Crevalcore/Parte prima

Parte prima

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Crevalcore Parte seconda
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PARTE PRIMA.

RENATA.

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Una vettura di piazza stava ferma attendendo sull’ingresso di Schifanoia. I viaggiatori che avevano visitata la villa, nell’uscire, si voltarono ancora un istante col viso in su a guardare lo stemma degli Estensi nella sua ricca cornice di bassorilievi. La comitiva era composta di un signore attempato colla moglie ancora in buona età e due giovani amici.

— Stupendi gli affreschi — disse il marito.

— Per me — soggiunse la signora prendendo il suo posto a destra nella carrozza — trovo che Schifanoia è bellissima ma poco suggestiva. Preferisco....

— Il castello — interruppe uno dei giovani. [p. 4 modifica]

— La prigione del Tasso — soggiunse l’altro.

— Nemmeno. Non saprei precisare, poichè in questa vecchia Ferrara la suggestione si sprigiona quando meno la si cerca. Sono queste grandi case mute, questi orti senza fiori, questi cortili claustrali, questi pozzi che danno una stretta al cuore e le porte, le porte meravigliose che sembrano aperte tutte sopra la reggia del Sogno!

Il cicerone che stava per rinchiudere lo sportello alle parole della signora si fece premura di suggerire, tutto ossequioso e con quell’aria di profondo conoscitore rimastagli appiccicata dal mestiere:

— Se le loro Signorie credono, posso condurle a vedere il più antico monumento della città, diroccato è vero, ma tale che madama lo troverà suggestivo meglio di qualunque altro. Le guide non ne fanno cenno, i forestieri lo ignorano, i cittadini non se ne curano....

— E che diavolo è? — chiese il marito.

— Il palazzo Crevalcore.

— Crevalcore?

Il vecchio signore si pose istintivamente a sfogliare il suo Baedeker. [p. 5 modifica]

— Inutile cercarlo in quel libro.

— Allora vuol dire che non merita la pena di andarlo a vedere.

— Secondo. Sa.... i gusti sono diversi. Mi pareva di aver compreso che la signora.... Infine se non vogliono vederlo, padroni loro.

— Andiamo, andiamo! — esclamarono ad una voce i due giovinotti — non sarà poi un gran viaggio.

Il cicerone per mostrarsi riconoscente a’ suoi alleati si accese di quello zelo che suole giocare tanti brutti tiri ai ciceroni. Collo sguardo ispirato e una mano sul petto uscì a dire che il vetusto palazzo oggetto delle sue premure risaliva per antichità alla fondazione stessa di Ferrara.

— Ma se non si sa nemmeno quando Ferrara è stata fondata — disse il vecchio signore.

— Via, — intervenne la signora con tono conciliante, — mettiamo che sia del tempo di Obizzo d’Este.

— Ecco ecco, — concluse felice il cicerone — è precisamente quello che volevo dire.

I quattro viaggiatori si abbandonarono a [p. 6 modifica]una larga risata, il cicerone salì a cassetto accanto al cocchiere, il cocchiere schioccò la frusta e la carrozza uscì mollemente da via Scandiana, passò da Santa Maria in Vado, si diresse verso gli antichi quartieri. Uno dei giovani osservò:

— Prendiamo se non sbaglio Porta d’Amore. Che razza di nomi! E se pensate che c’è anche via Assiderata....

Soggiunse l’altro giovane:

— Tutte le nostre vecchie città hanno di questi nomi significativi e caratteristici. Non si trova forse nella mia Perugia: via Corrotta, via Piacevole, via Solitaria, via Guerriera, via delle Streghe, le quali ne dicono più alla nostra immaginazione che non tutti i corsi Garibaldi e le piazze Vittorio Emanuele di cui ci ha gratificati la nuova Italia?

— E a Venezia dunque? Ponte dei sospiri... — sospirò la signora.

Rio degli assassini.... — completò il marito.

— E a Milano? e a Genova? e a Roma? Dappertutto, vi dico, dappertutto in questa bella nostra Italia! [p. 7 modifica]

Sopra tale esclamazione patriotica si stabilì un certo silenzio. La carrozza passava per vie deserte e silenziose, lasciando scorgere a tratti l’angolo di un muro diruto o la fuga misteriosa di bruni angiporti intorno ai quali vagavano con passo d’ombra quelle singolari figure di mendicanti che pare vivano nelle pieghe degli antichi monumenti sorgendo quasi per incantesimo sui passi di ogni forestiero; per la maggior parte donne ravvolte in neri scialli, dalle occhiaie profonde e dal gesto di fantasma.

— Anche la primavera è triste in questa città, — disse fievolmente la signora dopo di avere raccolto nel cavo delle pupille una gamma infinita di gradazioni grigie, — chi direbbe che siamo in aprile? Non ho ancor visto una rosa.

— Ma questo colore locale, — esclamò con passione il perugino, — questo colore d’incubo e di mistero è appunto il fascino di Ferrara. Non le pare?

— Sì, sì. La mancanza di fiori, la povertà del verde lo accrescono fino allo spasimo, siamo perfettamente d’accordo. E quei segni sibillini sopra un gran numero di case, [p. 8 modifica]quell’I. H. S. chiusi in una aureola di raggi, vede?

— Vogliono dire.... — cominciò il marito — ma la signora non lo lasciò proseguire.

— Non togliermi il mistero, te ne prego. Che importa sapere quando non si è nè pedanti nè scienziati? Sognare basta al nostro diletto di un giorno.

Disse il perugino:

— Le voglio comunicare una mia impressione su queste città del littorale Adriatico....

Ma la vettura giungendo arrestò la confidenza.

— Siamo dunque qui? Non vedo peraltro nessun palazzo.

Alla osservazione del signore anziano il cicerone rispose:

— Cioè manca la facciata.

— È giusto. Ciò si attaglia benissimo ad una fabbrica che si perde nella notte dei tempi.

L’ironia cadde di botto quando il signore avanzandosi per il primo sotto a una negra arcata di meschinissima apparenza, per un [p. 9 modifica]tratto di corritoio quasi buio si trovò in un vasto cortile fiancheggiato da portici, pochi dei quali si conservavano intatti nella loro compagine austera di pietre annerite dal tempo ed uno solo anzi mostravasi intero con una audacia violenta di colosso che sfida i secoli; ma quello e gli altri ed ogni cosa in giro era così pervasa di antica maestà che il rispetto si impose subito. Trasudava da quelle rovine una oscura minaccia come se il Mille riaffacciandosi alla vita volesse ancora agitare nel mondo paurosi presagi. Quanto sudore, quante lagrime, quanto sangue si mischiava all’umidore gocciante dai muri negli angoli più cupi dove il sole non giungeva mai, dove la muffa saliva lentamente dal suolo alle pareti con una ramificazione intensa di parassiti tacitamente divoratori, simili ad una gigantesca lebbra?

Anche in questo, come in tutti i cortili delle vecchie case di Ferrara, si apriva un pozzo, ma se ognuno di quei pozzi e di quei cortili sono di una tristezza che agghiaccia, questo sembrava riassumere in sè tutti gli schianti, tutti i dolori, tutte le disperazioni, [p. 10 modifica]così nudo e quasi tragico nella sua nerezza di putredine il parapetto lo circondava con forme inquietanti di bara.

La signora rabbrividendo si strinse nella mantellina chiara che le copriva le spalle, mentre il cicerone in silenzio coglieva dalle faccie attonite dei forestieri il meno ambito forse e tuttavia il più lusinghiero dei premi.

— Ah! qui si cercherebbero invano le grazie e le bellezze stilizzate del Rinascimento, ma quale scossa per l’immaginazione!

— Questi sono i sotterranei — disse il cicerone guidando la comitiva verso la bocca spalancata di un antro dove non era più traccia nè di pavimento nè di vôlte e solo la rigidità delle mura maestre affondavasi nel vuoto tenebroso del sotto suolo dentro un mistero di ombra e di vani paurosi.

— Non le sembra di udire uno stridore di catene? — mormorò all’orecchio della signora quello dei due giovani che si mostrava più entusiasmato.

— Sì, sì, è terribile.

— Terribile o magnifico?

— L’uno e l’altro. [p. 11 modifica]

Da un lato del portico saliva dritta e ad una sola rampa la scala che conduceva al piano superiore dove pure aprivasi un altro portico più breve e sovrastante appena in parte al porticato del cortile. Per tutta la lunghezza di questo portico correva, larga il doppio e alta come una chiesa, una sala che il cicerone battezzò sala del trono e che mostrava infatti attraverso all’oltraggio dei secoli qualche segno della primitiva grandezza. Il soffitto a cassettoni, una caminiera dalla quale erano stati tolti evidentemente i fregi migliori, l’impronta ancora visibile del posto dove erano appesi gli arazzi attrassero subito l’attenzione dei visitatori. Il signore anziano pronunciò con ammirazione:

— Qui è passato il Cinquecento. Questo palazzo è a strati: giù abbasso il Medio Evo più fosco, in alto il soffio gagliardo del secolo di Leone X. Peccato che un secondo piano non ci riservi le raffinate ricercatezze del rococò. La rovina deve essere entrata fra queste mura prima ancora del settecento.

Visitarono curiosamente altre sale a perdita di vista, tutte cadenti, tutte squallide, colle finestre sfondate, con qualche raro di[p. 12 modifica]pinto a tempera corroso dal salnitro, con poche dorature qua e là screpolate e fesse.

— E non poter far parlare i muri! — disse quello dei giovani che era un po’ superficiale.

— Ma come! come! essi parlano. Basta saperli ascoltare, — scattò il perugino.

La signora assentì col capo; e poichè ella non si stancava dal girare su e giù, passando e ripassando quasi a cercare altre cose ancora, il cicerone credette di dover soggiungere:

— Ci sarebbe da vedere un secondo camino o a meglio esprimermi una cappa di camino assolutamente bizzarra e benissimo conservata.

— E mostratecela dunque.

— Non si può perchè si trova nella piccolissima parte del palazzo ancora abitato.

— Abitato? Questo luogo è abitato?... Saranno delle apparizioni senza dubbio, ma noi non abbiamo paura dei fantasmi. Presentateci.

— Impossibile.

— Nulla è impossibile se si vuole.

— Gli è appunto che la persona in que[p. 13 modifica]stione non vuole. Ella sta chiusa da otto anni in questo appartamento senza uscire mai e senza permettere che altri entri.

— E poi dicono dei romanzi! — esclamò il giovinetto superficiale.

— Si può sapere almeno chi è questa persona misteriosa?

— Sono due: i due ultimi superstiti della famiglia Crevalcore.

— Contemporanea di Obizzo d’Este? — chiese il vecchio signore con un ritorno di ironia nell’accento.

Fatto prudente dall’esperienza il cicerone rispose con umiltà:

— Questo non lo so.

— La casa è un asilo sacro — soggiunse il vecchio signore — bisogna rispettarla. Siamo entrati un po’ come ladri in un bosco; ritiriamoci almeno dignitosamente.

Sotto i passi affrettati dei visitatori che ridiscendevano, la pietra degli scalini sembrò gemere, ma nessun altro rumore si avvertì nel lugubre silenzio dei portici.

— Questa non è una casa, è una prigione. Lasciatemi vedere ancora quel pozzo [p. 14 modifica]che ha una forma di bara; se la muffa che lo ricopre fosse almeno verde.... ma è grigia anch’essa come tutto il resto, è una muffa morta.

Pronunciando tali parole la signora si era avvicinata al pozzo e il cicerone seguendola si pose a parlarle piano trascinandola alquanto in là affinchè il vecchio signore incredulo non udisse la confidenza che egli volle farle.

— Questo pozzo è una tomba.

— Che dite mai?

— Narra la leggenda che tanti tanti secoli fa tre sorelle Crevalcore trovarono qui la morte.

Alla evocazione terrorizzante gli occhi della signora rimasero fissi sull’orlo del baratro. Fu la voce dell’amico perugino che la riscosse. Egli si era avvicinato chetamente e udendo l’ultima frase del cicerone lo incoraggiò:

— Narrate, se è breve.

— Le tre sorelle — disse il cicerone con gravità — si erano innamorate dello stesso cavaliere: il più bello, il più nobile, il più valoroso che vivesse in Ferrara. Ma [p. 15 modifica]prima che il cavaliere facesse la sua scelta dovette partire in guerra per ordine del Re. Andò il cavaliere alla guerra giurando che sarebbe tornato un anno e tre giorni dopo a scegliere fra le tre sorelle colei che doveva essere sua sposa. Si separarono intorno a questo pozzo; qui le tre sorelle promisero di aspettarlo; qui dopo un anno convennero fedelmente. Ma passò il primo giorno, passò il secondo, venne il terzo e il cavaliere non si vide. Per tre giorni e per tre notti esse lo attesero invano. All’alba del quarto giorno, non avendo preso nè cibo nè riposo, le tre sorelle caddero svenute e quando rinvennero uno scudiero era presso a loro nunzio della morte del cavaliere. Allora decisero di morire esse pure insieme. Si chiamavano Bertilde, Godelinda e Alfrida. Bertilde, che era la maggiore, scese per la prima nel pozzo; Godelina la seconda e Alfrida, la quale aveva appena quattordici anni, la seguirono subito dopo. Tale, signora, è la leggenda di Crevalcore.

— Quando a nostra volta la racconteremo, — disse il perugino, — reduci alle nostre case e lungi dal posto non produrrà [p. 16 modifica]nessun effetto; ma davanti a questo pozzo funereo è innegabile che si prova un brivido. Guardi, signora, quel solco sull’estremo orlo.... possiamo noi esimerci dal pensare che forse le mani di Alfrida, l’ultima delle tre sventurate fanciulle, colei che aveva l’età di Giulietta, vi si sono aggrappate convulsamente?... Come sono impressionanti queste storie di amori lontani, quale traccia lasciano nei posti dove furono vive! Io volevo appunto farle osservare il carattere specialmente amoroso delle città che scendono da Venezia verso l’Adriatico. Non ci ha mai pensato lei?

— Venezia certo è la città degli innamorati; la storia, la poesia, l’arte, la vita, la consacrarono all’amore.

— E città d’amore sono tutte: questa triste Ferrara dove l’aprile è senza fiori, dove echeggia il singhiozzo del Tasso prigioniero, dove cadde la bella testa di Parisina; più triste ancora e più amorosa nei suoi paludamenti bizantini Ravenna che udì il canto appassionato di Byron e che vide nascere Francesca. Che dire di Rimini, di Rimini dove scoccò il bacio immortale? dove al[p. 17 modifica]l’amore di una donna fu eretto un tempio di rose marmoree? Ah! le coste del Mediterraneo azzurro e sorridente sono ben fatte per i lieti e facili amori dell’oggi, ma i gorghi verdi dell’Adriatico palpitano dei grandi amori antichi. Queste, queste sono le vere città d’amore dove l’anima si ritrova: città d’amore!

Tacque il giovane e pensosa rimase la signora, ravvolti entrambi nell’ombra del pozzo che si protendeva umida e scura nella sua forma di bara. Quando il resto della comitiva li raggiunse la voce dei compagni li fece trasalire entrambi, come svegliati da un’estasi.

*

Intanto che la vettura si muoveva riconducendo i forestieri, una tendina bianca che era stata leggermente sollevata ricadde sopra i vetri di una finestra del palazzo: bianca e povera tendina giuntata in diversi punti dietro la quale nascondevasi vergognosa la miseria degli ultimi Crevalcore.

Usciti da un ramo degli Estensi prima [p. 18 modifica]ancora del mille avevano poi, militando nel campo guelfo, mutato il nome originario di conti della Mirandola in quello di marchesi di Crevalcore e per quattro secoli di ininterrotta ascesa la famiglia erasi portata ai più alti onori e ad una colossale ricchezza, finchè sulla fine del cinquecento la sua fortuna, travolta nella guerra che Clemente VII mosse a Cesare d’Este scomunicato e cacciato dal trono con un processo dove ogni formalità era stata soppressa, decadde. Il seicento e il settecento videro scemare gradatamente le accumulate ricchezze finchè scomparvero nel turbine Napoleonico e col secolo decimonono i Crevalcore, affatto sconosciuti nella città stessa dei loro antichi trionfi, nascosti tra le rovine del grandioso palazzo, segnarono irreparabilmente la fine della luminosa parabola.

Verso il mille e ottocento trenta però l’unico superstite dei Crevalcore possedeva ancora un’ala del palazzo in condizioni discrete e una modesta rendita vitalizia gli permetteva almeno di vivere. Si credeva che egli avesse rinunciato al matrimonio preferendo all’abbassamento l’estinzione della famiglia. [p. 19 modifica]

Invece, dopo di avere trascorso la giovinezza in un ritiro quasi monastico, già innanzi negli anni si innamorò di una fanciulla al pari di lui nobilissima e povera, la sposò e ne ebbe sette figli, ma ai primi albori del risorgimento italiano morì lasciando la vedova e i figli in dure strettezze.

Furono allora abbandonate definitivamente le ampie sale che si sgretolavano d’anno in anno ed a cui non si poteva mettere riparo. Ad ogni temporale nuovo cadeva qualche imposta, qualche vetro si frantumava; i guasti del tetto lasciavano scorrere l’acqua sui cornicioni interni, lungo i muri, tra i mattoni rotti del pavimento dove si arrestava formando pozze e rigagnoli. Il vento entrando dalle finestre sfondate compiva l’opera di devastazione col portare turbini di polvere sui pochi fregi che ancora rimanevano intorno alle pareti e sbattendo gli usci e fendendoli ne traeva gemiti che echeggiando nella solitudine sconsolata sembravano lamenti di vittime.

I mobili migliori avevano esulato da lungo tempo; i pochi rimasti vennero raccolti nella parte meridionale del palazzo, in alcune [p. 20 modifica]camere che ancora resistevano, ed anche salvati così morivano tutti i giorni un poco della consunzione che rodeva tutta la casa. Era veramente la morte che si aggirava nei sotterranei a metà diroccati, dove cupi rimbombi nella notte facevano pensare a un occulto potere distruttore: la morte che strideva nei lunghi androni, nelle occhiaie spettrali dei portici, nelle bocche misteriose e smisurate dei camini; la morte che danzava una ridda frenetica nei paurosi solai percorsi da innumerevoli passi di esseri invisibili fra cui scrosciava tratto tratto, come una risata diabolica, il crollo di un fumaiolo. E su, dal cortile, dal tristissimo fra i tristi cortili ferraresi, il soffio gelido della morte saliva insieme al tanfo della muffa mettendo un brivido nell’aria.

I bambini nati fra queste rovine, recanti nel sangue i germi malati di una razza troppo vecchia, posero gli ultimi sorrisi sulle pietre annerite. Per qualche anno ancora un grido giulivo risvegliò di tratto in tratto l’eco addormentata; piccoli piedi impazienti percorsero i sinistri corritoi, piccole mani ignare strapparono l’erba grigiastra del [p. 21 modifica]cortile ed ebbero inconscie carezze per gli orli del pozzo funereo nella cui ombra si nascondevano per giocare a mosca cieca. Più tardi, pallide estenuate fanciulle aggirandosi con movimenti stanchi guardarono il cielo dal fondo delle altissime mura che cingevano il cortile, dall’alto dei loggiati nelle afose notti estive quando l’odore della canapa macerata cingeva Ferrara di un incubo opprimente, ed evocando fantasmi lontani sulla loro giovinezza imprigionata invidiavano forse Godelinda, Bertilde ed Alfrida che in un sogno d’amore vissero e per amore troncarono i loro giorni sul fiore.

Di sei sorelle una sola, la maggiore, si salvò dalla consunzione. Le altre, dopo di aver popolato le rovine col loro profilo di ombre, svanirono al pari di ombre, in silenzio, qualcuna appena adolescente, qualche altra già sfiorita, con fili d’argento nelle treccie sempre disciolte sull’abito molle di bambina, come se il tempo non avesse avuto significato in quella casa dove imperavano i secoli, dove non penetrava l'attimo fuggente della realtà.

Quando usciva una nuova bara dall’ampio [p. 22 modifica]portone tarlato la vedova si stringeva intorno i superstiti e prendendo per mano le sue figlie, quasi credesse di poterle sottrarre a un destino oscuro e crudele, le guidava verso l’ultimo nato, un gracile fanciullo dallo sguardo attonito che sembrava piegare sotto il peso del suo gran nome.

Gli anni erano passati così di tristezza in tristezza, e le pietre continuavano a cadere, e le bare continuavano a colmarsi, finchè anche la maggiore delle figlie, orgoglio e bellezza della famiglia, abbandonò il malinconico ostello — ed a questa volontaria dipartita che segnava un nuovo grado di avvilimento la vedova non sopravvisse.

Ciò che avvenne da allora nel palazzo dei Crevalcore nessuno più seppe. I rari passeggieri, che da una solitaria viuzza potevano scorgere un tratto del portico superiore, videro errare per un po’ di tempo un fantasma femminile colla lunga treccia disciolta sull’abito molle di bimba, appoggiarsi un istante al parapetto quasi vinto da insormontabile languore, e riprendere il passo e sparire nei silenzi misteriosi delle arcate; poi un giorno vi furono dei pianti e dei [p. 23 modifica]gemiti altissimi, un’altra bara uscì dalla porta, una vecchia servente la rinchiuse e tutto tacque.

Passarono altri anni. Qualche volta una finestra dischiusa, un rumore, una voce, un lume, facevano chiedere ai curiosi: Ma è ancora abitato quel vecchio palazzo? Esiste ancora qualcuno dei Crevalcore? Correvano voci diverse, contradditorie; ma nessuno in fondo se ne interessava poichè tutto là dentro era così povero, così misero, così vecchio....

*

Tuttavia la persona che aveva rialzata prima e poi lasciata ricadere la tendina bianca sarebbe stata una magnifica apparizione affacciantesi alle bifore del vetusto palazzo, vetusta anch’essa di quella regale bellezza che si impone alla ammirazione quando pure abbia trascorsa l’età del desiderio. Aveva i lineamenti delicati delle donne ferraresi congiunti ad una linea di fierezza la quale, più che dalla forma esterna, sembrava ripetere la sua affermazione da un sèguito di attitudini interiori [p. 24 modifica]che la rendevano particolarmente significativa. Il gesto col quale la sua mano staccandosi abbandonò la lieve stoffa e dove in eguale misura potevasi riscontrare la noia e il disgusto, era quello di una sovrana prigioniera che non vuole concedersi alla pietà della folla. — Bàlia! — chiamò movendo alcuni passi verso l’uscio affinchè la sua voce potesse penetrare la vastità degli ambienti — ed era una voce energica, vibrante, in cui attraverso la consuetudine dell’affetto mal si celava l’aspirazione all’impero.

Una vecchietta rugosa e nodosa simile in tutto a un ceppo di vite secca accorse all’appello.

— Sai chi era quella gente? — domandò rapida la signora.

— Forestieri a quel che pare. Li ha condotti l’uomo dell’albergo.

— Io non voglio, capisci? non voglio che ciò si ripeta.

— Ma come posso impedire....

— Non voglio!

Alla recisa intimazione la vecchietta si contorse come se una fiamma la bruciasse. [p. 25 modifica]Tese le sue povere braccia verso la signora e piangendo e singhiozzando disse:

— Ah! donna Renata, figliuola mia, lo sai pure che il palazzo appartiene ora al Municipio. L’entrata è libera a chiunque.

Donna Renata impallidì. Nessuno fuorchè la sua nutrice avrebbe potuto impunemente rammentarle quella che era stata l’ultima onta della famiglia. Impallidì e la sua testa altera descrisse la curva di un fiore reciso.

Era dunque vero. Non era stato un sogno la sua vita, la stolida vita che si era ella stessa fabbricata inseguendo un sogno indegno di lei? Che cosa non avrebbe pagato ora perchè fosse stato veramente un sogno? Ma, pagare, questa parola non era forse il colmo dell’ironia pronunciata da chi non possedeva nè denaro, nè gioventù, nè amici, nè avvenenza, nè ingegno? Ella aveva pure avuto la gioventù, l’ingegno, l’avvenenza, che cosa ne aveva fatto?

E dalla sua grande forza dominatrice quale conquista era uscita? Dove erano i mondi soggiogati, le turbe plaudenti? Dove era l’incenso della ammirazione? Dove il profumo inebbriante dell’invidia delle rivali [p. 26 modifica]e l’acuto senso di vertigine che dà l’altezza? Dove era il potere? Dove la gloria? Dove la gioia? In quale reggia, da quale turba di devoti proni usciva la squilla trionfante del suo nome: marchesa di Crevalcore!...

— Maledizione!

All’urlo doloroso seguìto da uno scroscio di risa pazzesche la nutrice che conosceva questi assalti di disperazione si fece da presso alla sua signora inginocchiandosi davanti a lei, e sorreggendola e cullandola quasi fra le sue braccia come al tempo in cui era bambina, si pose a ripeterne il nome dolcemente, lentamente, con cadenze di ninnananna materna e insieme di preghiera prolungata all’infinito:

— Renata.... Renata.... Renata....

*

Maggiore di cinque sorelle, Renata ricordava l’attesa che ad ogni nuova nascita rintuzzava in suo padre ed in sua madre il desiderio del maschio e come, quando esso venne finalmente al settimo parto gracile e meschino, tutta la famiglia se ne [p. 27 modifica]addolorasse. Quel bimbo a cui erano stati imposti i nomi solenni di Alfonso Maria Ercole Francesco Luigi, ma che allora e sempre chiamarono Meme con un diminutivo in cui veniva a raccogliersi la tenerezza e la compassione che ispirava, aveva, frodando i sogni ambiziosi de’ suoi genitori, suggellata la decadenza della razza. Fra il bimbo delicato e le sorelle votate alla consunzione, Renata sola si estolleva superba di bellezza e di rigoglio. A lei sola per occulti germi miracolosamente conservati era giunta nel trasporto di un primo amplesso la superba eredità degli avi guerrieri.

Ma la coscienza di tale superiorità doveva sorgere tardi nella fanciulla, almeno in forma chiara e compiuta. A quindici anni la frotta delle chimere alimentate dalla vita rinchiusa facevano ressa al capezzale de’ suoi sonni e quando dal terrazzo contemplava il cielo lei pure, al pari di tutte le fanciulle, non aveva chiesto ad esso che il segreto dell’amore. Quale tesoro sepolto era stata la sua giovinezza trascorsa fra bambini malaticci mentre nel suo petto fremevano tutti i succhi di un organismo [p. 28 modifica]potente! Il padre vecchio, la madre sfibrata dalla continue gravidanze, il bisogno dell’economia che d’anno in anno si faceva più urgente, era tutta una corona di spine che aveva circondato e compresso il suo sbocciare di fresco fiore.

Dopo la nascita del maschio la cui salute richiedeva cure costose erano stati costretti a licenziare i due domestici rimasti fino allora a sostenere il decoro della famiglia, e la nutrice di Renata, una povera contadina, li sostituì compiendo da sola tutti i servigi. Cose vecchie, cose lontane; ma Renata ricordava ancora il fastidio delle lunghe querimonie materne, il gridìo delle sorelle, i pianti del piccolo Meme e i sospiri e il cipiglio sempre più cupo di suo padre.

Non era giunta così ai venticinque anni vedendo moltiplicarsi intorno le tinte grigie di una vita monotona e sconsolata fino alle lagrime? E non aveva ella pianto, disperatamente, nell’ombra tetra dei portici sulla sua giovinezza che sfuggiva senza conforto, senza speranze, pari ad un prezioso liquore disperso attraverso le fessure di un vaso troppo logoro? Che cosa, se non la [p. 29 modifica]sconfinata, la incommensurabile tristezza de’ suoi giorni l’aveva spinta al passo fatale? Oh! se fosse un sogno, tutto un sogno il passato!... Ma no. Esso era scritto a caratteri incancellabili in quello che era stato il suo destino.

A venticinque anni Renata non sapeva nulla dell’amore. La vita rinchiusa, la povertà, le malattie, le morti facevano il vuoto intorno a Crevalcore. I due o tre vecchi amici di suo padre che soli varcavano a rari intervalli il portone del palazzo non vi recavano che sciupata ed affievolita l’eco dei rumori mondani, e se in certe notti serene appoggiata al parapetto del terrazzo, ella aveva chiesto al cielo la rivelazione del dolce mistero, gli era appunto perchè alle oscure domande de’ suoi sensi la sua casta ignoranza non sapeva come rispondere.

Ella aveva avuto tutte le purezze, tutte le idealità. Non pensava ella allora che le stelle non erano abbastanza caste perchè avevano il colore degli zecchini d’oro? E fu in mezzo a tanta poesia di aspirazioni, a tanta ignoranza della vita che Renata si [p. 30 modifica]offerse al primo uomo che le fece battere il cuore collo stesso slancio, colla stessa incoscienza di un bambino che offre le mani al vivido bagliore della fiamma.

Durante una stagione di carnevale uno degli amici di suo padre mosso a compassione della clausura dentro cui sfioriva quella pallida giovinezza offerse di condurre Renata in teatro nel palco di sua famiglia. Si dava per opera nuova Amleto e il protagonista, un giovane romagnolo dalla bella persona e dalla voce calda, trascinava all’entusiasmo tutta Ferrara. Come non doveva restarne profondamente colpita la fanciulla ignara, la fanciulla che a venticinque anni non conosceva ancora l’amore? Meraviglioso d’avvenenza nell’abito di velluto nero che secondava le linee eleganti della sua persona, con un gioiello iridescente di bagliori sul collo ignudo, colle parole di un gran poeta nella voce melodiosa, circondato dal delirio di una folla plaudente, tale le apparve; e Renata non vide in lui l’istrione, vide il principe.

La regale parvenza, quale non l’aveva sognata mai neppure nei più grandi trasporti [p. 31 modifica]dell’immaginazione, non doveva uscire più dal suo pensiero. Le ampie sale di Crevalcore, le vetuste arcate dei portici, le ombre misteriose e tragiche del cortile ebbero finalmente il loro eroe. Contemplando il cielo nelle notti serene Renata sapeva oramai chi doveva associare al suo lungo anelito amoroso.

Rapido era stato il divampare della scintilla; rapidissimo l’avvolgimento delle spire infuocate intorno all’anima inesperta. Già alla seconda volta del suo presentarsi nel palchetto la bellezza nuova della fanciulla e la sua appassionata attenzione avevano attirato gli sguardi di Amleto. Ben presto al famoso duetto con Ofelia egli si rivolse verso Renata con una dedica così palese negli occhi che la fanciulla credette di morire nell’estasi:

Dubita Ofelia
dell’aria che respiri
dello splendore del cielo
del profumo delle rose,
non dubitare mai dell’amor mio!

Galeotto fu il poema immortale. Tutta la passione di Shakespeare, tutto il fascino [p. 32 modifica]del principe danese materiati in una forma di singolare bellezza concorsero all’inganno. Renata amò Amleto.

Il vecchio palazzo vide nelle ore tarde della notte un’ombra vagare intorno alle sue alte muraglie, vide schiudersi una finestra e da quella scendere un filo che risalì subito dopo congiunto ad una lettera. La via era tracciata, amore la percorse fino in fondo.

Quando terminò la stagione di carnevale e che il teatro ebbe chiuso i suoi battenti, Renata scomparve dalla casa paterna. Ella credette di seguire la sorte di Amleto; ma Amleto rimase a Ferrara insieme al suo folle delirio. L’uomo a cui si era data per sempre si chiamava Giacomo Dena, era figlio di un cordaio di Forlì e all’infuori della sua prestante bellezza non possedeva altro.

Il risveglio fu brusco quando Renata si trovò di fronte alla meschina realtà spoglia di ogni orpello; ma ella amava. Ottenuto il consenso della madre, quasi inebetita dal dolore, si sposarono oscuramente nella chiesa di un villaggio e subito incominciò per Renata la nuova vita. [p. 33 modifica]

Conobbe allora il retroscena volgare di ciò ch’era stato il suo poetico sogno. Coll’abito di velluto nero e col gioiello iridescente chiusi in un baule in aspettazione di nuovi teatri era sparita anche la nobile eleganza del principe di Danimarca. Lungi dai lumi della ribalta e dall’applauso eccitatore, Giacomo Dena non era più che un uomo mediocre, molto mediocre, e quando Shakespeare non parlava per le sue labbra egli trovava difficilmente qualche cosa da dire. Mai forse la sorte si era servita di un trucco più ingannatore per aiutare l’illusione amorosa già in sè così mutevole se avviene il passaggio dal desiderio alla realtà.

Tutte le miserie del palcoscenico le furono note; quella vita fittizia di pochi istanti luminosi in teatro e di lunghe, monotone, triviali giornate trascorse nella freddezza repulsiva di una camera mobiliata, fra occupazioni povere e grette, nell’isolamento costante dei nomadi, nella tristezza profonda dei senza casa; quel piccolo mondo luccicante dei falsi bagliori di un coccio di vetro e così pieno di invidia, di maldicenza, di pettegolezzi, di tutto il rifiuto vile che [p. 34 modifica]quei poveri istrioni si lasciavano dietro, schiuma densa delle amarezze delle loro anime, resti tristi e miserevoli del naufragio di tante illusioni.

Nulla vi era di comune fra la povertà austera del suo palazzo paterno e la manchevolezza inorpellata di quelle abitudini randagie dove ad una mensa senza tovaglia imbandita coi piatti freddi di una trattoria di terzo ordine il finto principe chiedeva la forza necessaria per declamare dinanzi al pubblico la sue nobili ire. Nulla somigliava meno al nido d’amore che ella aveva sognato di quelle alcove raccogliticcie stinte e maculate da innumeri coppie venute prima, aperte alle innumeri coppie che verrebbero dopo; e se nei giorni iniziali la novità dell’amplesso potè tenerla in uno stato di commozione simulante l’ebbrezza, il profondo dissidio fra quelle due creature che un equivoco aveva congiunte per sempre scavava a loro insaputa il lavoro sotterraneo di mina.

Si direbbe che l’amore ha nei rapporti verso certi esseri la stessa facoltà della pietra di paragone per i metalli ed a questa [p. 35 modifica]prova la donna è quasi sempre la più sensibile come colei che nell’amore ripone la ragione prima della sua vita. Renata si era ignorata in modo assoluto per venticinque anni; solo conoscendo l’amore conobbe se stessa e fu come se una gran benda le cadesse dagli occhi.

Giacomo Dena, no. Egli non aveva in se stesso terreni inesplorati. La sua psiche semplicissima di animale inoffensivo e sano non gli permetteva di vedere che un sol lato della vita. Ogni sua facoltà era mediocre, mediocre l’intelletto, mediocre la cultura, mediocre la coscienza. I suoi trionfi di bell’uomo non lo inorgoglivano ma bastavano alla sua scarsa avidità di sensazioni. Rispondendo alla ingenua ammirazione di una avvenente fanciulla non aveva fatto altro che seguire l’istinto naturale; avvezzo alle finzioni della scena, la scalata ad un vecchio palazzo dove un cuore ardente di amore lo invitava non gli parve neanche un passo soverchiamente arrischiato. Leggermente, semplicemente, egli avrebbe risposto come don Giovanni ai rimproveri di Elvira: “Fu reciproco il diletto„. Egli poi, al contrario [p. 36 modifica]di don Giovanni, sposò. Con tale atto, il più solenne certo di tutta la sua esistenza, credette di essersi assicurata insieme alla rispettabilità anche la pace domestica; Renata gli sarebbe stata riconoscente per averla congiunta al suo destino di grande artista. Non era egli sulla via della celebrità?

Per qualche anno infatti la scialba monotonia della loro vita funambolesca ebbe il compenso di successi abbastanza lunsinghieri. Se l’arte vera non attendeva molto da questo uomo privo dei grandi slanci dell’anima, il dilettantismo superficiale che tante volte la sostituisce riconosceva in Giacomo Dena le qualità volute per piacere ad una discreta massa di pubblico. Egli era l’attore delle intelligenze pigre, dei cuori terra a terra, di tutti coloro cui fa paghi un bel gesto accademico. La sua azione sulla scena non traeva dai petti quella scossa profonda che si comunica alla folla quale onda magnetica e che fa sussultare mille anime come un’anima sola, ma si applaudiva la sua voce intonata e si ammiravano le pieghe del velluto sulle sue membra scultorie. La sorte tuttavia non doveva continuare ad essergli [p. 37 modifica]propizia; una malattia della gola tolse ogni fascino al suo canto e in seguito a diversi tentativi mal riusciti dovette rinunciare al teatro.

Da questo fatto la condizione dei due coniugi si trovò assai peggiorata. Alla lotta contro la miseria si unirono le mortificazioni dell’amor proprio. Il colosso di creta si sgretolava; Giacomo Dena disceso dal palcoscenico non era più altro che un pover’uomo, l’uomo di mediocre intelletto, di mediocre cultura, di mediocre coscienza. Renata lo conosceva ora in tutta la sua meschinità; e poichè la rivelazione di lui si era compiuta subito dopo la rivelazione di sè a se stessa, Renata si misurò, si confrontò, e dalla somma delle sue osservazioni trasse un sentimento nuovo misto di sdegno e di disprezzo verso l’imbelle che in un momento di follìa si era dato per marito.

Tale stato d’animo incrudeliva con l’amarezza di una bancarotta sentimentale la vita di ripieghi alla quale si trovarono condannati i Dena; privazioni, umiliazioni, sofferenze, debiti, mutui rimproveri, tutte le tristezze, tutti i compromessi della miseria [p. 38 modifica]piombarono su di loro. Bevvero alla fonte salmastra degli impiegucci implorati ginocchioni, seppero la durezza del pane guadagnato a frusto a frusto; ebbero freddo nelle luride stanze a buon mercato e nelle vie di città straniere dove non incontravano un volto amico. Così peregrinando travolti nel turbine cieco del loro destino colla incoscienza passiva di festuche portate dal vento finirono la loro giovinezza.

Nella disperazione di ogni tentativo esaurito essi erano finalmente tornati a Ferrara dopo tanti anni di assenza, sconosciuti, dimenticati, vinti, per andare a seppellirsi nel palazzo decrepito, proprietà del municipio, al quale l’ultimo marchese di Crevalcore lo aveva venduto ritenendo poche stanze di abitazione per sè e per la sorella finchè stavano nel mondo. Giacomo Dena aveva poi trovato in città un impieguccio misero ed oscuro, tanto da non morir di fame.

*

— Renata.... Renata.... Renata....

Il dolce richiamo della nutrice era [p. 39 modifica]riuscito a calmare le smanie della signora. Amica, parente, serva fedele, la donna che l’aveva nutrita del suo latte era rimasta nel crollo generale delle illusioni la sua sola confidente.

La nutrice conosceva tutti gli avvenimenti della famiglia e sapeva e rammentava cose che Renata nella sua lunga assenza aveva dimenticate. Reclusa volontaria, da mezzo secolo compenetrata colla storia più intima del palazzo e coi muri stessi dei quali le erano noti tutti gli angoli e i più segreti nascondigli, fatta — ella già prosperosa un tempo — rovina nella rovina, colorita del bruno grigiastro delle muffe, cogli occhi misteriosi di chi è avvezzo a guardare i fantasmi, col suo passo incerto di fiammella vagolante fra le tombe, non sembrava una persona bensì l’anima stessa delle vecchie muraglie, l’anima agonizzante di Crevalcore.

E Renata ai suoi occhi era sempre la bella bimba portata con tanto orgoglio sulle braccia. Invano nei capelli della signora correvano traccie di neve, invano intorno al profilo da regina ed alla bocca sdegnosa ed alla fronte altera l’età irriverente posava i [p. 40 modifica]suoi artigli. La nutrice non vedeva se non la persona magnifica di lei e curvandosele innanzi le baciava le mani fatte per il comando con un ardore di devoto per la madonna che saliva dalle mani a confortare il cuore esulcerato della infelice, sottile come un balsamo.

— Balia, quando mio fratello lo ha venduto il palazzo?

— È tanto tempo.... non ricordo.

— Testa pazza anche lui.

— Non lo dire, figliuola. Vi fu costretto.

Renata strinse le labbra con un movimento sprezzante mormorando:

— Comprende egli qualche cosa?

— Egli!!

La vecchia giungendo le palme al cielo, stralunando le pupille quasi per chiamar Dio a testimonio, soggiunse pianamente:

— Tutto, poveretto!

Renata già lontana col pensiero non parlò più.

La stanza dove si trovava, dove trascorreva in un ozio pieno di acrimonia le maggiori ore della sua giornata, era quella che meglio custodiva le traccie dell’antica [p. 41 modifica]fortuna. Collocata in un angolo del palazzo riceveva da due lati la luce per mezzo di ampie finestre e nel terzo lato aprivasi la caminiera con una meravigliosa cappa sporgente in forma di baldacchino, percorsa da fregi e da ornamenti nello stile ultimo del Rinascimento, bizzarra nel concetto, pregevole nel lavoro e penetrata da un intimo senso di grandezza che bastava da solo a conferire nobiltà all’ambiente. La decaduta signora vi teneva la sua poltrona che posta così sotto la protezione del baldacchino marmoreo acquistava una lontana apparenza di trono nella quale il suo stesso dolore e l’ineffabile rimpianto sembravano adagiarsi come in un sepolcro di famiglia.

L’increscioso pomeriggio già inoltrato e greve di una improvvisa cupezza del cielo annunciante prossimo un temporale pesava singolarmente sui nervi di Renata. Uscita la nutrice ella si pose a misurare la stanza con passi ineguali or rapidi or lenti, sollevando ancora tratto tratto un lembo di cortina per fissare le nuvole che si andavano accavallando sulla città sempre più minacciose e livide. Crescendo il tedio pose mano [p. 42 modifica]a un libro che si trovava in un piccolo scaffale accanto al muro; libro vecchio, libro noto, libro altre volte caro. Lo aperse o piuttosto si aperse da sè fra due pagine dove l’uso aveva scavato un solco e lesse sottolineate lievemente dalla matita queste parole: “Quello ch’io volevo, quello che io bramavo, era d’amare e d’essere amato„

Con un movimento di disgusto gettò via il volume. Qualunque accenno all’amore la esasperava oramai colla nausea di un cibo inacidito che ritorni a gola. Ella odiava l’infausta passione per tutto l’ardore che vi aveva consacrato un tempo, per tutte le sue speranze deluse, perchè era stato la rovina della sua vita; rovina intima, profonda, di cui ella sola conosceva i tortuosi meandri. E non unico Giacomo Dena l’aveva svogliata dell’amore: un altro, uno che le era apparso nei giorni della disperazione a guisa di salvatore, colui veramente le aveva avvelenata l’anima. Ella portava nel petto, a sinistra, una piaga bruciata che non dava più sangue ma sulla quale era scritto: Nulla. E Giacomo Dena pagava anche per colui.

Renata si pose ad ascoltare. Già la [p. 43 modifica]bufera investiva Crevalcore; gli usci privi di serratura sbattevano e cigolavano, il vento gemeva ingolfandosi nei lunghi corridoi, crepitavano le travi annose, qualche embrice staccandosi dal tetto precipitava nel cortile. Ben presto il solito stillicidio incominciò lungo i cornicioni del soffitto e i rigagnoli corsero attraverso l’ammattonato formando le solite pozze. Una voce bizzarra, una voce dove le note infantili si mischiavano a un tremolìo che pareva di pianto, sorse improvvisamente a recitare una cantilena melanconica interrotta dagli ululati del vento, soffocata a tratti dallo scoppio del tuono.

— Balia! — chiamò ancora Renata affacciandosi all’uscio — dov’è Meme?

— Lo odi figliuola?

— Sì lo odo. Dov’è?

— Sotto il portico, con questo tempo! Ma egli fa sempre così.

Lo stesso movimento di sprezzo che già aveva contratte poco prima le labbra di Renata a proposito del fratello, riapparve. Stava forse per soggiungere qualche cosa quando entrò suo marito.

— Bada — ella disse segnando [p. 44 modifica] le traccie d’acqua che Giacomo Dena si lasciava dietro sul pavimento.

— Oh! scusa.

Egli tornò indietro e riapparve pochi istanti dopo coi piedi asciutti.

— Un uragano tremendo.

Renata confermò l’osservazione con un cenno del capo senza parlare.

Giacomo Dena si accostò ad una delle finestre, una mano dietro il dorso, lisciandosi coll’altra i baffi grossi e spioventi di un grigio ancor bruno. Portava i capelli accuratamente pettinati con quella piega particolare che si chiama orecchia di cane; i suoi lineamenti regolari non avevano sofferto molto dagli anni; la pelle era florida, l’occhio largo e nero piuttosto opaco a fior di testa; solamente la persona che era stata così bella si era appesantita all’avvicinarsi fatale della cinquantina. Vestiva con grande proprietà, quasi con una specie di dignità rimastagli dalle antiche abitudini di fare il principe sul palcoscenico. I suoi calzoni a quadretti bianchi e neri ragnati in qualche punto cadevano con pieghe nobili, l’abito nero spazzolato tutti i giorni con attenzione minuziosa [p. 45 modifica] miracolosamente all’uso ed all’abuso; sopra un panciotto di colore sobrio attraversato da una catena di metallo niellato ciondolavano una medaglia commemorativa e un corno di corallo; un mosaico di Venezia nel quale brillava la cupola d’oro di San Marco faceva capolino dalla cravatta di un cupo azzurro. Le preoccupazioni del bell’uomo erano sopravvissute in lui al naufragio di tutto il resto.

Dal posto dove si trovava accanto al camino Renata vedeva per un quarto il volto di suo marito; vedeva la mano accarezzante i baffi con altalena automatica e la palpebra pesante ed immota sull’occhio fisso. Si levò in piedi di nuovo per dare un ordine alla nutrice; tornando trovò Giacomo Dena seduto, ma sempre con quella attitudine di assorbimento che gli era affatto insolita. Disse ancora Giacomo Dena:

— Che temporale!

Questa volta Renata rispose:

— Se ne vengono parecchi di egual forza tutto crollerà qui.

— Nella mia camera pioveva sul letto; ho dovuto rimuoverlo. [p. 46 modifica]

Un rumore fortissimo li fece sobbalzare entrambi.

— Un altro pezzo di tetto che se va, — disse Giacomo Dena.

Riprese il silenzio freddo, malinconico, rotto solo dal battere della pioggia contro i vetri.

— A momenti si fracasseranno anche quelli — osservò finalmente Renata.

— Meglio chiudere le persiane finchè cessi il furore della pioggia — rispose il marito.

Aperse una finestra, si sporse in fuori con lestezza, afferrò il pomello delle persiane e le tirò con violenza a sè; ripetè la stessa cosa coll’altra finestra e tratto poi il fazzoletto si pose ad asciugarsi accuratamente le braccia ed il capo.

La stanza adesso era quasi buia; attraverso le lame delle persiane chiuse filtrava appena la luce livida dell’uragano che il lampo solcava di guizzi sanguigni.

— Bisognerebbe accendere un lume.

— Non abbiamo candele in casa e il petrolio della lucerna basterà, se pure, per questa sera. [p. 47 modifica]

Seduti di fronte i due coniugi non parlavano più, non si vedevano neppure; solo a tratti, quando un lampo fendeva l’aria, la massa incerta dei loro corpi appariva un istante e allora l’uno guardava l’altro rapidamente. Erano avvezzi a questi silenzi d’odio intensi come i silenzi d’amore. Ancora la mano destra di Giacomo Dena appoggiata sul suo ginocchio usciva dalla massa bruna del corpo formando una macchia più chiara che attraeva particolarmente gli sguardi di Renata. Era la stessa mano dal gesto soave che accompagnava un tempo le parole di Amleto: Dubita Ofelia. Renata la conosceva anche troppo per averla vista dapprima idealizzata quando il gesto del principe le ritornava carezzevole nei sogni della notte, poi docile ed esperta alle più umili funzioni domestiche, ai bassi servigi di una famiglia povera, ed ognuno di tali ricordi la trafiggeva.

Per non vedere quella mano Renata si rovesciò indietro sulla spalliera della poltrona, ma la sedia dove stava seduto Giacomo Dena scricchiolava ad ogni istante. Perchè non sta fermo? — si chiedeva [p. 48 modifica]nervosamente Renata. Ella avrebbe voluto sottrarsi, sfuggire in qualche modo alla irritazione che le cagionava la presenza di suo marito e sembrava invece che un malefizio ve la tenesse avvinta. Che cosa faceva ora? L’odiata mano si era ritirata dal ginocchio; non indugiava essa intorno a un foglio di carta?... Lo scricchiolìo nuovo non era più quello del legno, bensì quello di una lettera spiegata e ripiegata con movimenti incerti.

Tutto il busto di Renata si portò in avanti.

— Che fai?

Giacomo Dena non rispose subito. Ella replicò irritata:

— Hai voluto chiudere, ora non ci vedi.

— Non piove più tanto, si può riaprire.

Così dicendo egli schiuse le persiane della finestra che aveva accanto scoprendo un cielo plumbeo, angosciato e sconvolto da solchi tragici come un volto disfatto da una grande sciagura. Alcune goccie d’acqua appesa alla intelaiatura dei vetri rimbalzarono sulla lettera rimasta nelle sue mani. [p. 49 modifica]Egli la asciugò accuratamente nello stesso modo che aveva asciugato se stesso poco tempo prima, indugiando con pazienza sulle parole della soprascritta per non cancellarle. Renata lo guardava fare, indifferente e altera.

— È una lettera di Scarpitti — disse Giacomo Dena senza levare gli occhi.

Renata non credette necessario di rispondere, ma suo marito dopo di avere voltato e rivoltato la lettera in tutti i sensi con un visibile imbarazzo soggiunse:

— Ti ricordi di Scarpitti?

— No.

— Era un mio compagno d’arte.... poca voce ma un talento indiavolato.... e svelto! Vive all’estero.... non so bene che cosa faccia; deve essersi portato in alto però.

— E con questo?

Con questo mi ha scritto.... oh! una lettera singolare, molto singolare.

L’agitazione di Giacomo Dena si faceva sempre più palese; mosse alcuni passi soffiando, inarcando le ciglia, sbattendo la lettera contro l’aria nella aspettativa forse che sua moglie se ne impadronisse evitandogli [p. 50 modifica]la titubanza dei preliminari. Disse finalmente:

— Te la leggo?

Renata si strinse nelle spalle acquiescendo in attitudine di fredda rassegnazione.

— Singolarissima, vedrai, qualche cosa di incredibile. Viene dall’Istria; è datata da Abbazia. Incomincia:

“Abbazia, 14 aprile.

“Carissimo amico.„

Si fermò un attimo cercando senza trovarlo lo sguardo di sua moglie; poi lesse lentamente con accento vibrato e caldo:

“Il motivo per il quale ti scrivo esce affatto dalle consuetudini; potrebbe essere un ottimo affare per me e per te, ma tanto riuscendo che no lo affido alla tua discrezione. Una fanciulla appartenente alla più alta nobiltà, ricchissima, si trova compromessa per opera di un principe di casa regnante. Tu vedi la situazione. Io sono incaricato di trovare subito un uomo autenticamente conte o marchese, meglio se attempato, il quale acconsenta a sposare la fanciulla ed a riconoscere il nascituro. [p. 51 modifica]Si tratta di una semplice apparizione nel giorno stabilito per la cerimonia, dopo la quale egli dovrà allontanarsi immediatamente rinunciando per sempre a qualsiasi diritto di convivenza o di autorità sulla signora. Il compenso di tale prestazione sarebbe fissato in cinquecento mila lire all’atto stesso del matrimonio; più cinquanta mila annue vita natural durante allo sposo.

“Per essere sincero ti dirò che ho già fatto indagini infruttuose in questi paesi. Esse furono sopratutto difficili per la legittimità del titolo sul quale non si transige e allora ho pensato che forse la ricerca sortirebbe miglior esito in una di queste nostre vecchie città italiane dove sono numerose le famiglie nobili andate in rovina. Ti prego di non scorgere in tali parole nulla di irriverente per la patria. Si tratta di uno scambio di servigi che sotto il suggello della secretezza non offende l’onore di nessuna delle parti. Dare il proprio nome al figlio di un re non è, mi sembra, degradarsi.

“Inutile aggiungere che tengo carta [p. 52 modifica]bianca e un largo credito presso una banca di Parigi per qualsiasi spesa o corrispettivo alle persone che mi aiuteranno in tale faccenda. Solamente occorre far presto perchè non c’è tempo da perdere. Maggiori particolari a tua richiesta. Per ora addio. Rispondi subito se hai qualche idea in proposito.

“Tuo per sempre E. Scarpitti.„

“P. S. Non so se possa aiutarti a facilitare la ricerca il sapere che la famiglia in questione è quella del principe Bazwill che venne l’anno scorso a Ferrara e si fermò alcuni giorni per ricerche artistiche. Mi raccomando segreto assoluto„

Quando Giacomo Dena ebbe finito di leggere non riconobbe più sua moglie davanti a sè, sulla poltrona sdruscita, all’ombra del vecchio camino. Il volto spettrale che lo guardava con pupille dilatate e nari frementi era quello di una Erinni o forse la testa di Medusa stessa cinta di serpi; nulla più di umano certo in quei lineamenti sconvolti, in quelle occhiaie accese da una passione che aveva riverberi di fiamma. [p. 53 modifica]Donna Renata levandosi in piedi, alta, potente di energia e di volontà, strappò la lettera dalle mani floscie di suo marito che non le oppose alcuna resistenza e s’avviò per uscire.

Sulla soglia ristette voltandosi a metà verso Giacomo Dena ma sempre senza guardarlo:

— L’hai ricevuta oggi?

— Oggi. Risponderò naturalmente che....

— Aspetta.

Questa parola uscì quasi sibilando dalle labbra di Renata nell’istante medesimo che lanciava su di lui uno sguardo rapido e investigatore. Per la durata di un secondo le due coscienze si scrutarono. Si compresero forse?

Giacomo Dena ebbe un sospetto e sbattè le palpebre col movimento di chi è percosso improvvisamente da un raggio di sole.

Volle balbettare qualche parola ed una domanda gli venne sulle labbra con espressione di cupidigia affannosa, ma Renata nell’atto di uscire colla lettera in mano riprese duramente:

— Aspetta. [p. 54 modifica]

E l’ingiunzione così pronunciata da lei parve il colpo di frusta che il domatore agita nell’aria.

*

In seguito al temporale la notte era scesa fresca e piena di stelle, invitante ai dolci riposi dell’aprile. Ma Renata non poteva dormire. Un violento bisogno di moto l’aveva cacciata fuori dall’appartamento, la spingeva attraverso le sale abbandonate di Crevalcore, sotto l’arco dei porticati dove palpitavano ancora i fantasmi della sua giovinezza. Aveva bisogno di sentirsi libera e sola davanti all’avvenire.

La guardavano forse i suoi antenati? La guardavano le anime semplici di Godelinda, di Bertilde, di Alfrida? O forse la seguivano timide e mute tra l’una e l’altra arcata le ombre evanescenti delle sue sorelle, le ultime morte che portavano vesti molli di bimbe e la lunga treccia sciolta sulle spalle? Ebbene, la guardassero. Ella si rizzava fiera tra mezzo a tutte quelle tombe. Ella stava per scuotere i pilastri della casa [p. 55 modifica]millenaria non per affrettarne la rovina ma per farla risorgere a nuova vita. Lei audace, lei forte, oserebbe ciò. Chi sbarrava la via alla sua grande azione? Un debole, un incosciente, forse un pazzo. Renata crollò le spalle, sdegnosa.

Ella non doveva preoccuparsene. Poichè due soli rampolli erano rimasti sulla miseria di Crevalcore, il più forte doveva sopraffare il più debole. Questo concetto antico del diritto urgeva il sangue rigoglioso della patrizia. Tra lei e suo fratello a chi apparteneva il maggiorasco ideale della famiglia? Era forse un uomo il piccolo essere mancato che si nascondeva alla vista de’ suoi simili o non era lei piuttosto che nascendo primogenita dell’ultima generazione aveva redato le qualità dominatrici degli avi? Quale scrupolo l’avrebbe arrestata nell’immenso orgoglio di cambiare la strada al destino?

Renata si fermò nel vano di un arco dal quale appariva uno sprazzo di cielo! Folle! A quello stesso posto ella aveva una volta accusate le stelle di essere troppo simili alle monete d’oro.... In pioggia abbagliante le [p. 56 modifica]vedeva ora cadere a’ suoi piedi, tante stelle tanto oro! Giù l’oro su Crevalcore, e fremessero alfine di letizia le vecchie pietre avvilite, ascoltassero dai profondi avelli gli eroi dimenticati! Ancora suonerebbe nel mondo il nome di Crevalcore; gli ultimi di questa forte razza uscirebbero dall’umile loro nascondiglio cinti di spada e sprone per le nuove battaglie. Invece del valore antico è l’oro che ci vuole per vincere oggi? Avrebbero l’oro.

Renata tendeva le braccia sotto la fuga degli archi quasi per afferrare un fantasma di dominio che le correva innanzi. A me Crevalcore, a me! Tutti i cavalieri dalle lucenti corazze, le dame austere, le fiere vergini della sua famiglia, ecco, sorgevano dal sonno mortale, le si stringevano intorno acclamandola. Non era dessa la salvatrice?

Renata appoggiò contro il granito di una colonna la faccia che le ardeva. Ricca, finalmente, ella sarebbe ricca!... E ciò non voleva dire solo spargere il denaro intorno a sè, acquistare il lusso, la bellezza, la gioia. Ella vedeva oltre. Ella sarebbe passata come la Nemesi in mezzo alla gente [p. 57 modifica]che l’aveva negletta o schernita povera, il suo apparire cinto di fasto e di vittoria avrebbe curvato al suolo le vipere della bassezza umana e premendo sovra esse il piede le sarebbe dato di cogliere in un istante la vendetta di tutta la sua vita. Questo pensiero la riempiva di straordinario orgoglio, di una ebbrezza senza confini. Troppo ricordava le donne che non avendo nè la sua beltà, nè la sua intelligenza, nè la sua nascita, solo perchè possedevano molto denaro l’avevano tenuta lontana disprezzandola, facendola impallidire di vergogna nelle sue vesti ritinte, nelle sue scarpe da poche lire.

E un altro pensiero ancora più profondo, più oscuro, la faceva sobbalzare nelle intime viscere. Non si sarebbe forse vendicata anche di colui che le aveva inaridito il cuore col tradimento amoroso? Oh! quell’uomo che l’aveva vista supplice, piangente, disperata, miserabile, e che aveva riso.... passargli dinanzi a quell’uomo, superba, invidiata, corteggiata, bella.... Sì, perchè essa sarebbe ancora bella, perchè la felicità del trionfo le doveva ridare gli splendori della giovinezza e perchè, col denaro, si è sempre belle. [p. 58 modifica]

— Un giorno, un giorno solo per la mia vendetta! — Renata osava domandarlo a Dio in quella notte tremenda in cui tutte le tentazioni la mordevano nel cuore devastato.

Essere bella un giorno ancora, e ricca, e invulnerabile per guardare in faccia la donna e dirle: sei sciocca; per dire all’uomo: sei vano e sei vile; per dire all’amore: sei la menzogna e ti disprezzo!

Tutta la nausea del suo misero passato le saliva alla strozza, la soffocava, la faceva urlare di dolore. Le memorie crudeli la sferzavano a guisa di scudisciate. Si rivedeva nelle ambigue stanze d’affitto alle prese coi ripieghi più volgari come l’infima delle femminuccie e rivedeva la cornice ributtante nella quale si era svolta la sua seconda illusione d’amore. — Ah! — fece coprendosi il volto colle mani e staccandole violentemente quasi a strapparsi una maschera che da troppo tempo la gravava. — Sarò finalmente io!

Un chiarore all’orizzonte venne ad annunciare prossima l’alba. Renata si strinse intorno al corpo il mantello bruno nel quale si era [p. 59 modifica]avvolta uscendo di camera e mosse dritta senza esitazioni alla camera di suo marito.

Giacomo Dena non dormiva o dormiva di un sonno leggero perchè si riscosse subito domandando chi fosse.

— Accendi il lume, dobbiamo parlare.

— Che ore sono?

— Lo ignoro. Dobbiamo parlare.

Giacomo Dena ubbidì. Accostò un fiammifero all’avanzo di candela che gli stava accanto e si pose a sedere sul letto comprendendo che il momento era grave.

— È per quella lettera, sai.... Ci ho pensato. Sarebbe la nostra fortuna.

— Sì, ma impossibile.

— Perchè impossibile?

— Non conosco nessuno che possa rispondere a quanto si domanda.

Renata con una mossa felina si appoggiò alla sponda del letto:

— Io lo conosco — disse.

Giacomo Dena fece un atto di stupore.

— E tu pure lo conosci.

Passò tra i due coniugi un brivido indescrivibile, come se una voragine si fosse aperta improvvisamente in mezzo a loro [p. 60 modifica]e la loro vita vi stesse sospesa per un filo. La donna era pallida, le mani contratte, un sorriso da sfinge misterioso e perverso. Egli, con un principio di congestione nella fronte dove le idee sembravano dibattersi a disagio brancicava il guanciale con un tremito di tutta la persona. Inconsciamente si erano avvicinati. Egli sentiva sulla sua pelle il soffio ardente di lei e intanto come se il magnetismo di quella volontà potente si fosse già comunicato alla sua intelligenza gli si delineava davanti agli occhi un volto noto. Quando ella lo ebbe compenetrato del suo proprio pensiero e lesse un nome nella immobilità stupita delle labbra, solamente allora gli alitò sulla faccia:

— Meme.

Giacomo Dena aveva pur visto il bagliore della folgore ma la percossa lo atterrì. Muto al primo istante, balbettò poi:

— Credi che accetterebbe?

— No.

— E allora?

Renata accentuò il sorriso misterioso e perverso sibilando:

— Può egli giudicare? [p. 61 modifica]

— Non saprei, ma se non vuole....

— Chi deve volere al mondo se non chi può?

Questa volta Giacomo Dena non comprese.

— Ascolta. Quando le madri fanno il dono di Natale ai loro bambini non li persuadono forse che lo stesso Gesù bambino è sceso dal cielo a portarglielo? Meme è un bambino. Se per certi lati il suo sviluppo cerebrale uguaglia quello degli altri uomini, il suo sentimento, la sua impressionabilità, il suo modo di vedere le cose, la sua stessa inesperienza, il suo nervosismo isterico ne fanno un essere d’eccezione, qualche cosa appunto tra il fanciullo e il maniaco.

Renata aveva pronunciata questa requisitoria di suo fratello con accento calmo, quasi dolce, con una grande naturalezza. Giacomo Dena tuttavia non ne afferrò il significato. Egli rispose:

— Se tu stessa dici che non accetterà....

— Non accetterà i termini della lettera ma potrebbe accettarne altri. Lasciando la sostanza invariata si varia la forma. [p. 62 modifica]

Ella continuava a esprimersi con una insolita grazia per non turbare la difficoltà dell’approccio, volendo essere ben sicura del suo mare prima di spiegare le vele. Giacomo Dena faceva sforzi inauditi per comprendere. Ella acconsentì ad aiutarlo:

— Poniamo che accetti, che diresti?

— Io?... Direi che è un sogno.

— Sta in noi a che il sogno si muti in realtà.

Lo guardò fisso e poichè le pupille di suo marito sfavillarono di improvvisa cupidigia Renata soggiunse:

— Basta che ci mettiamo d’accordo noi due.

— In qual modo?

— Mio fratello è incapace di afferrare la straordinaria fortuna. Tocca a noi ad afferrarla in suo nome.

— Ma in qual modo? in qual modo? — rantolò Giacomo Dena.

Renata trasse dal seno la lettera di Scarpitti e la spiegò lentamente sul guanciale appuntando l’indice sulle ultime righe del poscritto.

— Qui. Leggi. “Non so se possa [p. 63 modifica]aiutarti a facilitare la ricerca il sapere che la famiglia in questione è quella del principe Bazwill che venne l’anno scorso a Ferrara e si fermò alcuni giorni per ricerche artistiche„. Non ti ricordi? La figlia del principe è la signora che Meme conobbe in circostanze assolutamente romantiche, mentre i cavalli della carrozza avevano preso la fuga....

— Sì.... sì.... ricordo.

— E della quale si è innamorato pazzamente.

— Ricordo.... ricordo. Ebbene?

— Ebbene, questa è la chiave di vôlta dell’edificio che dobbiamo innalzare.

Grosse goccie di sudore spuntavano intorno alla fronte di Giacomo Dena. Non capiva ancora chiaramente il tenebroso progetto di sua moglie ma ne intravedeva le linee temerarie e insieme a un sentimento di ammirazione ne provava uno di sbigottimento. Ella seguitò impavida a svolgere il suo piano:

— Meme impressionato da quella avventura e colla testa piena di nuvole non ha fatto altro da un anno a questa parte che [p. 64 modifica]crogiolarsi nel suo amore solitario. È una testa esaltata, un mattoide.... no? E dunque dà retta. Nessuno parla di denaro. Scompare l’intermediario, il principe, la somma offerta. Chi scrive è la giovine principessa in persona e si rivolge come una dama antica al suo paladino chiedendo all’onor suo, alla sua devozione, alla sua fede, al suo eroismo questa prova sublime d’amore. A mia volta ti domando: Credi che egli non accetterebbe?

Siccome Giacomo Dena non rispondeva subito, Renata soggiunse:

— Ma con slancio, ma con entusiasmo, ma con gratitudine! Tu non lo conosci se dubiti un solo istante. Io ne sono sicura. Egli è stoffa da ciò.

— Ma come si fa? — balbettò alla fine Giacomo Dena.

— È tutta una trama da tessere.

— Con quale pericolo!

— Nessun pericolo. Ci si domanda un uomo e noi lo diamo.

— E se egli rifiuta?

— È quello che vedremo. Ad ogni modo val la pena di tentare. Non si arrischia nulla. [p. 65 modifica]

— E se siamo scoperti?

— Da chi? Non avrai paura di Meme mi immagino e quanto al principe è suo interesse non fare scandali. Del resto cosa dice la lettera? Si tratta di una semplice apparizione nel giorno stabilito. Lo puoi accompagnare tu; anzi sarà necessario per ritirare il denaro.

Giacomo Dena trovò un’ultima obbiezione paurosa:

— Ma chi si incaricherà della controparte in nome della principessa?

— Io.

— Tu scriverai la lettera?

— Sì.

— Un falso?

— Non è un caso contemplato nel Codice poichè non esiste truffa. I denari da una parte, l’uomo dall’altra — questo è il contratto. Dei mezzi per effettuarlo non si parla.

La cinica franchezza di Renata lasciava suo marito in una attitudine di stupore. Un dubbio vago si agitava tuttavia in fondo alla sua coscienza, dubbio che poteva essere tanto un avanzo di antichi sentimenti [p. 66 modifica]di rettitudine quanto un nuovo aspetto del timore che lo paralizzava. Si passò a diverse riprese la mano sulla fronte tergendosi il sudore e disse alfine:

— L’inganno c’è sempre però e l’ingannato è tuo fratello....

Un riso stridulo, sinistro, echeggiò nella camera.

— Osi parlare di inganno? Dimmi piuttosto dove non è l’inganno. Non mi hai ingannata tu? Non ti ho ingannato io? Non è un inganno tutta la vita? Saremmo qui a discutere se non ci fosse un inganno da riparare? Meme stesso che vuoi darti l’aria di compiangere non subisce continuamente l’inganno della sua immaginazione esaltata? Noi pure, ove rifiutassimo la singolare fortuna che ci si presenta, non cadremmo nell’inganno del nostro sentimentalismo e dei nostri pregiudizi? Che cosa può arrestarci? Il pensiero che Meme non deve saper nulla? Ma questa è la condizione indispensabile di successo. Non l’ho creata io. È la situazione che si presenta così. È Meme che non saprebbe arrivare dove io voglio; devo dunque portarlo. Qual danno gliene viene? [p. 67 modifica]Nessuno. Per contro si troverà ricco dall’oggi al domani e morti noi non avrà per unica risorsa il manicomio o l’ospedale.

Giacomo Dena tentò un’ultima obbiezione:

— Farai portare a un bastardo il nome di Crevalcore.

Magnifica di impudenza Renata rispose:

— Nel corso di dieci secoli non sarà la prima volta. Chi sa quante regine hanno introdotto un bastardo nella reggia! Dobbiamo avere scrupolo noi ad accogliere il figlio di un re?

Ad ogni argomentazione di sua moglie la coscienza titubante di Giacomo Dena cedeva di un passo. Rassicurato press’a poco su tutte le sue paure egli si abbandonava ora interamente all’ammirazione che gli destava tanta forza e tanta audacia.

Ritta ai piedi del letto donna Renata sembrava ingigantita di tutta l’altezza del suo orgoglio, e bella di passione, avendo senza accorgersene lasciato scivolare una parte del mantello mostrava nude le braccia meravigliose di statua greca. Da molti anni Giacomo Dena non vedeva sua moglie così. Si [p. 68 modifica]trovavano soli; la notte era alta; la fiamma della candela oscillava nel buio come una lingua di fuoco.

— Renata....

Pronunciò il nome con voce gutturale, un po’ ansante. Ella che aveva curvato la testa meditabonda la rialzò di scatto, vide luccicare una scintilla umida nelle pupille di suo marito e mormorò nel suo interno: imbecille. Poi si drappeggiò ratta nelle pieghe del mantello, andò a prendere il calamaio e un foglio di carta e disse duramente:

— Scrivi.

Coll’attitudine di un cane battuto Giacomo Dena si accomodò nel suo letto cercando un punto d’appoggio. Ella gli accostò il tavolino da notte e gli pose in mano la penna. Disse ancora: — Scrivi: io detto.

“Per una fortunata combinazione ho forse l’uomo che cerchi. Dico forse, perchè appunto in ragione delle difficoltà da te già esperimentate, alle condizioni proposte ve ne sarà qualche altra da aggiungere. Spero tuttavia che ci intenderemo. La nobiltà anzitutto è della più antica che si possa desiderare; l’uomo, meno vecchio di quanto si [p. 69 modifica]richiede, non giovane tuttavia, si trova in condizioni fisiche e psichiche che potranno controbilanciare la età ove questa sia desiderata a scopo di rendere vana qualsiasi intesa fra gli sposi. Non posso credere che un calcolo speculativo nella durata dell’assegno annuo possa influire menomamente sulle intenzioni del principe; anzi a questo riguardo occorrerà forse portare la somma complessiva da pagarsi all’atto del matrimonio da cinquecentomila lire al milione.„

A questo punto Giacomo Dena proruppe in una esclamazione di sorpresa altissima.

— È una delle condizioni che mettiamo noi — spiegò Renata colla sua voce ridivenuta dura e imperiosa.

— Ma non accetteranno.

— Accetteranno. La madre della fanciulla era una americana miliardaria. Il denaro non conta per questa gente e noi saremo più preziosi.

Ancora una volta Giacomo Dena si sentì piccino davanti all’audacia di sua moglie. Mogio mogio, ma con una grande gioia interna per la nuova piega che prendeva [p. 70 modifica]l’affare, seguitò a scrivere sotto dettatura la lettera a Scarpitti:

“Da cinquecentomila lire al milione. Oltre a questa piccola condizione differenziale è necessario che io sappia se la signorina interessata al patto è veramente la figlia del principe B.... che venne l’anno scorso a Ferrara.

“Appena tu risponda affermativamente ti farò sapere il nome dell’aspirante e le modalità da seguirsi per il compimento di tale impresa.„

— Basta?

— Basta. Metti la firma.

— Ah! tu credi veramente che tutto ciò potrà riuscire?... che noi saremo ricchi?...

La commozione faceva tremare la voce di Giacomo Dena; ne’ suoi occhi la scintilla umida riapparve, egli protese le braccia con una avidità di tripudio che lo rendeva quasi grottesco.

— Zitto! — fece Renata imperiosamente ponendosi l’indice sulle labbra. — Guai se trapelasse una sola parola.

— Te ne vai?...

— Devo dormire, non ho ancora chiuso [p. 71 modifica]occhio. Tu levati e va a impostare la lettera.

L’alta figura di Renata si dileguò con una leggerezza di ombra. Giacomo Dena toccandosi la fronte rimase collo sguardo fisso sull’uscio per dove era scomparsa sua moglie domandandosi se non aveva forse sognato.