettono gli stessi movimenti». - ↑ Il principio di Torricelli dice che l’equilibrio dei gravi corrisponde al minimo (o al massimo) di altezza del centro di gravità. Lagrange ha osservato che a questo caso particolare può ridursi il principio generale da lui denominato delle velocità virtuali.
- ↑ Cfr. p. es. Appel «Traité de Mécanique rationnelle», Paris, Gauthier et Villars, 1893 (p. 225).
- ↑ Cfr. Tisserand: «Traité de Mécanique céleste», t. IV, cap. 29.
- ↑ Tisserand, op. cit., t. IV, cap. 28.