Problemi della scienza/Capitolo I

Capitolo I - Introduzione

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Prefazione alla ristampa della seconda edizione Capitolo II
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capitolo i.


INTRODUZIONE




§ 1. Problemi particolari e idee generali della scienza.

Una duplice fatalità incombe su colui che ha consacrato i suoi giorni alla Scienza.

Se vuol contribuire al progresso di questa, deve prepararcisi innanzi con uno studio paziente dei mille particolari che costituiscono la tecnica; deve apprendere i risultati conseguiti da innumerevoli lavoratori le cui ricerche tendono al medesimo scopo, deve impadronirsi dei loro concetti e sottoporli ad una nuova critica.

Questo lavoro assorbe a tal punto l’attività dell’investigatore, che poco tempo gli resta per gettare uno sguardo sopra altri rami della Scienza che si sviluppano accanto a lui.

Eppure anche questa necessità s’impone al suo spirito.

Se per un lato ei deve coltivare dei problemi speciali, non può esimersi per altro dal giudicare i fini proposti alla ricerca, assurgendo ad un punto di vista generale che sovrasti ad una più larga base scientifica.

La duplice esigenza genera quella contraddizione di tendenze, che, nel nostro sistema di produzione, si traduce in una perdita di tempo e di lavoro, di cui soffre la società intellettuale.

La maggior parte degli investigatori, se non sono convenientemente diretti, si chiudono in un cerchio ristretto, e cadono in un empirismo cieco; altri si smarriscono nella regione delle generalità confuse; pochi spiriti superiori trovano da se stessi la via, e spesso debbono riguardare con nuovi sforzi ciò che avrebbero il diritto di domandare all’opera compiuta dai compagni di lavoro.

Ma l’età degli eroi, quella dei Des Cartes o dei Leibniz, aprenti col loro genio tutte le porte della Scienza, sembra chiusa per sempre!

Le conquiste del passato pesano sul presente e sull’avvenire. E se è lecito sperare che un più felice impiego delle forze intellettuali, ponga fine [p. 2 modifica]al disordine dell’oggi, non è a credere, nè veramente a desiderare, che si ritorni a quello stato di cose in cui la Scienza era opera esclusiva di pochi uomini superiori. Poichè, mille forze unite riusciranno a sollevare i massi di pietra che pesavano sulle spalle del gigante!

Occorre soltanto perfezionare l’organizzazione del lavoro, il che deve ottenersi, in un regime di libertà, con una conveniente educazione scientifica.

Bisogna che tutti gli uomini illuminati in qualche ramo particolare degli studii, abbiano il sentimento dell’unità degli scopi proposti alla Scienza.

Allora essi si daranno la mano e si aiuteranno l’un l’altro in un’intesa cordiale. Gli sforzi isolati degli individui verranno rimpiazzati dal lavoro più proficuo di società scientifiche1. Nè agli spiriti superiori mancherà un posto in tale organamento della produzione. Sciolti anzi dal bisogno di soffocare le loro qualità di ricercatori nell’acquisto di un’erudizione troppo minuta, essi potranno profittare più largamente dei vantaggi della comunità, e di conseguenza rendersi più utili a questa; diverranno organizzatori, leganti svariate ricerche ai fini generali della Scienza, di cui sarà loro possibile acquistare una visione più larga e più precisa.


Ci smarriamo forse in un sogno della fantasia poetica fingendo innanzi agli occhi il quadro di un organamento ideale della produzione scientifica?

Certo non bisogna dissimulare le difficoltà frapponentisi sul nostro cammino; ma queste non possono toglierci la fiducia nel progresso, che si effettuerà senza dubbio lentamente, ma deve condurre, in ogni campo, a forme superiori della vita sociale.

Il fine a cui oggi si deve attendere è un’educazione scientifica, la quale faccia meglio comprendere a colui che lavora in un campo qualsiasi come l’oggetto della propria ricerca venga subordinato a problemi più generali.

Occorre risvegliare negli spiriti il sentimento di una più larga armonia in cui le apparenti contraddizioni si compongono.

Nulla è così pericoloso come il rinchiudersi in un cerchio, donde si bandisca con una logica rigorosa ciò che non si accorda coi resultati di un’esperienza ristretta!


§ 2. Scienza e Filosofia.

Gli scopi accennati si riattaccano chiaramente all’azione che la Filosofia deve esercitare sulla Scienza. Poichè infine la Filosofia è espressione di un sentimento che, nell’ordine delle conoscenze, ci spinge, sia pure per vie diverse, verso l’unità e la generalità. [p. 3 modifica]

Ma se essa non adempie al suo ufficio, in una misura così larga come sarebbe necessario, si deve ricercarne il motivo in quella condizione di cose per cui, in sul principio del secolo scorso, ebbe origine il funesto dissidio che ancora divide i filosofi dagli scienziati. Del quale non è nostro proposito indagare qui le ragioni, poichè non gioverebbe oggi rinnovare le antiche accuse, mentre dall’una parte e dall’altra si scorgono i segni di un riavvicinamento felice.

Osserveremo soltanto che il giudizio dei cultori della Scienza, il quale serenamente dovrebbe correggere il difetto di chiarezza e di precisione accompagnantesi a certe espressioni nebulose del pensiero speculativo, perde ogni efficacia, ove accomuni nella medesima condanna taluno che sotto oscuro linguaggio dissimula soltanto la vacuità degli scopi, con chi, sia pur soggiacendo a qualche inevitabile errore di metodo, mira a cogliere l’unità del molteplice e a sceverare il determinabile nell’indeterminato.

E tanto più diminuisce di valore la critica, quando non paga di colpire il filosofo si volga contro la Filosofia stessa, contrapponendo alla variabilità di questa, la solida costruzione dell’edificio scientifico. Accusa che può essere accolta soltanto da chi non ha compreso come il pensiero filosofico non chieda necessariamente la risoluzione di particolari e ben definiti problemi, ma rappresenti piuttosto una tendenza dell’intelletto umano, la quale dà, per così dire, all’edificio della Scienza lo stile, onde esso diversamente si atteggia ne suo progressivo innalzarsi.


Il severo giudizio degli scienziati, di cui sopra abbiamo discorso, si volge tanto più assoluto contro quella Filosofia che, derivando dalle fresche sorgenti del pensiero moderno, senza freno si è levata a toccare le più alte cime dell’astratto, nella prima metà del secolo passato.

Fortificata dalla recisa condanna di Augusto Comte, la scienza positiva accoglie la credenza che ivi non sia movimento d’idee, ma vana battaglia di parole. Non ci si limita a combattere la Metafisica dei sistemi moderni con un modo vizioso di considerare certi problemi, ma si giunge fino a negare che vi sieno in qualche modo dei problemi a cui tale speculazione si riferisca.

Così non di rado taluno, pur ignorando ciò che Comte ha costruito con una esposizione dei risultati generali delle scienze, di cui dopo sessant’anni dobbiamo ammirare la freschezza, accorda il più largo favore a quanto nella sua filosofia vi è di negazione. Di quel che fu oggetto di classiche ricerche, nulla si lascia sfuggire ad una siffatta condanna; senza esame, sembra che tutto quel lavoro sia stato speso inutilmente, poichè mirava a render noto ciò che, in un senso qualsiasi non sarà mai conoscibile. [p. 4 modifica]

§ 3. La rinunzia agnostica.

Fu osservato giustamente che la disposizione degli spiriti a questo riguardo tiene ad uno stato particolare dell’anima moderna rimpetto a certe questioni tradizionali; perchè una generale pacificazione sembra promessa alla società intera da quell’agnosticismo, critico o dommatico, a cui fanno capo tutte le vie della speculazione nel secolo scorso.

Poco più di trent’anni or sono, un illustre fisiologo (Du Bois Reymond) bandiva il concetto di tale agnosticismo, riassumendolo in un eterno Ignorabimus che pesa sulla scienza contemporanea.

E più di recente un movimento di pensiero, che costituisce un singolare ricorso nella storia della civiltà, si è destato intorno al grido «bancarotta della Scienza», intenzionalmente scelto a significare il chiaro principio che non possa il sapere dettar norma al volere. Non invano fu agitato il fantasma di una realtà che debba restare eternamente inaccessibile ad una qualsiasi determinazione scientifica!


Ma non rientra nel nostro quadro di esaminare qua, sotto tale aspetto, le conseguenze della rinunzia filosofica che si traduca nell’affermazione dell’inconoscibile.

Basti per noi osservare come una felice reazione si operi, ai dì nostri, contro questa pusillanimità dello spirito moderno, e si affermi ormai chiaramente in varii campi della Scienza.

Veramente coloro che ebbero l’audacia di porre dei limiti alle conoscenze umane, non sempre furono così prudenti da tenersi sul vago terreno delle cose non definite. Dimodochè siffatti limiti vennero per più parti sorpassati, in modo imprevisto, e si rese evidente non essere per nulla più legittimo affermare, intorno ad un soggetto qualsiasi, la nostra futura ignoranza, che credersi in possesso di una conoscenza non ancora raggiunta.

Citeremo un solo esempio istruttivo, ricordando come l’analisi spettroscopica, sia venuta a smentire, dopo pochi anni, l’affermazione di Augusto Comte vietante all’Astronomia di penetrare il mistero della costituzione chimica dei corpi celesti.


D’altronde le prove più sicure, sulle quali si vollero appoggiare delle conclusioni agnostiche, offrono poca resistenza al progresso della critica; sicchè possono assomigliarsi a certe fortezze, terribili macchine di guerra, che niuna potenza superiore riuscirebbe ad abbattere, se non fosse assai agevole ad un pugno di uomini di sorpassarle, girandovi attorno, senza impegnare alcuna battaglia.

Così appunto procede la Scienza, girando le difficoltà che si oppongono sul suo cammino! [p. 5 modifica]

Essa non avrebbe mai raggiunto lo stato attuale, se non fossero venuti mutando di continuo la forma e l’enunciato dei problemi, adattandosi alle condizioni rinnovate del pensiero lo scopo delle ricerche.

Tal maniera di procedere appare così generale, in ogni ramo dello scibile, che uno spirito scettico, riguardante le cose sotto un aspetto particolare, ben potrebbe sorridere di un progresso cui non fu mai dato di seguire la linea retta.

Ma poichè, nondimeno, il riconoscimento del progresso s’impone a chi consideri le cose nel loro insieme, si rende palese come le questioni scientifiche racchiudano qualcosa di essenziale, indipendentemente dal modo particolare secondo cui esse vengono concepite, in un’epoca determinata, dagli studiosi che ad esse rivolgono la loro attenzione.

Ricercare e scoprire tale aspetto essenziale che ogni questione nasconde è ufficio di vero spirito filosofico, non pago di arrestarsi alla superficie delle cose.


§ 4. I cosidetti problemi irresolubili.

In un senso largo non vi sono problemi irresolubili, poichè ogni problema risponde ad un sentimento, talvolta oscuro, che può essere soddisfatto dalla scoperta di qualche fatto nuovo, il quale estenda la nostra potenza sul mondo esteriore.

Vi sono soltanto problemi non ancora espressi in un conveniente enunciato; e oziose discussioni, vuote di senso, nelle quali, per difetto di metodo, ci perdiamo talvolta lontano dallo scopo reale, che non sappiamo mettere in luce, cercando una risposta a domande mal formulate.

Così ci ammaestra chiaramente la storia della Scienza, dalla quale appunto vogliamo trarre qualche esempio istruttivo.


§ 5. La quadratura del circolo.

Non importa essere versati nella Geometria, nella Meccanica o nella Chimica, per avere udito ricordare alcuni celebri problemi come la quadratura del circolo, il moto perpetuo e la trasformazione dei metalli in oro, per cui tanto si affaticò il medioevo nella ricerca della pietra filosofale.

Siffatti problemi che d’ordinario s’invocano a testimoniare la debolezza dell’intelletto umano, umiliato dinanzi ad insuperabili difficoltà, offrono materia a più interessanti meditazioni, dalle quali viene riaffermata la fiducia nel pensiero scientifico.

Il problema della quadratura del circolo, è il più celebre, fra i tre enigmi che la Geometria greca ha lasciato in eredità agli sforzi dei successori.

La trisezione dell’angolo e la duplicazione del cubo avevano già ricevuto, nei tempi moderni, una conveniente risposta, ma la quadratura del [p. 6 modifica]circolo tuttavia resisteva ai primi analisti del secolo passato. Soltanto ventiquattro anni or sono la difficoltà è stata sciolta! Ma il modo come si pervenne a tale resultato, ed il senso stesso della ottenuta risoluzione, hanno il maggiore interesse in ordine al nostro scopo.

«Quadrare il cerchio» significa, per chi non ne avesse esatta nozione, «costruire un quadrato avente la stessa area di un cerchio assegnato». Che un tale quadrato esista, ragioni di continuità facilmente lo dimostrano, poichè il lato del quadrato stesso può venire agevolmente costruito, quando si abbia un segmento uguale alla lunghezza della circonferenza.

Questa osservazione basta ad accertarci che il problema proposto non è assolutamente impossibile. Eppure tutti gli sforzi, rinnovati, quasi senza tregua, per venti secoli, dovevano necessariamente infrangersi contro l’insufficienza dei mezzi che si pretendeva di porre in opera.

Nè alcuna superiorità d’ingegno ci avrebbe dato la chiave dell’enigma, se una nuova critica non avesse chiarito gli antichi concetti relativi alla risoluzione dei problemi geometrici.

La riga e il compasso sono i soli istrumenti che la Geometria euclidea adoperò nelle sue costruzioni. E sebbene non sia fuor di luogo supporre, che ai greci stessi si sia affacciato il dubbio, relativamente alla sufficienza di tali mezzi in ordine ai tre problemi celebri di cui non fu loro dato trionfare, pure mancò ad essi la possibilità di accertarsene colla Analisi.

La cosa fu messa per noi in una nuova luce, da poi che Cartesio ebbe fondato la Geometria analitica. Apparve allora il vero senso della questione, intorno a cui tanti sforzi si spesero invano:

«Operando sul diametro di un cerchio, mediante la riga e il compasso, si può costruire il lato del quadrato avente la stessa area del cerchio, o (ciò che condurrebbe al medesimo scopo) si può costruire un segmento uguale alla lunghezza della circonferenza?»

Così la parola «costruire» assumeva un senso determinato in ordine a certi istrumenti (riga e compasso) di cui esclusivamente si voleva far uso, onde il problema proposto appariva sotto un aspetto nuovo.

Se la lunghezza della circonferenza deve essere costruibile nel modo accennato, il numero che esprime il rapporto di questa al diametro, deve godere di certe proprietà analitiche ben determinate.

Diventa quindi una questione precisa di sapere se tali proprietà gli appartengano. E sotto questa forma si vede a priori come il problema ammetta una risposta, affermativa o negativa.

La questione fu risolta, nel 1882, per opera del Lindemann, il quale felicemente riuscì a estendere ad un campo più largo di numeri i metodi sapientemente immaginati dallo Hermite nello studio del numero e, base dei logaritmi neperiani. [p. 7 modifica]

La risposta è negativa. Non si deve dunque cercare la quadratura del cerchio per mezzo di costruzioni euclidee, poichè la risoluzione del problema è, in questo senso, impossibile.

Ma come già abbiamo avvertito si tratta soltanto di un’impossibilità relativa agli strumenti assegnati.

Poichè esiste la soluzione, non può essere in senso assoluto impossibile raggiungerla. Si tratta dunque di immaginare un istrumento conveniente che sia capace di fornirla, rispondendo a tutte le esigenze della pratica.

Sotto questo nuovo aspetto si può dire che una risoluzione soddisfacente del problema vien data dall’integrafo di Abdank-Abakanowicz, comunemente usato per la valutazione delle aree.


§ 6. Il moto perpetuo.

Una impossibilità più assoluta in confronto alla quadratura del circolo, di cui sopra abbiamo discorso, sembra ostare al desiderato di coloro che da secoli attendono alla ricerca del moto perpetuo. Ma il problema scientifico che a questa ricerca si collega, lungi dal mostrarsi irrisolubile, ha condotto alla scoperta di un sommo principio della natura.

Considerata la questione nel suo aspetto più largo, la domanda del moto perpetuo si palesa come quella di un particolare rapporto fra gli elementi dinamici capaci di generare il movimento di una macchina, ed il rendimento di questa.

Ora un rapporto siffatto resta stabilito dal principio della conservazione dell’energia, per cui appunto il moto perpetuo, come esso è comunemente inteso, riesce impossibile.

Tuttavia fu osservato che, ove indipendentemente dal disequilibrio delle temperature, si pervenisse a trasformare il calore in lavoro meccanico, una nuova forma di moto perpetuo, potrebbe venire raggiunta. Si avrebbe allora una macchina la quale utilizzerebbe, senza arresto necessario, il lavoro fornito da un corpo, costantemente raffreddantesi al di sotto della temperatura dell’ambiente.

Ma alla nuova domanda, suggerita dalla ricerca di un tale moto perpetuo di seconda specie, risponde nel campo dell’esperienza fisica il secondo principio della Termodinamica, negante la possibilità di una siffatta trasformazione. Del quale principio verrà fatto di apprezzare tutta la fecondità positiva, ove si pensi che, insieme col primo principio della conservazione dell’energia, ci dà, col teorema di Carnot, il modo di valutare il rendimento delle macchine termiche.


§ 7. L’Alchimia.

Abbiamo veduto come il problema del moto perpetuo faccia capo ad un elemento quantitativamente invariabile nelle trasformazioni dell’energia. [p. 8 modifica]

È invece una irriducibilità qualitativa della materia, in ordine ai nostri mezzi sperimentali, il resultato a cui condussero le ricerche degli alchimisti. Così il problema di «cambiare i metalli in oro», apparve rientrare in un più largo enunciato, dal quale uscì la Chimica moderna.

Le molteplici variazioni della materia, apparenti dapprima sotto la veste del miracolo, avevano colpito la fantasia degli antichi ricercatori, cui nessun mutamento nella costituzione dei corpi doveva sembrare impossibile. Ma quando la critica dei fatti osservati permise di intravedere «la legge» sovrapponentesi alla varietà dei fenomeni, il problema chimico venne ad assumere il suo vero aspetto scientifico, sollevandosi alla generale indagine dei rapporti e delle condizioni che presiedono al mutamento della materia.

Questo si può dire il nuovo enunciato del problema che, nella mente degli alchimisti, rimaneva nascosto; per quanto almeno si guardi all’oscuro sentimento scientifico da cui erano mosse le loro ricerche.

Chè se, d’altra parte, si consideri lo sviluppo della scienza moderna, non si potrà disconoscere come lo scopo stesso delle ricchezze vagheggiate da quegli antichi ricercatori sia oltrepassato. Imperocchè le applicazioni industriali della Chimica recano, ai dì nostri, benefizii più larghi e pregevoli di quella ricchezza di Mida, che la trasformazione dei metalli in oro ci avrebbe dato.


§ 8. Il problema della conoscenza.

Niuna avidità di ricchezza ha spinto i filosofi a proseguire con tutte le loro forze il problema che concerne la realtà e la conoscibilità delle cose.

Se fossero riusciti nei loro sforzi, un solo resultato era loro promesso: riconquistare cioè, attraverso il dubbio filosofico, quella sicura ed ingenua fede degli uomini, che è al di fuori e al disopra di ogni critica.

Ma per l’appunto gli spiriti più logici, messisi su questa via, sembrarono pervenire a risultati del tutto opposti: niente garantisce quella pretesa realtà, che con alcun mezzo non ci è dato raggiungere; soltanto l’idea è vera, e l’io resta sicuro dominatore di un mondo, che a lui crolla d’intorno.

Mirabili conclusioni! alle quali invero non riesce difficile dare la risposta che Diogene rivolse a Zenone, allorchè questi pretendeva dimostrare la non esistenza del moto: il cinico, levatosi dalla terra ov’era seduto, si mise a camminare in silenzio.

Così appunto risponde all’idealismo metafisico la filosofia positiva, accennando ai fatti che la Scienza ha raccolto.

All’esaltazione dello spirito, che si crede unico signore di un mondo di sogni, ed in se stesso vuole scoprirne le leggi, essa contraddice mostrando una realtà che si allarga e si allontana da noi, e sfugge alla vana pretesa di assoggettarla ai nostri sentimenti o alla nostra volontà. [p. 9 modifica]

Ma veramente le beffe sono, contro i filosofi, armi spuntate. E chi si contenti di ridere merita forse che gli si ricordi il proverbio «risus abundat in ore stultorum».

Trattandosi di uomini elevati, certo è più saggio cercare di comprenderli, e trarre partito dai loro stessi errori. Poichè una conseguenza assurda non può arrestare il movimento del pensiero; e uno sbaglio, di cui non si volesse scorgere che l’aspetto ridicolo, sarebbe un’occasione perduta d’istruirsi.

Come si potè dubitare appunto di ciò che vi è di più certo per tutti gli uomini, fino dalla più remota infanzia?

Non si riesce forse a comprenderlo se non risalendo coll’immaginazione a quell’età, di cui è quasi perduto il ricordo, nella quale i sogni si confondono colla realtà, e l’immagine riflessa da uno specchio sembra così reale come la persona che gli sta dinanzi.

Perchè la verità e l’errore entrano nel nostro intelletto per la medesima porta, che i sensi aprono al sapere, noi siamo bentosto costretti a metterci in guardia per non rimanere ingannati dalle illusioni.

La volontà dell’uomo di non essere ingannato, tale è appunto l’origine del problema della conoscenza!

Si tratta sempre ed unicamente di questo: apprendere e toccare la realtà di mezzo alle mille cause d’errore per cui la nostra osservazione è viziata.

Occorre dunque stabilire una distinzione relativa.

Perdendo di vista tale relatività per seguire il miraggio di un assoluto fantastico, l’idealismo metafisico ci ha ricondotti al punto stesso donde eravamo partiti, cioè a confondere i sogni coi fatti reali; si dia agli uni il nome degli altri, o viceversa, non vi è tra i due casi alcuna differenza essenziale.


Accade talvolta nelle escursioni alpine che, non sapendo esattamente quanto disti la meta, ci si creda prossimi a toccarla mentre si sale la cima rocciosa di un contrafforte, dal quale una nuova vallata si apre improvvisamente alla vista. Occorre ridiscendere con prudenza; dopo varie ore di una marcia faticosa non ci troveremo forse più alti che al luogo di partenza. Ma il tempo e la fatica non furono spesi inutilmente; poichè se la cima sembra ora più lontana, nell’allargato orizzonte, in realtà ci siamo avvicinati ad essa, superando un ostacolo che la nascondeva ai nostri occhi. Bisogna soltanto non perdersi di coraggio; non rinunziare in un momento di debolezza.

Si ricominci la lotta, con uno sforzo della volontà! E se il pendio è ripido, se enormi crepacci dissimulati dalla neve si aprono sotto i nostri piedi, arrampichiamoci con prudenza, tenendoci stretti gli uni agli altri, leghiamoci alla corda e diamoci la mano!

Così metaforicamente può dirsi dell’idealismo metafisico, che salendo il colle dirupato di un assoluto fantastico, si trovò innanzi ad una valle profonda, [p. 10 modifica]al di là della quale riluce la realtà da raggiungere. Noi siamo veramente più prossimi a questo scopo reale, poichè fummo chiariti intorno alla natura relativa della questione.

Tutti gli uomini di buona volontà, reagendo contro un momento di sconforto, si uniscano dunque per vincere, con rinnovati sforzi, le nuove difficoltà che si affacciano ai nostri occhi!


§ 9. I pericoli del linguaggio.

Occorre anzitutto evitare gli errori del passato. Per ciò si deve avvertire che il linguaggio, del quale ci serviamo ad esprimere i nostri pensieri, è, in fin dei conti, un sistema di rappresentazione simbolica delle cose. Poichè esso ci fornisce un processo di schematizzazione, saliente per gradi all’espressione di fatti più generali, ci permette di ragionare intorno ad idee astratte, molto lontane dalla realtà immediata che cade sotto i nostri sensi.

Ma l’uso di questo potente istrumento, che viene in aiuto alla debolezza del nostro intelletto, non è esente da pericoli. Prendendo il volo verso le alte regioni del pensiero, si corre il rischio di dimenticare il significato delle parole, che diventano vuote di senso appena che cessino di rappresentare le cose. Giunti a questo punto, nulla è più facile che operare formalmente sui simboli, mentre lo sviluppo del pensiero tendente alla generalità non trova più alcun freno nel mondo concreto, a cui resta estraneo.

Se dunque non si vuole smarrirsi in un sogno vuoto di senso, non si deve dimenticare la condizione suprema di positività, per cui il giudizio conoscitivo deve affermare o negare, in ultima analisi, dei fatti particolari o generali.


§ 10. Assoluto e relativo: l’assoluto nel moto.

Queste osservazioni gettano viva luce sugli argomenti classici, coi quali si pretende provare l’esistenza di qualcosa di assoluto, che debba sfuggire esternamente al nostro sapere.

Si trova nel linguaggio la parola «assoluto» in contrapposto a «relativo». La parola ha un significato, facile a desumersi dall’uso che se ne fa d’ordinario a proposito di un tema qualsiasi.

Se siamo trasportati in una vettura, vediamo gli alberi sfilare dinanzi ai nostri occhi, e diciamo che essi si muovono relativamente a noi; ed è la vettura, da cui siamo portati, che si muove.

Questo assoluto alla sua volta diviene qualcosa di relativo, se si considera dal punto di vista dell’Astronomia. Gli alberi vengono trasportati dalla terra, che gira intorno al sole.

Ma il sole sembra dotato anch’esso di un movimento proprio di traslazione, rispetto alle stelle lontane, di cui le reciproche variazioni ci appaiono trascurabili per un periodo di tempo non troppo lungo. [p. 11 modifica]

Nondimeno osservazioni secolari hanno rilevato come anche queste stelle, impropriamente chiamate «fisse», si muovano le une rispetto alle altre, mutando le loro distanze reciproche in una misura che deve giudicarsi enorme, se riesce sensibile la variazione degli angoli secondo cui esse sono vedute da un punto tanto lontano, come è la nostra terra.

In conclusione, il movimento che viene concepito come assoluto in un certo ordine di atti, appare relativo in un campo più esteso; è un assoluto suscettibile di gradi, rispondente al bisogno di cercare alla nostra scienza un punto d’appoggio più fisso.

Abbiamo voluto soltanto citare un esempio, senza spingere la discussione fino al limite cui si può giungere nello stato attuale delle nostre conoscenze. Avremo occasione di riprendere in esame il problema; qual’è il senso più assoluto che possiamo attribuire al moto? Ma si tratterrà sempre di dare alla parola «assoluto» un significato relativo più esteso, soddisfacente meglio all’insieme dei rapporti meccanici conosciuti.


§ 11. L’assoluto nella Morale.

Scegliamo un secondo esempio, in un ordine di considerazioni completamente diverso.

Chi vuole un fine deve volere qualcuno almeno dei mezzi che vi conducono. In questo senso il sentimento del dovere compare fra i motivi determinanti di ogni volontà continuativa, buona o cattiva che sia.

A questo genere di doveri verso se stessi, se ne aggiungono di simili verso la società; i quali, comunque vengano acquisiti per una imposizione suggestiva di altri, non possono comprendersi che come doveri relativi ad uno scopo implicitamente accettato, sia pure per volere di un gruppo sociale, anzichè proprio.

Ora la morale distingue fra tali doveri, contrapponendo i «doveri assoluti» ai «relativi»; ammette che la difficoltà dell’azione possa giustificare il non adempimento di questi, ma all’opposto sancisce che tale motivo non valga a sottrarre alcuno alla pena di compiere quelli. Perchè?

Perchè si tratta di doveri relativi a fini generali, la cui osservanza permanente ha per la società umana un valore superiore ad ogni sacrifizio o danno transitorio per quanto grande.

Ma il valore del fine, che ha significato assoluto per riguardo a certi moventi dell’azione, appare a sua volta relativo nel confronto con altri fini dello stesso ordine: il dovere che esige il suo adempimento, nonostante il sacrifizio o il danno dell’agente, non domanda ugualmente la sottomissione di altri doveri; il fine non giustifica i mezzi. Ed il conflitto morale non può essere risolto che da un apprezzamento comparativo degli ideali supposti e dalla loro subordinazione a qualche ideale più alto. [p. 12 modifica]

Ma niun ideale è insuperabile, ed il fine altissimo, che entro un certo gruppo sociale ed in una certa epoca ha senso assoluto, diventa relativo in un confronto più largo delle morali di popoli differenti, in differenti condizioni di vita.

Si obietterà per esempio: Questo ideale assolutamente insuperabile è la giustizia?

Effettivamente in ogni momento e per ogni grado della evoluzione sociale, l’idea umana della giustizia esprime la sintesi più alta dei giudizii apprezzativi; ma questi stessi giudizii non sono ognora suscettibili di essere estesi ad una cerchia più larga di rapporti? E non ne segue perciò che la loro espressione generale ed astratta non possa mai riguardarsi come compiuta?

Il valore assoluto della morale non significa dunque praticamente null’altro che una relatività più larga. Tale constatazione s’impone a chi riguardi scientificamente la Morale come un fatto, indipendentemente da ogni possibile considerazione di un danno o di un vantaggio che possa andarvi connesso. Ma il pericolo del danno temuto non sussiste, per chi tenga dinanzi agli occhi il posto preminente dei fini etici generali sui motivi delle azioni individuali, che è la sola cosa praticamente importante espressa da tale assoluto. Mentre l’affermazione che la Morale è relativa, tende essa stessa ad elevare i criterii dei nostri giudizii e della nostra condotta, sopratutto nei rapporti tra popoli diversi, in differenti condizioni di vita. Nulla è più ingiusto che estendere i canoni della nostra Morale ad uomini dissomiglianti da noi; e l’assurda pretesa d’imporli in nome di una superiorità naturale, darebbe al filosofo facile argomento di riso, se le sue conseguenze pratiche non suggerissero alla mente riflessioni più amare.


§ 12. Che cos’è l’Assoluto in un senso trascendente.

Negli esempi che precedono, l’assoluto, conformemente all’uso del linguaggio volgare, ci appare significante una relatività più profonda e lontana da noi.

Vero è che, in tali casi, una vaga coscienza ci avverte la parola non essere adoperata nel suo significato rigoroso. Ma non ci si occupa generalmente di definire un tal senso, nella più larga estensione che gli si suppone in confuso.

Esaminiamo ora ciò che la parola è divenuta pei filosofi.

Poichè nel relativo ci son gradi, si pretende di risalire fino al termine una serie indefinita, per giungere a qualcosa che non sia più relativo sotto alcun aspetto, cui si possa dare propriamente il nome di assoluto.

Risalire fino al termine una serie indefinita di gradi? La proposizione stessa è evidentemente contradditoria. Ma il palese assurdo non cede innanzi ad una illusione radicata nello spirito umano. [p. 13 modifica]

È un peculiare vantaggio dei procedimenti simbolici, quello di rappresentarci il termine occupante in una serie assegnata un posto qualsiasi, senza compiere successivamente col pensiero le operazioni che occorrerebbero per raggiungerlo. Così, ad esempio, noi possiamo ragionare intorno al numero 164.792.843 senza contare di seguito tutte le unità che lo compongono: o similmente possiamo istituire dei calcoli aritmetici intorno a , senza eseguire le mille moltiplicazioni successive indicate dal simbolo.

In questi casi la mente compie, per così dire, in un modo abbreviato, in virtù di rapporti logicamente stabiliti, una serie di operazioni effettuabili, che esigerebbero soltanto un tempo più lungo. E il pensiero si posa sopra un oggetto ben definito nella serie stessa.

Ma l’abitudine che così viene contratta di surrogare con un simbolo le operazioni costituenti la definizione effettiva, educa l’illusione che la cosa sia definita dal simbolo; e perciò che basti designare con una parola l’ultimo termine di una serie indefinita, perchè a questa parola corrisponda un oggetto. Non pertanto il simbolo è in questo caso vuoto di senso, com’è impossibile l’operazione trascendente che con esso si pretenderebbe indicare. Procedimenti abbreviati consentono al pensiero di compiere più rapidamente un numero finito di operazioni, non mai infinite; una infinità non si esaurisce in un tempo comunque grande, per quanto si proceda abbreviando o aggruppando i suoi termini.


§ 13. I procedimenti trascendenti rispetto alla Psicologia fisiologica.

A quest’ultima proposizione si può dare una forma più precisa, dalla quale meglio risulti la illegittimità dei procedimenti trascendenti, di cui sopra abbiamo discorso.

La Psicologia fisiologica permette infatti di misurare il tempo che viene richiesto da un atto del pensiero. E poichè in ogni caso vi è un minimo di durata, in verun modo si può accordare alla mente umana la facoltà di compiere infiniti atti, in un tempo qualsiasi assegnato.


§ 14. I procedimenti trascendenti nell’analisi infinitesimale.

Non vi è dunque da sorprendesi che la supposizione opposta messa a base di un modo di definizione vizioso, conduca a innumerevoli assurdi.

L’analisi infinitesimale è il campo ove tali assurdi si manifestarono più chiaramente, innanzi che i processi di ragionamento trascendenti ne venissero felicemente banditi. E la critica dei concetti di infinito e di infinitesimo, di serie e di limite, sembra costituire la più adatta preparazione per ben penetrare il senso delle osservazioni precedenti. [p. 14 modifica]

La prima cosa che ci viene insegnata da questa critica è che la parola «infinito» non può applicarsi ad alcun numero o ad alcuna quantità data, ma denota soltanto un modo di accrescimento di una quantità variabile, la quale sia suscettibile di ricevere valori più alti di qualsiasi valore fisso prestabilito. Ciò si esprime appunto dicendo che l’infinito non ha senso attuale secondo l’accezione di Leibniz2, ma soltanto potenziale o genetico.

Lo stesso vale per l’infinitesimo.

L’importanza di tale modo di concepire le cose consiste nel riconoscere assurda la pretesa di definire un numero, per mezzo di una serie indefinita, come ultimo termine di questa. Può darsi che fuori della serie si trovi veramente un numero che ne costituisca il limite, al quale i termini della serie suddetta vadano avvicinandosi; ma l’esistenza di questo limite non esprime in sostanza che una proprietà del modo di variare dei termini di una altra serie, costituita dalle differenze tra esso e i termini della serie primitiva. Pertanto l’esistenza del limite non può argomentarsi dal solo fatto dell’esistenza della serie, ossia il limite non può esser definito esclusivamente per mezzo di questa, ma soltanto paragonando la serie a qualcosa che ne sia dato indipendentemente al di fuori.

Il valore pratico di queste affermazioni è ben noto oramai a tutti coloro che conoscono l’Analisi infinitesimale, perciocchè gli algoritmi infiniti danno origine generalmente a serie non dotate di limite, ed il ragionare come se queste fossero capaci di definire un tal limite conduce a singolarissimi assurdi.

P. es., le serie ottenute con un processo infinito di sommazione possono presentarsi (oltrechè come convergenti verso un limite) come divergenti o indeterminate; appartengono rispettivamente a queste due ultime categorie le serie

e


Orbene l’uso di queste serie nel calcolo, permette di dimostrare l’uguaglianza di due numeri qualsiansi!

Nè basta; chè, pur nel maneggio delle serie convergenti, occorre non dimenticare che con esse si rappresenta solo convenzionalmente un numero (limite) fuori di esse; dal dimenticarlo si sarebbe tratti invero a far posto a [p. 15 modifica]qualcosa di trascendente, riguardando la serie come somma di un numero infinito di termini, e ci si sentirebbe quindi autorizzati ad operare su di esse secondo le proprietà della somma, permutandone ad es. l’ordine dei termini; ma in questo modo, p. es. dalla serie convergente


possono farsi nascere ad arbitrio serie convergenti verso limiti diversi, o anche serie divergenti o indeterminate.

«Eliminare ogni processo trascendente di definizione e di ragionamento»: ecco la condizione essenziale per intendere il calcolo infinitesimale, che il Cesaro esprime al principio delle sue belle lezioni, avvertendo il lettore di bandire dalla mente ogni idea metafisica!


Agl’insegnamenti che ci vengono porti dall’analisi infinitesimale, aggiungiamo quelli che scaturiscono dalla moderna teoria degli insiemi.

Qui il processo di definizione trascendente si è affacciato nella costruzione stessa di certi «insiemi» presi come «totalità degli infiniti enti cui spetta un certo carattere assegnato».

Fra gli esempi che potremo citare (posti in luce dagli studii di Cantor, Du Bois Reymond, ecc.) ne scegliamo uno semplicissimo su cui il Russell ha richiamato recentemente l’attenzione dei geometri.

In più modi si può costruire un insieme



composto di enti qualsiansi , , ...., il quale non contenga se stesso fra i suoi elementi (tale dunque che nessuno degli enti coincida con ).

Ora definiamo come l’insieme di tutti gli insiemi cui spetta l’indicata proprietà:


Si ha anzitutto che non deve trovarsi fra gli elementi , altrimenti si contraddice alla proprietà supposta per gli . Ma d’altra parte se si trova fuori dell’insieme , questo insieme non esaurisce tutti gli possibili che godono della proprietà anzidetta.

La contraddizione mostra che il concetto di è illusorio, e così si rende palese la viziosità del processo trascendente con cui è stato definito. [p. 16 modifica]


§ 15. Il valore psicologico dell’Assoluto.

Ma l’analisi logica che rivela il vizio della definizione trascendente, non esaurisce la questione dell’assoluto. Come si spiegherebbe altrimenti il posto che all’assoluto spetta nelle credenze legate ai più intimi sentimenti dell’animo umano? In qual modo un errore nella posizione di un problema, potrebbe dar valore ad un simbolo che abbiamo riconosciuto privo di senso?

Per rispondere a tali domande dobbiamo riattaccarci alle considerazioni concernenti «l’assoluto nella Morale».

Già avvertiamo il carattere peculiare della volontà umana di essere in alto grado progressiva, di sottomettere cioè i fini ad essa proposti in una gerarchia, nella quale il fine più prossimo è subordinato al più lontano.

La consistenza di una gerarchia siffatta esige che in ogni momento il fine superiore agisca sulla volontà come un movente abbastanza forte, contro i motivi occasionali che tenderebbero a volgerne o a infirmarne la determinazione. E questa forza auto-suggestiva viene conferita dall’esperimento che la volontà stessa ha fatto della sua fermezza, e si rivela nella conseguente coscienza che essa ha di non mutare.

Si vede quindi come la progressiva estensione della gerarchia dei fini e la sua consistenza, costituiscano due esigenze psicologiche contradditorie per la volontà umana. Un nuovo fine superiore non può venire a modificare i fini già accettati da essa, senza che sminuisca la sua fiducia nella propria coerenza e nella propria forza.

Quando, nella vita dell’individuo o della società, si allarga rapidamente la prospettiva dei fini, sopravviene quindi uno di quei periodi critici che sono caratterizzati dalla disorganizzazione del volere. Questo stato d’impotenza, annullando momentaneamente la personalità umana, ha d’ordinario in se stesso il proprio correttivo, perchè toglie interesse alla ricerca di fini nuovi. Fermato così il progresso, tutti i moventi discordi che si agitano nella mente travagliata vengono ad una suprema battaglia; e come una determinazione si afferma vittoriosa, apparendo capace di subordinare le altre, l’animo vi si appiglia con tutta l’energia di reazione che dà il bisogno di sfuggire ad uno stato doloroso.

Ogni uomo entrando dall’adolescenza nella giovinezza o da questa nella virilità, passa generalmente per un periodo critico come quello innanzi descritto, e ne esce per virtù propria o per il sostegno altrui.

Similmente, in taluni momenti storici, analoghe crisi delle volontà si producono nell’ordine sociale; si hanno allora periodi di disorganizzazione rivoluzionaria, che seguono ad un troppo rapido progresso e riescono a fermarlo, innalzando smisuratamente il concetto di quell’autorità che si affermò prevalente. [p. 17 modifica]

Il valore psicologico dell’assoluto è inerente alle condizioni del progresso innanzi descritto. E sarebbe facile di fornire prove storiche.

L’illusione di trascendere la serie indefinita dei fini risponde al bisogno di cercare al di là un termine al dubbio angoscioso, risolvendo con un imperativo autorevole i conflitti del volere.

In questo senso l’assoluto, pittostochè un’idea direttiva, è una condizione liberatrice dello spirito, per cui tutte le facoltà si concentrano e si esaltano in un punto solo, mentre ogni estraneo impulso ed ogni critica resta inibita dalla coscienza: credo quia absurdum est.

Siffatto stato dell’animo, essenzialmente emotivo e religioso, costituisce un problema per lo psicologo, ma il filosofo della conoscenza non ha motivo d’interessarsene.

Spiegare come e perchè, coll’affievolirsi della fede religiosa, nell’epoca moderna, l’assoluto sia divenuto oggetto di una ricerca che volle costituirne la scienza, sarebbe certo istruttivo, e non soltanto sotto l’aspetto storico. Ma una tale spiegazione esigerebbe una più lunga disamina.

A noi basta di fare emergere dalle considerazioni precedenti che l’assoluto, preso come oggetto di costruzione razionale, non è più assoluto, e, per la critica stessa, perde il valore di un imperativo sovrapponentesi a tutti i fini della volontà, a tutti i motivi intellettuali e sensibili.

Che cosa rimane dunque di quella pretesa Metafisica, se non un documento dello spirito umano, debole e dominatore ad un tempo?

Icaro librato a volo pei cieli precipita negli abissi del mare.

La ragione scoraggiata profonda nell’inconoscibile.


§ 16. Sostanza e apparenza.

Abbiamo veduto come il sofisma enunciato generalmente dicendo che «il relativo suppone l’assoluto», si appoggi ad un’illusione verbale, nascondente un processo di definizione vuoto di senso.

Tutte le antinomie consimili, di cui è piena la Filosofia classica, si spiegano in un modo analogo. Esse possono mettersi sotto la forma di un processo infinito, o presentarsi in aspetto di semplice negazione; ma in quest’ultimo caso si tratta di una negazione puramente formale, che ci serve a costruire medesimamente una parola priva di significato.

Le antinomie di questo genere, essendo vere fino ad un certo punto, quando non si dia ai termini un senso rigoroso, traggono appunto da ciò tutta la loro forza.

Si parla, p. es., della sostanza delle cose, in contrapposto alla loro apparenza. Invece diamante e cristallo di rocca, sotto una simile apparenza nascondono sostanze affatto diverse.

In tali casi si stabilisce una distinzione importante, fra le sensazioni [p. 18 modifica]immediate che riferiamo ad una cosa qualsiasi, e l’insieme dei rapporti di questa col mondo che la circonda, dei quali possiamo acquistare in parte una conoscenza mediata.

E l’osservazione risale ad Aristotele; il filosofo nota, ad es., come il remo immerso nell’acqua, pur essendo intero ci appaia spezzato. Ma il senso primitivo della distinzione stessa si è venuto trasformando attraverso il medio-evo, lo spirito dell’assoluto essendosi sovrapposto alla civiltà ellena.

Guardiamo che cosa tale distinzione sia divenuta per Kant!

L’apparenza, o come Kant si esprime, il fenomeno, viene concepita in contrapposto all’essenza, o noumeno, prendendo quest’ultimo termine in senso assoluto3. Si faccia astrazione, nel considerare un corpo qualsiasi, da tutti i rapporti che sono a noi percettibili, in modo immediato o mediato; ciò che resta è la vera essenza del corpo.

Un tale non senso rimarrebbe veramente inesplicabile, se non si riattaccasse ad una rappresentazione antropomorfica del mondo. Ci si immagina che, potendo entrare in una pietra, si proverebbero sensazioni atte a rivelarcene l’effettiva essenza.

Lo stato confuso della mente che risponde al modo assoluto di considerare l’essenza, ricorda appunto quest’antropomorfismo pel quale siamo passati probabilmente nella prima infanzia.

Ma non sarà davvero cagione di meraviglia, che si arrivi a conclusioni agnostiche riguardo a questa pretesa essenza4, definita per modo che non resti più nulla nel significato della parola.


§ 17. L’ignoto.

Veramente non vogliamo negare così il sentimento di un «enorme mistero dell’universo», che le riflessioni intorno all’idea della sostanza, suscitano nello spirito nostro. Poichè concepiamo che rapporti multipli leghino tutte le cose, noi siamo tratti a scorgere dietro di esse un ignoto da svelare, e a rappresentarci l’impossibilità di esaurire gli oggetti che cadono nel suo dominio. Ma l’affermazione dell’inconoscibile, non esprime adeguatamente questo concetto.

D’accordo col nostro Ardigò nella critica che egli muove a questo punto nella dottrina di Spencer, non possiamo ammettere che ad una realtà accessibile alle nostre conoscenze, si contrapponga una realtà misteriosa, la quale debba necessariamente sfuggire ad ogni sforzo del pensiero. Ben [p. 19 modifica]diversamente le precedenti osservazioni ci mostrano una serie di oggetti, ugualmente accessibili alla ricerca; ma, come questa serie ci appare indefinita, vediamo che il nostro desiderio di sapere non potrà esser mai interamente soddisfatto.

Fortunata condizione invero, per la società umana, a cui un progresso senza fine si apre dinanzi.


§ 18. Distinzione fra subiettivo e obiettivo secondo Kant.

Affine alla distinzione fra apparenza e sostanza è quella tra soggetto e oggetto, fra soggettivo e oggettivo.

Possiamo ormai dispensarci dal ripetere come tale distinzione, assolutamente presa, sia priva di senso, rispondendo per una parte ad una veduta trascendente dell’oggetto in sè (che si confonde colla sostanza), per un’altra parte ancora ad una veduta trascendente dell’io, come di un sostrato indipendente dalle varie personalità fenomeniche sovrapposte in una persona.

È sempre il medesimo spirito assoluto della critica, che porge il fondamento all’agnosticismo kantiano.

Ma soltanto chi guardi le cose sotto un punto di vista particolare può interpretare la filosofia di Kant come conducente ad un resultato scettico, nel quale essa s’incontra coi postulati della filosofia positiva.

E mentre questo lato della dottrina sembra rivolto a conciliare certe esigenze pratiche, in quanto «lascia appunto ai dati pratici di riempire il posto per un’estensione della conoscenza ove la ragione speculativa si mostra incapace di occuparlo»5 si può ben dire che, dall’averne messo in luce il carattere vizioso, non viene infirmato il valore della rivoluzione operata da Kant verso l’antica metafisica. Interpretando largamente lo spirito kantiano, si scorge infatti come la distinzione fra subiettivo e obiettivo non rimane nel pensiero del filosofo una sterile antinomia, ma divenne per lui il punto di partenza di un nuovo concetto della realtà scientifica, che, per altra via, il positivismo ha raggiunto.

Alla stretta veduta del positivismo crediamo anzi che la filosofia di Kant possa ancora aggiungere qualche cosa di scientifico, quando ci si accordi a ritenerne soltanto lo spirito in ciò che ha di migliore, e si muova nuovamente da altre basi ad una costruzione nuova.

L’insegnamento che «nella conoscenza si distingue un elemento personale (subiettivo) ed un elemento reale (obiettivo), e che quest’ultimo variabile da uomo a uomo, si riattacca ad alcune forme generali della sensibilità e della intelligenza umana», resta infatti pieno di significato positivo, ove si proceda [p. 20 modifica]a valutare la distinzione, escludendo ogni pretesa di trovarvi dentro qualche cosa di assoluto.

Ma perciò occorre, non soltanto mettere da parte gli sviluppi della sfrenata speculazione post-kantiana, ma anche gli stessi giudizii del Maestro intorno all’«anticipazione a priori della forma di un’esperienza possibile» (cfr. op. c. pg. 312) e alla «realtà obiettiva conferita alle conoscenze a priori dalla possibilità dell’esperienza» (op. c. pg. 215); giudizi in se stessi ambigui, che, nella loro interpretazione autentica e nell’applicazione loro, risentono del vizio originario d’intendere trascendentemente la distinzione fra subiettivo e obiettivo; e pei quali, venendosi implicitamente a riconoscere una certa oggettivazione delle leggi strutturali della psiche nella costruzione della Geometria o della Meccanica, si è in fin dei conti riaperta la porta a quella Metafisica, che il Kant voleva condannata per sempre.

D’altronde, al di fuori dello sviluppo della Filosofia nel secolo scorso, ciò che era di vitale nel criticismo ha lasciato più vive tracce nei domini della Scienza, ove è penetrato, agitando e rinnovando. E da questa base appunto deve sorgere la critica nuova recante luce ai problemi positivi della conoscenza.


§ 19. La distinzione tra subiettivo ed obiettivo considerata positivamente.

La distinzione tra subiettivo e obiettivo, ha un contenuto positivo per riguardo alle nostre conoscenze? In qual modo reggerà essa, poichè abbiam visto cadere l’antinomia fra il soggetto e l’oggetto, trascendentemente presi? Procediamo a valutare alcuni esempii, che sembrano atti a condurci ad una conveniente definizione induttiva.

Si abbia una piccola scatola di cubi, di quelle che (secondo il sistema freobeliano) vengono date come giuoco ai bambini. Il fondo della scatola è diviso da due righe nere in quattro quadrati, uguali alle faccie dei nostri cubi. Il bambino apprende quindi che «per coprire il fondo della scatola occorrono quattro cubi».

Tutti siamo d’accordo nel riconoscere che questa affermazione contiene un elemento obiettivo: se invero la scatola fosse più grande, in confronto ai cubi, di questi potrebbe occorrerne sei o otto ecc. Tuttavia nell’espressione della conoscenza suddetta entra qualche elemento subiettivo. In primo luogo la forma verbale della parola «quattro», che viene pronunciata diversamente da persone diverse, e a cui un francese surroga il suono «quatre», un tedesco «vier» ecc. In secondo luogo, la forma psicologica di essa6: un bambino [p. 21 modifica]si rappresenta il «quattro», associando idealmente i cubi alle dita della mano col pollice piegato, un altro alle quattro palline di un pallottoliere; ad un terzo bambino, che non sa contare, si è insegnato a disegnare col lapis, sopra i cubi, degli archi circolari di un quadrante ciascuno; egli riesce quindi a mettere da parte tanti cubi quanti occorrono a coprire il fondo della scatola, disponendoli successivamente l’uno accanto all’altro per modo che i suddetti archi formino (grossolanamente) un cerchio. L’ultimo bambino possiede come gli altri la conoscenza obiettiva in discorso, ma non più attraverso alla rappresentazione del numero, bensì attraverso quella di una figura geometrica.

Diciamo che le conoscenze dei nostri bambini sono obiettivamente le medesime, perchè essi si accordano nella previsione loro domandata, preparando ugualmente i cubi che copriranno il fondo della scatola, mentre questa previsione non si troverebbe verificata per riguardo ad un’altra scatola, o a cubi di differenti dimensioni. Diciamo che codeste conoscenze sono subbiettivamente diverse perchè la previsione è da loro ottenuta in modi diversi, attraverso immagini diverse.

Ma tostochè spingiamo più innanzi la nostra critica scorgiamo:

1) che la previsione anzidetta non è possibile se non attraverso qualche immagine, e però che una conoscenza obiettiva pura non è possibile;
2) che il modo subiettivo di rappresentazione influisce sopra la previsione stessa e su altre previsioni analoghe, onde bisogna dire che contiene qualcosa di obiettivo.

Nell’esempio precedente ciò riesce molto chiaro.

Il bambino che si rappresenta il fatto citato per la via geometrica, sa meno degli altri in quanto non riconoscerà subito che i suoi quattro cubi segnati copriranno il fondo della scatola, ove essi sieno distribuiti in modo da dar luogo, coi quattro archi ad una figura diversa dal circolo (v. fig. 1). Sotto un altro aspetto l’anzidetta rappresentazione geometrica insegna di più, a prevedere che il fondo della scatola può essere coperto disponendo i cubi in un dato modo e in un dato ordine ecc.


Da quest’esempio già si può riconoscere che l’elemento subiettivo e l’obiettivo non sono due termini irriducibili della conoscenza, ma piuttosto due aspetti di questa, resultanti dal confronto di essa con altre conoscenze di una medesima persona o di persone diverse, in rapporto ad una sola cosa o a cose differenti.

Riscontriamo l’elemento obiettivo ove c’è un accordo di previsioni, comunque queste sieno ottenute (da una stessa persona o da più persone) in modi diversi. [p. 22 modifica]

Riscontriamo nella pluralità di questi modi possibili l’elemento subiettivo.

Ma comunque, coll’allargarsi della conoscenza, i due elementi suddetti riescano sempre più distinti, distinti assolutamente non lo saranno mai. Imperocchè il concetto dell’obbiettivo e del subiettivo risulteranno in ogni momento, per astrazione, da un confronto di conoscenza, che resteranno sempre suscettibili di estensione.

Per conseguenza nell’aspetto subiettivo delle conoscenze sarà sempre contenuto qualche elemento obiettivo, e così nell’aspetto obiettivo qualche elemento subiettivo.


Tuttavia il processo di distinzione può essere proseguito molto al di là di ciò che appaia dall’esempio sopra citato.

Sempre ponendo a base il confronto delle conoscenze ci si può infatti sollevare al di sopra di quella obiettività, che apparisce quando si confrontano conoscenze di persone diverse in rapporto ad una medesima cosa; e parimenti confrontando i modi di conoscenza relativi a diversi oggetti, si può pervenire a riconoscere la subiettività di rappresentazioni, che pur sono comuni a tutti gli uomini.

È questo un nuovo stadio scientifico della distinzione fra subiettivo e obiettivo, dove si palesa una circostanza nuova, cioè che «il modo di rappresentazione conducente in un dato caso ad una previsione verificata, c’induce in errore per riguardo ad altre previsioni possibili». Ciò si esprime dicendo che all’aspetto subiettivo della conoscenza si legano delle apparenze delle cose, non rispondenti alla loro realtà. La distinzione così ottenuta c’induce quindi a correggere la conoscenza primitivamente accolta, spezzandola in due parti, di cui l’una (elemento obiettivo) risponde meglio al complesso più largo delle previsioni, l’altra (elemento subiettivo) aggiunta alla prima ci porge la previsione relativa al caso singolo discordante (ossia ci spiega, come si dice, la fallace apparenza).


§ 20. Subiettivo ed obiettivo nel procedimento della misura.

Questo appunto noi possiamo riconoscere dall’analisi di un esempio semplice e luminoso.

Quando si parla della grandezza o delle dimensioni di un oggetto, si afferma una conoscenza complessa che involge l’accordo di previsioni molteplici, in rapporto a possibili esperienze tattili, visive, ecc.

Ora supponiamo conosciute le dimensioni di un oggetto posto dinanzi ai nostri occhi. Di queste dimensioni la vista ci fornisce una certa conoscenza immediata nella quale si mescolano per altro varii elementi che dobbiamo sottoporre alla nostra analisi. [p. 23 modifica]

Anzitutto si deve tener conto della distanza e della posizione dell’oggetto, e correggere le cause d’errore che tengono a questo elemento di rapporto fra il soggetto e la cosa, mutando in più modi le condizioni della visione di essa.

Ma dopo ciò rimangono ancora, nella nostra conoscenza, alcuni elementi dipendenti dalla struttura dell’organo visivo, che la Psicologia fisiologica c’insegna essere variabili da uomo a uomo, ma tenere tuttavia a certe circostanze generali della sensazione. Così, ad es., due punti dell’oggetto, i quali si trovino separati dal vuoto, appaiono più vicini di altri due punti equidistanti che sieno riuniti da un tratto di materia continuo; e similmente lunghezze uguali vengono apprezzate diversamente a seconda della loro colorazione uniforme o varia, ecc.

Noi vediamo già nell’esempio citato l’influenza dell’elemento subiettivo inerente alla vista, che le sensazioni tattili ci permettono di correggere. Ma anche senza ricorrere ai procedimenti più esatti di misura, per mezzo del tatto, è agevole comprendere come esperienze appropriate possano condurre a riconoscere direttamente le cause d’errore sistematiche, senza uscire dal dominio dell’osservazione visiva; basta invero notare la colorazione delle differenti parti dell’oggetto, sostituire il vuoto a talune parti piene, ecc. Ed una volta stabilite così certe regole che possono riattaccarsi alla prospettiva aerea, presa in senso largo, si ha in queste il mezzo di correggere le sensazioni della vista, e di giungere quindi ad una più adeguata conoscenza delle dimensioni sottoposte al nostro giudizio, per modo da ottenere previsioni più concordi relativamente alle diverse esperienze visive possibili, di una stessa persona o di persone diverse.


Se ora lasciamo cadere ogni restrizione nell’uso di un senso piuttosto che di un altro, senza uscire dal campo della misura, troviamo materia a più interessanti riflessioni.

La determinazione di una misura, costituente un giudizio comparativo fra una lunghezza ignota ed un’altra presa come unità di riferimento, si effettua per mezzo dei sensi, aiutati dall’uso di opportuni istrumenti. L’istrumento che viene adoperato comporta un certo grado di precisione, che si può riguardare come un dato obiettivo del giudizio. Ma oltre a ciò si debbono prendere in considerazione la maniera con cui l’istrumento suddetto viene adoperato, le condizioni fisiche e psicologiche dell’esperimentatore, e mille altre cause accessorie, per cui i risultati delle esperienze, ove si domandi un certo grado di esattezza, differiscono da una volta all’altra per una stessa persona, e nel loro insieme per persone diverse.

Ora, prescindendo dagli errori sistematici, per occuparci soltanto degli accidentali, si riscontra il fatto singolare ed istruttivo che la media dei resultati [p. 24 modifica]per un medesimo sperimentatore tende a differire dalla misura reale per un errore regolare, che prende il nome di costante personale.

In due modi questo fatto può essere riconosciuto, sia coll’impiego di istrumenti di misura più perfezionati, sia col confronto delle osservazioni di differenti persone. Ma una volta stabilita la costante personale, valendoci di essa per correggere sistematicamente la determinazione di misura, si raggiunge un grado di esattezza maggiore, che si manifesta per un accordo più preciso fra i resultati di uno stesso sperimentatore e di sperimentatori diversi.

Le notizie, sopra ricordate, rischiarano il contenuto positivo dell’affermazione relativa all’elemento subiettivo della conoscenza.

Infatti nell’esempio precedente noi vediamo ancora una volta come non si tratti di dare all’oggetto per riguardo al soggetto un significato trascendentale rigoroso. La distinzione per essere relativa non perde certo della sua importanza: l’esistenza di un dato della struttura sensoriale riesce lucidamente definita comunque la conoscenza medesima, che prendiamo come esatta, si riconduca mediatamente ai sensi stessi, di cui poniamo in luce l’errore.


Ma vi è un altro aspetto delle considerazioni precedenti che importa di rilevare.

Il riconoscimento della legge degli errori sopra accennata si ha sostituendo all’insieme delle osservazioni varie e molteplici la loro media aritmetica, che si presume avvicinare di più alla misura esatta.

Due questioni sorgono.

Anzitutto vediamo l’idea di una misura esatta avere una parte nel procedimento mentale che ci conduce a correggere l’errore dei sensi. È questo un punto essenziale, su cui sopratutto i kantiani fermeranno la loro attenzione.

Che cos’è la misura esatta? Non è essa l’assoluto nella misura? E non si sarebbe così forzati di accordare un posto a questo assoluto, che dianzi abbiamo proclamato vuoto di senso?

Esaminiamo pacatamente la questione.

Se viene domandato: «Si può concepire un ultimo termine nella determinazione sempre più approssimativa di una misura? noi rispondiamo no. In questo senso realistico, la misura esatta non significa nulla. L’ipotesi di una determinazione rigorosa immediata della misura urta poi contro obiezioni di varia natura. Ciò che sappiamo o supponiamo della costituzione della materia, e ciò che ammettiamo relativamente alla luce (sopratutto la nozione di una lunghezza d’onda), creano ostacolo ad una siffatta ipotesi; sicchè non è difficile, p. es., assegnare un limite teorico, non troppo lontano dal limite pratico effettivamente raggiunto, alla più piccola lunghezza visibile col microscopio. [p. 25 modifica]

Ma tutto ciò è anche indifferente per noi quando prendiamo l’ipotesi di una misura esatta come punto di partenza di un ragionamento.

Il valore dell’ipotesi sta soltanto nell’ammettere che i fatti inerenti alle determinazioni sperimentali della misura possano essere rappresentati da un concetto (il concetto di un numero) logicamente ben definito, per modo che i ragionamenti istituiti su tale concetto conducano a previsioni verificate dalla esperienza. Ora in questa subordinazione dei dati delle sensazioni e dei concetti, sta appunto un elemento della struttura psicologica, la cui importanza per la teoria della conoscenza avremo occasione di rilevare più tardi.


Poche parole ancora intorno al postulato della media, che meno direttamente si lega al nostro soggetto.

Diceva argutamente il Lipmann al Poincaré, che in tali questioni, attinenti alla probabilità, l’accordo degli scienziati è unanime, perchè i matematici le ritengono risolute dall’esperienza fisica, e i fisici dalle matematiche. E il Poincaré, riportando il motto, giustamente avverte, la questione non doversi oramai più discutere; si tratta soltanto di resultati sperimentali.

La scelta della media aritmetica a rappresentare una serie di osservazioni, corrisponde alla scelta di quel numero per cui la somma dei quadrati delle differenze dai resultati delle osservazioni parziali, riesce minima. Questa scelta è a priori arbitraria. Ma il principio da cui essa dipende si giustifica col maggiore accordo ottenuto nel confronto di serie d’osservazioni diverse. In fin dei conti la nozione fisica della misura risponde ad un intervallo, che si tenta di ridurre il più piccolo possibile, entro il quale sono racchiusi i numeri forniti dal processo determinativo. Questo intervallo si restringe se ai numeri dati dalle singole osservazioni si sostituiscono le medie delle osservazioni similari. Tale è il valore del postulato della media che Gauss ha posto a base della teoria degli errori. Si prende la media aritmetica, rendendo minima la somma dei quadrati delle differenze dianzi indicate, perchè si domanda appunto, nel resultato, di ridurre l’intervallo che separa, in un senso e nell’altro, i numeri estremi ottenuti, dal numero equidistante da essi.


§ 21. Subiettivo ed obiettivo nella costruzione scientifica.

Proseguendo le osservazioni precedenti saremo tratti a discutere più profondamente il problema che concerne la definizione positiva del reale; questo problema considereremo in modo più largo nel cap. II, istituendo una critica dei fatti e delle teorie.

Qui ci limitiamo ad osservare come l’esempio della misura c’istruisca intorno al valore scientifico della distinzione tra subiettivo ed obiettivo nella conoscenza. Dappoichè questa distinzione, smessa ogni pretesa d’intenderla [p. 26 modifica]trascendentalmente, diviene il punto di partenza di un metodo di correzione progressiva nello estendersi della Scienza. Se tale veduta non può appagare coloro che, in un campo qualsiasi, amano raffigurarsi un procedimento come compiuto, essa risponde invece alle esigenze del progresso, ed ha quindi un significato ben più positivo e soddisfacente per gli scopi pratici.

Non vi è dubbio che la Scienza miri ad una conoscenza sempre più obiettiva. In ogni momento della sua elaborazione, essa lascia quindi fuori dalle sue esposizioni dommatiche gli elementi che, nella conoscenza acquisita, appaiono subiettivi. Ma l’eliminazione del subiettivo dovrà essere spinta ancora innanzi in uno studio più avanzato, nel quale la correzione dell’errore che vi attiene, sia proceduta più oltre. E d’altra parte quegli elementi subiettivi, scartati come residui dell’eliminazione precedente, daranno ancora qualcosa di obiettivo, vagliati con una nuova critica.

Così il processo costruttivo della Scienza può paragonarsi al moto di un’altalena, che colui che vi è sopra tenti di spingere avanti il più alto possibile; ad ogni spinta in avanti corrisponde una oscillazione per cui diviene più pronunziato anche il movimento all’indietro, e ciò rende sempre più efficace la spinta.

La Scienza riguardata nel suo aspetto genetico non sale soltanto ad una obiettività sempre maggiore, ma per contrasto spinge a vette più eccelse la subiettività delle rappresentazioni, che sono il suo modo di conquista.


§ 22. Critica del positivismo.

Lo schema costruttivo accennato viene ad integrare la veduta della Scienza come formata, che appartiene alla Filosofia positiva.

Il movimento di pensiero, designato da questo nome, deve la sua origine ad una reazione contro le arbitrarie concezioni dell’idealismo metafisico, tanto più pericolose in quanto pretendevano di assurgere ad una somma (anzi assoluta) obiettività, laddove rispecchiavano soltanto l’esagerazione del subiettivo.

Mentre Emanuele Kant denunziava colla sua critica la fallacia di codesta pretesa obiettività metafisica (pur aprendo l’adito ad una certa, non giustificata, estensione del subiettivo sull’obiettivo), Augusto Comte attendeva ad una critica negativa di essa, contrapponendo ai sistemi filosofici multiformi e discordi la Scienza formata, e ponendo in luce il carattere delle conoscenze di «fatto», cui essa si riferisce.

Icilio Vanni rileva acutamente che questo carattere della conoscenza reale, viene ritrovato dal Comte nell’accordo degli uomini, cioè nel valore sociale della Scienza, contrapposto al valore individuale della Metafisica. Noi mettevamo in luce poc’anzi, accanto a questo importante elemento di distinzione dell’obiettivo, altri elementi che restano nella sfera individuale. [p. 27 modifica]

Comunque, lo spirito positivo che informa tutta l’opera del Comte, e da cui essa riceve il nome, si manifesta in una cernita rigorosa delle conoscenze cui viene attribuito il carattere di obiettività. Questo spirito, indipendentemente dalla scuola dei letterati e dei sociologi, che si sono dati a sviluppare soprattutto alcuni resultati delle ultime costruzioni comtiane, ha esercitato una potente azione nei varii rami della Scienza, ed ha toccato la sua più alta espressione nel campo delle conoscenze fisico matematiche, onde il Maestro trasse i suo caratteri speculativi.

Frattanto l’azione suddetta, in ogni ordine dello scibile, si palesa in un duplice modo: con uno sforzo per raggiungere una forma di conoscenza, sempre più indipendente dalle varie rappresentazioni possibili; con un disinteresse completo per tutto ciò che concerne codeste rappresentazioni, e con una condanna sommaria di quella Metafisica che da esse trae alimento.

Già dicemmo come questo lato negativo del positivismo, che pure sembra raccogliere il maggior favore, sia ai nostri occhi il più debole. La critica della Metafisica che ne esce fuori, per una parte concede a questa di più di quanto le si deve, per l’altra involge in una condanna dommatica qualcosa che pure in essa merita di essere rivendicato.


§ 23. Positivismo e Metafisica.

Vi è qualcosa da rivendicare nella vecchia Metafisica? E questo stesso dubbio non basta perchè da tutti gli uomini di scienza si decreti l’ostracismo verso chi lo propone?

Noi domandiamo che, innanzi di pronunziare la condanna, si ascolti l’imputato senza la presunzione di avere davanti un reo.

Anzitutto occorre sapere «che cosa s’intenda comunemente per Metafisica». Pochi forse o nessuno, fra i positivisti, si sono posti una tale domanda. O almeno essi si sono spesso fermati alla risposta «Metafisica è scienza dell’assoluto, posto al di là della relatività fisica7; questo assoluto è inconoscibile, e vana quindi la pretesa scienza che vi si riferisce».

Per noi invece l’assoluto è un simbolo privo di senso, definito con un procedimento vizioso, e quindi sotto questo aspetto, si concede troppo alla Metafisica, accordandole l’esistenza di un oggetto, sia pure non raggiungibile, cui essa si riferisca.

Tuttavia la definizione sopra riportata della Metafisica è incompleta: la Metafisica non combina soltanto dei simboli privi di senso, che si pretenderebbero significare qualcosa di trascendente, ma si affatica a rappresentare il suo oggetto mediante immagini, che hanno un significato concreto. [p. 28 modifica]

Per poco infatti che ci si accosti ad esaminare uno di quei sistemi ontologici, ove si ha l’espressione più genuina dello spirito metafisico, si scorge tosto come le entità, con cui in essi si fabbrica il mondo, altro non rappresentano se non immagini di cose reali. Quando anche i loro autori vi pongono in guardia che le sostanze, gli eteri o i fluidi da essi immaginati sono ben diversi dagli oggetti concreti cui le parole sono associate, in quanto rappresentano qualcosa che è al di là dei fenomeni, voi non tardate a riconoscere come questa diversità consista soltanto nell’aver unito proprietà spettanti a cose diverse, con un processo mentale di associazione e di astrazione.

In ultima analisi una ontologia è una rappresentazione subiettiva della realtà, un modello foggiato dallo spirito umano, i cui elementi, tratti da oggetti reali, vengono combinati per modo da render conto di un certo ordine di conoscenze, secondo un certo punto di vista, che si prende arbitrariamente come universale.

I primi sistemi ontologici che la storia registri palesano grossolanamente questo carattere; così, p. es., il sistema di Talete di Mileto che spiegava l’umidità del seme e della pianta, l’origine dei terremoti e la costituzione dell’ambiente geografico della Grecia, riguardando «l’acqua» come il sommo principio di tutte le cose. Nelle costruzioni più evolute il processo di associazione e di astrazione è più complesso.

Ma nella Filosofia moderna vi si aggiunge il modo trascendente di considerare l’universalità del sistema, che si pretende non soltanto adatto a spiegare ogni nuovo dato possibile della realtà, ma anche la realtà stessa presa nella sua infinità attuale, e quindi l’assoluto contrapposto al relativo.

L’origine teologica della Metafisica dell’età nostra, spiega abbastanza bene il carattere anzidetto, da essa assunto. Tuttavia sotto un certo aspetto appare come codesta degenerazione, per cui si introduce nelle ontologie una viziosità sistematica, sia il naturale sviluppo, secondo le leggi psicologiche, del principio stesso di quel modo di filosofare, che, dopo alcune osservazioni preliminari, si isola completamente dal mondo esteriore. Invero tale isolamento permette al pensatore di raffigurarsi come perfetta la propria concezione del reale, di guisa che la infinità dell’universo, che è un carattere del processo genetico di acquisto delle conoscenze, non può essere rappresentata nella concezione anzidetta se non accordando all’infinito un valore attuale.


Ma, senza indugiarci ulteriormente nella critica di quei procedimenti trascendenti, di cui abbiamo denunziato la vanità, riconosciamo piuttosto che anche nelle ontologie della moderna Metafisica, ci è sempre un sistema di immagini, un modello, che può adattarsi, talvolta convenientemente, ad un qualche ordine di fatti reali, e che, ad ogni modo, promovendo associazioni nuove, può riuscir utile nello sviluppo della Scienza. Ed unicamente a questo [p. 29 modifica]elemento si deve se, pure nei più strani sistemi metafisici, s’incontra qualcosa che sembra preludere a qualche scoperta o veduta scientifica, effettivamente conseguita di poi.

D’altronde accanto alla costruzione delle ontologie metafisiche, non nascondenti la loro pretesa di porgere una scienza definitiva e completa (e non curanti di ricercare se tali aggettivi dopo quel nome abbiano un senso) altri sistemi ontologici sono stato costruiti, e si costruiscono tutti i giorni, circoscritti nel campo di un ordine di cognizioni. Nè manca la tendenza dello spirito umano ad isolarsi nella loro contemplazione, e ad estenderne la validità al di là del loro campo primitivo!8

Queste costruzioni più modeste, e più utili, che si trovano spesso confuse alla Scienza, non sono sfuggite alla critica implacabile di Comte, che le ha denunziate come metafisiche. L’etere o i fluidi, di cui i fisici popolano ipoteticamente il mondo invisibile, non hanno trovato grazia presso di lui; e lo stesso si dica di tante altre concezioni analoghe, anche oggi accolte da numerosi scienziati. Che la condanna di Comte sia giustificata in quanto a siffatte costruzioni e teorie si vuol dare il senso di conoscenze obiettive, chiunque abbia spirito positivo sarà disposto ad accordare; ma che codeste teorie (diciamo pur metafisiche) non abbiano proprio alcun valore, come rappresentazioni psicologiche, nel processo genetico della Scienza, è una tesi che non può essere accolta senza uno studio critico più approfondito di codesto processo.

Ma è orami tempo di spingere la critica del positivismo entro campi scientifici determinati.


§ 24. Positivismo fisico.

In nessun altro ramo dello scibile, lo spirito positivo ha avuto una così alta esplicazione come in talune vedute recentemente affacciatesi nelle scienze fisiche. Ciò apparirà ben naturale del resto a chi consideri che alla Fisica appunto si deve la prima concezione realistica del fatto, e dalla Fisica il metodo sperimentale ha preso origine. [p. 30 modifica]

Il più puro, il più alto positivismo si riscontra p. es. nelle opere del Mach e del Kirchhoff. Questi si è spinto così innanzi, che pervenne a bandire dalla Meccanica il concetto di forza, come quello che gli sembrava rispondere ad un elemento subiettivo nella rappresentazione del moto, segnatamente nei riguardi dell’Astronomia. Le teorie fisiche, in quanto conducono per ciascun ordine di fenomeni ad un’equazione differenziale, nella quale soltanto si riguardano contenuti i fatti, vengono sistematicamente spogliate da tutto ciò che in esse ha valore d’intuizione.

Da un siffatto modo di considerare le cose, deriva una conseguenza inaspettata, messa in luce da un’osservazione geniale del Poincarè. Se per un certo ordine di fenomeni è possibile una spiegazione meccanica, sono anche possibili infinite altre spiegazioni dello stesso genere.

Si ha, p. es., una spiegazione meccanica della luce, secondo la quale essa viene attribuita ad un certo modo di vibrazione di un etere; per ciò solo è possibile d’immaginare, in infiniti modi diversi, una diversa serie di vibrazioni che si accordi ugualmente con tutti i fenomeni luminosi.

La cosa ha tutta l’apparenza di un paradosso: teorie meccaniche, tra loro differenti, possono esser vere al tempo stesso, cioè rispondere ugualmente alla realtà, in quanto esse racchiudono i medesimi fatti e differiscono in ciò che la loro rappresentazione ha di subiettivo.

Quale progresso sotto l’aspetto logico! Risolute in un modo inaspettato tante oziose discussioni volte a scegliere fra teorie equivalenti, si giunge fino a lasciare da parte ogni rappresentazione particolare dei fatti, per domandarci, in ogni singolo caso, se essi si acconcino ad una spiegazione meccanica. Così lo spirito fisico si emancipa da certi procedimenti tradizionali; sembra difficile di portare più innanzi in questa scienza il pensiero positivo.

Ma l’emancipazione non è completa, poichè resta una necessità dell’intelletto umano di formarsi dei modelli meccanici concreti, e si avrebbe torto di riguardare come perfettamente equivalenti due teorie, che hanno un valore subiettivo diverso.

In questo aspetto psicologico di esse sta anzi la forza che le spinge in avanti sul cammino delle scoperte; onde, per ogni campo, un piccolo numero di teorie rispondenti al bisogno di semplicità, che è connaturato al nostro intendimento, furono concepite e seriamente discusse.

Lo spirito inglese di un Maxwell o di un Thomson non teme di seguire nei più minuti particolari teorie di codesto genere; e la rappresentazione concreta del movimento dell’etere, suggerisce loro la scoperta di fatti, che destano l’ammirazione di tutto il mondo scientifico. [p. 31 modifica]

Non usciremo dal dominio delle conoscenze fisiche prendendo brevemente in esame le questioni relative all’ipotesi atomica, nelle quali il valore psicologico della rappresentazione metafisica si palesa molto chiaramente.

Non è nostro proposito di discutere qui le antinomie che si collegano alla supposizione dell’atomo. Poichè non sappiamo rappresentarci una parte della materia, se non dotata di tutti gli attributi di questa, l’immagine che ci formiamo degli atomi, riguardandoli come corpi estremamente piccoli, urta contro difficoltà, forse insormontabili, appena che si attribuisca loro un senso reale.

Veramente non possiamo tacere che i nuovi studii originati dall’esperienza del tubo di Crookes, e le idee relative alla spiegazione elettrica dell’indivisibilità dell’atomo, allontanerebbero forse la più grave delle difficoltà a cui sopra abbiamo alluso. Nondimeno tali difficoltà rinascerebbero per l’elettrone, sicchè uno spirito prudentemente positivo non può vedere nell’ipotesi atomica che una rappresentazione subiettiva.

Spogliando l’atomo degli attributi concreti, inerenti alla sua immagine, si viene a considerarlo come un simbolo. Il valore logico della teoria atomica dipende allora dalla corrispondenza che si conviene di stabilire fra i simboli che essa racchiude e la realtà che si vuole rappresentare.

Ora se ci riportiamo al momento in cui la suddetta teoria fu accettata nella Chimica moderna, vediamo che le formule atomiche brute contengono soltanto la rappresentazione dei rapporti invariabili di combinazione dei corpi semplici, in peso e in volume; questi ultimi essendo presi in relazione ad uno stato gassoso ben definito.

Ma, una volta introdotto nella scienza, il linguaggio atomico suggerisce di estendere il significato dei simboli, e di cercare nella realtà fatti che rispondano a questa concezione più estesa.

La teoria cammina, spinta, per così dire, dal suo lato metafisico, o, se si vuole, dall’associazione d’idee che l’immagine concreta dell’atomo porta con sè.

Così alle formule brute si sostituiscono, nella Chimica dei composti del carbonio, le formule di struttura, le quali vengono a rappresentare, mercè la disposizione o l’aggruppamento degli atomi nella molecola, dei rapporti di formazione di secondo grado, cioè rapporti inerenti a certe trasformazioni chimiche rispetto a cui taluni gruppi di elementi hanno in qualche modo carattere invariante. E qui, non bastando l’immagine piana della molecola, a spiegare p. es. i fatti d’isomeria, soccorre la rappresentazione stereochimica di Van’t Hoff.

Dobbiamo ricordare ancora la teoria cinetica dei gas, i fatti spiegati colla dissociazione molecolare in ioni, le ipotesi suggerite p. es. a Van der Vaals della veduta che all’atomo appartenga una grossezza effettiva? dobbiamo accennare ai fenomeni fisici di un ordine tutto diverso (p. es. alla colorazione [p. 32 modifica]delle pellicole sottili formanti le bolle di sapone) che W. Thomson ha riattaccato alla misura di codesta grossezza?9.

Un tale insieme di resultati mette chiaramente in luce, come non sia utile al progresso della Scienza fermare il cammino di una teoria, guardando soltanto al suo aspetto positivo, cioè all’insieme dei fatti che essa spiega; il suo valore risiede ben più nelle ipotesi che essa è capace di suggerire, per mezzo della rappresentazione psicologica dei simboli.

Non ne trarremo la conclusione che l’ipotesi atomica debba corrispondere alle sensazioni estremamente sottili di un essere simile ad un uomo perfezionato; non ragioneremo neppure intorno alla possibilità di codeste immaginarie sensazioni, in quanto si pensino come una pura estensione delle nostre. Ma ripeteremo della teoria atomica ciò che si dice un maestro illustre aver pronunziato relativamente alla unità della materia: se ad un primo esame sembri possibile un fatto che contraddica la rappresentazione atomica, vi sono forti probabilità perchè questo venga smentito dalla esperienza.

Una tale capacità di adattarsi ai fatti, fornendone il modello, non significa forse la realtà positiva di una teoria?


§ 25. Positivismo biologico.

Se più alpinisti si trovino saliti sulla vetta di un colle per vie diverse e tortuose, di mezzo ad un’intricata boscaglia, essi possono bene dimenticare i dubbii intorno alla scelta di una strada, che li hanno divisi alla partenza, per celebrare insieme la conquista della mèta desiderata in comune. Assorti nella vista grandiosa, che ricompensa tutte le fatiche, i nostri uomini abbandoneranno ogni discussione fino al momento in cui il desiderio di salire più in alto, non imponga loro una nuova scelta del cammino da tenere.

Così appunto i fisici, allorchè sono pervenuti a raccogliere molteplici ordini di fatti in un fatto generale espresso da un’equazione differenziale, possono ugualmente lasciare da parte ogni questione attinente alle rappresentazioni subiettive che li hanno condotti al resultato. Soltanto un progresso ulteriore domanderà un’analisi su questo soggetto.

Ma nelle scienze biologiche poche sono le vedute semplici e generali già conseguite; la enorme complicazione dei fatti ne rende difficile l’acquisto; le rappresentazioni psicologiche, desunte da scarse osservazioni ed associazioni preliminari, si presentano troppo spesso inadeguate allo scopo; e al sentimento dell’impotenza si unisce facilmente l’idea di qualcosa di vago, di [p. 33 modifica]indeterminato, di mistico, quasi un segreto timore che opprimendo il viandante nella strada oscura e selvaggia, ne sminuisca le già deboli forze.

Questo quadro si adatta assai bene allo stato degli studii biologici, allorchè essi, sotto l’influenza della Filosofia generale, furono pervasi, come da un nuovo soffio più forte, dallo spirito positivo.

Pertanto la prima esplicazione del positivismo in questo dominio della Scienza, consiste nel rimuovere le illusorie spiegazioni mistiche, e nello spingere innanzi lo studio particolareggiato dei fatti: le pazienti indagini anatomiche, già penetrate con Cuvier nell’intimo degli organismi animali mediante la dissezione, si allargano nelle ricerche di embriogenia marina, e riescono più tardi alla fondazione della Citologia, grazie alle scoperte della tecnica istologica.

Di pari passo alle conquiste anatomiche marciano i progressi della Chimica biologica e della Fisiologia; la prima riuscendo ad eliminare la veduta di una diversa costituzione della materia organica, in confronto alla inorganica; la seconda riducendo e spiegando molteplici processi fisiologici come fenomeni fisico-chimici. Questi fatti particolari bene accertati, appariscono costituire la parte più positiva dei successi conseguiti dagli studii biologici ai nostri giorni.

Ma essi rispondono ad un indirizzo di ricerca parziale, analitico, che tende ad una spiegazione fisico-chimica dei fenomeni vitali. Già Comte, accennando alle somiglianze fra la Biologia e la Fisica ne ha rilevate le differenze, protestando contro il tentativo di ridurre l’una all’altra; e la natura della conoscenza fisiologica sintetica, in contrapposto alla fisica, è stata lucidamente chiarita da Claude Bernard: è un nuovo ordine di rapporti, un diverso aggruppamento dei fenomeni elementari, presi in un determinismo gerarchico, che costituisce la sintesi fisiologica.

Ora questa sintesi è espressa in un certo grado, da talune rappresentazioni generali, che si affacciano appunto in tale dominio, come idee direttrici della ricerca.

Se l’ipotesi dell’evoluzione ha assunto questo ufficio direttore, per riguardo agli studi anatomici e fisiologici, si deve appunto alle costruzioni teoriche che essa ha promosso a spiegare i fatti della eredità e della variazione, e alle vedute sui problemi della Citologia generale che vi si connettono.

Affacciamoci a questo campo, e vediamo tosto come il confronto delle osservazioni e delle esperienze, in una parola lo studio positivo dei fatti nel loro contenuto obiettivo, non sembri più sufficiente. Di nuovo sulle ruine delle antiche teorie screditate dell’animismo, della forza vitale e del nisus formativus, si ricostruiscono nuove rappresentazioni, che pur attingono a qualche [p. 34 modifica]corrente di pensiero che per insufficienza di cognizioni non potè svolgersi convenientemente nel passato10.

Mentre da ogni parte si è tratti allo studio della cellula, cui mettono capo i problemi della generazione e dello sviluppo istologico, si comprende che la ricerca positiva si volga ai più intimi caratteri anatomici del plasma, in ispecie degli elementi germinali, e tenti di associare queste distinzioni reali ai caratteri differenziali degli organismi che ne risultano.

Ma questa via non sembra condurre direttamente allo scopo; ed un esempio vale a chiarire la cosa.

Fra i più netti caratteri di diversità nella struttura delle cellule germinali, si palesa il numero dei cromosomi, o parti del nucleo distinguibili al microscopio.

Il numero suddetto è un carattere costante per ogni specie zoologica, mantenendosi immutato nella generazione per effetto della divisione riduttrice che precede la fecondazione. Or bene sembrerebbe a priori naturalissimo di cercare in quel numero quasi un segno del grado raggiunto nella filogenesi; ma un’osservazione elementare dei fatti ci mostra invece la sua scarsa importanza in rapporto ai caratteri della specie. Basta infatti notare come l’Ascaris megalocephala (a cui si riferiscono gli studii dei più elementari fenomeni embriogenici) presenti due varietà affatto simili, l’Ascaris univalens e la bivalens. La cellula germinale della prima contiene due cromosomi, mentre quella della seconda ne contiene quattro!

Se dunque si vuol riattaccare una spiegazione dei caratteri degli animali alla costituzione della loro cellula germinale, questa spiegazione non può essere domandata a ciò che si vede nella cellula stessa; ma occorre spingere l’ipotesi più innanzi, col rappresentarsi la costituzione cellulare nelle sue parti invisibili.

D’altronde i multiformi fenomeni, che si collegano al protoplasma in genere, già inducono a ritenerne la struttura come enormemente complessa.

La sola spiegazione dei movimenti del plasma ha suggerito a molti autori varie rappresentazioni fisiche e chimiche di esso; citiamo, fra le più recenti, quelle di Quincke e Bütschli (il quale ultimo costruisce una sostanza a struttura alveolare mediante un miscuglio d’olio in una soluzione di carbonato di potassa); quella di Berthold, che paragona il plasma ad una emulsione estremamente complessa in cui avvengono certi fenomeni osmotici e chimici; quella di Verworn che (per render conto della sua contrattilità) lo raffigura come composto di molecole suscettibili di passare per tre stati, ossigenandosi e decomponendosi bruscamente. Queste teorie ci mettono già [p. 35 modifica]in faccia ad immagini ingegnose, se si vuole, ma anche un po’ grossolane; il loro carattere primitivo e circoscritto conferisce loro d’altronde scarso valore scientifico, sicchè, nonostante la curiosa riproduzione delle figure cariocinetiche ottenute da Bütschli, pochi biologi sono disposti a scorgere in siffatti modi di vedere qualcosa di più di ammirevoli analogie; pochi le credono capaci di essere spinte molto innanzi suggerendo la scoperta di fatti nuovi. Da ciò la grande differenza che separa tali teorie dalle ontologie metafisiche, dove la rappresentazione più larga dà all’autore l’illusione di aver colto nella sua interezza tutta la realtà, o un dominio di essa.


Molto più vicine alla Metafisica appariscono invece le teorie generali sulla costituzione delle cellule germinali, teorie che prendono le mosse dalla constatata insufficienza delle nozioni fisico-chimiche sulla struttura del plasma, in quanto almeno queste ci apprendono soltanto il numero o la qualità delle sue parti componenti, ma non i fenomeni speciali della vita che risultano dalla disposizione e dall’aggruppamento loro.

Nonostante lo stato molto più arretrato, queste teorie presentano nella costruzione una notevole analogia colle rappresentazioni fisiche, analogia tanto più spiccata nelle vedute moderne, allontanatesi dal fisicismo. Come i fisici hanno creato gli eteri e i fluidi a somiglianza dei corpi solidi, liquidi o gassosi, combinandone le proprietà a seconda dei fatti da spiegare, così i biologi hanno cercato di foggiarsi una rappresentazione della cellula germinale ad immagine di quella degli aggregati di animali unicellulari, o dei cormi, o addirittura delle società animali organizzate.

Essi ci rappresentano invero la cellula come un aggregato o un organismo di particelle cui sono tratti ad attribuire già certe proprietà elementari della vita; le parole stesse che usano per denotare le mutue azioni e reazioni di codeste particelle alludono chiaramente ad una siffatta rappresentazione.

Questo almeno è il carattere fondamentale delle più recenti teorie che il Delage chiama micromeriste e organiciste. Teorie scientifiche, si dice, non metafisiche; chè infatti esse non pretendono di costituirsi in sistemi universali, ma s’innestano invece sopra la rappresentazione atomica della materia; chè non si perdono nelle nebbie mistiche dell’antico animismo, nè tentano in alcun modo di porgere una spiegazione trascendente della vita.

Teorie positive, dice ancora taluno, perchè non perdono di vista i fatti e, secondo le osservazioni e le esperienze, vanno adattandosi e trasformandosi; ma codesto aggettivo non suona così, nella bocca dei biologi, secondo la sua rigorosa accezione, conformemente allo spirito comtiano che condanna le teorie della elettricità e della luce, e la stessa teoria atomica, pur dotate, in questo senso, di maggiore positività.

Positiva veramente non può dirsi una teoria, se non quando consista [p. 36 modifica]puramente in ipotesi di fatto, ma qui invece, in qual modo raffigurarsi veramente, quasi esseri viventi, le unità fisiologiche elementari che si suppongono comporre la cellula, mentre è carattere fondamentale di questi di palesarsi come organismi?

Si può ripetere per l’ipotesi micromerista quello che si disse dell’ipotesi atomica; la veduta dell’atomo come di una particella di materia reale, urta nella difficoltà di spogliare questa particella di certi attributi fondamentali come la divisibilità; la veduta di un elemento fisiologico urta nella difficoltà analoga, di spogliare qualcosa che vive del carattere di organizzazione.

In ultima analisi se la semplice ipotesi di una certa costituzione fisico-chimica non rende conto adeguatamente della vita del plasma, il problema resta intero per le parti di questo che sieno già concepite come viventi, onde non si riesce veramente a concepire tali parti come elementi. Dal volere sfuggire a queste difficoltà nascono anzi le incongruenze, che la critica mette in luce nelle particolari teorie.

Queste osservazioni mostrano che si avrebbe torto di volere attaccare a codeste teorie biologiche un significato positivo, che non possiamo riconoscere neppure alle loro sorelle fisiche. Ma ciò non diminuisce il valore scientifico di esse come rappresentazioni o modelli, atti a suggerire ipotesi di fatto. Per convincersene non importa nemmeno penetrare addentro nella discussione delle teorie proposte da uomini come Spencer, Haacke, Haeckel, Darwin, Weismann, Roux ecc. Basta dare un rapido sguardo ai problemi positivi che da esse vengono suggeriti. Come sono varii ed interessanti questi problemi, sebbene sia ancora così scarso il contributo di previsione che recano loro le anzidette teorie?

Intanto ciascun autore ha trasportato naturalmente nella rappresentazione della cellula germinale, le vedute che gli sono proprie in relazione alla vita degli aggregati animali o delle specie; la cosidetta legge giogenetica di Haeckel, ammettendo un parallelismo fra l’ontogenesi e la filogenesi, tende a giustificare codesto trasporto, che è quasi una condizione per la fecondità delle immagini, cui danno origine le analogie ed i confronti innanzi accennati. Or dunque coloro che attribuiscono la causa principale della variazione delle specie all’ambiente esterno, sono indotti a spiegare del pari epigeneticamente la differenziazione del plasma ritenendo le unità fisiologiche del germe come equivalenti; all’opposto coloro che scorgono la causa principale della variazione nelle attitudini intrinseche della specie, si volgono invece a spiegazioni preformistiche, nel senso moderno della parola11. [p. 37 modifica]

Ecco qualche esempio dell’influenza che tali vedute esercitano sulla ricerca.

La concezione epigenetica, suggerendo l’idea dell’isotropia dell’uovo, induce Pflüger a mettere in luce l’azione della gravità sullo sviluppo di esso, mostrando (con opportune esperienze su uova di rana fecondate) come i piani di segmentazione si dispongano perpendicolarmente alla forza che vi agisce; s’interpretano di solito queste esperienze come provanti l’isotropia del citoplasma. Ma per contro W. Roux sostiene l’anisotropia del nucleo, conforme alla sua rappresentazione tendente verso il preformismo, e questa veduta lo guida ad esperimentare come avvenga lo sviluppo dell’uovo, sottratto con un lento moto rotatorio, all’azione della gravità, e induce Chabry ad effettuare le sue ammirevoli esperienze sulle Ascidie, uccidendo alcuni blastomeri dell’uovo ed ottenendo delle larve incomplete.

Alla lor volta le conclusioni che sembrano suggerite da codeste esperienze trovansi in contrasto coi resultati di altre esperienze (Driesch, Wilson) su anfibii, echini ecc., dove uccidendo un blastomero si ha la riproduzione di un embrione completo. Ed in appoggio della veduta epigenetica dell’isotropia dell’uovo, vengono anche talune osservazioni di Embriologia comparata, ad es. quella che i foglietti embrionali si equivalgono pei tunicati.

Tali apparenti contraddizioni non fanno che accrescere interesse ai tentativi volti a cogliere fatti così varii con una adeguata rappresentazione. E tuttavia gli esempi sopra citati non hanno che un rapporto indiretto colle vedute intorno alla costituzione del germe.

Più veramente si palesa l’importanza di siffatte vedute nelle questioni generali dell’eredità.

Fino a pochi anni or sono l’eredità dei caratteri acquisiti era generalmente accettata come un fatto, che mirabilmente si acconcia alle vedute epigenetiche. Ma ecco Weismann, mosso dalla sua concezione teorica del plasma germinale si solleva arditamente a contestarla, ed Emery, accogliendo il fondamento di tale dottrina, viene a renderla più accettabile col temperare (mediante la ipotesi degli enzimii) il principio della non ereditabilità, relativamente agli effetti generali delle intossicazioni.

La recente polemica su questo tema fra Spencer e Weismann è troppo nota. A noi non spetta di pronunziare un giudizio. Ma chi potrà disconoscere l’importanza di certe rappresentazioni, se esse hanno la virtù di suscitare un così istruttivo dibattito; se da esse si promuovono nuove osservazioni ed esperienze, nuove distinzioni di fatti, il cui valore obiettivo non può essere impugnato da alcuno? [p. 38 modifica]

Ben sentiamo l’obiezione che taluno potrebbe opporci!

Per suscitare codeste discussioni proficue sono bensì necessarie certe vedute teoriche generali, ma che cosa ha che fare questo colla rappresentazione minuziosa del plasma, in cui Weismann si compiace? Forse che non è chiaro, come tanti particolari precisati da quell’autore, tante descrizioni di cose invisibili che spesso non possono neppure concepirsi come realtà, sono inutili sforzi di una fertile immaginazione, la quale vola lontano dalla veduta positiva dei fatti?

Rispondiamo: Weismann ha scorto alcune ipotesi di fatto attraverso una costruzione sistematica di immagini, allo stesso modo, come Maxvell ha preveduto certi rapporti dell’elettricità e della luce attraverso il modello di una teoria, che non è essa stessa interamente un’ipotesi di fatto. Non attribuiamo a codeste vedute un valore positivo che non hanno; spingiamo anzi la critica a sceverare ciò che in esse è ipotesi fisica o biologica, da ciò che è puramente rappresentativo o psicologico. Ma non disconosciamo che una tale separazione riesce generalmente possibile soltanto dopo che la teoria ha compiuto il suo ufficio, non neghiamo soprattutto l’importanza di un procedimento d’acquisto delle conoscenze che si presenta come generale nello stadio costruttivo della Scienza, sol perchè esso non ha fin da principio i requisiti della cognizione positiva.

Anche la costruzione scientifica è un fatto, che bisogna studiare nella sua realtà psicologica, e di cui bisogna ammettere il valore conoscitivo quando delle questioni positive, in qualunque modo, ne vengono illuminate o risolte!


§ 26. Positivismo psicologico.

Una concezione che elimina dalla veduta del fatto l’elemento psicologico rappresentativo, non può lasciar posto ad una scienza propria delle rappresentazioni.

E però non dobbiamo meravigliarci che il sistema di Comte riesca ad una negazione della Psicologia, tentando di ridurne lo studio ad un capitolo della Fisiologia. Invano gli sviluppi più recenti di Helmholtz, Fechner, Weber, Wundt ecc. apersero l’adito alla speranza di veder realizzato l’ideale positivista.

I resultati di tali ricerche ci hanno recato, è vero, una analisi delle sensazioni altamente preziosa; domani forse penetreranno nella investigazione di fenomeni più riposti; le associazioni delle immagini personali, i processi cerebrali che corrispondono a produzioni d’ordine più elevato, ne risulteranno chiariti. Il metodo fisiologico potrà riuscire così un sussidio di maggiore importanza nello studio analitico dei fatti psichici elementari.

Ma il concetto di ridurre a codesta analisi la conoscenza psicologica, urta in difficoltà analoghe a quelle che si oppongono alla riduzione della [p. 39 modifica]Fisiologia alla Fisica. La sintesi psicologica sviluppa altri rapporti di quegli elementi; l’ordine di connessione psicologico dei fenomeni non è quello che corrisponde alla veduta della Fisiologia.

E però accanto alla Psicologia fisiologica vi sarà sempre posto per una Psicologia di osservazione, che la scuola inglese ha compresa in un senso positivo, dal Locke in poi; scienza comparativa, che seguendo il metodo di Clifford denominato eiettivo, si estende con Darwin, Spencer, Romanes ecc. alle manifestazioni psichiche degli animali, ed arriva a investigare sotto tale aspetto tutti i fenomeni primordiali della vita (Psicologia dei protisti di Verworn).

Ma soprattutto rimane oggetto proprio della Psicologia, lo studio dei varii prodotti intellettuali e sentimentali della psiche umana: scienze, arti, religioni, lingue, istituti giuridici ecc.

Poniamo che sia pienamente illustrato il meccanismo fisiologico della ideazione musicale: il ritmo trovi corrispondenza in certe variazioni di tonalità nervosa, mutamenti di pressione sanguigna, fenomeni anabolici e catabolici ecc.; forse che la creazione artistica di Beethoven risulterà in tal modo chiarita?

Si accordi al fisiologo di avere caratterizzato l’insieme dei fatti cerebrali che corrispondono ad una inferenza logica, in qual modo tale conoscenza potrà aiutarci a comprendere meglio il processo del pensiero onde Newton fu tratto alla sua scoperta immortale?

Altro chiediamo da una spiegazione di codesto processo; si tratta di rapporti per intendere i quali dobbiamo risalire a Kêplero e a Galileo, e più in là ai precursori della Meccanica, nella scuola alessandrina. Ecco dei cervelli lontani, in cui si sono svolti dei fenomeni fisiologicamente dissociati; e la sintesi che ne domandiamo si ha dal tradurre codesti fenomeni in termini di pensiero, non dal tradurre il pensiero in termini fisiologici.

Esaminiamo l’evoluzione delle lingue. La Glottologia, la Grammatica comparata, fissano le leggi secondo cui esse si trasformano, siccome organismi viventi: sono leggi attinenti in parte ad elementi fonetici, in parte di pensiero. E poichè molteplici fenomeni svariatissimi si sommano in un effetto di media, non pare irragionevole di ricercare in talune di esse la traccia di cause fisiologiche permanenti.

Ma chi non vede quanto sarebbe folle di ritenere che la scienza del linguaggio si riduca un giorno allo studio della circonvoluzione di Broca?

Senza procedere oltre ad esemplificazioni ulteriori, teniamo abbastanza chiarita la tesi che il mezzo fisiologico non è mai da scambiare col fine della ricerca psicologica, cioè colla cognizione atta a soddisfare le previsioni richieste in questo dominio. [p. 40 modifica]


§ 27. Positivismo storico e sociologico.

La posizione di Comte per riguardo alle scienze storiche e sociali, è abbastanza singolare, perchè le vedute sociologiche particolari del Maestro sembrano contraddire all’azione indiretta che lo spirito positivo esercita in questo campo.

La tendenza verso il consolidamento del fatto pone la ricerca storica a base delle scienze sociali, e di questa ricerca innova il metodo colla critica delle fonti. Ne consegue che il fatto storico venga concepito nella sua obbiettività come indipendente dalla rappresentazione tradizionale, spoglio di ciò che gli aggiunge la fantasia artistica, nella realtà ancor viva delle sue tracce materiali che sono i documenti svariati e molteplici.

Ma contro la particolarizzazione delle indagini che ne deriva, Comte ha sostenuto anche qui la necessità della sintesi. Coerente in questo all’insieme delle sue vedute, non sembra esserlo stato ugualmente nel riattaccare il principio di codesta sintesi alla legge dei tre stati.

Spiegare il progresso sociale collo sviluppo delle conoscenze dalla fase teologica alla metafisica e alla positiva, è sovrapporre ai fatti una rappresentazione ideologica, in contrasto colla tendenza che elimina in modo sistematico le rappresentazioni.

La critica più indulgente che si possa muovere consiste nel dire che l’elaborazione di una scienza sociologica richiedeva il passaggio di Comte per lo stadio metafisico!

Una fase di sviluppo ulteriore si può ritrovare infatti nella dottrina economica, nota ai giorni nostri col nome di «materialismo storico». La quale dottrina perfettamente conforme allo spirito del positivismo, si manifesta ormai come un criterio direttivo importante della ricerca storica, in quanto vale a determinare una scelta dei fatti da studiare in ordine a certi interessi, ed una connessione di essi secondo nuovi rapporti notevoli.

Ma se si consideri invece il materialismo storico come veduta sistematica, che elimina o trascura altri fattori storici ed in ispecie quelli di ordine ideale, sorge l’opportunità di una critica rivendicatrice che restituisca il suo posto all’elemento psicologico. Contro alla tesi che le volontà operanti nel gruppo sociale e le idealità a cui esse sembrano ispirarsi, sieno determinate dalla pressione delle esigenze economiche, regge l’antitesi che i rapporti economici sono alla lor volta trasformati volontariamente in molti modi diversi, p. es. mediante gli istituti giuridici.

I quali possono essere compresi soltanto come formazione storica, da chi consideri insieme i fattori reali ed ideali del diritto: e ravvisi nella forma concettuale di questo, una unificazione delle norme riguardate come emanazioni di una supposta volontà continuativa, che assicura un «regime d’uguaglianza», [p. 41 modifica]e tende ad estendersi per analogia, in guisa da rispondere ad una economia di volere nella discriminazione dei conflitti d’interesse.


§ 28. I fini positivi che si possono proporre ad una teoria della Scienza.

Colla critica precedente abbiamo cercato di distinguere certi atteggiamenti propri della scuola positivista, che restringono la veduta della realtà scientifica all’elemento obiettivo, laddove sembra conforme allo spirito positivo rettamente inteso di considerarne anche l’elemento subiettivo.

Nel campo fisico e biologico l’elemento subiettivo tiene alla rappresentazione dei fatti, ed ha soprattutto importanza nel processo di acquisto della conoscenza.

Nel dominio delle scienze psicologiche e sociali, codesto elemento fa parte più intima del fatto da spiegare, in quanto vi si collegano direttamente le previsioni che la conoscenza ha come oggetto.

La distinzione fra subiettivo ed obiettivo non ha d’altronde che un valore relativo, e la considerazione della conoscenza nella sua integrità c’induce ad unificare la veduta delle cognizioni fisiche e psicologiche, facendoci scorgere qualcosa di psicologico già in fondo alle prime.

Ma, poichè le osservazioni precedenti hanno chiarito l’ufficio della critica tendente a scernere il subiettivo e l’obiettivo nella Scienza, rivelandoci come essa costituisca un fattore generale del progresso di questa, vediamo ormai sorgere dalla anzidetta critica i grandi problemi della Gnoseologia positiva, e riusciamo ad intenderne il significato e lo scopo.


Anzitutto sono da fissare i criteri che rispondono al nostro concetto della realtà obiettiva, in contrapposto all’illusione e all’errore dei sensi. Lo sviluppo veramente positivo di una tale ricerca, dovrebbe portare ad una larga applicazione della teoria nel dominio della Tecnica dell’osservazione e dell’esperienza: la correzione dell’errore personale nelle misure geodetiche ed astronomiche ne porge un esempio istruttivo.

Ma accanto al dato dell’organo di senso nella sensazione, si trovano nel processo della conoscenza i dati della elaborazione psichica.

Lo stesso concetto primitivo della realtà, si allarga e s’integra; il fatto bruto si evolve assumendo i caratteri del fatto scientifico. Qual’è la forma di questo processo, e come e quanto si possono distinguere in essa gli elementi subiettivi ed obiettivi? Che cosa rimane quindi di arbitrario nella Scienza, e quale significato deve attribuirsi a codesta arbitrarietà?

L’analisi del fatto ci condurrà dapprima a questo resultato generale, che la conoscenza scientifica tende ad effettuarsi per mezzo di concetti, e ci porgerà quindi alcuni criterii fondamentali per la valutazione delle teorie scientifiche. [p. 42 modifica]

Ora nella formazione dei concetti scorgeremo, non soltanto una economia del pensiero (conformemente alle vedute del Mach), bensì anche uno sviluppo psicologico fino ad un certo punto determinato, il cui studio ci condurrà a discutere per una parte i problemi della Logica, per l’altra l’acquisto dei concetti più generali della Geometria e della Meccanica, il loro significato reale e la loro progressiva estensione. Sono questi primi problemi della Scienza che debbono costituire, nel nostro intendimento, una introduzione alla Gnoseologia positiva.

Qui vogliamo ancora mettere in evidenza il duplice aspetto secondo cui tale scienza gnoseologica può essere considerata, ove la si riguardi sotto un punto di vista logico o psicologico.

Nel primo aspetto, proprio alle scienze della natura, la critica si volge al reale, e intende a indagarlo come oggetto del sapere indipendente dalle cause d’errore che tengono alla debolezza del nostro intelletto. La Gnoseologia così intesa viene ad integrare la Logica propriamente detta, della quale importa restringere il significato, seguendo una rigorosa interpretazione della parola, affinchè lo studio che concerne la coerenza formale del ragionamento non tolga la lucida visione delle basi empiriche della conoscenza di fatto.

Ove si assegni alla Logica di dettare lo schema rigoroso della dimostrazione e della definizione, rimane posto ad una ricerca più larga volta ad indagare il processo per cui il materiale greggio delle sensazioni si lascia subordinare ad uno schema siffatto. Del resto il puro esame logico si conchiude in un giudizio formale, respingente le deduzioni erronee, e rifiutante di ragionare su concetti mal definiti; mentre in questo campo si esercita invece la critica gnoseologica, per la quale ogni procedimento scientifico, sia pure imperfetto, rappresenta un tentativo e generalmente un passo verso la realtà, ed ha in questo senso un valore che non deve essere trascurato.

Più chiaramente diciamo che la Logica segna la via ideale del procedimento di costruzione scientifico, dove la Gnoseologia positiva ne addita la via reale; cadono nel dominio della prima soltanto i metodi di prova, (e propriamente, secondo il nostro concetto, di prova formale o analitica), mentre appartengono alla seconda anche i metodi di scoperta.

A questo scopo si riattacca la considerazione della teoria della conoscenza nel suo aspetto psicologico. Il procedere dell’intelletto umano, indipendentemente dalla rispondenza colla realtà del resultato raggiunto, deve formare oggetto di un’indagine particolare; la quale di mezzo agli elementi variabili ritrovi i dati subiettivi nella rappresentazione del fatto, illuminando così la funzione psicologica del conoscere.

Le due ricerche si legano e convergono ad un fine comune per rispetto alla Scienza: una separazione progressiva del subiettivo e dell’obiettivo nei varii ordini di conoscenza, e un giudizio comparativo delle teorie scientifiche [p. 43 modifica]in relazione ai fatti stabiliti che esse spiegano e riassumono, ed alle scoperte che sembrano capaci di suggerire.


Fra gli scienziati moderni Helmholtz sopra tutti sembra aver avuto una lucida visione dell’ufficio, che la Gnoseologia è chiamata ad esercitare per rispetto alla Scienza.

È un suo titolo di gloria aver proclamato che la discussione di ogni ordine di questioni scientifiche fa capo a problemi dell’ordine gnoseologico. Ma non si potrà giudicare convenientemente dell’utilità di trattare questi problemi in un senso generale, fino a che la teoria positiva della conoscenza, resa indipendente dalle controversie filosofiche, non sia costituita per l’opera comune di tutti i cultori della Scienza.

Allora soltanto apparirà quale insegnamento la discussione di una teoria scientifica possa recare nel giudizio di un’altra teoria, che si riferisca ad un diverso dominio di fatti, e come ad es. possa giovare al biologo, più ancora che lo studio dei resultati della Fisica, la critica dei modi di svolgimento e del contenuto delle teorie fisiche, esaminate sotto l’aspetto gnoseologico.

Frattanto l’importanza di tali ricerche emerge da ciò che è stato fatto in questo senso. Soprattutto alcuni acquisti positivi della critica appaiono, ai nostri giorni, in una luce sempre più chiara, per opera di pensatori, i quali tendono ad emanciparli progressivamente dalla indeterminatezza, che appartiene alle speculazioni filosofiche anteriori, in cui si può ravvisare il germe. Confortante promessa per chi volga i suoi sforzi in quest’ordine d’investigazioni!


§ 29. I metodi: storico, psicologico, scientifico.

Perchè l’azione della Gnoseologia su tutti i rami del sapere si faccia più diretta ed attiva, conformemente alle esigenze del progresso, si deve accuratamente separare, con una critica rigorosa, l’oggetto particolare della Scienza gnoseologica dai molteplici oggetti che cadono nel dominio della Filosofia, intesa nel suo significato più largo.

Si può accedere allo studio dei problemi della conoscenza, per tre vie:

Anzitutto per mezzo della Storia del pensiero, come oggi generalmente si pratica nel nostro paese.

Ma questo metodo non può essere realmente fecondo se non si prosegue lo studio delle idee, guardando allo sviluppo delle loro conseguenze determinate nel campo delle scienze particolari.

Abbiamo già accennato al concetto che ci formiamo della Filosofia, come di una tendenza dello spirito umano verso l’unità e la generalità, nell’ordine delle conoscenze e nell’ordine dei fini. E abbiam detto come questa tendenza si esplichi ugualmente nel processo costruttivo della Scienza e nei sogni poetici [p. 44 modifica]della fantasia non infrenata da un senso vivo della realtà. Del resto, manca tra questi dominii, una distinzione netta, di guisa che il nascere di una scienza non differisce troppo da uno di quei semi-sogni che si fanno presso al risveglio.

Appare quindi il pericolo di una preparazione storica che si rivolga esclusivamente all’aspetto indeterminato della Filosofìa. Uno spirito sano è facilmente condotto per questa via a quella forma di scetticismo, che accorda a tutte le idee un ugual valore, sotto la sola condizione che si ritrovino in esse alcune qualità di coerenza del pensiero con se stesso.

Questo punto di vista può convenire alla Storia, per cui ogni Filosofia è il segno di una direzione dello spirito umano, e sotto tale riguardo costituisce di per sè un oggetto interessante di studio. Ma esso è pericolo per la Scienza, dove importa soprattutto distinguere la verità dall’errore. E rischia spegnere quella fiamma animatrice che accende nel filosofo l’amore della scoperta.

Ma anche, indipendentemente dal pericolo accennato testè, varii esempi dimostrano come, nello studio delle questioni della conoscenza, la pura visione delle idee generali dibattute nel campo filosofico riesca inadeguata. E perciò la storia della Filosofia, se voglia soccorrere utilmente ai problemi gnoseologici, deve integrarsi colla storia della Scienza, siccome appunto essa viene concepita da uomini che perseguono lo sviluppo del pensiero e la serie delle scoperte, al disopra della vita degli scopritori.

Si tratti, ad es., di discutere l’importanza della distinzione fra quantità e qualità.

Per Kant questa distinzione è stabilita a priori subiettivamente. Stuart Mill ha ripreso lo stesso concetto mettendolo, per quanto ci sembra, in una forma più chiara: le differenze che hanno radice in un diverso ordine di percezioni non sono suscettibili di un confronto quantitativo, cioè fanno capo a conoscenze qualitativamente irriducibili.

In questo senso sono qualitativamente irriducibili calore e movimento, elettricità e luce.

In che rapporto stanno tali affermazioni col principio cartesiano che tutto, nel mondo fisico, si spiega coll’estensione ed il moto?

L’esame della controversia filosofica potrà portare soltanto a questa conclusione generale: che, comunque le differenze di qualità si facciano corrispondere a differenze quantitative di un processo unico, la conoscenza completa dei fatti non si risolve in una tale spiegazione: ad es., la conoscenza dei fenomeni ottici non potrà esaurirsi in quel capitolo dell’Ottica che costituisce la teoria meccanica della luce presa in senso stretto.

Ma nella Scienza positiva la questione si pone in un modo diverso. Cioè si domanda se, ad ogni modo, i fenomeni qualitativamente varii del mondo fisico, possano venire rappresentati con un processo unico che ne porga [p. 45 modifica]il modello, nel quale sieno da considerare soltanto differenze di quantità (Cfr. cap. VI).


Proseguiamo la rivista dei metodi che convengono ai nostri scopi.

Al metodo storico si può, in un certo senso, contrapporre il metodo fisio-psicologico come fu inteso da Helmoltz.

Cogliere lo sviluppo delle conoscenze non più nella serie fenomenica che la Storia ce ne offre, ma attraverso lo studio degli organi di sensazione e di pensiero, sembra costituisca la via diretta per accedere alle questioni gnoseologiche.

Ma già abbiamo accennato alle difficoltà di una siffatta indagine fisiologica, e senza menomare il pregio di taluni acquisti emersi dall’analisi delle sensazioni, insistiamo ancora che esiste un altro ordine di connessione sintetico, in cui importa soprattutto di considerare gli oggetti psicologici, in ispecie quelli cui si riferisce il nostro studio.

Per riguardo a codeste connessioni anche il metodo psicologico della evoluzione appare insufficiente, almeno nel modo come esso viene inteso da Spencer, a fornire una vera spiegazione dei problemi della conoscenza; non tanto a cagione delle vedute esclusivamente epigenetiche di questo filosofo, quanto per il carattere particolare delle questioni stesse di cui si tratta.

Il procedimento della conoscenza, sebbene sorga da uno sviluppo continuo, ha un significato qualitativo discontinuo. Cioè, ad un certo punto dell’evoluzione psicologica, una certa condizione del pensiero può acquistare per rispetto alla conoscenza, un valore che non possedeva innanzi a nessun grado. Inoltre la Psicologia evolutiva, volgendosi allo studio dei fenomeni più semplici, resta lontana dall’oggetto proprio di una Gnoseologia, che si proponga di chiarire il processo di formazione della Scienza la più elevata.


Un terzo metodo che si palesa fecondo nello studio dei problemi gnoseologici, consiste nell’esame critico diretto della Scienza, riguardata essa stessa come il fatto da spiegare.

È un metodo di osservazione e di confronto anologo a quello delle scienze naturali.

Conviene del resto considerare la conoscenza nel più alto grado del suo sviluppo, piuttosto che la conoscenza volgare.

Il botanico, il quale trova diffìcile distinguere nell’embrione le parti costitutive, non ha che da lasciar crescere la pianta, perchè queste gli appariscano nettamente differenziate. In modo analogo lo sviluppo scientifico dei concetti mostra l’importanza degli elementi dell’ordine fisico e dell’ordine psicologico, da cui la loro formazione è risultata.

Ciò apparve chiaramente all autore di questo scritto, per la prima volta nella Geometria, quando vide tre rami di codesta scienza staccarsi dal tronco [p. 46 modifica]comune, presentando un’elaborazione completa dei dati dei sensi diversi, da cui la rappresentazione dello spazio trae la sua origine. Ma non è qui il caso di discutere per incidenza tale questione, che formerà oggetto di uno speciale capitolo.

Vogliamo soltanto aggiungere a quanto abbiam detto innanzi sul metodo scientifico, che non basta contemplare e coordinare in una sintesi i resultati generali della Scienza; occorre propriamente farne la critica sotto l’aspetto logico e psicologico, che conviene agli scopi della Gnoseologia sopra definiti.

Così appunto, per difetto di una critica siffatta, il positivismo di Augusto Comte non ha risposto in alcun modo ai problemi della conoscenza, sebbene il rinnovamento della Filosofia per mezzo della Scienza sia stata la grande idea del Maestro. Onde sotto l’aspetto gnoseologico appare superiore il positivismo inglese di Stuart Mill, di Bain, di Lewes, ecc., quantunque questi filosofi non abbiano posseduto forse una visione altrettanto larga e profonda delle scienze particolari.


La nostra conclusione non può essere in alcun modo di dare l’ostracismo ad un metodo, per accordare ad un altro una preferenza esclusiva.

Lo studio della Scienza, concepita come un «fatto», deve aiutarsi degli insegnamenti della Storia e dei resultati della Psicologia.

Ma importa soprattutto che la Gnoseologia venga concepita essa stessa come una vera scienza positiva; che cioè i suoi cultori si propongano problemi determinati, e li trattino con procedimenti, fin dove è possibile, rigorosi. Dia chi vuole libero sfogo alla sua fantasia, abbandonandosi ai sogni della Metafisica. Ma questa poesia di spiriti sublimi, che ognora si rinnoverà come espressione di un bisogno dell’anima umana, non deve imporre la sua sregolatezza alla Gnoseologia positiva che a lei resta estranea.

Vi è in quest’ultima un oggetto reale da spiegare, e quindi problemi effettivi da risolvere, che non debbono dipendere dalle opinioni incostanti dei filosofi e dagli interessi sociali, che le determinano.

Quelli potranno emanciparsene in una certa misura, ove ci si accordi a bandire sistematicamente ciò che tiene ai procedimenti trascendenti della ragione.

La ricerca che mira a rispondere ai problemi della Scienza, deve soddisfare a questa condizione logica, cui ogni ramo dello scibile è ugualmente subordinato, ove miri a significare in un senso qualsiasi dei «fatti».

Entro questi limiti una intesa di tutti gli studiosi sembra possibile a costituire, indipendentemente dalla Metafisica, una Gnoseologia positiva, la quale dovrà a sua volta riaffermare quella collaborazione scientifica che desideriamo come istrumento di un più alto progresso.

Note

  1. Non mancano i segni che il bisogno dell’associazione scientifica è vieppiù sentito. Citerò una testimonianza autorevole, quella di E. Picard nel suo splendido rapporto sullo stato generale delle scienze pubblicato per l’Esposizione di Parigi del 1900.
  2. A vero dire questa affermazione deve essere modificata per riguardo ai sistemi di numeri non archimedei, costruiti recentemente, in varii modi, da Veronese, Levi-Civita, Hilbert, ecc. Ci sia concesso di lasciare da parte codeste costruzioni: e basti avvertire che esse non implicano l’uso di processi di definizione trascendenti.
  3. Alludiamo qui al noumeno inteso in senso negativo, di cui Kant discorre nel capo III della «Analitica trascendentale».
  4. L’analisi di Kant fa capo appunto ad una inconoscibilità del noumeno ch’egli esprime affermando l’impossibilità d’intendere un noumeno in senso positivo.
  5. Cfr. «Critique de la raison pure», trad. Barni, 2ª ediz. Préface, pag. 28.
  6. Una differenza psicologica è già espressa talvolta dalla stessa diversità verbale: così, p. es., il numero ottanta si rappresenta da un italiano come , da un francese come (quatre vingts).
  7. A tale onore in fatti è stato assunto il vocabolo con cui si intese primamente indicare il libro della collezione aristotelica che vien dopo quello della Fisica!
  8. Un esempio caratteristico è la dottrina dell’evoluzione, divenuta nella costruzione di H. Spencer un vero sistema metafisico, sebbene non viziato dal trascendentalismo, cui l’autore ha lasciato un posto soltanto fuori della parte positiva della sua filosofia.
    Per estendere e giustificare l’evoluzione oltre il campo biologico (ove essa costituisce una teoria scientifica) l’illustre filosofo è stato tratto a porre nei «Primi principii» delle proposizioni generali, come «l’instabilità dell’omogeneo», il distinguersi di questo sotto la «forza incidente» ed altre consimili: proposizioni alle quali nessun cultore della Meccanica vorrà accedere, senza beneficio di inventario; ma cui ciascuno potrà riconoscere il valore di immagini, sotto certi rapporti, assai felici.
  9. Qui sono ancora da citare gli sviluppi recentissimi di J. J. Thomson sui fenomeni di condensazione, e di J. Perrin in rapporto al movimento browniano (Aggiunta alla 2ª edizione)
  10. Cfr. Ives Delage: «La structure du protoplasma et les théories sur l’hérédité, et les grands problèmes de la Biologie générale». Paris, C. Reinwald, 1895.
  11. L’antico preformismo, o evoluzionismo, ammetteva l’incastonamento dei germi, di guisa che l’uovo o lo sperma, (secondo gli ovisti o gli spermatisti) dovrebbe contenere in embrione tutti i discendenti, i quali non avrebbero che a svilupparsi. Questa assurda ipotesi è ormai abbandonata, in seguito agli studi embriologici col microscopio. Ma il nuovo preformismo postula l’esistenza nel germe di elementi diversi, rappresentativi, sia delle parti anatomiche dell’organismo adulto, sia dei caratteri o delle proprietà elementari di questo.