Il Santo/Capitolo VII

Capitolo settimo ― Nel turbine del mondo

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Capitolo settimo ― Nel turbine del mondo
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CAPITOLO SETTIMO.


Nel turbine del mondo.


Una carrozza signorile si fermò sull’imbrunire davanti a una casa di via della Vite, in Roma. Due signore ne discesero frettolosamente e sparirono dentro la porta oscura. La carrozza partì. Due minuti dopo ne arrivò un’altra, versò due altre signore nella stessa porta e partì. In un quarto d’ora ne capitarono cinque. La porta oscura non inghiottì meno di dodici signore. La piccola via ritornò silenziosa. Trascorsa una mezz’ora cominciarono a venire dal Corso gruppi di uomini. Si fermavano davanti a quella stessa porta, leggevano il numero al lume del fanale vicino, entravano. E la porta oscura inghiottì a questo modo un’altra quarantina di persone. Gli ultimi furono due preti. Quello che guardò il numero era miope, non riusciva a decifrarlo. L’altro gli disse ridendo:

«Entra, entra, io sento puzzo di Lutero, dev’essere qui.»

E il primo entrò nelle tenebre puzzolente. [p. 288 modifica]Salirono per una scala nera, sucida, su su verso l’unico lumicino a olio che ardeva al quarto piano. Quando furono al terzo, accesero dei fiammiferi per leggere i nomi sulle placche degli usci. Una voce chiamò dall’alto:

«Qui, signori, qui!»

Un giovine affabile signore in abito nero di mattina discese a incontrarli, li ossequiò molto, disse che si aspettava solamente loro, li fece entrare, per un’anticamera e un andito quasi tanto oscuri quanto la scala, in una stanza grande, piena di gente, illuminata alla meglio da quattro candele e da due vecchie lucerne a olio. Il giovine signore si scusò dell’oscurità. I suoi genitori non volevano in casa nè luce elettrica nè gaz nè petrolio. Tutti gli uomini venuti a gruppi erano raccolti lì. Tre o quattro vestivano l’abito ecclesiastico. Gli altri, meno un vecchio dalla faccia rossa e dalla barba bianca, parevano studenti. Nessuna signora. Erano tutti in piedi, eccetto il vecchio, persona di riguardo, certamente. Conversavano sottovoce. La stanza sussurrava come una grotta tutta rivoletti e goccie cadenti. Entrati i due preti, il giovine padrone di casa disse:

«Allora!...»

Le persone strette nel gruppo maggiore si scostarono a cerchio e vi apparve nel mezzo Benedetto. Un tavolino con due candele e una sedia erano [p. 289 modifica]preparati per lui. Pregò che si togliessero le candele. Poi gli dispiacque anche il tavolino. Si disse stanco, chiese di parlare seduto sul canapè, vicino al vecchio signore dal viso acceso e dalla barba bianca. Vestiva di nero, era pallido e magro più ancora che a Jenne. La fronte gli si era scoperta di capelli, aveva preso qualche cosa della fronte solenne di don Giuseppe Flores. E gli occhi avevano un azzurro più lucente. Molte delle facce volte avidamente a lui parevano piuttosto affascinate da quegli occhi e da quella fronte che ansiose di udire la sua parola.

Egli prese a parlare così, senza un gesto, tenendosi le mani sulle ginocchia:

«Io devo dire subito a chi parlo perchè non tutti qui hanno le stesse disposizioni di anima verso Cristo e la Chiesa. Non credo di parlare ai sacerdoti presenti, credo e spero ch’essi non abbiano bisogno della parola mia. Non parlo a questo signore seduto presso a me, perchè egli pure, lo so, non ne ha bisogno. Non parlo ad alcuno che sia fermo nella fede cattolica. Io parlo unicamente a quei giovani che mi hanno scritto così.»

Trasse una lettera e lesse:

«Noi siamo stati educati nella fede cattolica e, fatti uomini, abbiamo accettato con un nuovo atto di libera volontà i suoi più ardui misteri, abbiamo lavorato per essa nel campo amministrativo e [p. 290 modifica]sociale; ma ora un altro mistero sorge sul nostro cammino e la nostra fede tituba davanti ad esso. La Chiesa cattolica che si proclama fonte di verità, oggi contrasta la ricerca della verità quando si esercita sui fondamenti suoi, sui libri sacri, sulle formole dei dogmi, sull’asserita infallibilità sua. Questo per noi significa ch’essa non ha più fede in sè stessa. La Chiesa cattolica che si proclama ministra della Vita, oggi incatena e soffoca tutto che dentro di lei vive giovanilmente, oggi puntella tutte le sue cadenti vecchiaie. Questo per noi significa morte; lontana, ma ineluttabile morte. La Chiesa cattolica che proclama di volere rinnovar tutto in Cristo, è ostile a noi che vogliamo contendere ai nemici di Cristo la direzione del progresso sociale. Questo per noi significa, insieme a molti altri fatti, avere Cristo sulle labbra e non nel cuore. La Chiesa cattolica oggi è tale e Dio vorrà che noi le obbediamo ancora? Ecco perchè noi veniamo a Voi. Che dobbiamo fare? Voi che vi professate cattolico e predicate il cattolicismo e avete fama...»

Qui Benedetto troncò la lettura, dicendo:

«Seguono parole inutili.»

E riprese a parlare:

«Io rispondo a chi mi ha scritto così: — Ditemi; perchè vi siete rivolti a me che mi professo cattolico? Mi credete voi forse, nella Chiesa, un [p. 291 modifica]Superiore dei Superiori? È forse per questo che se la parola mia sarà diversa da quella che voi dite la parola della Chiesa, voi riposerete in pace sulla parola mia? Udite una figura. Pellegrini assetati si accostano a una fonte famosa. Trovano una vasca piena di acqua stagnante, ingrata al gusto. La scaturigine viva è sul fondo della vasca, non la trovano. Si volgono mesti a un cavatore di pietre che lavora in una cava vicina. Il cavatore offre loro acqua viva. Gli chiedono il nome della sorgente. «È la stessa della vasca» dice. «È tutta, nel sottosuolo, una sola corrente. Chi scava, trova.» I pellegrini sitibondi siete voi, il cavatore oscuro sono io e la corrente occulta nel sottosuolo è la Verità cattolica. La vasca non è la Chiesa, la Chiesa è tutto il campo corso dalle acque vive. Voi vi siete rivolti a me per un vostro inconscio conoscere che la Chiesa non è la sola gerarchia, è la universale assemblea dei fedeli, gens sancta, che dal fondo di ogni cuore cristiano può zampillare acqua viva della sorgente stessa, della stessa Verità. Inconscio conoscere; perchè se non fosse inconscio, voi non direste — la Chiesa contrasta questo — la Chiesa soffoca quello — la Chiesa invecchia — la Chiesa ha Cristo sulle labbra e non nel cuore.

«Intendetemi bene. Io non giudico la gerarchia, io riconosco e onoro l’autorità della gerarchia, io [p. 292 modifica]dico unicamente che la Chiesa non è la gerarchia sola. Udite un’altra similitudine. Vi ha nei pensieri di ciascun uomo una specie di gerarchia. Prendete un uomo giusto. Certe idee, certi propositi sono in lui pensieri dominanti, governano la sua vita, e sono questi: compiere il dovere religioso, il dovere morale, il dovere civile. Egli ha dei varii doveri il concetto tradizionale che gliene fu appreso. Ma poi questa gerarchia d’idee ferme con impero non è tutto l’uomo. Sotto di essa vi è in lui una moltitudine di altre idee, una moltitudine di pensieri che continuamente si muovono e si modificano per le impressioni e l’esperienza della vita. E sotto questi pensieri vi ha un’altra regione dell’anima, vi ha l’Inconscio dove facoltà occulte lavorano un lavoro occulto, dove avvengono i contatti mistici con Dio. Le idee dominanti esercitano autorità sul volere dell’uomo giusto, ma tutto l’altro mondo del suo pensiero ha pure una importanza immensa perchè attinge continuamente alla Verità con l’esperienza del reale nell’esterno, con l’esperienza del Divino nell’interno, e quindi tende a rettificare le idee superiori, le idee dominanti in quanto il loro elemento tradizionale non è adeguato al Vero; è per esse una perenne fonte di fresca vita che le rinnova, una sorgente di autorità legittima fondata sulla natura delle cose, sul valore delle idee, più che sui decreti degli uomini. La Chiesa è [p. 293 modifica]tutto l’uomo, non un solo gruppo d’idee eminenti e dominanti; la Chiesa è la gerarchia con i suoi concetti tradizionali ed è il laicato con il suo continuo attingere alla realtà, con il suo continuo reagire sulla tradizione; la Chiesa è la teologia ufficiale ed è il tesoro inesausto della Verità divina che reagisce sulla teologia ufficiale; la Chiesa non muore, la Chiesa non invecchia, la Chiesa ha nel cuore il Cristo vivente meglio che sulle labbra, la Chiesa è un laboratorio di verità in azione continua e Iddio comanda che voi restiate nella Chiesa, che voi operiate nella Chiesa, che voi siate, nella Chiesa, sorgenti di acqua viva.»

Uno spirito di commozione e di ammirazione agitò l’uditorio con il rumore del vento. Benedetto, ch’era venuto alzando la voce, sorse in piedi.

«Ma qual fede è la vostra» esclamò acceso «se parlate di uscire dalla Chiesa perchè vi offendono certe dottrine antiquate dei suoi capi, certi decreti delle Congregazioni romane, certi indirizzi del governo di un Pontefice? Quali figli siete voi che parlate di rinnegare la madre perchè veste come a voi non aggrada? È forse cambiato, per una veste, il seno materno? Quando piegati sovr’esso voi dite piangendo a Cristo le vostre infermità e Cristo vi sana, pensate voi all’autenticità di un passo di S. Giovanni, al vero autore del quarto Vangelo o ai due Isaia? Quando [p. 294 modifica]raccolti sovr’esso vi unite a Cristo in sacramento, vi turbano i decreti dell’Indice o del Sant’Uffizio? Quando abbandonati sovr’esso entrate nelle tenebre della morte, vi è meno dolce la pace che a voi ne spira, perchè un Papa è contrario alla democrazia cristiana?

«Amici miei, voi dite: noi abbiamo riposato all’ombra di questo albero, ma ora la sua corteccia si fende, la sua corteccia si dissecca, l’albero morrà, andiamo in cerca di un’altra ombra. L’albero non morrà. Se aveste orecchi udreste il moto della corteccia nuova che si forma, che avrà il suo periodo di vita, che si fenderà, che si disseccherà alla sua volta perchè un’altra corteccia le succeda. L’albero non muore, l’albero cresce.»

Benedetto sedette spossato e tacque. L’uditorio ebbe un moto e un fremito di onda verso di lui. Egli lo arrestò alzando le mani.

«Amici» riprese con voce stanca e dolce «ascoltatemi ancora. Scribi e Farisei, anziani e principi dei sacerdoti zelanti contro le novità sono in ogni tempo e anche in quest’ora. Non ho a parlar di loro a voi, Iddio li giudicherà. Noi preghiamo per tutti coloro che non sanno quello che fanno. Ma forse nell’altro campo cattolico militante non si è senza peccato. Nell’altro campo si è inebbriati della idea di modernità. La modernità è buona ma l’eterno è migliore. Io temo [p. 295 modifica]che colà non si tenga l’eterno nel debito conto. Vi si attende molta salute alla Chiesa di Cristo dall’azione cattolica collettiva nel campo amministrativo e politico, azione di battaglia per la quale il Padre riceverà ingiuria dagli uomini, e non se ne attende abbastanza dalla luce delle opere buone di ciascun cristiano per la quale il Padre è glorificato. Supremo fine delle creature umane è glorificare il Padre. Ora gli uomini glorificano il Padre di coloro che hanno lo spirito di carità, di pace, di sapienza, di povertà, di purità, di fortezza, che adoperano per i fratelli le energie della vita. Uno di questi giusti che professi e pratichi il Cattolicismo è profittevole alla gloria del Padre, di Cristo e della Chiesa più di molti Congressi, di molti Circoli, di molte vittorie elettorali cattoliche.

«Ho inteso testè uno di voi mormorare: «e l’azione sociale?» L’azione sociale, amici miei, è sicuramente buona come opera di giustizia e di fraternità, ma, simili ai socialisti, certi cattolici la marchiano con il marchio delle loro opinioni religiose e politiche, rifiutano di accomunarvi gli uomini di buona volontà se non accettano quel marchio, respingono da sè il buon Samaritano e questo è abbominevole agli occhi di Dio. Improntano col marchio cattolico anche opere che sono strumenti di lucro e questo pure è abbominevole [p. 296 modifica]agli occhi di Dio. Predicano la giusta distribuzione della ricchezza ed è bene, ma troppo dimenticano di predicare insieme la povertà del cuore; e se lo ommettono deliberatamente per ragioni di opportunità, questo è abbominevole agli occhi di Dio. Purgate l’azione vostra di questi abbominii. Chiamate alle opere particolari di giustizia e di amore tutti gli uomini di buona volontà, contenti di esserne voi gli iniziatori. Predicate a ricchi e poveri, con la parola e con l’esempio, la povertà del cuore.»

L’uditorio ondeggiò confusamente, sospinto in parti diverse. Benedetto si raccolse un momento celando il viso fra le mani.

«Voi mi avete domandato che fare?» diss’egli, scoprendo il viso.

Pensò ancora un poco e riprese:

«Io vedo nell’avvenire cattolici laici, zelatori di Cristo e della Verità, trovar modo di costituire unioni diverse dalle presenti. Si armeranno un giorno cavalieri dello Spirito Santo per l’associata difesa di Dio e della morale cristiana nel campo scientifico, artistico, civile, sociale, per l’associata difesa delle legittime libertà nel campo religioso, con certi particolari obblighi, non però di convivenza nè di celibato, integrando l’ufficio del clero cattolico dal quale non avranno a dipendere come Ordine, ma solo come persone nella pratica [p. 297 modifica]individuale del Cattolicismo. Pregate che la volontà di Dio si manifesti circa quest’Opera nelle anime che la pensano; pregate ch’esse anime si spoglino lietamente della compiacenza di averla immaginata e della speranza di vederla compiuta, se Dio si rivela contrario ad essa. Se Dio si rivela favorevole, pregate che gli uomini la sappiano bene ordinare in ogni parte a gloria di Lui e a gloria della Chiesa. Amen.»

Egli aveva finito e nessuno si mosse. Tutti gli occhi lo fissavano, ansiosi, avidi di altre parole dopo le inattese ultime di tôno scuro e grande. Molti avrebbero voluto e non osarono rompere quel silenzio. Ma quando Benedetto si alzò e tutti gli si scostarono d’intorno a cerchio riverenti, si alzò pure il vecchio signore dal viso rosso e dai capelli bianchi, e disse con voce rotta dalla emozione:

«Ella riceverà oltraggi e battiture, sarà incoronato di spine e abbeverato di fiele, sarà deriso dai farisei e dai pagani, non vedrà l’avvenire che desidera, ma l’avvenire è per Lei, i discepoli dei discepoli suoi lo vedranno.»

Abbracciò Benedetto e lo baciò in fronte. Due o tre vicini batterono le mani timidamente, uno scroscio di applausi suonò nella sala. Benedetto, turbatissimo, accennò a un giovinetto biondo che lo aveva accompagnato, e questi corse a lui, [p. 298 modifica]proprio lucente in viso di commozione e di gioia. Qualcuno sussurrò:

«Un discepolo.»

Altri soggiunse, piano:

«Sì, e il prediletto.»

Il padrone di casa si prostrò, quasi, davanti a Benedetto con parole di ossequio e di gratitudine. Allora uno dei sacerdoti ardì pure farsi avanti, disse con voce commossa:

«E per noi, maestro, non avrà un consiglio?»

«Non mi chiami maestro» rispose Benedetto, tutto ancora turbato; «preghi luce a questi giovani, ai nostri Pastori e anche a me.»

Uscito ch’egli fu, si levò nella sala un crepitìo di voci vibrate, brevi e fioche, premendo ancora lo stupore sulle anime commosse. Poi la commozione scoppiò qua e là, forte, ruppe da ogni banda, urtandosi anche le ammirazioni fra loro nell’esaltare queste o quelle parole, queste o quelle idee del discorso, l’accento o lo sguardo dell’oratore, o lo spirito di santità diffuso nel suo volto, spirante anche dalla sua mano. Ma il padrone di casa congedò gli ospiti; con molte scuse, sì, con molte parole di cerimonia, ma con una fretta quasi scortese.

Rimasto solo, aperse un uscio ch’era chiuso a chiave, s’inchinò dentro l’apertura.

«Signore!» diss’egli. E spalancò l’uscio. [p. 299 modifica]

Uno sciame di signore irruppe nella sala vuota. Una signorina matura si slanciò addirittura verso il giovine, a mani giunte, esclamando:

«Oh quanto Le siamo grate! Oh che Santo! Non so perchè non siamo corse tutte fuori ad abbracciarlo!»

«Cara» disse una signora con ironica flemma veneta, sorridendo nei due grandi belli occhi, «perchè, fortunatamente per lui, l’uscio era chiuso a chiave.»

Erano dodici signore. Il padrone di casa, professore Guarnacci, figlio dell’agente generale di una di queste, la marchesa Fermi, romana, le aveva raccontato della riunione che doveva tenersi in casa sua, del discorso che vi avrebbe pronunciato lo strano personaggio di cui si parlava già in Roma come di un agitatore religioso entusiasta e taumaturgo, popolare nel quartiere del Testaccio. La marchesa si era posta in capo di udirlo non veduta. Presi gli accordi col Guarnacci, aveva tratte nella congiura tre o quattro amiche e ciascuna di queste aveva ottenuto di aggregarsi delle appendici.

Era una miscela curiosa, in vista. Molte avevano toilettes da società, due vestivano proprio come quacchere, una sola di nero. Le due quacchere, straniere, parevano impazzite dall’entusiasmo e fremevano contro la marchesa, una vecchia [p. 300 modifica]scettica, alquanto sarcastica, che diceva tranquillamente:

«Sì, ha parlato bene ma però avrei voluto vedere la sua faccia mentre parlava.»

E dichiarando di saper giudicare gli uomini dalla faccia meglio che dalle parole, la vecchia marchesa rimproverò il Guarnacci di non aver praticato un buco nell’uscio o almeno levata la chiave dalla toppa.

«Sei troppo santo» diss’ella. «Non conosci le donne.»

Il Guarnacci rise, si scusò con l’ossequio dovuto alla padrona di suo padre e affermò che Benedetto era bello come un angelo. Ma una giovine signora insipidetta, venuta, pensavano rabbiosamente le quacchere, Dio sa perchè, uscì a dire quieta quieta che lo aveva veduto due volte e ch’era brutto.

«Bisognerebbe conoscere la Sua idea di bellezza, signora» disse acremente una quacchera. E l’altra quacchera mise subito fuori, ma sottovoce per acuire la malignità espressamente, un velenoso: «Naturellement!»

La signora insipidetta replicò, un poco arrossendo fra l’imbarazzo e il dispetto, ch’era magro, pallido; e le due quacchere si guardarono, si sorrisero con tacito disprezzo. Ma dove lo aveva veduto? Questo volevano sapere le altre dalla Insipidetta. [p. 301 modifica]

«Eh! Sempre nel giardino di mia cognata» diss’ella.

«Sempre nel giardino?» esclamò la marchesa. «È un angelo in piena terra o è un angelo in vaso?»

La Insipidetta rise e le quacchere fulminarono la marchesa con gli occhi furiosi.

Entrò il thè, compreso nell’invito del professore Guarnacci.

«Bella discussione, eh?» disse piano la signora Albacina, moglie dell’onorevole Albacina, sottosegretario di Stato per l’Interno, all’orecchio della signora vestita di nero, che non aveva mai aperto bocca. Colei sorrise tristemente e non rispose.

Il thè, servito dal professore e da una sua sorellina, ammorzò per un momento la conversazione che si riaccese sul discorso di Benedetto e diventò un guazzabuglio tale di ragionamenti senza ragione, di giudizi senza giudizio, di dottrine senza dottrina, che la signora silenziosa vestita di nero propose all’Albacina, con la quale era venuta, di andarsene. Ma in quel momento la marchesa Fermi, scovato un campanellino sopra una caminiera, si mise a scampanellare per ottenere silenzio.

«Vorrei sapere di questo giardino» diss’ella.

Le quacchere e la signorina matura, infervorate a discutere l’ortodossia cattolica di Benedetto, non [p. 302 modifica]avrebbero taciuto per dieci campanelli; ma la curiosità della signorina matura, all’udire la parola «giardino» scattò. Scattò fuori tutta intera. Altro che giardino! Il signor professore doveva raccontare tutto che sapeva di questo padre Hecker italiano e laico. Un po’ per sfoggio di cultura, un po’ per avventatezza, ella aveva già battezzato Benedetto così. Allora la Insipidetta guardò l’orologio. La sua carrozza avrebbe dovuto trovarsi alla porta. La piccola Guarnacci disse che di carrozze ce n’erano già quattro o cinque. La Insipidetta voleva arrivare al Valle per il terzo atto della commedia. Due altre signore avevano altri impegni e partirono con lei. La Fermi restò:

«Fa presto, però, professore,» diss’ella, «perchè stasera mia figlia ci aspetta, me e queste altre signore di cui vedi le spalle.»

«Faccia prestissimo» disse, dispettosetta, la signorina matura. «Dopo parlerà per la povera gente che non mostra le spalle.»

Una forestiera bionda, molto scollata, bellissima, lanciò uno sguardo ineffabile alle povere coperte spallucce magre della dispettosa, che diventò rossa di rabbia come un gambero.

«Allora» incominciò il professore «siccome la signora marchesa e forse anche le altre signore che hanno fretta sanno già quanto so io del Santo di Jenne prima della sua partenza da Jenne, quello [p. 303 modifica]lo lascio. Io dunque un mese fa, in ottobre, neanche ricordavo di aver letto nei giornali, in giugno o in luglio, di questo Benedetto che predicava e faceva miracoli a Jenne, quando un giorno uscendo da S. Marcello m’incontrai in un tale Porretti che una volta scriveva nell’Osservatore e adesso non vi scrive più. Questo Porretti mi si accompagna, si parla della condanna dei libri di Giovanni Selva che si aspetta di giorno in giorno e, tra parentesi, non è ancora venuta, e Porretti mi dice che adesso in Roma c’è un amico di Selva, il quale farà parlare di sè più che lo stesso Selva. «Chi è?» faccio io. «Il Santo di Jenne» dice. E mi racconta questo. L’uomo è stato cacciato da Jenne per opera di due preti, farisei terribili, che a Roma si conoscono. Si è rifugiato a Subiaco presso i Selva che villeggiano lì e si è ammalato gravemente. Guarito, è venuto a Roma circa alla metà di luglio. Il professore Mayda, amico del Selva anche lui, e che lo aveva conosciuto a Subiaco, lo prese per aiuto­-giardiniere nella villa che si è fabbricata due anni sono sull’Aventino, sotto Sant’Anselmo. Il nuovo aiuto-giardiniere che si fa chiamare Benedetto e nient’altro, come a Jenne, è diventato presto popolare in tutto il quartiere del Testaccio. Divide il pane con pezzenti, assiste malati, pare che ne abbia guarito qualcuno con l’imposizione delle mani e la preghiera. È divenuto tanto [p. 304 modifica]popolare che la nuora del professore Mayda, benchè sia credente e praticante, lo avrebbe licenziato volentieri per non avere la seccatura di tanta gente che viene a cercarlo; ma il suocero, che non è nè praticante nè credente, non ha voluto. Il suocero gli ha riguardi grandissimi. Se sopporta di vederlo rastrellare i viali, annaffiare i fiori, è solo per rispetto alle sue idee di Santo, e non glielo permette oltre una certa misura di tempo, molto breve. Vuole che attenda liberamente alla sua missione religiosa. Egli stesso scende sovente in giardino a parlare di religione con lui. Benedetto, per compiacergli, ha smesso il regime di pane, erbaggi e acqua che teneva a Jenne, prende carne e vino. E per compiacere a Benedetto il professore ne fa distribuire molto largamente agli ammalati del quartiere. Vi ha chi ride di lui e magari lo ingiuria, ma dal popolino è venerato come, in principio, a Jenne. Ed esercita la carità delle anime più ancora che l’altra. Ha levato certi disordini morali di famiglie, fu minacciato di morte per questo da una mala femmina, ha fatto ritornare in chiesa gente che non ci aveva più messo piede dalla fanciullezza in poi. Lo sanno i benedettini di Sant’Anselmo. La sera poi, due o tre volte la settimana, parla nelle catacombe.»

La signorina matura esclamò:

«Nelle catacombe?» [p. 305 modifica]

E si porse, palpitante, verso il narratore. Una delle quacchere mormorò: «Mon Dieu! Mon Dieu!» e un’altra voce, grave di stupore riverente:

«Che senso!»

«Ecco» riprese il giovine, sorridendo «Porretti ha detto «nelle catacombe» ma intendeva in un luogo privato, conosciuto da pochi. Adesso lo conosco anch’io.»

«Ah!» fece la signorina matura. «Lei lo conosce? Dov’è?»

Guarnacci tacque ed ella sentì la sua indiscrezione.

«Scusi, scusi!» disse, frettolosa.

«Lo sapremo, lo sapremo» fece la marchesa. «Ma senti un po’, figliuolo mio, questo tuo Santo che predica in segreto, non sarebbe una specie di eresiarca? Cosa ne dicono i preti?»

«Stasera» rispose il professore Guarnacci «ne avrebbe veduto qui tre o quattro e sono andati via contentissimi.»

«Saranno preti poco preti, preti mal cotti, pretoidi. Ma cosa dicono gli altri? Vedrai che gli altri, presto o tardi, gli daranno il torcibudella.»

E con quest’allegra profezia la marchesa se n’andò seguita da tutte le spalle scoperte.

La signorina matura e le quacchere, felici che quello spregevole sciame mondano se ne fosse [p. 306 modifica]andato, assalirono il professore con domande. Non si poteva proprio sapere il posto delle nuove catacombe? Quante persone vi si radunavano? Anche donne? Quali erano i temi dei discorsi? Cosa dicevano i frati di Sant’Anselmo? E della vita passata di quest’uomo si era venuti a sapere nulla? Il professore si schermì quanto potè, riferì solamente le parole di un padre di Sant’Anselmo: «un Benedetto per ogni parrocchia di Roma e Roma diventa davvero la Città Santa.» Ma quando, partite tutte le altre signore, si trovò solo con l’Albacina e con la Silenziosa che aspettavano la loro carrozza, siccome all’Albacina era legato di amicizia, lasciò capire a questa che avrebbe parlato ma che la presenza di una signora sconosciuta lo imbarazzava, pregò l’Albacina di presentarlo. L’Albacina non ci aveva pensato. «Il professore Guarnacci» diss’ella. «La signora Dessalle, mia buona amica.»

La «catacomba» era proprio la sala stessa dove stavano in quel momento. Prima, le riunioni avevano luogo nell’alloggio dei Selva, in via Arenula. Quel posto non pareva molto adatto, per diverse ragioni. Guarnacci, fattosi discepolo egli pure, aveva offerto la casa propria. Le riunioni vi si tenevano due volte la settimana. Ci venivano i Selva, una sorella della signora, alcuni ecclesiastici, quella stessa signora veneta ch’era partita [p. 307 modifica]poc’anzi, alcuni giovani fra i quali certo Alberti, prediletto dal Maestro che quella sera era venuto e partito con lui, e anche un ebreo, certo Viterbo, già prossimo a farsi cattolico e dal quale il Maestro sperava cose grandi; un operaio tipografo, qualche artista, persino due membri del Parlamento. Lo scopo delle riunioni era di far conoscere a persone attratte da Cristo ma ripugnanti al Cattolicismo, ciò che il Cattolicismo è veramente, la essenza vitale, indistruttibile della religione cattolica e il carattere umano di quelle sue diverse forme che la rendono appunto ripugnante a molti, che sono mutabili e mutano e muteranno per una elaborazione dell’interno elemento divino combinata con le reazioni dell’esterno, della scienza e della coscienza pubblica. Benedetto era severissimo nell’ammettere alle riunioni perchè nessuno più di lui sapeva trattare delicatamente colle anime, rispettarne i candori, farsi piccino alle piccine, alto alle alte, usare con le timide il linguaggio riguardoso che istruisce e non turba.

«La marchesa» continuò il professore «dice: sarà un eresiarca, i preti che lo seguono saranno eretici. No. Con Benedetto non c’è a temere di eresie nè di scismi. Proprio nell’ultima riunione egli ha dimostrato che scismi ed eresie, oltre ad essere condannabili per sè, sono funesti alla Chiesa non solamente perchè le sottraggono anime, ma [p. 308 modifica]perchè, anche, le sottraggono elementi di progresso, perchè se i novatori restassero nella soggezione della Chiesa gli errori loro perirebbero e quell’elemento di verità, quell’elemento di bene che quasi sempre è unito, in qualche misura, all’errore, diventerebbe vitale nel corpo della Chiesa.»

L’Albacina osservò che questo era molto bello e che se le cose stavano a questo modo la sinistra profezia della marchesa non si sarebbe avverata.

«La profezia del torcibudella, no!» disse il professore, ridendo. «Queste cose non accadono e io non credo che sieno accadute mai. Sono calunnie. Bisogna essere la marchesa e certa gente come la marchesa che si trova qui a Roma per crederle. Un prete romano, capisce, un prete ha osato avvertire Benedetto che si guardasse! Ma Benedetto gli ha levato il coraggio di parlargliene un’altra volta. Dunque, torcibudella no; ma persecuzione sì. Quei tali due preti di Roma ch’erano a Jenne non hanno mica dormito. Io non volli dirlo prima perchè la marchesa non è persona cui raccontare queste cose, ma ci sono in aria dei guai grossi. Si è spiato ogni passo di Benedetto, si è adoperata anche la nuora di Mayda, a mezzo del confessore, per avere informazioni dei suoi discorsi, si è saputo delle riunioni. La sola presenza di Selva dà loro il carattere che quella gente abborre e siccome contro un laico non può [p. 309 modifica]far niente, così pare che si cerchi l’aiuto del braccio secolare contro Benedetto, l’aiuto dei carabinieri e dei giudici. Loro si meravigliano? Eppure è così. Finora non c’è niente di positivo, niente di fatto, ma si macchina. Siamo stati avvertiti da un ecclesiastico straniero che un’altra volta ha chiacchierato male ma stavolta ha chiacchierato bene. Si preparano e si fabbricano materiali per un’azione penale.»

La Silenziosa trasalì, uscì finalmente del suo mutismo.

«Come è possibile?» diss’ella.

«Signora mia,» disse il professore «Lei non sa di cosa sieno capaci alcuni intransigenti in tonaca. Gl’intransigenti laici sono agnelli, in paragone. Si vuol servirsi di un disgraziato caso successo a Jenne. Ora però noi speriamo in un fatto nuovo, che non occorre di raccontare a molti, senza discernimento, ma ch’è importantissimo.»

Il professore tacque un momento, assaporando l’acuta curiosità che aveva destato e che, muta sulle labbra, sfavillava dagli occhi intenti delle due dame.

«L’altro giorno» riprese «il segretario del cardinale.... un giovine prete tedesco, si recò a Sant’Anselmo e parlò coi frati. In seguito a questa visita Benedetto fu chiamato a Sant’Anselmo dove i benedettini gli hanno un grande affetto e un [p. 310 modifica]grande rispetto. Gli fu chiesto se non avesse intenzione di rendere omaggio a Sua Santità, di domandare udienza. Rispose ch’era venuto a Roma con questo desiderio nel cuore, che aspettava un cenno dalla Provvidenza e che questo era il cenno. Allora gli fu detto che Sua Santità lo avrebbe ricevuto certamente volentieri ed egli domandò l’udienza. Questo fu raccontato a Giovanni Selva da un benedettino tedesco

«E quando ci va?» chiese l’Albacina.

«Posdomani sera.»

Il professore soggiunse che da parte del Vaticano la cosa era tenuta segretissima, che si era imposto a Benedetto di non parlare con alcuno, che niente ne sarebbe trapelato senza l’indiscrezione di quel frate tedesco, e che gli amici di Benedetto speravano grandi cose da questa visita. L’Albacina domandò cosa si proponesse Benedetto di dire al Pontefice. Il professore sorrise. Benedetto non se n’era aperto con nessuno e nessuno aveva osato interrogarlo. Secondo il professore, Benedetto parlerebbe a favore di Selva, pregherebbe che i suoi libri non fossero posti all’Indice.

«Sarebbe poco» disse l’Albacina, sotto voce. Jeanne ebbe un fremito di consenso.

«Pochissimo!» esclamò, quasi pigliandosela col professore che parve sorpreso di quel subito scatto dopo tanto silenzio. Egli si scusò. Non aveva inteso [p. 311 modifica]dire che Benedetto non parlerebbe anche di altre cose, al Papa. Aveva inteso dire che, secondo lui, di quell’argomento gli parlerebbe certo. L’Albacina non sapeva spiegarsi il desiderio del Papa di vedere Benedetto. Come lo spiegavano i suoi amici? Come lo spiegava Selva? Eh, nessuno lo sapeva spiegare; nè Selva nè altri.

«Io lo spiego!» disse Jeanne, impetuosa, compiacendosi di capire quello che nessuno capiva. «Il Papa, non è stato vescovo a Brescia?»

Guarnacci sorrise di un sorriso fra l’ammirativo e l’ironico, rispose. Ah, la signora era molto informata del passato di Benedetto! La signora sapeva con certezza cose che a Roma si dicevano ma che però trovavano anche degli increduli! Solo una cosa non sapeva. Il Papa non era mai stato vescovo a Brescia, aveva coperto due sedi vescovili nel Mezzogiorno. Jeanne, irritata con sè stessa, vergognosa di essersi quasi tradita, non replicò. L’Albacina voleva sapere quale opinione Benedetto avesse del Papa.

«Oh lui» rispose il professore «nel Papa non considera e non venera che l’ufficio. Almeno credo. Della persona non l’ho inteso parlare mai. Dell’ufficio sì. Ne ha discorso una sera magnificamente, contrapponendo il Cattolicismo al Protestantesimo, svolgendo il suo ideale di governo della Chiesa: principato e giusta libertà. Del resto il nuovo Papa [p. 312 modifica]non si sa ancora cosa sia. Si dice che sia santo, intelligente, malato e debole.


Nell’accompagnare le signore alla carrozza, sulla scala buia, il professore uscì a dire sospirando:

«Quello che pur troppo si teme è che Benedetto non viva. Almeno Mayda lo teme.»

L’Albacina, che scendeva a braccio del professore, esclamò senza fermarsi:

«Oh poveretto! Di che soffre?»

«Ma!» rispose il professore. «Di un male inguaribile, pare; conseguenza della tifoide ch’ebbe a Subiaco e sopra tutto della vita disagiatissima che ha fatto, delle penitenze, dei digiuni.»

E continuarono la lunga discesa in silenzio.

Soltanto in fondo alla scala si avvidero che la loro compagna era rimasta indietro. Il professore risalì rapidamente e trovò Jeanne ferma sul penultimo pianerottolo, aggrappata alla ringhiera. Sulle prime non si mosse nè parlò. Poi mormorò:

«Non ci si vede.»

Guarnacci non sapeva e non fece attenzione nè a quel momento di silenzio nè al tôno sommesso e incerto della voce. Le offerse il braccio e discese con lei, scusando sè del buio, accusandone l’avarizia del padrone di casa.

Jeanne salì nella carrozza dell’Albacina che la [p. 313 modifica]portò al Grand Hôtel. Nel tragitto l’Albacina parlò con rammarico della notizia che le aveva dato il Guarnacci. Jeanne non aperse bocca. Il suo mutismo dispiacque all’amica.

«Lei non è stata contenta del discorso?» diss’ella. Non conosceva affatto le idee religiose di Jeanne.

«Sì» rispose questa. «Perchè?»

«Così. Mi pareva. Allora non Le dispiace di essere venuta?»

L’Albacina si sentì, con molta sorpresa, prendere una mano e rispondere:

«Le sono tanto grata!»

La voce fu sommessa e quieta, la stretta della mano quasi violenta.

«Nientemeno!» pensò l’Albacina. «Questa è una futura dama dello Spirito Santo.»

«Per conto mio» riprese ad alta voce «capisco che mi terrò la mia religione vecchia, quella degl’intransigenti. Saranno farisei, saranno tutto quello che vi piace, ma ho paura che a volerla tanto ritoccare e ristaurare, la religione vecchia, essa crolli e non resti più niente in piedi. E poi volendo seguire i Benedetti bisognerebbe cambiare troppe cose. No no. Però l’uomo m’ispira un interesse straordinario. Adesso bisognerebbe cercare di vederlo. Bisogna che lo vediamo. Molto più se proprio è condannato a morire presto. Non Le pare? E come si fa? Pensiamo.» [p. 314 modifica]

«Io non desidero di vederlo» s’affrettò a dire Jeanne.

«Davvero?» esclamò l’amica. «Ma come? Mi spieghi questo enigma.»

«Così. Non desidero.»

«Curiosa!» pensò l’Albacina. La carrozza si fermò davanti all’entrata del Grand Hôtel.


Nell’atrio Jeanne s’incontrò con Noemi e suo cognato, che uscivano.

«Finalmente!» disse Noemi. «Va, corri, tuo fratello è arrabbiatissimo con questa Jeanne che non arriva mai. Noi siamo discesi ora perchè è venuto il medico.»


I Dessalle erano a Roma da quindici giorni. Un principio di ottobre umido e freddo, preoccupazioni di salute, il progetto di uno studio sul Bernini seguito al progetto di romanzo, avevano persuaso Carlino ad accontentare la signora Albacina più presto che non avrebbe voluto, a lasciare villa Diedo per i tepori di Roma prima dell’inverno, con molta chiusa gioia di sua sorella. Due o tre giorni dopo l’arrivo fu preso da una leggera bronchite. Si diede per tisico, si tappò in camera con il proposito di starci tutto l’inverno, volle il [p. 315 modifica]medico due volte al giorno, tiranneggiò Jeanne con un egoismo spietato, le numerò i minuti di libertà. Ella si fece sua schiava, parve godere di quell’irragionevole soprappiù di sacrificio, che passava la misura del suo affetto fraterno. Lo donava mentalmente, con dolce ardore, a Benedetto. Vedeva spesso i Selva e Noemi, non a casa loro, al Grand Hôtel. Anche i Selva erano soggiogati dal suo fascino di donna superiore, bella, gentile e triste. Tutto che aveva udito di Benedetto in casa Guarnacci lo sapeva già da Noemi. Solo non sapeva che Mayda avesse espresso quel giudizio. Noemi, pietosamente e anche per non lasciar trasparire la commozione propria, gliel’aveva taciuto.


Carlino l’accolse male. Il medico, che gli aveva trovato il polso frequente, capì subito che era un polso collerico. Scherzò un poco sulla gravità del male e se ne andò. Carlino, burbero, volle sapere dove Jeanne si fosse tanto indugiata ed ella non glielo nascose. Solamente gli nascose il nome vero di Benedetto.

«Non ti sei vergognata» diss’egli «di star ad ascoltare alle porte?»

E senza lasciarle il tempo di rispondere inveì contro le nuove tendenze che le aveva scoperte. [p. 316 modifica]

«Domani andrai a confessarti! E posdomani reciterai il rosario!»

Sotto la usuale tolleranza cortese del suo linguaggio, la benevolenza che mostrava pure a non pochi ecclesiastici, si nascondeva una vera fobìa antireligiosa. L’idea che sua sorella potesse un giorno accostarsi ai preti, alla fede, alle pratiche, gli faceva perdere il lume degli occhi.

Jeanne non rispose, si offerse mansuetamente per la solita lettura serale. Carlino le dichiarò netto di non volerne sapere, pretese di sentire degli spifferi, la tenne un quarto d’ora colla candela in mano a scrutar usci, finestre, pareti, pavimento, e poi la mandò a dormire.

Ma Jeanne entrata nella sua camera, non pensò a dormire nè a coricarsi. Spense la luce e sedette sul letto.

Strepiti di carrozze sonavano nella via, passi e fruscii di vesti femminili nei corridoi; immobile fra le tenebre, ella non udiva. Aveva spento la luce per pensare, per non vedere che il proprio pensiero, l’idea balenatale nello scender la scala di casa Guarnacci al braccio del professore dopo che, udite le parole sinistre «si teme che non viva» aveva quasi smarriti i sensi. In carrozza con l’Albacina, in camera con suo fratello, mentre doveva pur parlare e con l’una e con l’altro, fare attenzione a tante diverse cose, era stato un [p. 317 modifica]balenar continuo, nel suo profondo, di quest’idea, di questa proposta offerta dal cuore ardente alla volontà. Adesso non balenava più. Jeanne la contemplava in sè, ferma. Nella figura seduta sul letto, immobile fra le tenebre, due anime si stavano tacite a fronte. Una Jeanne umile, appassionata, persuasa di poter tutto sacrificare all’amore, si misurava con una Jeanne inconsciamente orgogliosa, persuasa di possedere una dura e fredda verità. Gli strepiti delle carrozze si fecero più radi nella via, i passi e i fruscii più radi nei corridoi. A un tratto le due Jeanne parvero riconfondersi in una che pensò:

«Quando mi annuncieranno la sua morte, mi potrò dire: almeno hai fatto questo.»

Si alzò, accese la luce, sedette alla scrivania, prese un foglietto e scrisse:


«A Piero Maironi, la notte del 29 ottobre…

«Credo.

«Jeanne Dessalle


Scrisse e guardò a lungo, a lungo, la parola solenne.

Più la guardava, più le due Jeanne si venivano lente ridividendo. La Jeanne inconsciamente [p. 318 modifica]orgogliosa soverchiò, oppresse l’altra quasi senza lotta. Tutta amara di amarezza mortale, lacerò il foglio macchiato della parola impossibile a mantenere, impossibile a scrivere sinceramente. Spenta da capo la luce, accusò di crudeltà Iddio se mai esistesse, pianse, pianse nelle volontarie tenebre, senza freno. [p. 319 modifica]


II.


L’orologio di San Pietro suonò le otto. Benedetto lasciò un piccolo gruppo di persone allo sbocco della via di Porta Angelica, entrò solo nel colonnato del Bernini, si avviò lentamente verso il Portone di bronzo, sostò ad ascoltar il rumore delle fontane, a guardar i grappoli di fiamme dei quattro candelabri intorno all’obelisco, e tremolo, opaco sul volto della luna, il sommo getto della fontana di sinistra. Fra cinque, fra dieci minuti, forse fra un quarto d’ora egli si sarebbe trovato alla presenza del Papa. Il suo pensiero era fermo e vibrante in questo apice come nell’apice suo la saliente acqua viva della fontana. La piazza era vuota. Nessuno lo avrebbe visto entrare in Vaticano fuorchè la corona spettrale dei Santi, ritti là in faccia sopra il giro dell’altro colonnato. I Santi e le fontane gli dicevano insieme che a lui pareva di vivere un’ora solenne ma che questo atomo del tempo ed egli stesso ed il Pontefice passerebbero in breve, si perderebbero per sempre nel regno dell’oblio, continuando le fontane il loro monotono lamento e i Santi la loro tacita contemplazione. Egli sentiva invece che la parola della Verità è parola di vita eterna; e raccolto un’ultima [p. 320 modifica]volta in sè stesso, chiusi gli occhi, pregò intensamente, come da due giorni pregava, che lo Spirito gliela suscitasse, davanti al Papa, nel petto, gliela portasse alle labbra.

Egli aspettava qualcuno, fra le otto e le otto e un quarto. Le otto e un quarto erano suonate ma nessuno compariva. Si voltò a guardar il Portone di bronzo. Non n’era aperto che uno sportello e si vedeva luce nell’interno. Vi entravano di tempo in tempo, come spensierati moscerini nelle fauci di un leone, gruppetti di genterella minuta. Finalmente vi si affacciò dal di dentro un prete, accennando. Benedetto si avvicinò. Quegli disse:

«Lei viene per Sant’Anselmo?»

Era la domanda convenuta. Come Benedetto gli ebbe risposto di sì, il prete gli fece segno di entrare.

«Favorisca» diss’egli.

Benedetto lo seguì. Passarono fra le guardie pontificie che salutarono militarmente il prete. Svoltarono a destra, salirono la Scala Pia. All’entrata del Cortile di San Damaso altre guardie, altri saluti, un ordine del prete, dato sottovoce; Benedetto non lo intese. Attraversarono il Cortile lasciando a sinistra la porta della Biblioteca, a destra la porta per la quale si accede alle stanze del Papa. In alto, le vetrate delle logge sfavillavano alla luna. Benedetto, che ricordava un’udienza [p. 321 modifica]avuta dal Pontefice defunto, si meravigliò della strana via che gli si faceva prendere. Attraversato il Cortile in linea retta, il prete si avviò per l’andito stretto che conduce alla scaletta dei Mosaici, e si fermò davanti all’uscio che si apre a destra, ove scende la scala del Triangolo.

«Lei conosce il Vaticano?» diss’egli.

«Conosco i musei e le logge» rispose Benedetto «e sono stato ricevuto dal predecessore del Pontefice attuale nel suo appartamento. Altro non conosco.»

«Qui non è stato mai?»

«Mai.»

Il prete si mise primo per la scaletta debolmente illuminata da lampadine elettriche. A un tratto, dove la prima branca della scaletta monta sur un pianerottolo, le lampadine si spensero. Benedetto, fermatosi con un piede sul pianerottolo, udì la sua guida salir di corsa una scala, a destra. Poi non udì più nulla. Pensò che la luce fosse mancata per caso, che il prete fosse salito per farla riaccendere. Attese. Nessun lume, nessun passo, nessuna voce. Montò sul pianerottolo; sentì a sinistra, tentando l’aria buia, una parete; procedette verso destra, sempre a tentoni; si accorse, urtandovi il piede, di due diverse branche di scala che salivano dal pianerottolo. Attese ancora, non dubitò che il prete non avesse a ritornare. [p. 322 modifica]

Ma cinque, dieci minuti passarono e il prete non ritornava. Che poteva essere accaduto? Si era voluto ingannarlo, deriderlo? Ma perchè? Benedetto s’interdisse un sospetto inutile a discutere. Pensò invece al partito da prendere. Aspettare ancora non gli parve ragionevole. Era da ridiscendere? Era da salire? In quest’ultimo caso, per quale delle due vie? Si raccolse in sè stesso interrogando l’Onnipresente.

Ridiscendere, no. Gli ripugnava. Salì a caso una delle scale, quella che conduce alle camere dei domestici. Era corta, Benedetto trovò subito un altro pianerottolo. Ora egli aveva udito il prete salir di corsa e di seguito molti scalini, il rumore de’ suoi passi si era perduto molto in alto. Ridiscese, tentò l’altra scala. Era più lunga. Il prete doveva avere salito quella. Decise di seguire il prete.

Giunto alla sommità, sbucò da una porticina in una loggia illuminata dalla luna. Si guardò attorno. A destra, quasi immediatamente, una cancellata partiva quella dalla loggia. Le due vi s’incontravano ad angolo retto. A sinistra la loggia terminava, alquanto lontano, a una porta chiusa. La luna piena batteva per le grandi vetrate sul pavimento, mostrava i fianchi del Cortile di San Damaso e nello sfondo, tra le due grandi ali scure del Palazzo, umili tetti, gli alberi di villa Cesi, [p. 323 modifica]le alture di Sant’Onofrio. Tanto la porta di sinistra quanto la cancellata di destra parevano chiuse. Benedetto guardò, guardò, a destra e a sinistra. Impronte antiche gli venivano ricomparendo poco a poco nella memoria. Sì, in quella loggia egli era stato ancora, aveva veduto quella cancellata recandosi con un suo conoscente, lettore della Vaticana, a visitare la Galleria delle lapidi, la via Appia del Vaticano. Ecco, sì, adesso ricordava bene. La porta di sinistra, in fondo alla loggia, doveva mettere agli appartamenti del cardinale segretario di Stato. La loggia oltre la cancellata era la loggia di Giovanni da Udine, le grandi finestre colle inferriate che mettevano nella loggia di Giovanni da Udine erano le finestre dell’appartamento Borgia, l’entrata della Galleria delle lapidi doveva aprirsi proprio nell’angolo. Allora presso la cancellata ci stava uno svizzero. Adesso non c’era nessuno. Tutto era deserto, a destra e a sinistra, tutto era silenzio.

A tentar la porta del cardinale segretario di Stato non era da pensare. Benedetto spinse la cancellata. Era aperta. Sostò, si trovò davanti all’entrata della Galleria delle lapidi. Stette ancora in ascolto. Silenzio profondo. Gli parve che una voce interna gli dicesse: «Sali, entra.» Salì, franco, i cinque gradini.

La via Appia del Vaticano, larga forse quanto [p. 324 modifica]l’antica, non aveva una lampada. Fiochi chiarori ne rigavano il pavimento, a intervalli, dalle finestre che fra le lapidi e i cippi e i sarcofaghi pagani guardano Roma. Da quelle della parete cristiana, che guardano il cortile del Belvedere, non entrava lume. Il fondo lontano, verso il museo Chiaramonti, si perdeva nelle tenebre più nere. Allora, sentendosi nel tacito cuore del Vaticano immenso, Benedetto ebbe un assalto di terrore sacro. Si accostò a una grande finestra onde si vedeva Castel Sant’Angelo, infiniti dispersi lumi nel piano, e all’orizzonte, più alti, più splendenti, quelli del Quirinale. La vista, non di Roma illuminata, ma di una panca bassa e sottile, coperta di tela verde, che correva lungo i cippi e i sarcofaghi, gli quietò lo spirito. Intravvide poi nell’ombra un padiglione mezzo disfatto. Che poteva essere? Anche lungo la parete opposta correva una panca eguale all’altra. Procedendo, urtò in qualche cosa che trovò essere un seggiolone a bracciuoli. Adesso al terrore era sottentrato un proposito sicuro. La interna voce imperiosa che gli aveva prima detto di entrare, ora gli diceva: «procedi». Glielo disse così chiaro, così forte, che un subito bagliore gl’illuminò la memoria.

Si percosse la fronte. Nella Visione egli si era visto a colloquio col Papa. Questo non lo aveva potuto dimenticare mai. Bensì aveva dimenticato, [p. 325 modifica]e adesso glien’era ritornata la memoria in un lampo, che lo guidava per il Vaticano al Papa uno spirito. Procedette lungo la parete di sinistra presso la quale aveva urtato nel seggiolone. Si teneva sicuro che giunto al fondo della Galleria avrebbe trovato un’uscita e, finalmente, luce. Che nel fondo ci fosse il cancello del museo Chiaramonti non ricordava. Procedeva appoggiando spesso la mano alla parete, alle lapidi. A un tratto sentì che non toccava più nè marmo nè muro. Battè leggermente la parete col pugno. Era legno, una porta. Si fermò involontariamente, sospeso. Un passo suonò dall’interno, una chiave girò nella toppa, una lama di luce fendette di sghembo la Galleria, si allargò; comparve una figura nera, il prete che aveva abbandonato Benedetto sulla scala. Egli uscì con un atto rapido, richiuse la porta, disse a Benedetto come se niente fosse stato:

«Lei sta per trovarsi alla presenza di Sua Santità.»

Lo fece entrare e chiuse la porta daccapo, rimanendo fuori.

Benedetto, entrando, non vide che un tavolino, una lucernetta col paralume verde, una figura bianca seduta in faccia a lui, dietro il tavolino. Cadde ginocchioni.

La Figura bianca stese un braccio e disse:

«Alzati. Come sei venuto?» [p. 326 modifica]

Il viso incorniciato di capelli grigi, singolarmente dolce, aveva una espressione di stupore. La voce, dall’accento meridionale, era commossa.

Benedetto si alzò e rispose:

«Dal Portone di bronzo fino a un luogo che non so indicare sono venuto col sacerdote che stava presso Vostra Santità; poi sono venuto solo.»

«Conoscevi il Vaticano? Ti hanno detto che mi avresti trovato qui?»

Quando Benedetto gli ebbe risposto che aveva visitato anni prima i musei vaticani, le logge e la Galleria lapidaria una sola volta, che alla logge non era salito dal Cortile di San Damaso, che non sapeva affatto dove avrebbe trovato il Sommo Pontefice, questi tacque un momento, pensoso; poi disse benignamente, affettuosamente, indicandogli una sedia in faccia a lui:

«Siedi, figlio mio.»

Se Benedetto non fosse stato assorto nel volto ascetico e benigno del Papa, avrebbe, mentre il suo angusto interlocutore stava raccogliendo alcune carte sparse sul tavolino, girato lo sguardo non senza meraviglia per quella strana sala di ricevimento, un polveroso caos di vecchi quadri, di vecchi libri, di vecchi mobili, un’anticamera, si sarebbe detto, di qualche biblioteca, di qualche museo dove si fossero intraprese opere di riordino. Ma egli era assorto nel volto del Papa, nel magro, [p. 327 modifica]cereo volto che aveva una espressione ineffabile di purezza e di bontà. Si avvicinò, piegò il ginocchio, baciò la mano che il Santo Padre gli stese dicendo con gravità soave:

«Non mihi, sed Petro.»

Quindi sedette. Il Papa gli porse un foglio, gli avvicinò la lucernetta.

«Guarda» diss’egli. «Conosci la scrittura?»

Benedetto guardò, trasalì, non potè frenare un’esclamazione di mesta riverenza.

«Sì» rispose «è la scrittura di un santo prete che ho molto amato, che è morto e si chiamava don Giuseppe Flores.»

Sua Santità riprese:

«Adesso leggi. Ad alta voce.»

Benedetto lesse.


«Monsignore

Affido al mio Vescovo il plico suggellato, chiuso insieme a questo foglietto in una busta recante l’indirizzo a Lei. Lo lasciò a me per essere aperto dopo la sua morte, come sopra vi è scritto, il signor Piero Maironi, ben conosciuto da Lei, prima di scomparire dal mondo. S’egli ancora viva o sia passato di vita nè so nè ho modo di sapere. Il plico deve contenere il racconto di una visione di carattere soprannaturale che il Maironi ebbe [p. 328 modifica]nel ritornare a Dio dal fuoco di una passione colpevole. Sperai allora che Iddio lo avesse veramente eletto per ministro di qualche singolare opera Sua. Sperai che la santità dell’opera verrebbe confermata dopo la morte del Maironi dalla lettura di questo documento, che se ne rivelerebbe un carattere profetico. Lo sperai benchè mi fossi studiato, per prudenza, di nascondere al Maironi stesso la mie speranze segrete.

Due anni sono trascorsi dal giorno in cui egli scomparve e nulla si è mai saputo di lui. Quando, Monsignore, Ella starà leggendo quello che adesso io scrivo, sarò scomparso anch’io. La prego di volersi sostituire a me in questa custodia religiosa. Ella ne disporrà secondo la coscienza Sua come crederà meglio.

E preghi per l’anima del

Suo povero
don Giuseppe Flores



Benedetto depose lo scritto e guardò il Pontefice in viso, aspettando.

«Sei tu Pietro Maironi?» disse questi.

«Sì, Santità.»

Il Pontefice sorrise con bontà.

«Intanto» diss’egli «mi rallegro che vivi. Quel Vescovo ti suppose morto, aperse il plico e credette di doverlo rimettere al Vicario di Cristo. [p. 329 modifica]Questo avvenne circa sei mesi sono, vivendo il mio santo Predecessore che ne parlò ad alcuni cardinali e anche a me. Poi si è saputo che vivevi, e dove e come. Ora ti devo movere alcune domande. Ti esorto a rispondermi la esatta verità.»

Il Pontefice fermò gli occhi gravi negli occhi di Benedetto che piegò lievemente il capo.

«Qui hai scritto» diss’egli «che stando in quella piccola chiesa veneta ti sei visto in Vaticano a colloquio col Papa. Cosa ricordi di questa parte della tua visione?»

«La mia visione» rispose Benedetto «nel tempo che passai a Santa Scolastica, circa tre anni, mi si venne spezzando nelle memoria, anche perchè il mio maestro spirituale di Santa Scolastica, come il povero don Giuseppe Flores, mi ha sempre consigliato di non tenerne conto. Alcune parti ne restano nette, altre si oscurarono. Che mi ero veduto in Vaticano a fronte del Sommo Pontefice, mi restò sempre fisso nella mente; ma non più di così. Invece, pochi momenti sono, nella galleria buia dalla quale sono entrato qua, mi risovvenni improvvisamente che nella Visione io ero guidato al Pontefice da uno spirito. Me ne risovvenni quando trovandomi solo, di notte, al buio, in un luogo ignoto o quasi ignoto perchè c’ero stato una volta sola molti anni addietro, senz’avere un’idea della direzione che avrei dovuto tenere, [p. 330 modifica]fui per ritornare sui miei passi e una voce interna, molto chiara, molto forte, mi disse di andare avanti.»

«E quando hai bussato alla porta» chiese il Papa «sapevi di trovarmi qui? Sapevi di bussare alla porta della Biblioteca?»

«No, Santità. Non intendevo neppure di bussare. Ero al buio, non vedevo niente, intendevo di saggiare colla mano la parete.»

Il Papa stette alquanto sopra pensiero e poi osservò che nel manoscritto ci stava pure: «prima mi guidava un uomo vestito di nero.» Di questo, Benedetto non aveva memoria.

«Sai» riprese il Papa «che il profetare non è, per sè solo, sufficiente prova di santità. Sai che si possono avere, che si sono avute visioni profetiche, non dico per opera di spiriti maligni, noi ne sappiamo troppo poco per poterlo dire, ma insomma per effetto di forze occulte, forze insite alla natura umana, le quali, a ogni modo, non hanno che fare colla santità. Puoi dirmi le disposizioni dell’anima tua quando hai avuto la Visione?»

«Sentivo» rispose Benedetto «un amarissimo dolore di essermi allontanato da Dio, di averne respinto i richiami, una gratitudine infinita per la Sua paziente bontà, un infinito desiderio di Cristo. Mi ero appena viste nella mente, proprio [p. 331 modifica]viste, proprio distinte, bianche sopra un fondo nero, queste parole del Vangelo che prima, nel tempo buono, mi erano state tanto care: «Magister adest et vocat te.» Don Giuseppe Flores celebrava e la Messa era presso alla fine quando, stando in preghiera, con gli occhi coperti dalle mani, ebbi la Visione; ma istantanea, fulminea!»

Benedetto ansava nel ritorno violento delle memorie.

«Ha potuto essere un’illusione» diss’egli. «Opera di spiriti maligni, no.»

«Gli spiriti maligni» disse il Pontefice «possono trasfigurarsi in angeli di luce. Possono avere operato allora contro lo spirito buono ch’era in te. Ti sei inorgoglito poi, di questa visione?»

Benedetto piegò il capo e pensò alquanto.

«Forse una volta» diss’egli «per un momento, a Santa Scolastica, quando il mio maestro, a nome dell’Abate, mi offerse una veste di converso, la veste che poi mi fu tolta a Jenne. Allora pensai per un momento che questa offerta inattesa confermasse l’ultima parte della Visione e n’ebbi un moto di compiacenza, mi stimai oggetto di una predilezione divina. Ne domandai subito perdono a Dio e adesso ne domando perdono a Vostra Santità.»

Il Pontefice non parlò, ma la sua mano si alzò spiegata e ridiscese in un atto di indulgenza. Egli [p. 332 modifica]si diede poi a maneggiare le carte diverse che aveva sul tavolino, parve consultarne attentamente più d’una. Quindi le posò, le raccolse, le fece da banda, riprese a parlare.

«Figlio mio» diss’egli «ti devo domandare altre cose. Hai nominato Jenne. Io neppure sapevo che esistesse, questo Jenne. Me lo hanno descritto. Diciamo il vero, non si capisce perchè tu ti sia andato a cacciare a Jenne.»

Benedetto sorrise lievemente ma non volle discolparsi, interrompere il Papa, il quale continuò:

«È stata un’idea disgraziata, perchè chi può dir bene cosa succede a Jenne? Sai di aver avuto lassù della gente che ti vedeva di mal occhio?»

Benedetto pregò semplicemente Sua Santità che lo dispensasse dal rispondere.

«Ti capisco» rispose il Papa «e debbo dire che la tua preghiera è cristiana. Tu non dirai niente ma io non posso tacere che sei stato accusato di molte cose. Lo sai?»

Benedetto sapeva di un’accusa sola o almeno ne dubitava. Il Papa aveva l’aria più imbarazzata di lui. Egli era sereno.

«Ti accusano» ripigliò il Papa «di esserti spacciato, a Jenne, per un taumaturgo e di essere stato causa, per questi tuoi vanti, che un disgraziato morisse in casa tua. Si arriva persino a dire ch’egli è morto per certi beveraggi che gli hai [p. 333 modifica]dati. Ti accusano di aver predicato al popolo piuttosto da protestante che da cattolico e anche...»

Il Santo Padre esitò. Al suo pudore verginale ripugnava persino accennare a certe cose.

«Di relazioni non lecite» disse «con la maestra del paese. Cosa rispondi, figlio mio?»

«Santo Padre» rispose Benedetto, tranquillo, «lo Spirito risponde per me nel Suo cuore.»

Il Pontefice lo guardò, attonito, ma non solamente attonito; anche un poco turbato, come se Benedetto gli avesse letto nell’anima. Il viso gli si dipinse di un lieve rossore.

«Spiegati» diss’egli.

«Iddio mi dona di leggere nel Suo cuore che Lei non crede ad alcuna di quelle accuse.»

A queste parole di Benedetto il Papa contrasse lievemente le sopracciglia.

«Adesso» riprese Benedetto «Vostra Santità pensa che io mi attribuisca una chiaroveggenza miracolosa. No, è una cosa che vedo nel Suo viso, che sento nella Sua voce, da povero uomo comune quale sono.»

«Forse tu sai» esclamò il Papa «chi è stato in questi giorni da me!»

Egli aveva fatto chiamare a Roma l’arciprete di Jenne, lo aveva interrogato su Benedetto. L’arciprete, trovato un Papa di suo genio, un Papa ben diverso dai due zelanti che lo avevano [p. 334 modifica]intimorito a Jenne, non aveva perduta l’occasione di mettersi facilmente in pace colla propria coscienza, aveva dato sfogo ai rimorsi lodando e rilodando. Benedetto non ne sapeva niente.

«No» rispose «non lo so.»

Il Pontefice tacque, ma il suo viso, le mani, la intera persona, tradivano una viva inquietudine. Egli si abbandonò finalmente sulla spalliera della seggiola, chinò il capo sul petto, stese le braccia al tavolino e appoggiatevi le mani, una presso all’altra, pensò.

Mentre pensava, immobile, fissi gli occhi nel vuoto, la fiamma della lucernina a petrolio salì fumigando, rossa, nel tubo. Egli non se n’avvide subito. Quando se n’avvide la regolò e poi ruppe il silenzio.

«Credi tu» diss’egli «avere veramente una missione?»

Benedetto rispose, con una espressione di fervore umile:

«Sì, lo credo.»

«E perchè lo credi?»

«Santità, perchè ciascuno viene al mondo con una missione scritta nella sua natura. Quand’anche non avessi avuto visioni nè altri segni straordinari, la mia natura ch’è religiosa mi imporrebbe il dovere di un’azione religiosa. Come posso dirlo? Ecco, lo dirò...» Qui la voce di Benedetto tremò [p. 335 modifica]di emozione «...come non l’ho detto a nessuno. Io credo, io so che Dio è il nostro Padre di tutti, ma io sento nella mia natura la Sua paternità. Quasi non è un dovere il mio, è un sentimento di figlio.»

«E credi avere il cómpito di esercitarla qui, adesso, un’azione religiosa?»

Benedetto giunse le mani come se implorasse già di venire ascoltato.

«Sì» diss’egli «anche qui, anche adesso.»

Ciò detto, pose un ginocchio a terra tenendo sempre giunte le mani.

«Alzati» disse il Santo Padre. «Di’ liberamente quello che lo Spirito ti consiglia.»

Benedetto non si alzò.

«Mi perdoni» diss’egli «io devo parlare al solo Pontefice e qui non mi ascolta il solo Pontefice!»

Il Papa trasalì, lo interrogò con gli occhi, severo.

Benedetto porse un poco il mento, inarcando le sopracciglia, verso una porta grande alle spalle del Papa.

Questi prese un campanello di argento che stava sul tavolino, accennò imperiosamente a Benedetto di alzarsi e suonò. Ricomparve dalla porta della Galleria il prete di prima. Il Papa gli ordinò di far venire in Galleria don Teofilo, il cameriere fedele che aveva portato con sè dalla sua sede [p. 336 modifica]arcivescovile del Mezzogiorno. Venuto don Teofilo, egli andrebbe ad attendere Sua Santità nelle sale della Biblioteca.

«Ripasserai di qua» diss’egli.

Parecchi minuti trascorsero nell’attesa silenziosa che colui rientrasse. Il Pontefice, pensoso, non alzò mai gli occhi dal tavolino. Benedetto, in piedi, teneva chiusi i suoi. Li aperse quando rientrò il prete. Uscito che fu costui per la porta sospetta, il Papa accennò con la mano e Benedetto parlò, a voce bassa. Il Pontefice lo ascoltava stringendo i bracciuoli della sedia, pôrta in avanti la persona e chino il viso.

«Santo Padre» disse Benedetto «la Chiesa è inferma. Quattro spiriti maligni sono entrati nel suo corpo per farvi guerra allo Spirito Santo. Uno è lo spirito di menzogna. Anche lo spirito di menzogna si trasfigura in angelo di luce e molti pastori, molti maestri della Chiesa, molti fedeli buoni e pii ascoltano devotamente lo spirito di menzogna credendo ascoltare un angelo. Cristo ha detto: «io sono la Verità» e molti nella Chiesa, anche buoni, anche pii, scindono la Verità nel loro cuore, non hanno riverenza per la Verità che non chiamano religiosa, temono che la verità distrugga la verità, pongono Dio contro Dio, preferiscono le tenebre alla luce e così ammaestrano gli uomini. Si dicono fedeli e non comprendono quanto scarsa [p. 337 modifica]e codarda è la loro fede, quanto è loro straniero lo spirito dell’apostolo che tutto scruta. Adoratori della lettera, vogliono costringere gli adulti a un cibo d’infanti che gli adulti respingono, non comprendono che se Dio è infinito e immutabile, l’uomo però se ne fa un’idea sempre più grande di secolo in secolo e che di tutta la Verità Divina si può dire così. Essi sono causa di una funesta perversione della Fede, che corrompe tutta la vita religiosa; perchè il cristiano che con uno sforzo si è piegato ad accettare quello ch’essi accettano e a respingere quello che respingono, crede aver già fatto il più per servire Iddio, mentre ha fatto meno che niente e gli resta di vivere la fede nella parola di Cristo, nella dottrina di Cristo, gli resta di vivere il fiat voluntas tua, che è tutto. Santo Padre, oggi pochi cristiani sanno che la religione non è principalmente adesione dell’intelletto a formole di verità ma che è principalmente azione e vita secondo questa verità, e che alla Fede vera non rispondono solamente doveri religiosi negativi e obblighi verso l’autorità ecclesiastica. E quelli che lo sanno, quelli che non scindono la Verità nel loro cuore, quelli che hanno il culto supremo di Dio Verità, che ardono di una fede impavida in Cristo, nella Chiesa e nella Verità, ne conosco, Santo Padre!, quelli sono combattuti acremente, sono diffamati come eretici, sono costretti al [p. 338 modifica]silenzio, tutto per opera dello Spirito di menzogna, che lavora da secoli nella Chiesa una tradizione d’inganno per la quale coloro che oggi lo servono si credono di servire Iddio, come lo credettero i primi persecutori dei cristiani. Santità...»

Qui Benedetto pose un ginocchio a terra. Il Papa non si mosse. Pareva aver abbassato il capo ancora di più. Il zucchetto bianco era quasi tutto nel lume della lucernina.

«...io ho letto proprio oggi grandi parole di Lei ai Suoi diocesani antichi, sulla molteplice rivelazione di Dio Verità nella Fede e nella Scienza, e anche direttamente, misteriosamente, nell’anima umana. Santo Padre, molti, moltissimi cuori di sacerdoti e di laici appartengono allo Spirito Santo; la Spirito di menzogna non ha potuto entrarvi neppure sotto una veste angelica. Dica una parola, Santo Padre, faccia un atto che rialzi questi cuori devoti alla Santa Sede del Pontefice romano! Onori davanti a tutta la Chiesa qualcuno di questi uomini, di questi sacerdoti che sono combattuti dallo Spirito di menzogna, ne sollevi qualcuno all’episcopato, ne sollevi qualcuno al Sacro Collegio! Anche questo, Santo Padre! Consigli esegeti e teologi, se è necessario, a camminare prudenti poichè la scienza non progredisce che a patto di essere prudente; ma non lasci colpire dall’Indice nè dal Sant’Uffizio per qualche soverchio ardimento [p. 339 modifica]uomini che sono l’onore della Chiesa, che hanno la mente piena di Verità e il cuore pieno di Cristo, che combattono per difesa della fede cattolica! E poichè Vostra Santità ha detto che Iddio rivela le sue verità anche nel segreto delle anime, non lasci moltiplicare le divozioni esterne, che bastano, raccomandi ai Pastori la pratica e l’insegnamento della preghiera interiore!»

Benedetto tacque un momento, spossato. Il Papa alzò il viso, guardò l’uomo inginocchiato che lo fissava con occhi dolorosi, luminosi sotto le sopracciglie contratte, vibrando nelle mani giunte dove si appuntava lo sforzo dello spirito. Il viso del Papa tradiva una commozione intensa. Egli voleva dire a Benedetto che si alzasse, che sedesse; e non parlò per timore di tradire la commozione anche nella voce. Insistette a cenni, tanto che Benedetto si alzò e presa la sua seggiola, appoggiatevi alla spalliera le mani ancora giunte, ricominciò a parlare.

«Se il clero insegna poco al popolo la preghiera interiore che risana l’anima quanto certe superstizioni la corrompono, è per causa del secondo spirito maligno che infesta la Chiesa trasfigurato in angelo di luce. Questo è lo spirito di dominazione del clero. A quei sacerdoti che hanno lo spirito di dominazione non piace che le anime comunichino direttamente e normalmente [p. 340 modifica]con Dio per domandarne consiglio e direzione. A buon fine! Il Maligno inganna, così la loro coscienza; a buon fine! Ma le vogliono dirigere essi in qualità di mediatori e queste anime diventano fiacche, timide, servili. Non saranno molte, forse; i peggiori maleficî dello spirito di dominazione sono diversi. Egli ha soppressa l’antica santa libertà cattolica. Egli cerca fare all’obbedienza, anche quando non è dovuta per legge, la prima delle virtù. Egli vorrebbe imporre sottomissioni non obbligatorie, ritrattazioni contro coscienza, dovunque un gruppo d’uomini si associa per un’opera buona prenderne il comando, e, se declinano il comando, rifiutar loro l’aiuto. Egli tende a portare l’autorità religiosa anche fuori del campo religioso. Lo sa l’Italia, Santo Padre. Ma cosa è l’Italia? Non è per essa che io parlo, è per tutto il mondo cattolico. Santo padre, Ella forse non lo avrà provato ancora, ma lo spirito di dominazione vorrà esercitarsi anche sopra di Lei. Non ceda, Santo Padre! Ella è il Governatore della Chiesa, non permetta che altri governi Lei, non sia il Suo potere un guanto per invisibili mani altrui. Abbia consiglieri pubblici e siano i vescovi raccolti spesso nei Concilii nazionali e faccia partecipare il popolo alla elezione dei vescovi scegliendo uomini amati e riveriti dal popolo, e i vescovi si mescolino al popolo non [p. 341 modifica]solamente per passare sotto archi di trionfo e farsi salutare dal suono delle campane ma per conoscere le turbe e per edificarle a imitazione di Cristo, invece di starsene chiusi da principi orientali negli episcopii, come tanti fanno. E lasci loro tutta l’autorità che è compatibile con quella di Pietro!

Santità, posso parlare ancora?»

Il Papa, che da quando Benedetto aveva ricominciato a parlare gli teneva gli occhi in viso, rispose con un lieve abbassar del capo.

«Il terzo spirito maligno» riprese Benedetto «che corrompe la Chiesa, non si trasfigura in angelo di luce perchè saprebbe di non poter ingannare, si accontenta di vestire una comune onestà umana. È lo spirito di avarizia. Il Vicario di Cristo vive in questa reggia come visse nel suo episcopio, con un cuore puro di povero. Molti Pastori venerandi vivono nella Chiesa con eguale cuore, ma lo spirito di povertà non vi è bastantemente insegnato come Cristo lo insegnò, le labbra dei ministri di Cristo sono troppo spesso compiacenti ai cupidi dell’avere. Quale di essi piega la fronte con ossequio a chi ha molto solamente perchè ha molto, quale lusinga con la lingua chi agogna molto, e il godere la pompa e gli onori della ricchezza, l’aderire con l’anima alle comodità della ricchezza pare lecito a troppi [p. 342 modifica]predicatori della parola e degli esempî di Cristo. Santo padre, richiami il clero a meglio usare verso i cupidi dell’avere, sieno ricchi, sieno poveri, la carità che ammonisce, che minaccia, che rampogna. Santo Padre!»

Benedetto tacque, fissando il Papa con una espressione intensa di appello.

«Ebbene?» mormorò il Papa.

Benedetto allargò le braccia e riprese:

«Lo Spirito mi sforza a dire di più. Non è opera di un giorno ma si prepari il giorno e non si lasci questo cómpito ai nemici di Dio e della Chiesa, si prepari il giorno in cui i sacerdoti di Cristo dieno l’esempio della effettiva povertà, vivano poveri per obbligo come per obbligo vivono casti, e servano loro di norma per questo le parole di Cristo ai Settantadue. Il Signore circonderà gli ultimi fra loro di tale onore, di tale riverenza quale ora non è nel cuore della gente intorno ai Principi della Chiesa. Saranno pochi ma la luce del mondo. Santo Padre, lo sono essi oggi? Qualcuno lo è; i più non sono nè luce nè tenebre.»

Qui, per la prima volta, il Pontefice assentì del capo mestamente.

«Il quarto spirito maligno» proseguì Benedetto «è lo spirito d’immobilità. Questo si trasfigura in angelo di luce. Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito d’immobilità credono piacere [p. 343 modifica]a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo. Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli che ripugnano al cuore sacerdotale di Vostra Santità, sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case. È lo spirito d’immobilità che volendo conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degl’increduli; colpa grave davanti a Dio!»

Il petrolio veniva mancando nella lucerna, il cerchio delle tenebre si stringeva, si addensava intorno e sopra la breve sfera di luce in cui si disegnavano, l’una in faccia all’altra, la bianca figura del Pontefice seduto e la bruna di Benedetto in piedi.

«Contro lo spirito d’immobilità» disse questi «io La supplico di non permettere che sieno posti all’Indice i libri di Giovanni Selva.»

Quindi, posta la seggiola da banda, s’inginocchiò nuovamente, stese le mani al Pontefice, parlò più trepido e più acceso:

«Vicario di Cristo, io La scongiuro di un’altra [p. 344 modifica]cosa. Sono un peccatore indegno di venire paragonato ai Santi ma lo Spirito di Dio può parlare anche per la bocca più vile. Se una donna ha potuto scongiurare un Papa di venire a Roma, io scongiuro Vostra santità di uscire dal Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite per un’opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. Ho vista dalla Galleria delle lapidi i lumi che fronteggiano un altro palazzo di Roma. Se il dolore umano chiama in nome di Cristo, là si risponderà forse: «no» ma si va. Dal Vaticano si risponde «sì» a Cristo, ma non si va. Che dirà Cristo, Santo Padre, nell’ora terribile? Queste parole mie, se fossero conosciute dal mondo, mi frutterebbero vituperî da chi più si professa devoto al Vaticano; ma per vituperi e fulmini che mi si scagliassero non griderei io fino alla morte: che dirà Cristo? Che dirà Cristo? A Lui mi appello.»

La fiammella della lucerna mancava, mancava; nella breve sfera di luce fioca che le tenebre premevano non si vedeva quasi più di Benedetto che le mani stese, non si vedeva quasi più del Papa che la destra posata sul campanello d’argento. Appena Benedetto tacque, il Santo Padre gli ordinò di alzarsi, poi scosse il campanello due [p. 345 modifica]volte. La porta della Galleria si aperse, entrò il fido cameriere già popolare in Vaticano col nome di don Teofilo.

«Teofilo» disse il Papa, «in Galleria, è riaccesa la luce?»

«Sì, Santità.»

«Allora passa in Biblioteca dove troverai monsignore. Digli che venga qua, che mi aspetti. E tu provvedigli un’altra lucerna.»

Ciò detto, Sua Santità si alzò. Era piccolo di statura e tuttavia un po’ curvo. Mosse verso la porta della Galleria accennando a Benedetto di seguirlo. Don Teofilo uscì dalla parte opposta. Triste presagio, nella buia sala dov’eran corse tante fiammelle di parole accese dallo Spirito, non rimase che la piccola lucernina morente.


La Galleria delle lapidi, là dove il Papa e Benedetto vi entrarono, era semibuia. Ma nel fondo una grande lampada a riflettore illuminava l’iscrizione commemorativa a destra della porta che mette nella loggia di Giovanni da Udine. Fra le grandi ali di lapidi schierate da capo a fondo della Galleria, che guardavano l’oscuro dibattito delle due anime viventi come testimoni muti che già conoscessero i misteri di oltre tomba e del giudizio divino, il Papa si avanzava lento, [p. 346 modifica]silenzioso, seguito, un passo indietro e a sinistra, da Benedetto. Sostò un momento presso il torso del fiume Oronte, guardò dalla finestra. Benedetto si domandò se guardasse i lumi del Quirinale, palpitò, attendendo una parola. La parola non venne. Il Papa riprese, tacendo sempre, il suo lento andare, con le mani congiunte dietro il dorso, e il mento appoggiato al petto. Sostò presso al fondo, nella luce della grande lampada; parve incerto se ritornare o procedere. A sinistra della lampada la porta della Galleria si apriva sopra uno sfondo di notte, di luna, di colonne, di vetri, di pavimento marmoreo. Il Papa si avviò a quella volta, scese i cinque gradini. La luna batteva per isghembo sul pavimento rigato dalle ombre nere delle colonne, tagliato in fondo alla loggia dall’obliquo profilo dell’ombra piena, dentro la quale mal si discerneva il busto di Giovanni.

Il Papa percorse la loggia fino a quell’ombra, vi entrò, vi si trattenne. Intanto Benedetto, fermatosi molti passi indietro per non avere l’aria di premere irriverentemente nel desiderio di una risposta, mirava l’astro veleggiante fra nuvole grandi su Roma. Mirando l’astro, domandò a sè, a qualche Invisibile che gli fosse vicino, quasi anche allo stesso volto severo e triste della luna, se avesse troppo osato, male osato. Si pentì subito del suo dubbio. Aveva forse parlato egli? Oh no, le [p. 347 modifica]parole gli erano venute alle labbra senza meditazione, aveva parlato lo Spirito. Chiuse gli occhi in uno sforzo di preghiera mentale ancora levando la faccia verso l’astro, come un cieco che porgesse il viso avido al divinato splendore di argento.

Una mano lo toccò lievemente sulla spalla. Trasalì e aperse gli occhi. Era il Papa e il suo viso diceva come avesse finalmente maturate nel pensiero parole che lo appagavano. Benedetto chinò il capo rispettosamente ad ascoltarlo.

«Figlio mio» disse Sua Santità «alcune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perchè io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo sovratutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a te. Vedi, per esempio; Cristo ha pagato il tributo allo Stato e io, non come Pontefice ma come cittadino, pagherei volentieri il mio [p. 348 modifica]tributo di omaggio là in quel palazzo di cui hai veduto i lumi, se non temessi di offendere così i sessanta scolari, di perdere anche una sola delle loro anime che mi sono preziose come le altre. E così sarebbe se io facessi togliere certi libri dall’Indice, se chiamassi nel Sacro Collegio certi uomini che hanno fama di non essere rigidamente ortodossi, se, scoppiando un’epidemia, andassi, ex abrupto, a visitare gli ospedali di Roma.»

«Oh Santità!» esclamò Benedetto «mi perdoni ma non è sicuro che queste anime disposte a scandolezzarsi del Vicario di Cristo per ragioni simili poi si salvino, e invece è sicuro che si acquisterebbero tante altre anime le quali non si acquistano!»

«E poi» continuò il Papa come se non avesse udito «sono vecchio, sono stanco, i cardinali non sanno chi hanno messo qui, non volevo. Sono anche ammalato, ho certi segni di dover presto comparire davanti al mio Giudice. Sento, figlio mio, che tu hai lo spirito buono ma il Signore non può volere da un poveruomo come me le cose che tu dici, cose a cui non basterebbe neppure un Pontefice giovine e valido. Però vi sono cose che anch’io, con il Suo aiuto, potrò fare; se non le cose grandi, almeno altre cose. Le cose grandi preghiamo il Signore che susciti chi a loro tempo le sappia fare e chi sappia bene aiutare a farle. [p. 349 modifica]Figlio mio, se io mi metto da stasera a trasformare il Vaticano, a riedificarlo, dove trovo poi Raffaello che lo dipinga? E neppure questo Giovanni? Non dico però di non fare niente.»

Benedetto era per replicare. Il Pontefice, forse per non volersi spiegare di più, non gliene lasciò nè il modo nè il tempo, gli fece una domanda gradita.

«Tu conosci Selva» diss’egli. «Privatamente, che uomo è?»

«È un giusto» si affrettò a rispondere Benedetto. «Un gran giusto. I suoi libri sono stati denunciati alla Congregazione dell’Indice. Forse vi si troveranno alcune opinioni ardite ma non vi è confronto fra la religiosità calda e profonda dei libri di Selva e il formalismo freddo, misero di altri libri che corrono, più del Vangelo, per le mani del clero. Santo Padre, la condanna di Selva sarebbe un colpo alle energie più vive e più vitali del Cattolicismo. La Chiesa tollera migliaia di libri ascetici stupidi che rimpiccioliscono indegnamente l’idea di Dio nello spirito umano; non condanni questi che la ingrandiscono!»

Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la scosse, l’accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata: [p. 350 modifica]

«Prega per me, prega che il Signore m’illumini.»

Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità. Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare.

«Vieni ancora» disse il Papa. «Dobbiamo discorrere ancora.»

«Quando, Santità?»

«Presto. Ti farò avvertire.»

Intanto l’ombra, avanzando, aveva inghiottito la Figura bianca e la Figura nera. Sua Santità pose una mano sulla spalla di Benedetto, gli domandò sommessamente, quasi esitante:

«Ricordi la fine della tua visione?»

Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso:

«Nescio diem neque horam.»

«Non sono nel manoscritto» riprese Sua Santità. «Ma ricordi?»

Benedetto mormorò:

«In abito benedettino, sulla nuda terra, all’ombra di un albero.»

«Se così sarà» riprese il Santo Padre, dolcemente «ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo.»

Benedetto s’inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell’ombra: [p. 351 modifica]

«Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.»

Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve.

Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo. [p. 352 modifica]


III.


La camera, al quarto piano, era appena decente. Un letto di ferro, un tavolino da notte, uno scrittoio con pochi libri logori e sfasciati, un cassettone di abete, un lavamani di ferro, qualche sedia impagliata, n’erano tutto il mobiglio. Un abito grigio pendeva da un chiodo, un cappello nero a cencio da un altro. Un baglior frequente di lampi entrava dalla finestra aperta, entravano soffî della buia notte burrascosa, facevano oscillare la fiammella della lampada a petrolio che ardeva sul tavolino da notte, oscillare il lume e le ombre sulle lenzuola non tanto bianche, su due mani scarne, sur un fascio di rose sciolto fra le due mani, sulla camicia di flanella dell’uomo infermo che si era tratto su a sedere, sul suo viso rugoso, magro, grigiastro di barba d’un mese. Dall’altra parte del letto povero, nella penombra, stava Benedetto, in piedi. L’uomo infermo guardava i fiori e taceva. Le sue mani, anche le sue labbra, tremavano.

Egli era stato frate. A trent’anni aveva gettato la cocolla e preso moglie. Uomo di poco ingegno e di pochi studî, era vissuto miseramente colla moglie e con due figliuole, facendo lo scrivano. La moglie era morta, le figliuole si erano date [p. 353 modifica]alla mala vita. Si spegneva lentamente anche lui, adesso, in quel quarto piano di via della Marmorata, presso all’angolo di via Manuzio, consunto dalla miseria, dalla tabe, dall’animo amaro.

Un singhiozzo irrefrenabile gli ruppe dal petto. Allargò le braccia, raccolse e strinse a sè il capo di Benedetto e subito fece atto di respingerlo, si coperse il viso colle mani.

«Non son degno, non son degno!» diss’egli.

Ma Benedetto gli abbracciò alla sua volta il capo, glielo baciò, rispose:

«Neppur io son degno di questa grazia che mi fa il Signore.»

«Quale grazia?» chiese l’infermo.

«Che Lei pianga con me!»

Così dicendo, Benedetto si levò dall’abbraccio; e durava a fissare affettuosamente il vecchio. Questi lo guardò attonito, come per dire: «voi sapete?» Egli accennò del capo lievemente, silenziosamente, di sì.

Colui non sospettava che il suo passato fosse conosciuto. Abitava lì da tre anni. Una vicina più vecchia di lui, una povera gobbina caritatevole e pia, gli rendeva dei servigi, lo assisteva nelle sue infermità, trovava modo di soccorrerlo con le due lire giornaliere di pensione ch’erano tutta la sua sostanza. Aveva saputo dai portinai ch’egli era un frate sfratato, lo vedeva tanto triste, tanto umile, [p. 354 modifica]tanto riconoscente, pregava sera e mattina la Madonna e tutti i Santi del Paradiso che le facessero la grazia di aiutarla presso Gesù che gli perdonasse e lo facesse ritornare in grembo alla Chiesa. Raccontava le sue pene e le sue speranze ad altre vecchiette pie, diceva:

«Non oso pregarlo io, Gesù; quel disgraziato gliel’ha fatta troppo grossa. Ci vuole anche un pezzo grosso che preghi.»

Quel giorno il vecchio le era andato dicendo più volte che sarebbe stato felice di avere delle rose. Allora la gobbina aveva pensato:

«C’è l’uomo santo di cui tutti parlano, che fa il giardiniere. Io vado, gli racconto la cosa, gli dico che le rose gliele porti lui e chi sa cosa ne può venire!»

Aveva pensato così e subito si era detto:

«Questo pensiero, se non mi viene dalla Madonna, mi viene di sicuro da Sant’Antonio!»

Allora il semplice suo cuore puro aveva dato un’ondata di dolcezza e di letizia. Senza por tempo in mezzo ella era andata a villa Mayda, alla elegante villa pompeiana biancheggiante sull’Aventino fra belle palme, quasi in faccia alla finestra del vecchio ex-frate. Benedetto stava per coricarsi in obbedienza al professore che gli aveva trovato la febbre, la piccola frodolenta febbre che di tempo in tempo lo rodeva da qualche settimana senz’altre [p. 355 modifica]sofferenze. Udito di che si trattava, era venuto subito colle rose.


Il vecchio si coperse ancora il viso, vergognando. Poi, senza più guardare Benedetto, parlò delle rose, spiegò il perchè del suo desiderio. Era figlio di un giardiniere, avrebbe voluto fare il giardiniere anche lui ma gli piaceva di frequentare le chiese e i suoi trastulli erano tutti di cose sacre: altarini, candelabri, busti di vescovi mitrati. I padroni, gente religiosissima, avevano lasciato intendere ai suoi genitori che se gli si fosse manifestata la vocazione ecclesiastica, lo avrebbero fatto educare a proprie spese; e i genitori lo avevano destinato senz’altro a quella via. Egli si era accorto ben presto di non avere forze bastanti a tener le promesse sacerdotali: ma neppure gli bastò l’animo di prendere una risoluzione che avrebbe afflitto i suoi mortalmente. Invece si figurò che se uscisse del tutto dal mondo potrebbe forse andar salvo, e seguendo imprudenti consigli entrò là ond’ebbe poi a venir fuori male, si fece di quella frateria della quale soleva dire più tardi, questo non lo raccontò, scherzando copertamente cogli amici: «quando stavo al reggimento.» Ragazzo, aveva amato i fiori; dall’entrata nel Seminario in poi non ci aveva pensato più, mai più, per quarant’anni. [p. 356 modifica]La notte prima della visita di Benedetto aveva sognato un gran rosaio del giardino dov’era trascorsa la sua fanciullezza. Le bianche rose piegavano tutte a lui, lo guardavano, nel mondo dei sogni, come curiose anime pie un pellegrino nel mondo delle ombre. Gli dicevano: «dove vai, dove vai, povero amico, perchè non ritorni a noi?» Destatosi, aveva sentito un desiderio di rose, tenero, pungente fino alle lagrime. E quante rose adesso sul suo letto, per la bontà di una persona santa, quante belle, odoranti rose! Tacque e fissava Benedetto a bocca semiaperta, lucenti gli occhi di una domanda dolorosa: tu sai, tu comprendi; cosa pensi di me? Pensi che vi sia speranza di perdono?

Benedetto, curvo sull’ammalato, prese a parlargli accarezzandolo. La vena delle parole soavi fluiva fluiva con un suono vario di tenerezza ora lieta ora dolente. Ora il vecchio ne pareva beato, ora usciva in domande affannose; subito allora la fluida vena soave gli ristorava beatitudine in viso. Intanto la gobbina andava e veniva col rosario in mano dalla sua camera all’uscio del vicino, divisa fra il desiderio di precipitare le avemarie in quel momento decisivo e il desiderio di udire se là dentro parlassero, cosa dicessero.

Ma giù nella strada si era venuta raccogliendo, malgrado il cattivo tempo, della gente che aspettava il Santo di Jenne. Una merciaia lo aveva veduto [p. 357 modifica]entrare colle rose in mano, accompagnato dalla gobbina. In un batter d’occhio si erano aggruppate davanti alla porta forse cinquanta persone, donne la maggior parte, quali per vederlo, quali per avere un sua parola. Aspettavano pazientemente, parlando piano, come se fossero in chiesa, di Benedetto, dei miracoli che faceva, delle grazie che avrebbero implorate da lui. Sopraggiunse un ciclista, scese dalla bicicletta, domandò il perchè di quell’assembramento, si fece informare appuntino del luogo dove stava il Santo di Jenne e risalito in macchina ripartì di gran corsa. Poco dopo, una botte seguita dal ciclista di prima venne a fermarsi davanti alla porta. Ne discese un signore che attraversò l’assembramento ed entrò in casa. Il ciclista rimase presso la botte. L’altro parlò col portinaio, si fece accompagnare da lui fino all’uscio dove la gobbina stava col suo rosario in mano, palpitante. Bussò malgrado le tacite giaculatorie di lei che implorava la Madonna di allontanare quell’importuno. Benedetto venne ad aprire.

«Scusi» disse colui, cortesemente. «Lei è il signor Pietro Maironi?»

«Non porto più questo nome» rispose Benedetto, tranquillo «ma l’ho portato.»

«Mi rincresce d’incomodarla. Le sarei grato se si compiacesse di venire con me. Le dirò poi dove.» [p. 358 modifica]

L’infermo udì queste parole dello sconosciuto e gemette:

«No, sant’uomo, non andate via per amor di Dio!»

Benedetto rispose:

«Favorisca dirmi il Suo nome e perchè dovrei venire con Lei.»

L’altro parve imbarazzato.

«Ecco» disse. «Sono un delegato di P. S.»

L’infermo esclamò: «Gesummaria!» e la gobbina, esterrefatta, lasciò cadere il rosario, guardò Benedetto che non potè trattenere un atto di sorpresa.

Il delegato si affrettò a soggiungere, sorridendo, che la sua visita non aveva un significato troppo pauroso, ch’egli non era venuto ad arrestare nessuno, che non aveva a comunicare ordini, ma solamente un invito.

Siccome gl’inviti della Questura hanno un carattere speciale, Benedetto non pensò a scusarsi, domandò di restar solo con l’infermo e con la donna per cinque minuti, sussurrò qualche cosa all’orecchio del primo che parve assentire con lagrime nella voce, prese la gobbina a parte, le disse che l’infermo era disposto a ricevere un sacerdote, ch’egli ora non sapeva quando sarebbe stato libero di condurgliene uno egli stesso. La povera piccola creatura tremava tutta fra lo [p. 359 modifica]sgomento e la gioia, non sapeva dire che «Gesù mio! Madonna mia!» Benedetto la rincorò, promise di ritornare appena lo potesse e, preso congedo, discese le scale col delegato.

Nella via il gruppo di gente si era fatto più grosso e rumoreggiava, stringeva minacciosamente il ciclista rimasto presso la botte, ch’era stato riconosciuto per una guardia di P. S. e non voleva dire perchè fosse prima venuto a informarsi e poi ritornato con l’altro individuo. Si voleva forzare il fiaccheraio ad andarsene, si parlava di staccare il cavallo. Quando apparve il delegato con Benedetto, gli si fecero tutti addosso gridando: – Via, birro! – Via! – Abbasso! – Lasciate quell’uomo! Badate ai ladri, per Dio! Voi pigliate i servi di Dio e lasciate i ladri! – Via! – Abbasso! – Benedetto si fece avanti, accennò, a due mani, di tacere, pregò e ripregò che se n’andassero in pace poichè nessuno gli voleva far male, egli non era arrestato, se n’andava con quel signore di sua libera volontà. Nello stesso momento scrosciò un tuono in cielo, un impeto di acquazzone sul marciapiede. La folla balenò, si disperse rapidamente. Il delegato diede un ordine al ciclista e salì nella botte con Benedetto.

Partirono verso il Tevere, fra i tuoni, i lampi e la pioggia furiosa. Benedetto domandò al delegato, molto quietamente, che si volesse da lui [p. 360 modifica]alla Questura. Il delegato rispose che non si trattava di Questura. Chi voleva parlare al signor Maironi era un pezzo più grosso del questore.

«Non so se avrei dovuto dirlo» soggiunse «ma già glielo dirà lui.»

E raccontò che lo aveva cercato inutilmente a villa Mayda, disse quanto gli sarebbe seccato di non trovarlo presto. Benedetto si provò a domandargli se sapesse la cagione della chiamata. Realmente il delegato non la sapeva, ma finse un silenzio diplomatico, si rannicchiò nel suo angolo come per salvarsi dalle folate di pioggia. Un lampo mostrò a Benedetto il fiume giallastro, i neri barconi di Ripagrande; un altro il tempio di Vesta. Poi non si raccapezzò più affatto, gli parve di attraversare una sconosciuta necropoli, un dedalo di vie funeree dove ardessero lampade sepolcrali. Finalmente la carrozzella entrò con fracasso in un atrio, si fermò al piede di uno scalone scuro, fiancheggiato di colonne. Benedetto lo salì col delegato fino al secondo ripiano sul quale si aprivano due porte. Quella di sinistra era chiusa, quella di destra guardava sullo scalone per un occhio ovale lucente. Il delegato la spinse, entrò con Benedetto in un bugigattolo, in una specie di anticamera. Un usciere che dormicchiava si alzò stentatamente. Il delegato lasciò Benedetto e passò in un’altra stanza. Allora l’usciere si chinò come [p. 361 modifica]per raccogliere qualche cosa e disse a Benedetto porgendogli una lettera chiusa:

«Guardi che Le è caduta una carta.»

Perchè Benedetto si meravigliava, insistette:

«Lei è bene quello del Testaccio? Veda che sarà Sua, faccia presto!»

Faccia presto? Benedetto guardò l’uomo che si era rimesso a sedere. Quegli lo guardò alla su volta e confermò il suo consiglio con uno scatto secco del capo che significava: tu sospetti che ci sia sotto qualche cosa e realmente c’è.

Benedetto guardò la busta. Vi si leggeva questo indirizzo:

«Al garzone giardiniere di villa Mayda»

E sotto, a caratteri più grandi:

«SUBITO»

La scrittura era femminile ma Benedetto non la riconobbe. Aperse e lesse:

«Sappia che il Direttore generale della Pubblica Sicurezza farà il possibile per indurla a lasciare volontariamente Roma. Rifiuti. Quello che segue lo potrà leggere a Suo agio.»

Benedetto ripose frettolosamente la lettera. Ma poichè nessuno compariva e tutto pareva dormire intorno a lui, la cavò, riprese a leggerla. Seguiva così: [p. 362 modifica]

«In Vaticano si è poco contenti, dopo le Sue visite, del Santo Padre, il quale, fra l’altre cose, ha richiamato a sè l’affare Selva dalla Congregazione dell’Indice. Ella non può immaginare gl’intrighi che si tramano contro di Lei, le calunnie che si fanno arrivare anche ai Suoi amici, tutto per lo scopo di allontanarla da Roma, di impedire ch’Ella veda più il Pontefice. Si è ottenuto che il Governo aiuti la congiura promettendogli in compenso di non mandare ad effetto certa nomina di persona molto sgradita al Quirinale, per la sede arcivescovile di Torino. Non ceda, non abbandoni il Santo Padre e la Sua missione. La minaccia per l’affare di Jenne non è seria, sarebbe impossibile di procedere contro di Lei e lo sanno. Chi non Le può scrivere ha saputo tutto questo, lo ha fatto scrivere a me, lo farà pervenire a Lei.

Noemi D’Arxel.»


Benedetto guardò involontariamente l’usciere, quasi dubitando ch’egli conoscesse il senso di quella lettera passata per le sue mani. Ma l’usciere dormicchiava da capo e non si scosse che al ricomparire del delegato, il quale gli ordinò di accompagnare Benedetto dal signor commendatore.

Benedetto fu introdotto in una stanza spaziosa, tutta buia fuorchè nell’angolo dove un signore sui cinquant’anni stava leggendo la Tribuna nel [p. 363 modifica]chiarore di una lampada elettrica, vivo sul suo cranio calvo, sul giornale, sul tavolo coperto di carte. Sopra di lui, nella penombra, si intravvedeva un grande ritratto del Re.

Egli non levò dal giornale il capo grave di conscio potere. Lo levò quando gli piacque e guardò con occhi noncuranti l’atomo di popolo che aveva davanti a sè.

«Prenda una sedia» diss’egli, gelido.

Benedetto ubbidì.

«Lei è il signor Pietro Maironi?»

«Sì signore.»

«Mi rincresce di averla incomodata ma era necessario.»

Sotto le parole cortesi del signor commendatore si sentiva un fondo di durezza e di sarcasmo.

«A proposito» diss’egli. «Perchè non si fa chiamare col Suo nome, Lei?»

Alla improvvisa domanda Benedetto non rispose immediatamente.

«Bene bene» ripigliò colui. «Questo adesso importa poco. Qui non siamo in Tribunale. Io penso che se si vuole fare il bene si deve farlo col proprio nome. Ma io non vado in chiesa, ho idee diverse dalle Sue. Non importa, dico. Lei sa chi sono io? Il delegato gliel’ha detto?»

«No signore.»

«Bene, sono un funzionario dello Stato che [p. 364 modifica]s’interessa un poco della sicurezza pubblica e che ha un certo potere; sì, un certo potere. Ora io voglio dimostrarle che ho interesse anche per Lei. Lei, mi dispiace il dirlo, è in una situazione critica, mio caro signor Maironi o signor Benedetto, a Sua scelta. È pervenuta all’Autorità giudiziaria un’accusa contro di Lei, veramente grave; e io vedo molto in pericolo non soltanto la Sua fama di santità ma pure la Sua libertà personale e quindi la Sua predicazione almeno per qualche anno.»

Una fiamma salì al viso di Benedetto, i suoi occhi scintillarono.

«Lasci la santità e la fama» diss’egli.

L’augusto funzionario dello Stato riprese senza scomporsi:

«Lei si sente ferito. Badi, sa, che la Sua fama di santità corre altri pericoli. Altre cose si dicono di Lei che non hanno a che fare, per questo stia tranquillo, col codice penale ma che non si accordano molto colla morale cattolica; e Le assicuro che sono abbastanza credute. Dico per dire; son cose che non mi riguardano affatto. Del resto la santità non è mai reale, è sempre, più o meno, una idealizzazione che lo specchio fa della immagine. Se c’è una santità è quella dello specchio, è quella della gente che crede ai Santi. Io non ci credo. Ma veniamo al serio. Le ho dovuto dire delle cose sgradevoli, La ho anche ferita; ora [p. 365 modifica]medicherò. Io non sono credente ma però apprezzo il principio religioso come elemento di ordine pubblico, e questo è poi il sentimento dei miei superiori, è il sentimento del Governo. Perciò il Governo non può aver piacere che si faccia un processo scandaloso a qualcuno che presso il popolo passa per santo; un processo che potrebbe poi anche provocare dei disordini. Ma c’è di più! Noi sappiamo che Lei è persona gradita al Papa il quale La vede spesso. Ora in alto non si ha nessuna voglia di recare dispiaceri personali al Papa. Si ha dunque la buona intenzione di evitargli questo, se possibile. E sarà possibile a una condizione. Qui in Roma Lei ha dei nemici attivi, non di parte nostra, sa! non di parte liberale!, che si preparano a rovinarla interamente; nella riputazione e in tutto. Se vuole che Le apra il mio pensiero, il mio pensiero è questo: dal punto di vista cattolico hanno ragione. Io modifico un poco, per mio uso e per loro uso, il motto famoso dei Gesuiti: «aut sint ut sunt» dico io «aut non erunt.» Mi riferiscono che Lei è un cattolico largo. Ciò significa semplicemente che lei non è cattolico. Tiriamo via. I Suoi nemici L’hanno denunciata al Procuratore del Re. Per verità noi dovremmo far arrestare dai carabinieri il signor Pietro Maironi condannato in contumacia dalla Corte d’Assise di Brescia per mancato servizio di giurato; ma questa [p. 366 modifica]è una bazzecola. Lei si figura di avere guarito della gente a Jenne ed è accusato non solamente di esercizio illegale della medicina ma persino di aver avvelenato un paziente, niente meno! Ora noi abbiamo i mezzi di salvarla. Noi faremo in modo che la denuncia si ponga a dormire. Ma se Lei resta in Roma i Suoi nemici di Roma faranno un rumore così grande che non ci potremo fingere sordi. Bisogna che Lei se ne vada lontano; e subito! Meglio se va fuori d’Italia. Vada in Francia, dove c’è carestia di santità. O almeno… non ci ha una casa, Lei, sul lago di Lugano? Adesso vi sono delle suore, vero? Suore e Santi stanno benissimo insieme. Vada colle suore e lasci passare la burrasca.»

Il commendatore parlava serio serio, lento lento, coprendo lo scherno di flemma più insolente.

Benedetto si alzò in piedi, risoluto e severo.

«Io stavo» rispose «presso un infermo che aveva bisogno della medicina illegale mia. Mi si poteva lasciare al mio posto. Lei e il Governo sono i peggiori miei nemici se mi offrono di fuggire la giustizia. Lei faccia il Suo dovere di mandare i carabinieri ad arrestarmi per il mancato servizio di giurato. Io proverò poi che non potei ricevere la citazione. Il signor procuratore del Re faccia il dovere Suo di procedere contro di me per la denuncia di Jenne; mi si troverà sempre a villa [p. 367 modifica]Mayda. Lo dica ai Suoi superiori. Dica loro che non mi moverò da Roma, che temo un Giudice solo e ch’essi pure lo temano nel loro doppio cuore, perchè Egli sarà più terribile al doppio cuore che alla violenza sincera!»

Il commendatore, impreparato a quel colpo, livido di veleno impotente, prorompeva già in parole di collera quando si udì il rumor sordo di una carrozza ch’entrava nell’atrio. Levò allora lo sguardo da Benedetto, stette in ascolto. Benedetto afferrò la spalliera della sua seggiola per levarsi quell’impaccio a voltar le spalle. L’altro si scosse, riacceso negli occhi dall’ira un momento sopita; gettò il giornale che aveva sempre tenuto in mano, battè il pugno sul tavolo, esclamando:

«Che fa? Non si muova!»

I due uomini si fissarono per alcuni secondi in silenzio, uno con autorità maestosa, l’altro bieco. Poi questi riprese, veemente:

«Debbo farla arrestare qui?»

Benedetto durò a fissarlo in silenzio. Quindi rispose:

«Aspetto. Faccia.»

Un usciere, che aveva bussato più volte inutilmente, comparve sulla soglia, s’inchinò al commendatore senza dir parola. Il commendatore disse subito «vengo» e alzatosi frettolosamente uscì con una faccia strana dove la collera spariva e spuntava l’ossequio. [p. 368 modifica]

L’usciere rientrò immediatamente, disse a Benedetto che aspettasse.

Passò un quarto d’ora. Benedetto, tutto fremente, con il cuore in tumulto e la testa in fiamme, eccitato e spossato dalla febbre, era ricaduto sulla sua seggiola, turbinandogli dentro alla rinfusa i più diversi pensieri. — Dio gli perdoni a quest’uomo! — A tutti! — Che gioia se il Pontefice non permette la condanna di Selva! — La persona che non mi può scrivere, come sa? — E adesso perchè mi fanno aspettare? — Cosa vogliono ancora da me? — Oh, con questa febbre, se non avessi a esser più padrone dei miei pensieri, delle mie parole! — Che terrore! — Dio, Dio, non lo permettete! — Ma che orride viltà sono nel mondo, che vergogna di fornicazioni occulte fra questa gente della Chiesa e dello Stato che si odia, che si disprezza! Come, come lo permetti, Signore? — Nessuno viene ancora! — La febbre! — Dio, Dio, fa che io resti padrone dei miei pensieri, delle mie parole. Dio Verità, il tuo servo è in potere de’ suoi nemici congiurati, fa ch’egli Ti glorifichi anche nel fuoco ardente! — Quelle due persone pensano a me, adesso. Io non devo pensare a loro! — Esse non dormono, pensano a me. — Non sono ingrato, non sono ingrato, ma non devo pensare a loro! — Penserò a te, vecchio santo del Vaticano, che dormi e non sai! — Ah quella scaletta [p. 369 modifica]non la farò più, quel dolce viso pieno di Spirito Santo non lo vedrò più! — Però, Dio sia lodato, non lo avrò visto invano. — Ma cosa faccio qui? — Perchè non me ne vado? — Potrò poi andare? — Questa febbre!

Si alzò, cercò di legger l’ora sur un occhio tondo di orologio biancheggiante nell’ombra. Mancavano cinque minuti alle undici. Fuori, il temporale continuava. La potenza degli elementi furibondi e la potenza del tempo che spingeva la piccola sfera sul quadrante, parevano amiche a Benedetto nel loro prevalere indifferente sulla potenza umana che aveva sede dov’egli era e lo teneva in sua balìa. Ma la febbre, la crescente febbre! Ardeva di sete. Se almeno avesse potuto aprire una finestra, tendere la bocca all’acqua del cielo!

Un tocco di campanello elettrico, passi affrettati nell’anticamera, finalmente. Ecco il commendatore, in soprabito e cappello. Chiude l’uscio dietro a sè, raccoglie delle carte sul suo tavolo, dice a Benedetto con piglio sprezzante:

«Stia attento. Lei ha tre giorni per lasciare Roma. Ha capito?»

Non cura di aspettare risposta, preme un bottone. Entrato l’usciere, gli ordina:

«Accompagnate!» [p. 370 modifica]

Giunto colla sua guida sullo scalone, Benedetto, credendosi oramai libero di scendere, le chiese un po’ d’acqua.

«Acqua?» rispose l’usciere. «Non posso andarne a prendere, adesso. Sua Eccellenza aspetta. Favorisca qui.»

Lo fece entrare, con sua meraviglia, nell’ascensore.

«Anzi le Loro Eccellenze» diss’egli; e mentre l’ascensore saliva al secondo piano, venne guardando Benedetto come si guarda qualcuno cui è fatto un grande onore e che non pare meritarlo. Giunti al secondo piano, i due attraversarono una grandissima sala semioscura. Da questa sala Benedetto venne fatto passare in una stanza illuminata così riccamente ch’egli ne provò fastidio e sofferenza, ne rimase quasi acciecato.

Due uomini, seduti ai due angoli di un largo canapè, ve lo attendevano in attitudine diversa; il più giovine con le mani in tasca, una gamba a cavalcioni dell’altra, il capo rovesciato sulla spalliera; il più vecchio col busto piegato in avanti e le mani occupate in un continuo blando maneggio alterno della barba grigia. Il primo aveva una guardatura sarcastica; il secondo l’aveva scrutatrice, malinconica, buona. Questi, evidentemente il più autorevole dei due, invitò Benedetto a sedere sur una poltrona di fronte a lui. [p. 371 modifica]

«Non creda, sa, caro signor Maironi» diss’egli con voce armoniosa e sonora ma rispondente in qualche modo alla malinconia dello sguardo, «non creda che noi siamo qui due artigli potenti dello Stato. Noi siamo qui in questo momento due individui di una specie rara, due uomini politici geniali che conoscono bene il loro mestiere e che lo disprezzano meglio. Siamo due grandi idealisti che sanno mentire idealmente bene colla gente che altro non merita e sanno adorare la Verità; due democratici, ma però adoratori di quella Verità recondita che non è stata mai toccata dalle mani sudicie del vecchio Demos.»

Detto così, l’uomo dalla barba grigia fluente riprese a farvi scorrere su le due mani a vicenda e strinse gli occhi scintillanti di un sorriso acuto, pago delle proprie parole, cercando la sorpresa sul viso di Benedetto.

«Siamo poi anche credenti» riprese.

Allora l’altro personaggio alzò, senza levar il capo dalla spalliera, le mani distese e disse quasi solennemente:

«Piano.»

«Lascia, caro amico» ripigliò il primo senza volgersi all’amico. «Siamo ambedue credenti, però in modo diverso. Io credo in Dio con tutte le mie forze che sono molte e lo avrò sempre meco. Tu credi in Dio con tutte le tue debolezze che sono poche e non lo avrai che al tuo letto di morte.» [p. 372 modifica]

Altro sorriso acuto e pago, altra pausa. L’amico scosse il capo alzando le sopracciglia come per una udita corbelleria che meritasse pietà e non risposta.

«Io poi» continuò la voce sonora e armoniosa «sono anche cristiano. Non cattolico ma cristiano. Anzi, come cristiano, sono anticattolico. Il mio cuore è cristiano e il mio cervello è protestante. Io vedo con gioia nel cattolicismo i segni, non dico della decrepitezza ma della putrefazione. La carità si va disfacendo nei cuori più schiettamente cattolici in una melma oscura tutta vermi di odio. Vedo il Cattolicismo fendersi da ogni parte e vedo spuntare per le fessure la vecchia idolatria cui si è sovrapposto. Le poche energie giovani, sane, vitali, che vi si manifestano, tendono tutte a separarsene. So che Lei è appunto un cattolico radicale, ch’è amico di un uomo veramente sano e forte che si dice cattolico ma ch’è giudicato eretico, però, dai cattolici puri; e lo è certamente. Mi hanno detto che Lei è scolare di questo nobile eretico, che fa una propaganda riformatrice e che in pari tempo cerca di agire sul Pontefice. Ora un grande riformatore lo aspetto anch’io ma dev’essere un antipapa; non un antipapa nel piccolo senso storico; un antipapa nel grande senso luterano della parola. «Curiosità ci punge di sapere» come Lei creda possibile ringiovanire questo povero vecchione di [p. 373 modifica]Papato che noi laici precediamo non soltanto nella conquista della civiltà ma nella scienza di Dio, anche, e persino nella scienza di Cristo; che ci anfana dietro a grande distanza e ogni tanto si pianta sulla via, restio come una bestia che fiuta il macello, e poi, quando è tirato ben forte, fa un salto avanti per tornarsi a piantare fermo fino a un altro strappo di fune. Ci dica il Suo concetto di una riforma cattolica. Sentiamo.»

Benedetto rimase silenzioso.

«Parli» riprese il nume ignoto che pareva imperare in quel luogo. «Il mio amico non è Erode nè io sono Pilato. Noi potremmo forse diventare due apostoli della Sua idea.»

L’amico stese ancora le due mani aperte, senza levar il capo dalla spalliera, disse ancora, però pigiando più forte sulla prima sillaba:

«Piano.»

Benedetto tacque.

«Mi pare, caro mio» disse l’amico voltando il capo, senz’alzarlo, verso il collega «che questo sarà il primo fiasco della tua eloquenza. Qui il modello del nihil respondit è preso molto sul serio.»

Benedetto trasalì, atterrito dal richiamo al Divino Maestro, dal dubbio di parerne un imitatore superbo. Cessò in quel momento di sentire il suo male, la febbre, la sete, la gravezza del capo. [p. 374 modifica]

«Oh no» esclamò «adesso io rispondo! Lei dice che non è Pilato. Il vero è invece che io sono l’ultimo dei servi di Cristo perchè gli sono stato infedele e che Lei mi ripete proprio la domanda di Pilato: — Quid est veritas? Ora Lei non è disposto a ricevere la verità, come non vi era disposto Pilato.»

«Oh!» esclamò il suo interlocutore. «E perchè?»

L’amico rise rumorosamente.

«Perchè» rispose Benedetto «chi opera tenebre, le tenebre lo avvolgono e la luce non gli può arrivare. Lei opera tenebre. È facile di comprenderlo, Lei è il signor ministro dell’Interno, La conosco di fama. Lei non è nato per operare tenebre, vi è stata molta luce in certe opere Sue, vi è molta luce nella Sua anima, molta luce di verità e di bontà; ma in questo momento Lei opera tenebre. Io sono questa notte qui perchè Lei ha pattuito un mercato non confessabile. Lei dice di adorare la Verità, domanda a un fratello se possiede la Verità e tace che lo ha già venduto!»

Mentre Benedetto parlava, l’amico del ministro, Eccellenza egli pure ma in sottordine, alzò finalmente il capo dalla spalliera del canapè. Parve che incominciasse soltanto allora a stimar degno di attenzione l’uomo e quello che diceva. Parve [p. 375 modifica]anche divertirsi della lezione toccata al principale del quale ammirava l’ingegno grandissimo ma derideva in cuor suo le velleità idealistiche. Il principale rimase, sulle prime, sbalordito; poi scattò in piedi, gridando come un ossesso:

«Siete un mentitore! Siete un insolente! Non meritate la mia bontà! Non vi ho venduto, non valete niente, vi regalerò! Andate! Andate via!»

Cercò il bottone del campanello elettrico e non trovandolo nella cecità della collera, gridò:

«Usciere! Usciere!»

Il sottosegretario di Stato, avvezzo a queste scenate ch’eran poi sempre fuochi di paglia perchè il ministro aveva un cuore d’oro, se la rideva, in principio sotto i baffi. Ma quando lo udì chiamar l’usciere a quel modo, conoscendo bene le indiscrezioni degli uscieri e pensando i pettegolezzi pericolosi che potevano nascere di questo incidente, il ridicolo che ne sarebbe schizzato anche sopra di lui, trattenne risolutamente il ministro imponendogli, quasi, di chetarsi, e disse brusco a Benedetto:

«Lei se ne vada.»

Il ministro si diede a camminare per la sala, muto, a capo basso, a passi frettolosi e brevi, male vincendo in sè il bambino che avrebbe voluto battere i piedi sul posto.

Benedetto non ubbidì. Ritto e severo, radiante [p. 376 modifica]invisibili raggi di uno spirito dominatore, che tennero a distanza il sottosegretario di Stato, egli costrinse l’altro con questo potere magnetico a voltarsi verso di lui, a fermarsi, a guardarlo in faccia.

«Signor ministro» diss’egli «io sto per uscire non solo da questo palazzo ma credo anche, fra non molto, da questo mondo. Non La rivedrò più, mi ascolti un’ultima volta. Ella non è ora disposto alla Verità, però la Verità è alle Sue porte, e verrà l’ora, e non è lontana perchè la Sua vita discende, che si farà notte sopra di Lei, sopra i Suoi poteri, i Suoi onori, le Sue ambizioni. Allora Ella udrà la Verità chiamare nella notte. Potrà rispondere — parti — e non la incontrerà più mai. Potrà rispondere — entra — e la vedrà comparire velata, spirante dolcezza dal velo. Ella non sa ora come risponderà, nè io lo so, nè alcuno al mondo. Si prepari colle opere buone a risponder bene. Qualunque sieno gli errori Suoi, vi è religiosità nel Suo spirito. Iddio Le ha dato molto potere nel mondo; lo adoperi per il Bene. Lei ch’è nato cattolico dice di essere protestante. Forse Lei non conosce abbastanza il Cattolicismo per comprendere che il Protestantesimo si sfascia sopra il Cristo morto e che il Cattolicismo evolve per virtù del Cristo vivente. Ma io parlo adesso all’uomo di Stato, non certo per domandargli di proteggere [p. 377 modifica]la Chiesa cattolica che sarebbe una sventura, ma per dirgli che se lo Stato non ha ad essere nè cattolico nè protestante, non gli è però lecito d’ignorare Iddio e voi osate negarlo in più di una scuola vostra, di quelle che chiamate alte, in nome della libertà della scienza che voi confondete colla libertà del pensiero e della parola perchè il pensiero e la parola sono liberi di negare Iddio ma la negazione di Dio non ha nè può avere carattere di scienza e voi solo la scienza dovete insegnare. Voi conoscete bene la piccola politica che vi fa transigere in segreto con la vostra coscienza per avere celatamente un favore dal Vaticano, nel quale non credete; ma voi conoscete male la grande politica di mantenere l’autorità di Chi è il principio eterno di ogni giustizia. Voi lavorate a distruggerla ben peggio che con i professori atei; in fondo i professori atei hanno un piccolo potere; voi uomini politici che dite spesso di credere in Dio, voi ne distruggete l’autorità molto più che quei professori, con i mali esempî del vostro ateismo pratico. Voi che vi figurate di credere nel Dio di Cristo, siete in realtà profeti e sacerdoti degli dei falsi. Voi li servite come li servivano i principi idolatri ebrei, nei luoghi alti, in cospetto del popolo. Voi servite nei luoghi alti gli dei di tutte le cupidigie terrestri.»

«Bravo!» interruppe il ministro, conosciuto [p. 378 modifica]per la sua morigeratezza, per le virtù famigliari, per la noncuranza del danaro. «Mi divertite!»

E soggiunse, vôlto all’amico:

«Proprio non valeva la pena.»

«M’intenda bene!» riprese Benedetto. «Sì, anche Lei è uno di questi sacerdoti. Parlo io forse di gaudenti comuni? Parlo di Lei e di altri come Lei che si credono gente onesta perchè non cacciano le mani nel danaro dello Stato, che si credono gente morale perchè non si danno ai piaceri dei sensi. Vi dirò due cose. Intanto, voi adorate piaceri più perversi. Voi fate di voi stessi i vostri falsi dei, voi adorate il piacere di contemplarvi nel vostro potere, nei vostri onori, nell’ammirazione della gente. Ai vostri dei voi sacrificate colpevolmente molte vittime umane e la integrità del vostro stesso carattere. Fra voi vi è il patto che ciascuno rispetti il falso dio del collega e ne aiuti il culto. I più puri di voi sono colpevoli almeno di questa complicità. Voi torcete lo sguardo da torbide congiure d’interessi vili, da non confessabili intrighi di sêtte che strisciano nell’ombra e li lasciate passare in silenzio. Voi vi credete incorrotti e corrompete! Voi distribuite regolarmente denaro pubblico a gente che vi vende la parola e l’onestà della coscienza. Voi disprezzate e nutrite questa infamia sotto di voi. È più empio comperare voti e lodi che venderne! I più [p. 379 modifica]corrotti siete voi! Secondo peccato, voi considerate il mentire una necessità della vostra condizione, voi mentite come bere acqua, mentite al popolo, mentite al Parlamento, mentite al Principe, mentite agli avversarî, mentite agli amici. Lo so, qualcuno di voi personalmente non pratica l’abituale mentire, solamente lo tollera nei colleghi, molti di voi prendono con ripugnanza quest’abito nell’entrare dove si governa, come entrando in una miniera si prende talvolta una veste sudicia che difende la nostra; e all’uscire lo depongono con gioia. Ma costoro che sono i migliori, si diranno essi buoni e fedeli servi della Verità? Voi credete in Dio e forse al vostro letto di morte pensate di avere maggiormente offeso Iddio come uomini politici con azioni di violenza contro la Chiesa nel nome dello Stato. No, non saranno state queste le vostre maggiori offese. Se vengono in Parlamento e dal Parlamento al Governo uomini che professino come filosofi di non conoscere Dio ma che insorgano nel nome della Verità contro quest’arbitraria tirannia della Menzogna, meglio serviranno Dio e saranno più grati a Dio di voi che credete in esso come in un idolo e non come nello Spirito di Verità, di voi che osate parlare di putrefazioni del Cattolicismo, puzzolenti di falsità come siete. Sì, puzzolenti! Voi fate tanto impura l’aria delle altezze, a rovescio di quello che [p. 380 modifica]sarebbe naturale, da rendere ben difficile di respirarla. Voi avete un cuore religioso, signor ministro; non rispondetemi che in questo palazzo non si può servire Iddio…»

«Sa Lei…» esclamò con ira il ministro incrociando le braccia sul petto. Il sottosegretario di Stato stese graziosamente una mano verso di lui per arrestarne la parola sdegnosa.

«Piano piano piano» diss’egli. «Permetti? Perchè mi ci diverto.»

Il sottosegretario di Stato, piccolo, rotondetto, rispettoso della propria sottosegretarietà, simile a un uovo in possesso cosciente di un sacro pulcino, ben minore uomo del ministro e ben diverso da lui, non aveva affatto le curiosità intellettuali del Superiore e non era venuto che per compiacere al Superiore. Il Superiore, luminosa intelligenza, soleva fermare il proprio lume ora sull’una ora sull’altra delle persone che gli giravano attorno e crederli allora lucenti per loro virtù come forse penserà il sole degli astri che gli fanno la corte. Il sottosegretario di Stato rifletteva luce al ministro e il ministro rifletteva ammirazione al sottosegretario di Stato. Il ministro lo aveva desiderato a quel colloquio non comprendendo affatto che il piccolo Mercurio del suo sistema planetario, avendo risoluto da giovine di sciogliersi dal soprannaturale che gl’impediva i movimenti più spontanei della [p. 381 modifica]sua natura egoistica, si era preso per il soprannaturale dell’odio che gl’infermi concepiscono talvolta per la persona della quale sanno che ha fatto delle infermità loro un pronostico triste. Come questi infelici vogliono persuadersi che il profeta non merita fede e più la sua profezia si viene avverando, più s’irritano, più si struggono di abbattere quell’autorità minacciosa; così colui, più sentiva declinargli il vigor giovanile e perder credito i dogmi materialistici e folgorargli nel cuore di quando in quando certe apprensioni lancinanti di una verità formidabile che poi venivano lentamente meno, più s’inveleniva nell’odio coperto d’ironica noncuranza.

«Senta un po’, caro Lei» diss’egli a Benedetto dopo essersi fatto largo nella conversazione con quella parola e quel gesto. «Lei parla molto di dei falsi e di dei veri. Io non so se il Suo sia falso o vero. Sarà vero ma è certamente irragionevole. Un Dio che ha creato il mondo come gli è piaciuto, in modo che deve andare come va, e poi viene a dirci che dobbiamo farlo andare in un modo diverso, eh senta, via! non è un Dio ragionevole! Lei si è permesso di vuotare un sacco di contumelie, un sacco di accuse agli uomini politici, che sono calunnie, specialmente se le vuole applicare a quel signore lì e a me; ma io Le concedo che la politica, per forza, non è [p. 382 modifica]mestiere da Santi. Chi ha fatto il mondo non ha voluto che lo sia! Se la sbrighi con lui. Ebbene, bisogna pure che qualcuno lo faccia, quel mestiere lì. Adesso lo facciamo noi che se non siamo Santi, almeno Lei vede quanto pazientemente trattiamo con i Santi. E senta.»

Il sottosegretario guardò l’orologio.

«Si fa tardi» diss’egli «e nelle vie di Roma, a ora tarda, la santità corre qualche pericolo. È meglio che Lei se ne vada.»

Stese la mano al campanello elettrico per chiamare l’usciere.

«Signor ministro!» esclamò Benedetto con tal vigore di accento che il sottosegretario rimase immobile a braccio steso come colto da un colpo di gelo. «Lei teme per lo Stato, per la monarchia, per la libertà, i socialisti e gli anarchici; tema molto più i Suoi colleghi schernitori di Dio, perchè i socialisti e gli anarchici sono febbre, gli schernitori di Dio sono cancrena! – Quanto a Lei» soggiunse vôlto al sottosegretario «Lei deride Uno che tace. Tema il suo silenzio!»

Senza che nè l’uno nè l’altro dei due potenti dicesse una parola, facesse un gesto, Benedetto uscì della sala.


Egli discese lo scalone vibrando tutto nel [p. 383 modifica]contraccolpo delle parole che gli erano scoppiate dal cuore e nel fuoco febbrile del sangue. Le gambe gli tremavano, gli mancavano sotto. Fu costretto due o tre volte di afferrarsi al parapetto e di sostare. Giunto all’ultima colonna, vi premette la fronte pulsante, cercando frescura. Se ne staccò subito, sentì ripugnanza della stessa pietra di quel palazzo come se fosse infetta di tradimento, complice del commercio vile che vi si era fatto, atrocemente vile, fra ministri di Cristo e ministri della Patria. Sedette sul penultimo gradino, non potendone più, senza guardare ai fanali accesi della carrozza che aspettava lì a due passi, senza dubbio la carrozza del ministro; non curando esser veduto. Respirò un poco, lo sdegno gli si venne quietando un poco, quietando in dolore, in desiderio di piangere sulle tristi cecità del mondo. E cominciò anche a sentirsi solo, amaramente solo. Unica lei, la donna del suo passato errore, aveva vegliato, aveva scoperto, aveva agito. Solo per lei gli era stato dato di far fronte al ministro sapendo quale linguaggio fosse da tenergli. Gli altri amici suoi, gli amici devoti alle sue idee religiose, avevano dormito e dormivano. Gli piacque l’acre pensiero che non si curassero più di lui. Gli piacque di abbandonarsi almeno una volta alla pietà della propria sorte, di gustarla, almeno una volta, sino al fondo, di figurarsi la propria sorte [p. 384 modifica]anche più dolorosa e amara che non fosse. Tutti erano contro di lui, si accordavano contro di lui, tutti! Solo, solo, solo. E i suoi sostegni interni eran proprio buoni? Eran proprio sicuri? Quell’uomo là in alto, quel ministro di tanto ingegno, di tanto sapere, di tanta bontà personale, se avesse ragione? Se il Cattolicismo fosse veramente insanabile? Oh, ecco, anche il Signore, il Signore da lui servito, il Signore che lo colpiva nel corpo, che lo metteva in potere dei suoi nemici, adesso lo abbandonava nell’anima. Angoscia, mortale angoscia! Desiderò morire lì, aver pace.

Le voci, in alto, del ministro e del sottosegretario che discendono. Benedetto si sforzò di alzarsi, si trascinò nella via, vide a sinistra, pochi passi oltre il portone, un’altra carrozza ferma. Un domestico in livrea stava sul marciapiede discorrendo col cocchiere. Al comparire di Benedetto il domestico gli si fece premurosamente incontro. Benedetto riconobbe alla luce del gas il romano antico di villa Diedo, il cameriere dei Dessalle. Gli balenò nel cervello torbido che Jeanne fosse ad aspettarlo in carrozza, diede un passo indietro.

«No» diss’egli.

Intanto la carrozza era venuta avanti. Benedetto immaginò di vedere Jeanne, di esser fatto salire con lei, di non avere forza sufficiente a impedirlo. Preso da vertigine, retrocesse ancora e sarebbe [p. 385 modifica]caduto se il domestico non lo avesse raccolto nelle sue braccia. Si trovò in carrozza senza saper come, con un fastidioso lume vivo incontro e un forte ronzio negli orecchi. A poco a poco si raccapezzò. Era solo, una lampadina ad acetilene gli luceva in faccia. Lo sportello alla sua destra era aperto e il domestico gli parlava. Che diceva? Dove andare? A villa Mayda? Sì certo, a villa Mayda. Non si poteva spegnere quel lume? Il domestico spense e parlò ancora, di una carta. Quale carta? Una carta che la signora aveva fatto mettere nel taschino interno del coupé, coll’ordine di consegnarla al signore. Benedetto non capiva, non vedeva. Il domestico prese la carta e gliela pose in tasca. Poi domandò, per ordine dei signori, stavolta disse così, come il signore stesse di salute. Se lo avesse veduto morto, il rigido uomo avrebbe ugualmente eseguito l’ordine. Benedetto pregò, per tutta risposta, che gli fosse portata un po’ d’acqua; bevette avidamente quella che il domestico gli recò da un caffè vicino, ne provò alquanto ristoro. Riprendendo la tazza vuota, il domestico credette bene di compiere la sua missione:

«La signora mi ha ordinato di dirle, se Lei domanda, che i signori hanno mandato la carrozza perchè sanno che Lei non sta bene e hanno pensato che qui, a quest’ora, non ne troverebbe.» [p. 386 modifica]


Il coupé aveva molle eccellenti e le gomme alle ruote. Che riposo era per Benedetto di correre silenziosamente così, solo dentro un’oscura carrozza soffice, nel cuore della notte! Di quando in quando apparivano a destra e a sinistra sfondi di vie lucenti e allora era per lui una sofferenza, come se quelle lunghe file di lumi fossero nemiche. Tornava subito l’ombra delle vie strette, la fuga, sui marciapiedi e sulle case, della luce trabalzante dai fanali del coupé. Il cocchiere mise il cavallo al passo e Benedetto guardò fuori, nel buio. Gli parve che incominciasse la salita dell’Aventino. Si sentiva meglio; la febbre, inasprita dai travagli fisici e morali di quella notte di battaglia, declinava rapidamente. Avvertì allora, per la prima volta, il sottilissimo profumo del coupé, il solito profumo usato da Jeanne, e lo morse la memoria viva del ritorno da Praglia con lei, del momento in cui, lasciata lei al piede della salita di villa Diedo, si era allontanato solo nella victoria profumata e tepida di lei; solo, ebbro del suo segreto di amore. Atterrito dalla vivezza dei ricordi, si strinse le braccia al petto, si sforzò di ritrarsi dai sensi e dalla memoria nel centro di sè, ansava a bocca semiaperta non riuscendo a spinger la [p. 387 modifica]immagine fuori dalla sua visione interna. E altre gliene lampeggiavano nel cuore senza vincere la sua volontà resistente ma facendola fremere come una corda tesa. Era l’idea che soltanto lei, Jeanne, lo amasse davvero, che soltanto lei soffrisse del suo soffrire. Era la voce di lei che si doleva di non essere riamata, la voce di lei che lo pregava di amore con una cantilena di Saint-Saëns, tanto dolce, tanto triste, nota ad ambedue, della quale egli le aveva detto a villa Diedo che nulla saprebbe ricusare a chi pregasse così. Era l’idea di fuggir lontano, ben lontano e per sempre, da Roma pagana e farisea. Era una visione di pace, di colloquî purissimi con la donna ch’egli conquisterebbe finalmente alla fede. Era un desiderio ardente di dire al Signore: troppo tristo è il mondo, concedi che ti adori così. Era il pensiero che in tutto ciò non vi fosse colpa, che non fosse colpa l’abbandono della sua missione a fronte di tanti nemici. Era il dubbio di non avere realmente missione alcuna, di aver ceduto a suggestioni d’inganno, di aver creduto a realtà di fantasmi, di essere stato illuso da parvenze del caso. Erano le fisionomie spirituali e morali dei suoi amici e seguaci, fatte difformi agli occhi suoi come da uno specchio convesso; era la scorata certezza che ogni speranza posta in essi gli fallirebbe. Era da capo la cantilena tenera e triste, con un senso non più di [p. 388 modifica]preghiera ma di pietà, di una pietà circonfusa alla sua lotta amara, dell’accorata pietà di qualche spirito ignoto che pure soffrisse e si dolesse di Dio ma umilmente, dolcemente, e parlasse per tutto che ama e soffre nel mondo.

La carrozza si fermò a un crocicchio e il domestico scese dal serpe, si affacciò allo sportello. Pareva che tanto egli quanto il cocchiere non avessero un’idea chiara del posto di questa villa Mayda. A destra scendeva una stradicciuola fra due muri. Dietro quello più alto di sinistra colossali alberi neri ruggivano al tramontano che aveva spazzato le nubi. Nello sfondo nereggiavano al fioco lume stellare il Gianicolo e San Pietro. Era una stradicciuola da pedoni. Doveva il signore scendere lì per andare a villa Mayda? No, ma «il signore» volle scendere a ogni modo, uscire della carrozza avvelenata. Si trascinò, lottando col suo povero corpo infermo e col vento, fino a Sant’Anselmo. Rifinito, pensò a domandare l’ospitalità dei monaci ma non lo fece. Scese lungo il grande, silenzioso asilo benedettino di pace, passò sospirando davanti alla porta chiusa che dice vanamente quieti et amicis, giunse infine al cancello di villa Mayda.

Il giardiniere venne ad aprirgli mezzo svestito e si meravigliò molto di vederlo. Gli disse che lo credeva in prigione perchè verso le nove un [p. 389 modifica]delegato di P. S. e una guardia erano venuti a cercarlo. Anzi la signora, la nuora del professore, saputo questo, aveva dato senz’altro l’ordine di non lasciarlo entrare se per caso ritornasse; ma poi, con molta gioia del giardiniere, affezionato a Benedetto e al padrone quanto avverso alla signora, era venuto un fiero contrordine del professore. Udito ciò, Benedetto sarebbe ripartito subito se gliene fossero bastate le forze. Ma non era in grado di fare cento passi.

«Sarà per questa sola notte» diss’egli.

Abitava una cameretta nella casina del giardiniere. Sperò, nell’entrarvi, che vi avrebbe ritrovata la pace del cuore; ma non fu così. Lo cacciavano anche di là; ecco l’annuncio amaro che il suo cuore diede al povero lettuccio, ai poveri arredi, ai pochi libri, alla fumosa candela di sego. Fissi gli occhi nel Crocifisso pendente sopra uno sgabello a fianco del letto, egli gemette mentalmente con uno sforzo di volontà:

«Come posso io dolermi tanto, Signore, delle croci mie?»

Invano; il suo spirito non aveva senso vivo nè di Cristo nè della Croce. Sedette desolato, non volendo coricarsi così, aspettando una stilla di dolcezza che non veniva.

Una folata di vento gli fece volgere il capo alla finestra che si era spalancata. Vide laggiù nel [p. 390 modifica]cielo lucidissimo, sopra i merli di Porta San Paolo e la nera punta della piramide di Cestio e le vette dei cipressi che cingono la tomba di Shelley, un grande pianeta. Il vento urlava intorno alla casina. Oh la notte nel manicomio dove sua moglie moriva, e le urla delle agitate, e il grande pianeta!

Nel reclinare il capo grave di tristezza si accorse per caso della carta che il domestico gli aveva cacciata in tasca. Era una grande busta orlata di nero. La spiegò, vi lesse il nome e i titoli della sua povera vecchia suocera, la marchesa Nene Scremin, e le due semplici parole che seguivano:

IN PACE.

Impietrò col foglio aperto nelle mani e gli occhi fissi alle due parole anguste. Poi le mani gli cominciarono a tremare e dalle mani il tremito gli salì al petto, crescendo, crescendo, e dall’affollar del petto gli ruppe su per la gola una tempesta di pianto.

Piange per il ritorno di tante memorie ricondotte a lui dalla povera morta, dolorose e soavi; piange affissandosi nel Crocifisso, in Cristo, al quale, oh certo, ella si abbandonò fidente, nel morire, [p. 391 modifica]come l’altra cara, come la sua Elisa; piange di gratitudine a lei che ancora dal mondo ignoto gli è pia, gl’intenerisce il cuore. Ricorda le ultime parole udite dalla sua bocca: «Allora, vederci, mai più?» Sorride nell’anima presaga, si volge alla finestra spalancata, contempla il grande pianeta.