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352 capitolo settimo



III.


La camera, al quarto piano, era appena decente. Un letto di ferro, un tavolino da notte, uno scrittoio con pochi libri logori e sfasciati, un cassettone di abete, un lavamani di ferro, qualche sedia impagliata, n’erano tutto il mobiglio. Un abito grigio pendeva da un chiodo, un cappello nero a cencio da un altro. Un baglior frequente di lampi entrava dalla finestra aperta, entravano soffî della buia notte burrascosa, facevano oscillare la fiammella della lampada a petrolio che ardeva sul tavolino da notte, oscillare il lume e le ombre sulle lenzuola non tanto bianche, su due mani scarne, sur un fascio di rose sciolto fra le due mani, sulla camicia di flanella dell’uomo infermo che si era tratto su a sedere, sul suo viso rugoso, magro, grigiastro di barba d’un mese. Dall’altra parte del letto povero, nella penombra, stava Benedetto, in piedi. L’uomo infermo guardava i fiori e taceva. Le sue mani, anche le sue labbra, tremavano.

Egli era stato frate. A trent’anni aveva gettato la cocolla e preso moglie. Uomo di poco ingegno e di pochi studî, era vissuto miseramente colla moglie e con due figliuole, facendo lo scrivano. La moglie era morta, le figliuole si erano date