Crevalcore/Parte seconda
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PARTE SECONDA.
MEME.
Il bimbo a cui avevano imposto i grandi nomi di Alfonso Maria Ercole Francesco Luigi, ma che tutti in casa chiamavano Meme con un vezzeggiativo che era al punto stesso affetto e compassione, portava dalla nascita la triste eredità di una razza raffinata fino all’esaurimento. La forza che dagli antichissimi avi si era venuta successivamente tramutando in fierezza dapprima, poi in magnanima nobiltà e in eleganza gentile, decadendo sempre più e indebolendosi vestiva nell’ultimo erede i caratteri di una sensibilità anormale, di una delicatezza che non era più nemmeno grazia ma gracilità morbosa.
E tolto Renata, anche tutte le sorelle che erano morte avevano portato come lui in presenza della vita fremente e attiva le loro vaghe sembianze di sogno, di creature irreali; così la leggenda espressa tratto tratto dalle donne del popolo che Crevalcore fosse abitato da fantasmi non era falsa che per metà.
Bimbo solo e malaticcio in mezzo a una famiglia tutta femminile, l’infanzia di Meme non si era segnalata con nessuna di quelle imprese turbolenti che accompagnano in linea generale lo sviluppo dei maschi. Egli aveva preso fin da piccino l’abitudine di parlare adagio, di camminare lievemente, di giocare tranquillo sotto le arcate dei portici o negli angoli delle camere immense dove il suo passo di uccellino spaurito non riusciva nemmeno a ridestare l’eco.
Vestito per molti anni di abiti ritagliati nelle gonnelline smesse dalle sorelle, col suo faccino pallido, coi grandi occhi estatici, non chiedeva mai nulla per sè e sgusciava inavvertito tra le persone grandi che facilmente lo dimenticavano.
Ma egli aveva una qualità rara nei bambini: non si annoiava mai. Pareva anzi che lo star solo fosse una condizione naturalissima al suo temperamento. E non era la sua una solitudine scontrosa e musona; al contrario si divertiva con una quantità di cose a portata dalla sua piccolezza. Una tana di formiche scoperta sotto a un pilastro del loggiato fu per tutta una stagione il suo maggiore divertimento. Non si stancava mai di seguirle nei loro giri e rigiri, rattenendo il fiato per non disturbarle; ed avendone una volta schiacciate inavvertitamente parecchie col panchettino sul quale stava seduto svenne quasi per la commozione.
Colla madre e colle sorelle era docilissimo; tuttavia la persona che meglio sapeva avvincerlo era la bàlia. Agli estremi confini della vita sorgono provvidenzialmente queste intime attrazioni per le quali l’anima tenerella in contatto coll’anima addestrata si sente protetta da una larga comprensione e dalla esperienza che rende indulgenti, mentre il vecchio stanco e addolorato può ancora una volta tuffarsi nell’illusione. Conosceva la bàlia una quantità di racconti, di quegli ammirabili racconti antichi che più non allietano la fanciullezza dell’oggi e che tanta luce di poesia sanno infondere nelle piccole menti. Mentre la bàlia raccontava, Meme faceva suo tutto quel mondo di Fate, di animali parlanti, di alberi che cantano, di fontane che gettano perle, di frutti d’oro, di farfalle di smeraldo; e quando tornava a’ suoi giuochi solitari, la mente popolata di quelle vaghe creazioni dava un linguaggio agli esseri inanimati. Egli parlava colle formiche, coi fili d’erba, cogli atomi danzanti in un raggio di sole, colle tele trasparenti che i ragni tessevano negli angoli abbandonati.
No, Meme non si annoiava mai. Anche i sassolini che egli raccattava nel cortile, anche le chiocciole dall’architettura bizzarra avevano qualche cosa da dirgli, qualche cosa che Meme raccoglieva nel profondo mistero della sua anima di bimbo.
La prima volta che gli mostrarono uscite dal foro di una cannuccia le bolle di sapone dipinte con tutti i colori dell’iride e le vide, librate nello spazio, assurgere lentamente al cielo, la sua gioia fu clamorosa. Rideva, piangeva, batteva le manine, ma come se anche il piacere eccedesse la resistenza de’ suoi nervi quella crisi finì con un leggero svenimento.
In casa lo curavano affettuosamente ma col criterio empirico della medicina di una volta. La bàlia gli triturava bensì i gusci d’ovo nella zuppa per rinforzagli le ossa e la mamma gli somministrava certe polverine suggerite dal dottore: ma la ginnastica, ma le passeggiate, ma la cura d’aria, di sole, di moto erano affatto sconosciute agli abitanti di Crevalcore. Gli adulti uscivano una sol volta alla settimana, di buonissima ora, per andare alla messa. Meme non usufruiva neppure di quella risorsa. Dal giorno del suo battesimo non aveva ancora varcato a sei anni la soglia del palazzo, temendo tutti per lui un filo d’aria o un raggio di sole.
Gli esercizi fisici che le sue educatrici non sapevano e non potevano imporgli gli erano più che mai contrari per la natura stessa del tuo temperamento da contemplatore, così la gracilità naturale non sorretta da opportuna educazione divenne abito fisso e lasciò che si sviluppassero tutti i marasmi, tutte le atonie di una misera costituzione.
Correva invece del corpo la fantasia di Meme. Quando la stagione non gli permetteva più le lunghe soste sotto i portici e nelle vaste camere per il gran freddo si congelava il fiato sulle labbra, Meme andava a rifugiarsi in cucina dove attorno al povero focolare la bàlia, con una fede e una pazienza da vestale, tentava di tenere sempre vivo il fuoco.
I fanciulli del secolo venturo domanderanno: che cosa è il fuoco? E non lo sapranno, e non vi sarà alcuno al mondo capace di narrare questa grande poesia giunta al suo tramonto. Più alcuno, mai, accoccolato sotto la cappa di un camino potrà ridire la bellezza della fiamma. La conosceva Meme. Erano note a lui tutte le forme del fuoco, dalle lingue rosse sprizzanti dal ceppo all’alta catasta ardente in cui ruggivano voci di mostri invisibili, dalle scintille moribonde ricorrentisi con bagliori azzurrognoli lungo il fumaiolo ai mille lumicini che punteggiano i tizzi anneriti con tremolii di stelle e che la bàlia chiamava “le lampadine delle monache che vanno a letto„. — “Deve arrivare qualcuno„ diceva ancora la bàlia quando i ceppi troppo verdi crepitavano; e quantunque in realtà nessuno arrivasse, era sempre con una grande trepidazione che Meme aspettava l’ignoto visitatore.
Le lagrime della madre, le sofferenze delle sorelle, erano tenute nascoste con delicato sentimento al povero piccino. Mentre laggiù nelle grandi sale deserte si piangeva in silenzio, Meme viveva la sua vita a parte, la sua dolce e serena vita fuori del mondo, in groppa ai sogni. Quante cose vedeva egli nella fiamma intanto che la bàlia gli narrava le avventure del principe perseguitato o di Tredicino, venuto ultimo dopo i suoi dodici fratelli! La fiamma era viva, la fiamma si muoveva, parlava, cantava, ed era giovane, ed era bella. Un soave calore lo penetrava tutto; le guancine per solito pallidissime prendevano dal fuoco riflessi ardenti, gli occhi gli brillavano e attraverso le piccole mani tese il suo sangue anemico sembrava farsi più vermiglio, del vermiglio delicato che traspare attraverso il vetro di una lampada accesa.
Nè andando a letto cessava il lavorio del cervello. Quando le pupille chiuse non vedevano più nulla, la fantasia continuava a vedere ancora. Nel buio fitto della camera, rannicchiato sotto le coperte, Meme che non facendo nessun moto non era mai stanco dava corpo e sembianze ai racconti della nutrice. Egli edificava coll’immaginazione il palazzo del Re, il castello del Mago, la Foresta incantata, e si aggirava e viveva in questo mondo della sua fantasia dove nessun ostacolo frenava i suoi slanci, dove l’assoluta mancanza di tutto ciò che è preoccupazione materiale gli spianava la via al volo sempre più libero, sempre più alto. Come non avrebbe egli preferito al mondo reale quel mondo infinitamente superiore? quel mondo dove non si urtava in nessun spigolo, dove non si cadeva, dove non si prendevano medicine, dove non vedeva piangere?
La veglia, la terribile Sirena della notte, allacciava il bambino nelle sue maglie incantate, lo attirava nel fondo dei misteriosi mari che l'allucinazione popola di una flora meravigliosa, dove la chimera tuffa le ali iridescenti, da cui sorge la visione magnifica e perturbatrice; e il mattino, il sano e roseo mattino che sorride ai bimbi robusti trovava Meme estenuato e finalmente stanco.
Allora lo tenevano a letto per farlo riposare, perpetuando il circolo vizioso nel quale si aggirava come un povero uccellino che l’amore cieco di un fanciullo costringe in una gabbia troppo angusta.
Quando fu il tempo di mandarlo a scuola, la madre, che già aveva paventato per Meme il sole e l’aria, temette la severità della disciplina, il contatto degli altri bimbi, il peso obbligatorio del programma e giudicò miglior partito affidarlo alle cure di un vecchio prete della parrocchia. Ben coperto, con mille ingiunzioni e raccomandazioni, Meme usciva finalmente dal tetro portone accompagnato dalla bàlia la quale non lo lasciava se non dopo averlo rimesso nelle mani stesse del sacerdote.
Questo passaggio dalla casa alla canonica, dall’austerità del vecchio palazzo al misticismo della chiesa, ebbe per risultato di arricchire di nuove visioni la fantasia di Meme. Ai personaggi delle favole si aggiunsero quelli della Storia Sacra; il suo mondo ideale si allargava. Conosceva non più di dieci persone vive ma aveva un popolo di fantasmi e di morti a sua disposizione.
Anche l’ambiente della chiesa, pesante per lo più ai fanciulli della sua età, e l’immobilità forzata delle cerimonie religiose lungi dall’annoiarlo lo interessavano moltissimo. Tutto ciò che vi è di immaginoso e di poetico nel culto cattolico gli sembrava immensamente bello. Aveva incominciato appunto le sue visite in chiesa nel mese di maggio, il mese dedicato alla Vergine, quando la navata del tempio scompariva sotto festoni di velo cilestrino e roseo con frangie d’argento e sull’altare della Madonna odoravano dai loro alti steli i fiori dell’ireos pallidamente tinti di viola. La prima volta che si trovò in quella luce discreta, in mezzo a quei veli, a quelle cappellette chiuse, alle lampade, ai candelabri dorati, ai volti sorridenti delle sante e degli angeli dipinti sulle pareti, Meme credette davvero di veder dischiuso un angolo del paradiso e nelle nuvole dell’incenso attraversate dal profumo sottile dell’ireos aspirò per la prima volta l’ebbrezza.
Vennero poi le preghiere, le dolci, le tenere, le misteriose preghiere miste di slanci d’amore e di parole oscure delle quali il significato gli sfuggiva interamente ma che gli lasciavano nelle orecchie un suono musicale delicatissimo. Il prete suo maestro voleva che assistesse alle litanie che si cantavano prima di sera in onore della Madonna; e quando dalla turba dei devoti prostrati a terra saliva lento e misurato il canto liturgico, e le parole tenere ed oscure si libravano nell’aria: rosa mystica, turris eburnea, turris davidica, piccole lagrime scendevano sulle guancie del fanciullo e il cuore gli si struggeva in una dolcezza senza nome.
— Mio santerello — diceva la vecchia bàlia stringendoselo maternamente al seno poichè lo amava come se anche a lui avesse dato il proprio latte — mancava solamente un santo ai Crevaleore e sarai tu!
La buona donna in ciò si ingannava. Neanche la religione poteva fissare stabilmente la fantasia di Meme. Più che ad una fede luminosa e inconcussa l’anima sua anelava ad una idealità vaga, ad una specie di esaltazione che lo conservasse in uno stato perenne di entusiasmo e di slancio. Non chiedeva la realtà, non aveva sete di verità, gli bastava il sogno.
Era in lui un bisogno prepotente di vivere oltre la vita giornaliera, di sforzare i confini visibili delle cose, quasi gli fosse increscioso fare quello che tutti fanno ed, o eccessivamente timido o eccessivamente ardito, passare al di sopra del mondo per raggiungere una sfera iperbolica nota a lui solo. Ma questa incapacità di vivere come gli altri uomini lo rendeva inetto a comprendere le più elementari nozioni dell’esistenza e mancando agli altri lo strumento per poterlo misurare in tale condizione eccezionalissima veniva presto fatto di giudicarlo un mattoide od uno scemo.
Non così veramente concludeva di lui il vecchio prete che lo osservava da vicino; ma se più temperato riusciva il suo giudizio, uguale era il rammarico per le bizzarre deficenze che di quella creatura a cui non facevano difetto i doni principali della intelligenza si potesse dire come di un mucchio di ottimo materiale col quale è impossibile edificare nulla perchè manca il cemento.
*
Quando Meme uscì dall’adolescenza e il vecchio prete non ebbe più nulla da insegnargli, convenne pure mandarlo al pubblico Liceo. Egli aveva molta volontà di istruirsi e finchè l’insegnamento restava teorico non si avvertivano troppe differenze tra lui e i suoi condiscepoli; nel campo delle astrazioni anzi li superava; lo scoglio era l’applicazione pratica. Una timidezza straordinaria lo faceva confondere al più piccolo appunto; una distrazione invincibile lo isolava continuamente. La memoria, meravigliosa sotto certi rapporti, gli giuocava tiri atroci nelle cose più comuni e mentre comprendeva con facilità non riusciva mai a spiegarsi in modo soddisfacente. Avvezzo a ragionare da solo, quando gli accadeva di dover comunicare ad altri i suoi pensieri non trovava la parola adatta. Era la sua mente simile a un castello eretto sopra uno scoglio, visibile in lontananza ma senza strada per accedervi.
Ed era anche simile la sua situazione a quella di un fanciullo cresciuto fino a quindici anni in un carcere e poi lanciato nel mondo. Tutto ciò che vedeva gli appariva diverso di ciò che aveva fino allora pensato. Per un uomo normale la conseguenza sarebbe stata di un semplice ritardo; Meme invece non poteva uscire dal cerchio magico e fatale delle sue illusioni. Il suo vero mondo era quello che aveva dentro di lui, sorto da una condizione speciale del suo spirito, alimentato dalla vita rinchiusa, dalla solitudine, dalle circostanze bizzarre in cui si trovava la sua famiglia. Giammai egli si sarebbe staccato da’ suoi sogni, dovesse naufragarne qualsiasi verità.
In mezzo alle donne che lo avevano allevato, senza compagni, senza amici, egli non conosceva nessuna ipocrisia, nessuna malignità. Il suo cuore della purezza dell’acqua di fonte si specchiava nell’affetto malinconico della madre e nella devozione ardente della vecchia bàlia. Le sue stesse sorelle, larve di crisalidi che non sarebbero mai farfalle, non avevano portato nella sua vita la nota fremente dalla giovinezza rigogliosa. Per questo i primi giorni del Liceo gli riuscirono crudeli e più ancora che crudeli incomprensibili.
In qual modo avrebbe egli potuto comprendere le celie volgari delle quali fu oggetto, subito, al suo primo apparire, solo perchè i suoi abiti raffazzonati in casa non seguivano il modello comune? e perchè la sua figura, la sua voce, il suo modo di parlare furono oggetto di tante risa? Egli portava sopra una persona meschina una testa sproporzionata, un volto a cui lo sguardo fisso e le sopracciglia troppo arcuate davano una espressione perenne di stupore che i suoi condiscepoli si affrettarono a interpretare nel modo peggiore. La sua voce esile e tremolante aveva le note scordate di un vecchio violino e la singolare timidezza di tutti i suoi atti lo induceva qualche volta ad una lieve balbuzie che poteva sfuggire a molti, non alla maligna semente che popola i banchi di una scuola.
Ma che cosa sapeva egli di tutto ciò? Con quale filo avrebbe allacciato la sue visioni impalpabili ed alate al basso formicolio di passioni che gli si agitavano intorno? Con quale misura avrebbe pesato i sentimenti degli altri se il suo stesso sentimento sfuggiva a tutte le nozioni della realtà e non era il contesto della sua vita che il pulsare solitario di un’anima?
No, Meme non comprendeva perchè i suoi condiscepoli trovassero il loro maggiore diletto in una continuità di esercizi violenti che incominciando dal giuoco andavano fino alla provocazione ed alla rissa con un tale sfoggio di forza fisica e di temerità violenta da sentirsene sconvolto in ogni fibra del suo delicato organismo di sognatore.
Nè parimenti gli riuscivano comprensibili le soperchierie tra compagno e compagno, l’invidia, la mala fede, la menzogna, l’inganno. Il suo sguardo più che mai attonito si posava sulle gherminelle che gli scolari indisciplinati si permettevano di fare al professore in mezzo all’acquiescente silenzio degli altri e diveniva vitreo addirittura, rifugiandosi in una immobilità di morte, quando una parola brutale sibilava di crocchio in crocchio provocando oscene risa.
Così Meme che era vissuto solitario fino allora nel fantastico palazzo de’ suoi avi si trovò più solo che mai in mezzo ai giovinetti della sua età; solo questa volta, irremissibilmente, solo per sempre, giacchè egli si rifiutava ad afferrare i punti d’appoggio mercè i quali tutti gli uomini si intendono fra di loro. Dinanzi al ponte gettato sulla fiumana della vita che ogni essere umano attraversa ansioso e curioso Meme si ritraeva inorridito. Giammai, giammai!
Ma se egli non comprendeva i suoi compagni, essi pure, gli stolti, i maligni, i volgari o ignari ragazzacci che deridevano sfuggendo la sua compagnia persuasi con ciò di infliggergli una grande privazione, non sapevano, non immaginavano neppure quanto egli vi fosse indifferente. Sembravano tutti insieme un gigante che alza una massa ciclopica per schiacciare un moscerino e intanto che il gesto potente si delinca nell’aria, intanto che il colpo cade e rimbomba, il moscerino con un battito d’ale è già lontano.
Per sfuggire all’urto della folla Meme non aveva da far altro che schiudere la porta d’oro de’ suoi sogni. Era quello il suo rifugio, la sua forza, la sua fede. In quel mondo egli era re. Chi poteva contrastargli il dominio sconfinato dell’azzurro paese dove vive la Chimera? Chi poteva raggiungerlo e farlo soffrire in quel dominio assoluto della bellezza dove la contemplazione pura è scopo a se stessa e semplice ragione di vita? Là, nel suo mondo, tutte le vie erano aperte fra lui e la natura, fra lui e l’idea. Parlava ed era inteso. Ascoltava e mille cuori si aprivano intorno a lui, vibravano e palpitavano con lui. Un’onda di voluttà gli gonfiava il petto nel possedimento assoluto di tutto ciò che egli amava: silenzi d’ombre, scintillii di raggi, slanci generosi, ardore di darsi, di bruciare tutto, di morire e di finire nell’amplesso di una nobile fiamma.
Poeta, egli avrebbe con volo d’aquila segnato nuove vie al pensiero; ricco, il suo altruismo si sarebbe rivolto a sviluppare dalle anime i migliori sentimenti; forte, il suo sangue e i suoi muscoli come da naturale calamita attratti avrebbero fecondato le zolle dei martiri e degli eroi. Ma egli era un povero disgraziato fanciullo, uno strano fanciullo che lo squilibrio dei nervi rendeva impotente all’azione e non riuscendo a operare secondo i propri ideali e non volendo cadere zimbello degli altrui, ardeva solitario e non unico, lampada votiva misteriosamente accesa fra gli uomini.
Che avrebbe fatto nel mondo propriamente detto, nel mondo degli affari e delle ambizioni, egli che a quindici anni usciva per la prima volta dalla famiglia e non aveva mai presa in mano una moneta e conosceva le parole per averle lette nei libri più che per il loro valore nella vita?
Fu in quell’anno della ammissione di Meme al Liceo che Renata si innamorò di Giacomo Dena. L’anno appresso la madre moriva e Meme rimaneva abbandonato alle cure della nutrice. Questi avvenimenti influendo sulla sua sensibilità malaticcia affrettarono lo sviluppo di qualche attacco epilettico che determinarono la sua vocazione alla solitudine apportandovi un elemento nuovo di malinconia nel quale si agitavano pure oscuramente le voci della giovinezza in fiore. La sua castità che era insieme educazione e temperamento aveva ricevuto una fiera scossa, un giorno.
Era d’inverno. La nebbia che copriva da qualche tempo la città rendeva più scuri, più tetri, più inquietanti i neri angiporti che a Ferrara inducono pensieri di agguati perenni o di misteriosi convegni. Tornando dal Liceo a casa sull’imbrunire di quelle brevi giornate di dicembre, Meme, che non aveva posto mente ad una forma femminea accoccolata nell’ombra, si trovò preso quasi a tradimento fra due braccia audaci e nella rapida lotta che ne seguì il disgusto fu così profondo che egli doveva per tutta la vita riportarne l’amarezza come di fonte intorbidata alle sue scaturigini.
Il periodo aperto da quella volgare avventura fu dei più tristi per Meme. Nel suo regno incantato, nel meraviglioso giardino dove fiorivano i rosai del sogno, era penetrata la biscia immonda. Egli poteva bensì scacciarla ma non distruggerne la memoria. Che è il dolore se non il ricordo sempre presente del male? Quegli solo è felice che non sa. La tristezza umana non ha altra origine che questa.
Col Liceo finirono gli studi regolari di Meme. Crescendo nell’età lo squilibrio che faceva di lui un essere a parte gli rendeva sempre più impossibile la vita in comune, e il progetto di formarsi una carriera, se pure era mai stato posto, dovette cadere dinanzi a ostacoli insormontabili. Egli non aveva d’altronde nessun bisogno. Un anacoreta non consumava di più.
Renata era sempre lontana. Le altre sorelle morendo a poco a poco segnavano colle loro bare le pietre miliari di quella singolare giovinezza. Ogni due anni circa la nutrice cuciva una cravatta nera per Meme e tutti e due insieme nella gran sala deserta del palazzo recitavano le preghiere dei morti.
Successivamente Meme si appassionò nella lettura dei grandi autori latini, poi nella storia dell’Età di mezzo, ed ebbe un lungo periodo di interessamento per la cultura delle civiltà orientali che andava a rintracciare nella biblioteca di città, sempre così solitario e sconosciuto che nessuno, neppure i bidelli, ponevano mente a lui. Si intende che tali studii non miravano ad alcuna applicazione pratica. Ebbe poi anche un lungo periodo di sconforto durante il quale non aperse più un libro. Stette allora mesi e mesi senza udire altra voce che quella della nutrice.
Ma la sua bella vita interiore non subiva interruzioni. Fin dalla triste avventura dell’angiporto, Meme aveva giurato a se stesso di non amare mai se non in modo alto e puro.
Intorno a questo concetto di un amore fuori del comune egli giunse ad allacciare tutti i suoi sogni. Non sapeva immaginare la donna se non circonfusa da una aureola: angelo, dea, regina, santa. Le vie solite che conducono all’amore lo trovavano refrattario. Preferiva la sua solitudine casta ad una cattiva imitazione dell’ideale tanto vagheggiato. Piuttosto nulla che press’a poco. Ed era felice in questa aspettativa spoglia di impazienza; il suo temperamento di contemplatore vi si appagava, mentre la fantasia vagabonda aggiungendo ogni giorno qualche cosa, mutando e rimutando, gli dava nell’inerzia l’illusione del moto. Gli anni stessi che passano fatali a coloro che vivono in mezzo agli uomini lo rispettavano serbando intatta la sua illusione.
Quando Renata dopo vent’anni di pellegrinaggio tornò alla casa patema disillusa, battuta, vinta, trovò il fratello quasi eguale al giorno in cui lo aveva lasciato. Fanciullo sembrava un vecchietto, uomo aveva l’apparenza di un fanciullo. Il volto imberbe, l’occhio attonito, le membra sottili erano sempre quelle di un adolescente. Appena i suoi capelli erano incanutiti, ma per un bizzarro contrasto la bocca che aveva bellissima e adorna di un ineffabile sorriso portava l’ombra bruna di una nascente lanuggine.
L’amore alto, eccezionale, inarrivabile, l’amore tanto sognato, giunse a Meme che già compiva i trentanove anni. Tutta la sua giovinezza era trascorsa nella preparazione. Egli era oramai compenetrato, pervaso dal sogno, egli era il sogno stesso incombente sulla vita, signore degli avvenimenti; così quando vide per la prima volta la donna ideale non fu nemmeno certo che fosse la prima volta, tanto quell’immagine era famigliare alle sue visioni e amata e adorata assai prima che vestisse terrena forma. La vide in mezzo a una nuvola di polvere trasportata al trotto di due focosi cavalli e siccome era molto bella, vestita di color di cielo, con un nimbo di capelli d’oro che le formavano intorno al capo una aureola scintillante, la realtà fu subito investita da quelle apparenze fantastiche ed assurse per lui al mistero di una rivelazione.
Sapere poi che si trattava di una principessa, quanto dire una creatura inaccessibile, non fece che confermarlo nella sua grande chimera. Non era essa l’Attesa?...
Per otto giorni continui fu facile a Meme di pascere la propria illusione. Egli si trovava sempre sulla strada percorsa dall’equipaggio del principe Bazwill dove la bellissima Elganine raggiava come sovrana in trono, come Dea fra le nubi, come angelo nel cerchio della propria aureola. Egli se ne stava per ore ed ore al varco, pago di veder trascorrere in una rapida corsa la fulgida apparizione, non chiedendo altro, non aspettando altro. E per la durata di quegli otto giorni gli parve l’esistenza un continuo tripudio, un’estasi deliziosa, quasi un rendimento di grazie all’Essere supremo che lo aveva conservato in vita fino a quell’ora.
Fu all’ottavo giorno che i cavalli del principe impennandosi improvvisamente fecero gettare alla fanciulla un grido straziante, grido che Meme sentì attraverso i lombi con una acutezza di lama diaccia e che lo fece balzare incontro al pericolo senza chiedersi un solo istante se egli fosse da tanto da frenare due cavalli spauriti; balzare lo fece nella visione eroica di affrontare la morte per lei, sotto i suoi occhi, compiendo intero il suo sogno di dedizione. Non rimase che ferito; ma il suo sangue sprizzò sulla veste color di cielo e mentre veniva raccolto tramortito nella carrozza udì la dolce voce pronunciare parole soavi e il bel volto angelicato nella pietà chinarsi commosso su di lui. Un sottile profumo senza nome fu l’ultima percezione che giunse a’ suoi sensi affievoliti, dopo di che perdette conoscenza affatto.*
L’incontro fantastico e un po’ romantico non ebbe come non poteva avere nessuna continuazione. Il principe ringraziò affabilmente il generoso sconosciuto che aveva esposta la vita con tanta abnegazione, lo fece ricondurre a casa nella propria carrozza e il giorno appresso lasciò Ferrara per sempre insieme alla figlia; ma l’incidente, fugace per i nobili personaggi che l’avevano in certo qual modo provocato, era ben fatto per lasciare orme incancellabili nella mente del solitario sognatore.
Senza la ferita Meme non ne avrebbe forse parlato in casa, mosso da quel pudore ombroso che fa nascondere gelosamente i primi palpiti dell’amore. Come avviene però che pur tentando di celarsi il cuore ingenuo si tradisce ad ogni istante, l’impressione ricevuta dalla celeste apparizione non rimase a lungo un mistero per i rinchiusi di Crevalcore; così se Renata aveva sdegnosamente sorriso alla dabbenaggine del fratello era stata anche pronta ad impadronirsene per piegarla al servizio della trama che doveva condurla all’appagamento della sua ambizione martoriata.
Dal momento in cui uscì dalla sua mente dominatrice il dettato della lettera che tesseva la prima maglia dell’inganno, Renata non ebbe un solo pensiero che fosse di esitazione o di pentimento, ma solo una intensa aspettazione muta e ferma. Invano suo marito ripreso tra gli scrupoli e la paura nel periodo di rilassatezza che accompagna l’attesa andava suggerendole questo o quel pericolo. Renata apparteneva a coloro che vanno dritto allo scopo, che non hanno nè paura nè pietà nè ritorno su se stessi e tacciava di vigliaccheria i prudenti riserbi di Giacomo Dena, pavido di conservare la sicurezza della sua miserabile esistenza, mentre ella avrebbe dato mille vite per un istante di trionfo!
La risposta giunse alfine confermando appieno la supposizione che trattavasi appunto della figlia del principe Bazwill e che la conclusione dell’affare si presentava più che mai urgente in vista di ogni altro tentativo fallito. Seguivano spiegazioni e particolari precisi. Era dunque il momento di mettersi all’opera senza indugio.
— Che diremo a Scarpitti? — domandò Giacomo Dena.
— Gli dirai che la traccia del piano è un nostro segreto. Tenga pronto il denaro per le spese occorrenti. Fra una quindicina di giorni credo saremo all’ordine. Intanto gli manderai la lettera da impostare a Fiume.
— La lettera?
— Sì, la lettera che deve giungere a Meme.
— E che....
— E che farò io.
— Ma riconoscerà la scrittura.
— Sei molto ingenuo.
— Questo progetto mi fa pensare ad una scala appoggiata alle nuvole.
Le labbra di Renata si schiusero a un sorriso ambiguo.
— È l’altezza che ti dà la vertigine? Io non ho mai respirato tanto bene come in questi giorni in cui mi sembra di essere sospesa nel vuoto.
— È pazzesco, — disse ancora Giacomo Dena crollando lentamente la testa pettinata con cura.
— Tutte le grandi imprese prima di riuscire sembrano pazzesche ai timidi. Il mondo sarebbe tuttora in fascie se qualche ardimentoso non avesse imposto agli altri lo slancio delle sue idee — (e soggiunse blandamente quasi con una intenzione di carezza della quale ella sola misurava la portata) — Ti farò ricco tuo malgrado.
Intanto che si ordiva intorno a lui la tela dell’inganno, Meme, assorto nel pensiero del suo amore impossibile alternava ore di felice ebbrezza ad uno stato di malinconia rassegnata e soave che era forse più dolce ancora ed in più intima armonia colle attitudini del suo spirito. Egli aveva trovato una raccolta di versi amorosi di poeti anteriori a Dante per la lunga abitudine di fondere il suo sentimento con quello degli antichi si era tutto compenetrato della tristezza di una canzone di Odo da Messina che incominciava:
Oi lassa tapinella. |
e la ripeteva senza stancarsene mai con quella sua voce tremula, lungo i porticati, godendo di poter soffrire anch’egli insieme al poeta del mal sottile d’amore.
Era un mattino di maggio sereno, incantevole, e Meme stava appunto scandendo tra sè i versi melanconici quando la nutrice con passo affrettato e volto stupefatto venne a dirgli che c’era dalla posta una lettera per lui. Il passo affrettato e lo stupore trovavano la loro spiegazione nel fatto che Meme non aveva mai ricevuto altre lettere all’infuori di quelle che a rari intervalli gli scriveva sua sorella quando era assente da Ferrara, e, quasi a condividere la sensazione di meraviglia della buona donna, Renata la seguiva a breve distanza. La lettera inoltre recava nell’indirizzo il titolo avito della famiglia, titolo che nello squallore dell’ultima generazione era stato abbandonato: “Al signor marchese Alfonso di Crevalcore„.
Un violento rossore salì alle guancie di Meme. Renata che lo stava spiando ritta sulla soglia e in apparenza calma lo vide contemplare a lungo la soprascritta. Maestra di audacia gli chiese:
— Chi ti scrive?
— È appunto quello che stavo cercando.
— Non è una calligrafia nota?
— Affatto.
— Lascia un po’ vedere.
Prese la lettera, la osservò minutamente, lesse ad alta voce: Al signor marchese Alfonso di Crevalcore. Disse: Sei tu! Poi voltandola e rivoltandola parve scrutare il timbro. Disse ancora: È mezzo cancellato, ma viene dall’estero. Conosci qualcuno all’estero?
Meme accennò negativamente col capo. Allora Renata con molta discrezione gli rese la lettera allontanandosi di pochi passi ma senza perderlo di vista.
Compilata con accorgimento quella prima missiva non accennava neppure al fatto sul quale doveva imperniarsi tutto l’intrigo. Sarebbe stata una scossa troppo forte per Meme poichè la sola vista della firma “Elganine principessa Bazwill„ lo fece passare dalla porpora più intensa a un pallore di cadavere. Renata dal tavolino dove fingeva di mettere a posto alcuni libri se ne spaventò ed accorse a lui esclamando con grande naturalezza:
— Una disgrazia?
— No.... No....
— E dunque?
Il foglio tremava nelle mani di Meme il quale lo aveva già percorso due o tre volte senza comprendere e senza vedere altro che quell’adorato nome di donna.
— E dunque?
Non a caso Renata aveva voluto trovarsi presente all’arrivo della lettera calcolando che preso alla sprovvista Meme non le nasconderebbe nulla, nè potrebbe sottrarsi alla direzione che ella stessa intendeva imprimere agli avvenimenti. Con delicatezza, con tatto, con espansiva affettuosità di sorella che si rivela nell’istante del bisogno, gli si fece da presso, leggendo al di sopra della sua spalla, indugiando ad arte come non potesse credere ai propri occhi: “Mi rivolgo al cavaliere senza macchia e senza paura. Salvata una volta da lui posso implorare il suo aiuto per cosa più importante della vita? Una parola subito di grazia„.
— È strano! — fece Meme — io già sognai ch’Ella mi scriveva.
In altre circostanze Renata avrebbe sorriso con disprezzo della ingenua credenza: ora rispose seriamente:
— I sogni profetici ci sono sempre stati. Questa lettera è davvero singolare.
— Che vorrà mai dire? — fece ancora Meme con ansia spaurita.
Renata si affrettò a calmarlo e nello stesso tempo a tenergli alto lo spirito.
— Una cosa è certa. Ella si ricorda di te.
Meme tornò ad arrossire.
— E ti stima al tuo giusto valore.
Un tremito nervoso agitava tutto il corpo di Meme.
La nutrice che Renata aveva saputo allontanare con un pretesto ritornava in quel mentre. Con un rapido cenno ingiunse al fratello di tacere e solo quando ebbe di nuovo allontanato il testimonio inopportuno spiegò:
— È meglio non dir nulla a nessuno. Sai come le cose passando di bocca in bocca si alterano. Si tratta di un segreto che forse non è nostro.
— E a Giacomo?
Renata misurò in un attimo il vantaggio che avrebbe ricavato dal costituirsi subito la confidente e l’amica unica. Sapeva inoltre tutto il valore del mistero per una immaginazione poetica e per un cuore sensibile. Rispose senza esitare.
— Neppure a lui per il momento. Se permetti, se ti fidi di tua sorella, sarò la depositaria di ciò che vorrai comunicarmi sotto giuramento del più stretto silenzio; e se credessi di restare solo dinanzi alle responsabilità dell’avvenire pronuncia un detto ed io stessa mi ritiro.
A tali nobili parole era impossibile che Meme non rispondesse con uno slancio di abbandono. Per la prima volta in vita la sua fronte si trovò appoggiata all’omero della sorella.
— Che cosa intendi di fare? — gli chiese Renata dolcemente accarezzandogli i capelli.
Meme balbettò con uno spasimo nella voce:
— Io sono suo.
— E dunque?... Le scriverai?
— Le scriverò.
— Non supponi, non hai idea di ciò che vuol chiederti?
— Sono così povero e meschino che mi è impossibile immaginare in che cosa potrei esserle utile.
— Un uomo è sempre un uomo — pronunciò Renata con accento solenne. — Vi sono dei valori morali che sorpassano tutte le ricchezze della terra.
In questa affermazione l’ambiziosa donna era sincera. I milioni dei Bazwill non pagavano l’antica gloria dei Crevalcore. Con questa convinzione ella poteva pensare che c’era della grandezza in lei a beneficare di un nome illustre il bastardo di un re.
Ben diverse erano le ipotesi che si affacciavano alla fantasia di Meme. Il suo spirito cavalleresco andava in cerca di avventure eroiche, di sacrifici cruenti, e nell’ardore della dedizione provava l’esaltamento dell’aquila lungamente imprigionata che ricupera alfine la libertà e che nel rombo della bufera al di sopra delle nubi respira l’aria nativa.
Così opposta, la loro grandezza in quel momento si equivaleva; fratello e sorella si trovavano vicini, palpitanti entrambi per un ideale arrischiato, bello quello dell’uomo per la luce di altruismo che lo illuminava, imponente quello della donna dove tutte le aspirazioni umiliate e disfatte si riunivano in un magnifico atto di rivolta. E mai come allora si erano rassomigliate, la gracilità malaticcia di Meme, la rigogliosa avvenenza di Renata, nella cupa concentrazione delle pupille e nell’arco teso della bocca dove in entrambi un segno costante della loro razza poneva il suggello misterioso della bellezza.
— Scrivi oggi?
— Subito. È Lei che me lo chiede.
Renata fece ancora il tentativo di allontanarsi. Egli la richiamò. Era inquieto, agitato. Come sempre la sua intelligenza si smarriva dinanzi ai particolari materiali. Non trovava l’inchiostro, brancicava la carta. Comprendeva che l’istante era decisivo perchè una parola fuori di posto poteva perderlo per sempre nel concetto della donna amata. Che cosa dirle che fosse abbastanza alto, abbastanza puro? e disinteressato sopratutto?
Renata fu sul punto di offrirsi in aiuto ma si frenò a tempo. Occorreva che agisse da solo. Sedette in un canto per lasciargli tutta la libertà di provare e riprovare. Qualunque cosa scrivesse non dovendo giungere a destinazione era affatto inutile il suo intervento. Così se ne stette muta, assorta, grave, discreta, sorreggendolo appena colla sua presenza. Una sola volta gli disse con accento materno:
— Bada a quello che fai. Pensaci bene.
Ma questo consiglio ipocrita non doveva essere che uno sprone al nobile corridore. Meme non pensava affatto a se stesso; poco anche alla veste in cui involgere la sua dedizione appassionata. Nel mezzo del foglio, con una scritturina spezzata da nevrastenico vergò queste semplici parole:
Sono suo.
Renata a cui egli le fece leggere tutto timido e tremante dovette rammaricarsi della loro inutilità perchè veramente non si sarebbe potuto dir meglio. Nessuna frase, nessuna retorica: il suo cuore nudo e la limpida dichiarazione che ne era uscita pochi istanti prima. Sono suo. Ancora quella, semplicemente quella!
— Credi che basterà?
— Sì, basta. Firma: marchese Crevalcore.
— Oh! — fece Meme schermendosi.
— Non sei il marchese Crevalcore? Troppo a lungo lo abbiamo dimenticato. Riprendi il tuo diritto.
Pochi momenti dopo Renata entrava trionfante nella camera di Giacomo Dena agitando al di sopra del capo la lettera di Meme.
— Il primo passo è fatto!
*
Renata era audace ma non ignara del pericolo; per ciò era anche prudente. Intanto che fabbricava la corrispondenza apocrifa di Elganine faceva tenere a suo marito una corrispondenza molto attiva e molto precisa collo Scarpitti nella quale ogni particolare veniva studiato attentamente. Sapeva oramai in qual modo si fosse svolto l’amore di Elganine coll’erede diretto di una grande Casa regnante e il furore e la disperazione del principe Bazwill dinanzi all’irreparabile oltraggio. Come Renata stessa aveva detto una volta a suo marito i milioni non contavano per i Bazwill, già ricchi di censo proprio e divenuti miliardari colla morte della madre di Elganine che era una americana del Nord. Comperare un marito che potesse trasmettere al nascituro un nome degno dei Bazwill era parsa al padre esasperato la sola soluzione possibile e come tale il marchese di Crevalcore fu accettato immediatamente.
Qualche obbiezione venne posta in causa dell’età che sembrava scarsa; si sarebbe preferito un vecchio; ma nella stretta del tempo bisognò sorpassare questa circostanza accessoria. Il matrimonio si doveva compiere non più tardi dei primi di giugno e volgeva già la seconda decade di maggio.
L’istante maggiormente temuto era quello dell’arrivo della lettera in cui Elganine doveva spiegare qual fosse il sacrificio chiesto al suo paladino. La compilazione stessa della lettera riuscì faticosa a Renata per la necessità di conservare una certa verosimiglianza e nello stesso tempo imprimere alla domanda un volo di lirismo e di eroismo senza i quali non poteva aver presa sulla fantasia romanzesca dell’ultimo dei Crevalcore. Dopo lunga meditazione le parve di aver raggiunto lo scopo e spedì a Fiume perchè fossa colà impostata la seguente pagina:
“Le due parole della sua risposta così profondamente significative mi dànno il coraggio di affidarmi interamente a lei. Io sono in questo momento la più sventurata delle fanciulle, e chi se non il più disinteressato degli uomini vorrebbe concedermi aiuto? Oh! se ella potesse comprendermi senza che io fossi obbligata a parlare.... Se fossi ancora a Ferrara, se quella carrozza dove ella fu accolta ferito per amor mio potesse trasportarmi presso a lei, con quale umiltà e gratitudine e tenerezza insieme vorrei inginocchiarmi e stringere la sua nobile mano e pregarla che non mi abbandoni!...
“Signore! anch’io giovane, inesperta, folle, mi lasciai travolgere da una visione abbagliante che mi passò dinanzi ratta e fuggitiva.... e non chiese essa il mio sangue bensì il mio onore! Mio padre non mi perdona che ad un patto: trovare un uomo la cui grandezza sia pari alla viltà del mio seduttore e che all’innocente frutto della colpa e dell’inganno acconsenta a dare il suo nome intemerato. Ho la libertà della scelta; ma intorno a me, in questa società molle e viziosa, tra questi gentiluomini corrotti non vedo nessuno a cui il mio cuore possa aprirsi come a quello del Redentore che perdonò alla peccatrice. Una condizione imposta da mio padre vuole che il resto della mia vita trascorra lungi dal mondo e che il generoso amico si allontani da me appena compiuto il santo rito. — Questa forma casta e sublime innalza talmente il sacrificio che oso offrirglielo, signore, come al solo eroe che io conosca.„
Giacomo Dena a cui Renata aveva letto la lettera prima di spedirla la trovò troppo sentimentale affermando che su di lui una lettera simile non avrebbe prodotto nessuno effetto; osservazione che fece alzare le spalle a Renata. È proprio dei mediocri non intendere che i sentimenti personali; lo sdoppiamento dell’intuizione appartiene al genio. Ma trovando inutile di dare una lezione di psicologia a suo marito ella si accontentò di rispondere:
— Vedrai che anderà bene.
La sua bella fermezza tuttavia se esternamente non oscillava mai aveva pure qualche intimo istante di dubbio; ma non lo ascoltava. Chi vuole costeggiare un abisso non deve pensar mai a coloro che vi sono caduti. Renata pensava a una cosa sola: riuscire. E vi pensava con ostinazione, adducendo verso quella meta tutte le forze del suo potente organismo, eccitandosi col suo profondo disprezzo degli uomini, aspirando, come un cavallo in guerra aspira l’odore della polvere, il pensiero di vendicarsi con essi di essi. Non credeva alla nobiltà d’animo degli uomini. Se suo fratello appariva nobile è perchè era un malato e uno squilibrato. Sano, sarebbe stato anche lui egoista e vile come tutti gli altri.
Il giorno in cui a norma dei calcoli fatti doveva giungere la seconda lettera di Elganine al marchese Crevalcore i due complici non osavano guardarsi in volto. Renata accentuava l’espressione di baldanza dietro alla quale celavasi l’ansia segreta e Giacomo Dena percorreva a passi cadenzati l’ampio corridoio spiando senza averne l’aria l’arrivo del portalettere.
Meme, che pur doveva rodersi di impazienza, appariva il più calmo. Egli era già entrato nel sogno, egli era pronto; pronto e quasi indifferente ai particolari del sacrificio. Che gli importava il modo di darsi poichè l’ora divina della dedizione era alfine giunta? Coll’ardore di un santo per le formule della propria fede egli ripeteva fra sè le dolci parole: sono suo; e se ne imbeveva qual di aroma delizioso.
Ecco finalmente la lettera.
Non la bàlia, ma Renata stessa quasi a dare una sfida alla sorte o forse con un magnanimo impulso a prendere sopra di sè responsabilità intera, muove ardita a ritirarla e la consegna al fratello senza che un muscolo della sua mano trasalisca. Giacomo Dena esce.
Lo scricchiolio del foglio tolto dalla busta rompe appena l’alto silenzio. Meme che è un po’ miope accosta la lettera agli occhi e la percorre per la durata di un tempo che nessuno può calcolare. Un brivido di fatalità è nell’aria. Vedendo che il fratello non si riscuote Renata si china verso di lui. Egli alza la fronte e un velo di lagrime sta davanti alle sue pupille.
Renata inquieta lo interroga. Non risponde. Incalza, ed egli fugge lasciandole la lettera fra le mani.
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— E così? — fece Giacomo Dena sporgendo la testa dall’uscio poichè aveva visto sua moglie sola.
Colle ciglia corrusche, l’occhio torvo, Renata sembrava inseguire attraverso lo spazio la fuga di una visione.
— Non accetta eh? Ne ero quasi sicuro.
— Taci — disse Renata ruvidamente — e mai come in quell’istante Giacomo Dena le parve piccolo e volgare.
Poco tempo dopo ella si trovava nella camera di Meme. Era una cameretta modesta in cui non si rifletteva il vetusto splendore del palazzo. Stretta e lunga aveva nel lato più breve dirimpetto all’uscio una finestra che dava sul cortile, proprio al di sopra del pozzo, e dalla quale penetrava una luce scialba e fuligginosa in armonia colle pareti nude di un bianco sporco dove un’antica spugnatura rossastra aveva lasciato delle macchie qua e là. Un grande crocifisso di legno nero apriva le braccia al di sopra del letto; era tutto tarlato e quei bucherelli pieni di polvere disegnavano sul corpo del Cristo una specie di lebbra che lo rendeva anche più pietoso senza togliergli una certa grazia primitiva che gli veniva dall’artista che lo aveva scolpito, ignoto e ingenuo nell’arte sua eppur non privo di ispirazione, poichè un dolore intenso emanava dalle membra straziate ed assurgeva nell’espressione del volto ad una rassegnata calma divina.
Una tavola con pochi libri, un cassone e qualche sedia formavano tutto l’arredamento della camera che aveva un aspetto straordinariamente malinconico tra la cella e la prigione; ma sulla tavola emergeva dall’acqua di un bicchiere una freschissima rosa e bastava essa sola ad irraggiare nel misero ambiente il sorriso consolatore della bellezza. Ve l’aveva posta la mano tremula e fedele della vecchia nutrice.
Entrando in quella camera Renata non seguiva un piano prestabilito. Ciò che occorreva era di non abbandonare Meme a se stesso. Infatti gli si pose accanto tacita e materna aspettando che spontaneamente rivelasse l’animo suo. Ma egli non faceva altro che piangere; di un pianto interno, silenzioso, spasmodico, visibile più che dalle rare lagrime che gli velavano il ciglio dagli sforzi che faceva per infrenarle e questo dolore compenetrato di una indicibile pietà la lasciava perplessa ed incerta. Quale era stato dunque l’effetto della lettera? Ella si era preparata a vederlo agitato, convulso, in preda all’orgasmo ed alla follìa, forse ad uno di quegli accessi epilettici che lo avevano assalito qualche volta nel passaggio dalla adolescenza alla giovinezza. E non accadeva nulla di tutto ciò, e Meme continuava a piangere dentro di sè, in silenzio, con un velo di lagrime immobile sulle pupille come se egli avesse abbassato quella cortina fra sè e il mondo, fra sè e le cose, per isolarsi nel suo dolore.
Finalmente accorgendosi della presenza della sorella e incoraggiato dal di lei contegno che appariva tutto tenerezza ed amore esclamò con un gran sospiro:
— Povera fanciulla!
Il cuore di Renata diede un balzo per la gioia. Era dunque questa la cagione del pianto di Meme? la compassione per Elganine?... Ah! davvero Meme era straordinario. Ella lo avrebbe abbracciato in quell’istante, sincerissimamente, a vederlo entrare così volonteroso nel suo piano e facilitargliene quasi la via. Ripetè con slancio:
— Sì, povera fanciulla!
Il ricordo dell’errore giovanile, quel ricordo che era il suo strazio perenne, le servì allora di alleato. Ella che aveva maledetto il proprio amore con tutte le forze dell’animo tradito e disgustato ebbe il coraggio di trarlo dal profondo del cuore, di portarlo alla luce viva del giorno, di guardarlo in faccia ancora una volta. Ella, senza paura della ferita che si lacerava nella evocazione e gocciava sangue, senza pietà del suo orgoglio che urlava, ella disse:
— Chi meglio di me potrebbe comprenderla?... Meme, rammenti?... Rammenti?... Ah! tu la compiangi, nevvero?... tu l’ami forse di più?...
A capo chino Meme non rispondeva ma la sua mano stringendo in silenzio la mano della sorella sembrava accentuarne ogni parola. All’ultima domanda scoppiò in un singhiozzo.
— .... Perchè — continuò Renata appassionatamente — che cosa è l’amore se non l’incenso migliore delle anime nostre che alimentato dal nostro sangue sale abbruciando ogni impurità e si trasforma e vanisce e non appare più alle supreme altezze che un atto profondo ed umile di adorazione?
Si alzò e mosse alcuni passi nell’angusta cameretta in preda ad una commozione che non era tutta rappresentativa finchè arrestandosi disse dolcemente:
— Hai bisogno di tranquillità, mio povero fratello. Ti lascio, e Dio ti ispiri.
Non trovò necessario questa volta di chiedergli che cosa avrebbe fatto. Era bastata una parola perchè quell’essere pieno di fede escisse dal suo mondo fantastico, pronto all’opera, risoluto all’azione. Poteva egli retrocedere dopo di avere scritto: sono suo? Poteva riprendersi dopo di essersi donato?
Renata oramai si sentiva sicura. Già sulla soglia si arrestò un attimo a fare collo sguardo il giro della camera, abbracciando in un punto solo la persona accasciata di suo fratello e l’immagine dell’Ecce homo così tranquillo e sereno sotto la lebbra divoratrice che lo investiva tutto. Non si trovava ella dinanzi ad una insospettata grandezza?
Un sentimento oscuro si agitò nell’animo tenebroso di Renata, quasi un avversario occulto che la assalisse proditoriamente per atterrarla, per soffocarla, e un sapore amaro le salì alla bocca dandole una improvvisa impressione di tossico. Tornò indietro allora fino alla tavola dove fra mezzo ai libri di Meme si estolleva la rosa postavi dalla nutrice e chinandosi su di essa ne aspirò a lungo il profumo con una ebbrezza selvaggia. La vita — pensò ella in quel momento — deve avere ragione di tutto!
*
Giacomo Dena che non aveva mai creduto molto alle audaci combinazioni di sua moglie, quando vide giungere un bono di duemila lire sul Banco d’Italia per far fronte alle prime spese si fregò gli occhi come uno che teme di avere le traveggole. Tutte quelle storie di amore, di eroismo, di sacrificio, non gli erano mai entrate bene nel cervello; ma quando ebbe fra le mani il bono spedito da Scarpitti e che vi lesse il proprio nome Giacomo Dena, congiunto a due mila lire di credito, pensò che sua moglie era veramente una donna di ingegno.
Dal tempo lontano de’ suoi quartali Amleto a riposo poteva dire di aver perduto di vista una tale somma. Essendo andato a riscuoterla subito al mattino egli ne assaporò il possesso nella nuda stanza del suo ufficio, dove compiva le umili funzioni di scrivano, seduto di fronte a un altro povero diavolo come lui, ma colla coscienza di una improvvisa superiorità si permise quel giorno di riposare alquanto sui registri. La sua mano bianca e grassoccia si attardava più del solito ad accarezzare le ciocche ben lucide della sua capigliatura imprimendovi la forma speciale che gli era cara. L’espressione unica nel suo genere dell’uomo che ha denari dava fermezza al suo sguardo e tonicità a’ suoi muscoli. Il suo torace sembrava cresciuto da che due biglietti da mille vi si trovavano adagiati dentro a un logoro portafogli di cartone che imitava il cuoio di Russia e sollevandosi tratto tratto ricadeva con calma soddisfatta, intanto che le spalle appoggiate al dorso della sedia imprimevano a questa un piacevole dondolìo.
E quei due piccoli biglietti da mille erano una bazzecola, un nonnulla in confronto ai due milioni che sarebbero venuti poi. Due milioni!...
Smise di dondolarsi sulla sedia poichè gli parve che la stanza girasse e tentando di raccogliere le pupille sopra un punto solo fu sorpreso di scorgere il suo compagno dirimpetto a lui con due teste. Tossì raschiandosi in gola per provare a sè stesso che non era vittima di una allucinazione. Entrò in quel momento il capo ufficio che Giacomo Dena aveva sempre considerato con grande rispetto e lo trovò basso di statura e mal vestito. Non aveva che tremila lire di stipendio.
A un certo punto il compagno dirimpetto esclamò:
— C’è qualche cosa nell’aria, il tempo vuol cambiare. Anche lei Dena non ha la la sua faccia solita.
— Già, già, vuol cambiare.
Così Giacomo Dena rispose con distrazione. Egli teneva la mano stesa sul ginocchio sinistro dei pantaloni, dove il quadretto del disegno non riusciva più a dissimulare la giunta di un rappezzo, e si vedeva in una apoteosi futura tutto vestito a nuovo in carrozza per le vie di Ferrara. Arrotondò le labbra e suggendo l’aria con un leggero fischio si fece passare nelle fauci una corrente fresca. Fra pochi giorni — pensò — non vedrò più la faccia di questo povero diavolo.
Per quanto si sforzasse di rimanere calmo, mezz’ora prima del solito asciugò la penna, riunì i suoi scartafacci e ripose nel cassetto con certo frettoloso disdegno le maniche di tela che proteggevano ironicamente il suo logoro soprabito. Solo quando trovossi fuori, all’aperto, lasciò trapelare la gioia rumorosa di una sghignazzata e fregandosi allegramente palmo contro palmo si diede a correre verso casa tenendosi bene abbottonato.
Egli pregustava il gesto dello schierare dinanzi a sua moglie i due biglietti da mille come quello che doveva conferirgli una certa autorità da lungo tempo perduta. Il marito e l’attore vi assaporavano insieme una specie di rivincita, per cui non fu poca la sua sorpresa vedendo che Renata distoglieva lo sguardo da quel denaro con una alterezza che per lui doveva restare un enigma.
C’era sempre in Renata la patrizia che abborriva il denaro nella sua volgare forma immediata. Ella aveva bisogno di non vederlo per intraprenderne la conquista; e l’antico commediante che aveva tracciato inutilmente il suo gesto dovette ancora una volta ammirare quello di sua moglie mentre diceva:
— Tienilo. Pagherai i fornitori.
— L’abito per Meme.
— E il tuo se devi accompagnarlo.
— E per te?
Renata rise del suo riso bello e perfido. La felicità grossolana che scorgeva nel volto di suo marito le suggeriva il desiderio di conturbargliela. Rispose:
— Non è tempo di pensare a me; troppi pericoli ancora ne circondano.
— Pericoli? — fece Giacomo Dena subitamente abbattuto. — Quali pericoli?
— Tutti.
— Ma se hanno accettato, e i denari sono qua?...
— I denari! Ecco il tuo grande argomento. Sappiamo noi quanti ce ne vorranno per accontentare Scarpitti? Egli ignora la nostra trama, ma abbiamo dovuto dirgli che ne occorreva una per persuadere il marchese di Crevalcore. Tacerà egli? Lo stesso principe Bazwill si terrà pago di consegnare all’atto del matrimonio il milione a Scarpitti anzichè al marchese? Una parola imprudente basterebbe a compromettere il risultato di tutto l’affare.
— Ma allora perchè mi hai trascinato in questo imbroglio? Se non sei sicura, come puoi restare tanto impassibile? Lo dicevo io che era un progetto temerario, anzi pazzesco addirittura! Ecco come sono le donne. Sempre così! Senza criterio della vita, piume al vento, cervelli in aria.... e noi abbiamo la dabbenaggine di credere.... noi ci fidiamo....
Intanto che Giacomo Dena terrorizzato si metteva le mani nei capelli scompigliandone la laboriosa architettura Renata, soggiunse con freddezza:
— Ma ammettiamo che non avvenga nulla di tutto ciò. Tu parti con Meme nel giorno stabilito. Scarpitti vi riceve e conduce mio fratello direttamente alla villa del principe dove deve svolgersi in forma privatissima la cerimonia. Ogni passo, ogni atto, ogni parola sono stati studiati e preparati colla maggiore oculatezza. Lo sposo e la sposa non devono incontrarsi che ai piedi dell’altare. Uno sguardo scambiato è il solo premio che mio fratello ambisce e uno sguardo si può sempre interpretare come si vuole. Appena detto il sì voluto dalla legge la sposa si ritira nelle sue camere, lo sposo riparte. È molto semplice e molto chiaro.
— E allora?
— Allora ammettiamo pure che il sipario cali felicemente a rappresentazione finita. Noi siamo ricchi. Abbiamo un milione in cassa e cinquantamila lire di rendita assicurata. Che dirà il mondo?
L’improvvisa domanda dischiuse a Giacomo Dena un nuovo orizzonte di perplessità. Ella continuò imperterrita:
— Si vorrà sapere da qual parte ci è arrivata la fortuna; si faranno delle indagini; il matrimonio di Meme non potrà stare nascosto a lungo....
Giacomo Dena proruppe inviperito:
— Ma perchè queste cose non le hai mai dette prima?
— Perchè non avresti prestato il tuo concorso.
Giacomo Dena si mordeva i pugni. Egli stava raccattando dentro di sè una parola violenta per confondere quella donna che si prendeva giuoco di lui colla crudeltà di un felino quando tiene fra le unghie la preda e si diletta a martoriarla prima di ucciderla; una parola insultante colla quale atterrare finalmente quell’immenso orgoglio che lo dominava da anni come un sultano barbaro e onnipotente domina uno schiavo. Egli era uomo alla fine, egli era forte, egli avrebbe anche potuto ucciderla!
Renata lesse tutto ciò sulla fronte piatta di suo marito, e le sue vene furono percorse dal brivido che l’alpinista temerario prova trovandosi di fronte alla valanga che egli stesso ha promosso nel cozzo dei venti. Le sue narici si dilatarono aspirando la voluttà del rischio; per un istante quell’uomo potè interessarla ancora. Ma era abbastanza per un giuoco. Colla voce autorevole e persuasiva che ella sapeva trovare sempre al bisogno soggiunse:
— Rassicurati, ho voluto scherzare. Le precauzioni prese sono tali da non lasciarci il benchè menomo dubbio sulla riuscita. In quanto al così detto mondo ci dobbiamo ritenere ancor più sicuri. Quando si è ricchi non si ha mai nulla a temere da esso.
E siccome Giacomo Dena non sembrava molto agile a rientrare nel corso dei pensieri allegri, ella seppe avvicinarsegli anche più blandendolo precisamente nei punti dove lo aveva dapprima stuzzicato:
— Noi saremo ricchi. Pensa questo. Pensa il palazzo reso al decoro delle sue tradizioni, aperto alla migliore società di Ferrara. Negli antri del pian terreno dove ora si dilata la muffa nitriranno ancora i cavalli; avremo un equipaggio, buona mensa, palco in teatro. E se viaggeremo non sarà più per alloggiare in misere camere ammobigliate ma per essere ricevuti nei principali alberghi col rispetto dovuto al nostro rango.
Sotto questa abile evocazione delle gioie future la fronte di Giacomo Dena si rischiarò a poco a poco finchè si rimise in perfetto equilibrio con un sospirone che lo liberò di ogni dubbio.
Da quel giorno si venne a parlare apertamente in famiglia del matrimonio di Meme. Solo colla nutrice Renata accennò, in senso vago, ad una gita misteriosa senza entrare nei particolari di essa. La buona donna vedeva il caro figliuolo assorto in profonda meditazione e non osava disturbarlo; ma col suo istinto di cane fedele intuiva grossi avvenimenti; nè la pungeva volgare curiosità di femminetta poichè ella aveva al pari di Meme l’anima elevata al di sopra dei miseri fatti quotidiani, e mezzo secolo di vita trascorsa nelle rovine di Crevalcore l’avevano abituata ai misteri del silenzio.
Ella non disse nulla quando lo vide in quei giorni d’affanno errare come uno spirito in pena sotto gli archi del porticato o starsene per ore ed ore nella sua cameretta solitaria colla fronte fra le mani, sospirando. Nulla poteva dire la povera donna; ma ogni volta che lo sguardo di Meme cadeva sopra di lei si incontrava in una così larga onda di affetto che la consolazione ne scaturiva immediatamente e per mille recondite vie giungeva al cuore dell’afflitto.
Fu in uno di questi momenti che egli le parlò:
— Bàlia, fino a qual punto credi tu che una creatura possa amare un’altra creatura?
— Non ti comprendo, figlio, — rispose la donna umile.
Dopo una pausa Meme replicò:
— Si può amare oltre la speranza?
— Oh! certo — disse ella questa volta e subito.
— Oltre i precetti degli uomini?
— Non conosco che i precetti di Dio.
— E Dio è misericordioso, nevvero?
— È la misericordia stessa. Ma perchè mi fai queste domande?
Meme tacque ancora un po’ e poi chiese con slancio:
— Tu che cosa non faresti per me?
— Tutto farei, figliuolo.
— Tutto?
— Sì; ad eccezione del male.
Cupo Meme mormorò:
— Che cosa è il male?
Rispose ella piano:
— Il male è ciò che fa male agli altri.
E attese pazientemente che egli dicesse qualche cosa ancora, ma Meme non parlò più. Lo spirito angosciato che aveva fatto una sosta presso l’anima semplice riprendeva il suo andare faticoso verso la rinuncia.
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