Vortice
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ALFREDO ORIANI
VORTICE
ROMANZO
BARI
GIUS, LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1917
— Aspettatemi dunque! — esclamò l’avvocato Guglielmi, indugiando nel rimettersi il pastrano grigio da mezza stagione, e aperse la bussola, che dal caffè dava sotto il portico.
Gli altri due si erano fermati ad attenderlo.
Il portico leggermente ricurvo era poco illuminato; due guardie di pubblica sicurezza stavano addossate all’ultima colonna verso la piazza, che, stretta fra il doppio loggiato, a quell’ora e in quella tenebra sembrava anche più piccola. I suoi fanali, bianchi sopra esili colonnine di ghisa, non rischiaravano nè la notte nè il selciato; erano otto d’ambo i lati, e la loro luce faceva poco più di un’aureola intorno ai loro vetri. Benchè fosse appena mezzanotte, e i due maggiori caffè tuttavia aperti, non passava alcuno. La massa bruna del duomo disegnava un’ombra più scura sul lividore biancastro della grande scalinata in granito, un’opera nuova, per la quale nella cittadina si era speso troppo e parlato anche di più; a fianco del duomo, quasi dirimpetto al caffè, donde l’avvocato era uscito per ultimo, la fontana monumentale, prigioniera di un’alta cancellata a palle di ottone, continuava quel sommesso borbottio dei due becchi cadenti sugli abbeveratoi di marmo candido, posti l’uno di contro all’altro fuori della cancellata.
Il cielo era oscuro, con poche stelle; e una nebbiolina, ancora diafana, inumidiva l’aria non abbastanza riscaldata dai primi tepori della primavera. I tre rimasero alcuni secondi ritti dinanzi al caffè.
— Perchè non facciamo due giri di loggia? — disse l’avvocato Guglielmi, che aveva questa abitudine, comune del resto a quanti della città non rincasavano presto.
Quel portico del caffè Gritti e quella loggia sinistra della piazza, che formava come la facciata del palazzo municipale, erano il passeggio favorito di tutti i signori. Nella notte i più sfaccendati, anche dopo la chiusura dei caffè e dei clubs, seguitavano per ore, talvolta sino all’alba, quando le ortolane disponevano già i banchi e le ceste per la piazza, ad incontrarvisi in gruppi, promettendo sempre di separarsi dopo un ultimo giro, e non di meno prolungando la monotona passeggiata con ostinazione quasi inconsapevole.
Forse non avrebbero saputo fare egualmente tardi altrove.
— Tre giri soli, — rispose Gaudenzi, un impiegato al telegrafo sulla cinquantina, venuto da Milano molti anni addietro e diventato quasi della città.
L’avvocato Guglielmi si pose in mezzo.
Era un vecchietto arzillo, con troppe pretese per la sua levatura; e in quei giorni aveva ceduto ad una delle solite esaltazioni per la lotta elettorale fra moderati e radicali.
Egli credeva in buona fede di essere fra questi, mentre invece il temperamento e la vita lo avevano sempre tenuto in sospetto verso la piazza. Quindi uscito dal club dopo una vivace discussione, nel passare dinanzi al caffè Gritti, vi era entrato per parlare ancora con Gaudenzi e Romani, due fra i suoi amici più condiscendenti.
Essi avevano finito da un’ora la solita partita a scopa, e ciarlavano di donne.
Ma la notte e la solitudine, sotto a quel loggiato, finirono di calmare l’avvocato Guglielmi.
— Dove sei stato oggi, che non ti ho visto dopo pranzo al caffè? — domandò questi a Romani.
— A Bologna: ne sono ritornato col treno delle dieci e mezzo; debbo ancora rientrare a casa da stamattina alle sette.
— La donnetta! — disse Gaudenzi con accento metà ilare e metà sornione, alludendo ad una cantante di operette partita colla compagnia dalla città poche settimane prima, e colla quale Romani si era lasciato vedere parecchie volte a cena nell’albergo del Falcone, il maggiore della città, con altri amici.
— Oh va!
— Un’altra adunque! — rincarò Guglielmi.
— Nemmeno, — e la voce di Romani ebbe un tremito: — sono andato a Bologna per affari... cattivi! — aggiunse sospirando.
In quel momento passavano davanti all’enorme scalone del palazzo municipale, che saliva dritto e larghissimo sino ad un pianerottolo alto, cintato, quasi simile ad una cappella, nel mezzo della quale un lume a petrolio, chiuso entro un antico lucernario, spandeva una luce malinconica.
Le due guardie, nere nei cappotti impermeabili, perchè la notte sul principio era sembrata voltarsi al cattivo tempo, si erano rimesse a girare, seguitando quasi automaticamente il passo di quei tre; ma si fermarono di botto vedendoli arrestarsi.
Gli altri si voltarono; quindi proseguirono senza barattare alcuna altra osservazione.
— Vado a casa, — disse Romani prima di rientrare sotto il portico del caffè.
— Ci vediamo domattina sul mezzogiorno?
— Già.
— Buona notte!
— Buona notte!
Romani si diresse verso porta Appia passando lungo la fontana e il Duomo. Adesso era ridivenuto improvvisamente triste. La piccola città, sepolta nel sonno e nelle tenebre, aveva perduto ogni fisonomia; i fanali scarsi, a petrolio, indicavano appena il vano della strada, nella quale le casette irregolari s’addossavano l’una all’altra in silenzio, colle porte e le finestre buie, senza colori, come in una tranquillità di abbandono. Era una città di circa quindicimila abitanti, compresovi il grosso borgo al di là del fiume, abbastanza ricca, antica e rimasta vecchia anche nel rinnovamento moderno, che guasta dove non muta, e muta quasi da per tutto.
Egli rifaceva quella strada a testa bassa, senza guardare, anticipando i passi col pensiero e ripetendosi meccanicamente: adesso arrivo alla bottega del barbiere, poi all’angolo del palazzo Bandi, al pizzicagnolo... tutte le stazioni più importanti di quella strada, che percorreva da tanti anni, e nella quale era persino nato. La conosceva nei più minuti particolari, tutta; la sua casa vi stava in fondo, una casetta a due piani, con un cornicione di legno ai tetti, le persiane verdi, una porta stretta, alta sul marciapiede due scalini, un andito, una scaletta oscura, poi l’appartamento al primo piano, dove abitava con la moglie e due bambini. All’altro, stavano due famiglie, quella di un calzolaio, e un vecchio prete con una serva.
Gli parve improvvisamente di aver freddo; un passo risuonò lontano, dietro di lui. Qualche soffio agitava l’aria; dal selciato disuguale, a ciottoli, tratto tratto raggiavano baleni sull’umidore lasciatovi dalla pioggia, mentre il rombo del fiume fuori dalla barriera si faceva a mano a mano, più distinto.
Allentò il passo. Altri brividi lo scossero e, daccapo, risentì più greve quel peso, sotto al quale era quasi venuto meno tutto il giorno; non si ricordava di cosa alcuna distintamente, ma era come una stanchezza senza motivo, un’inquietudine tratto tratto percossa da paure inafferrabili come quei suoni fantastici, che talora sembrano batterci sull’orecchio, girando di notte per la campagna. Quella giornata non era certo stata buona: a Bologna aveva fallito l’ultima combinazione, cui intendeva da parecchi giorni, e che l’avrebbe rimesso a galla lasciandogli forse il modo di riordinare i suoi affari sconquassati. Poi aveva meditato, tentato altri espedienti presso alcuni vecchi amici della grossa città, nella quale aveva studiato due anni da giovinetto: aveva corso da una strada all’altra, salito parecchie scale, per concludere sempre allo stesso modo. Quegli amici avevano quasi tutti cambiato abitazione da lungo tempo; alcuni non erano in casa, altri non l’avevano ricevuto o, ricevendolo, si erano mostrati così freddi che gli era caduto improvvisamente dal cuore il coraggio di ogni domanda. Erano state al solito interrogazioni e risposte insignificanti, qualche complimento volgare, e infine un saluto frettoloso. Tutti avevano da fare, ognuno pensava a sè.
Si era sentito respinto, isolato. Ma siccome era sabato, e in quel giorno tutti i mercanti e gli uomini d’affari affluivano a Bologna dalle città vicine, vi aveva incontrate molte, troppe conoscenze.
— Oh! come, anche tu?
Altri discorsi insulsi, strette di mano, qualche vanteria dei minori commercianti, ai quali pareva d’ingrandire mostrandosi ad un concittadino in quel giorno a Bologna. Parecchi sfaccendati erano venuti per ozio o per capriccio, il Mercato di Mezzo era pieno. Quindi aveva dovuto andare a colazione con un gruppo di amici, tutti della propria città, una colazione rumorosa, vanagloriosa, perchè la sera ne avrebbero parlato certamente nel caffè Gritti. Però quel chiasso lo aveva rinfrancato.
Adesso, invece, uno scoramento lo riprendeva, sebbene nessun pericolo vero lo minacciasse ancora; era dissestato da gran tempo, ma s’ingegnava sempre per andare innanzi, riuscendovi non senza pena, con abbastanza disinvoltura. Aveva vissuto comodamente colla famiglia, accettato, stimato da per tutto più di quanto la posizione lo consentisse. Questo, che era stato sempre il suo vanto secreto, gli si mutava ora in rammarico, quasi solamente dopo quella triste giornata di disillusioni e quel ritorno in ferrovia, solo in un vagone di seconda classe, perchè tutti gli altri amici erano già partiti col treno antecedente, gli si rischiarasse entro l’oscurità silenziosa della strada, improvvisamente, il problema della propria posizione.
La strada era sempre così deserta, il rombo del fiume cresceva. Si fermò per accendere un sigaro toscano, l’ultimo che gli rimaneva nelle tasche; quindi alla fiamma del cerino alzò gli occhi per guardare la barriera chiusa in fondo alla strada. Un riverbero del fanale sporgente dalla gabella lasciava intravedere alcune stecche della cancellata, al di là passava il fiume, e oltre il fiume si scorgevano le prime fiammelle del borgo.
Oramai era presso casa.
— Che cosa le dirò? — si chiese subitamente, pensando alle interrogazioni, colle quali la moglie lo avrebbe seccato.
Egli aveva già trovato difficilmente una scusa per andare a Bologna, ma ora, in quel fallimento di tutte le combinazioni, non sapeva più inventare un’altra bugia per sottrarsi all’irritazione di riparlarne con lei. A che prò? Ella non conosceva, anzi non aveva mai conosciuto le vere condizioni della famiglia: poi non avrebbe potuto esservi di alcun giovamento, anche conoscendole. Perchè metterla a parte di certe cose, dal momento che la sua testa vi si perderebbe, e tutto si sarebbe risolto in un piagnisteo pieno di rimbrotti e di carezze? Egli l’aveva sempre trattata bene allo stesso modo; ella, preoccupata di sè e dei bambini, non aveva mai cercato di indovinare quanto le si nascondeva. Invece egli avrebbe adesso voluto parlare con qualcuno, esaminare bene in due la propria posizione, alla quale si accorgeva di aver sempre girato intorno, senza guardarla mai davvero in faccia per quella secreta paura dei deboli, che s’abbandonano alla vita, risolvendone le rinascenti difficoltà col ripetere quasi sempre lo stesso espediente.
Era arrivato all’uscio, tenendo già in mano la chiave secondo il solito: si fermò a guardare la casetta. Tutti dovevano dormirvi. Lassù, a l’ultima finestra di sinistra, un filo di luce passava per gli scuri; era la camera del vecchio prete, un mansionario quasi ottantenne, il quale non viveva più che della paura di morire, e la notte teneva sempre acceso un lumicino alla Madonna sopra il comò, perchè le tenebre lo spaventavano e tremava di spirarvi improvvisamente. Voleva la luce, anche di notte.
— La vedrò ancora per così poco! — aveva detto un giorno a lui con quell’accento impressionante dei vecchi.
— Ecco uno che non deve aver pensieri! — egli si disse in quel momento, invidiando la necessaria calma di quella vita già conchiusa.
L’aria dell’andito gli pesò sul respiro. Aveva acceso un secondo cerino, salì le scale col suo ordinario passo accelerato, come non ricordandosi più di nulla, trovò dietro la porta dell’appartamento la candela sulla vecchia cassapanca; ma invece di andare per la cucina nella camera della moglie, infilò la saletta da pranzo, dopo la quale teneva in una specie di gabinetto il proprio studiolo. Con una segreta, quasi inconsapevole soddisfazione aveva riconosciuto tutto a posto nella saletta; sulla tavola ancora coperta della tovaglia macchiata di vino rosso, non era disposto che il suo coperto con dinanzi due altri piatti: nell’uno c’era un mezzo pollo arrosto colla testa, perchè in famiglia sapevano che questo era il suo boccone preferito, nell’altro un mezzo formaggio fresco, molle, uno dei pochi capolavori dell’industria paesana; poi l’insalata nella solita barchetta di porcellana bianca, e alcuni finocchi sopra il piattello dal piede di filograna rossastra.
Caterina, la moglie, non vedendolo arrivare all’ora di cena, gliene aveva lasciata la miglior parte, immaginandosi che potesse avere molta fame al ritorno.
La bottiglia nera del vino era quasi piena.
La saletta dall’usciuolo di sinistra metteva nella camera da letto.
Egli camminava in punta di piedi; la vista della cena gli risvegliò quasi istantaneamente l’appetito, perchè non aveva più mangiato da quella colazione sul mezzogiorno, prodiga e sontuosa quanto un pranzo. Rimase incerto qualche secondo, temendo, se si fosse posto a tavola, di svegliare col rumore dei piatti Caterina, che doveva dormire da un occhio solo; quindi schiuse con molta precauzione l’uscio del gabinetto, e vi entrò senza sapere bene il perchè. Non aveva niente da farvi; in quel momento la sua testa affaticata non gli suggeriva alcun espediente. Ma quello studiolo era l’unica solitudine, nella quale si chiudeva ogni qualvolta avesse qualche affare difficile da svolgere, o qualche tristezza da nascondere; vi teneva pochi libri, perchè non era mai stato un grande leggitore, ma tutte le carte importanti vi stavano disposte in bell’ordine sopra due scansie portatili. Il resto dei mobili si componeva appena di uno scrittoio in noce e di un piccolo sofà ricoperto in crespo di lana verde. Nell’angolo, presso la finestra, quell’inverno medesimo vi aveva messo una stufa minuscola in ghisa, più che sufficiente a riscaldarvi l’aria sino ad una temperatura insopportabile.
— Che cosa faccio?
In sostanza non aveva bisogno che di guadagnar tempo per l’inevitabile colloquio colla moglie. Anche lì tutto era ordinato. Macchinalmente si trasse il pastrano e il cappello, appendendoli ad un minimo attaccapanni piantato nella parete. Ascoltò: l’appartamentino aveva la calma ordinaria, nell’altra camera Caterina lo attendeva dormendo; poi v’era lo stanzino dei bimbi, nel quale stava anche la donna di servizio, oramai diventata della famiglia: una donna pettegola, che dominava la padrona, ma faceva tutte le economie possibili, riuscendo quasi sempre a dissipare i malintesi fra lui e la moglie.
Malgrado la scarsezza del patrimonio, egli avrebbe quindi potuto vivere contento nella famiglia.
Infatti non si era mai lagnato: sentiva anche in quel momento una compiacenza onesta, che gli alleggeriva il peso di tutti i disappunti subiti nella giornata.
La candela bruciava sul tavolo da qualche minuto, egli si era girato e rigirato inutilmente per il gabinetto due o tre volte, quando vide una lettera quasi sotto al largo calamaio di maiolica bianca.
Veniva, a lui, ma sulle prime non ne ravvisò il carattere; qualcuno doveva averla recata nella sua assenza, perchè non portava francobollo.
Stracciandone la busta si sentì tremare da capo; la lettera diceva:
Città, 29 aprile 1896.
- Caro Adolfo,
Debbo partire subito per Firenze, senza perdere un minuto, perchè mia madre è gravemente malata; ma capirai come posso stare non avendo potuto ottenere il permesso stamattina. Ti ho cercato dopo pranzo al caffè per comunicarti in segreto che Oreste Bugnoli ha portato al pretore una tua cambiale per duemila e cinquecento lire, dichiarandola falsa. Siamo sempre stati amici sino da ragazzi, e quindi non credo che tu possa aver fatto ciò: ecco perchè ti avviso; ma in ogni modo brucia subito questa mia lettera. Per te non ne sarà nulla certamente, o tutto al più un equivoco che si scoprirà; invece io non sono che un impiegato, e se mi sospettassero solamente di averti avvisato, finirei forse col perdere il posto. Ma sono sicuro della tua discrezione; invece temo assai della mia povera mamma. Quale disgrazia per me se dovesse morire!
In fretta
tuo Anselmo Roberti.
⁂
Era stato come un colpo di mazza sulla testa.
Non aveva quasi capito, ma nello stordimento della percossa gli era parso che lunghe strisce sanguigne solcassero il buio, nel quale cadeva, dritto, così senza cappello in testa, con quella lettera in mano, mentre la fiamma della candela gli agitava brevi ombre leggere sul volto immobile come un ritratto.
Finalmente ebbe un soprassalto. Il primo moto fu di guardarsi intorno con un rapido girar del capo e quel subito raggricchiarsi di tutte le membra, quasi per farsi più piccolo e meglio sparire in una fuga, che hanno sempre i sorpresi in flagrante.
Poi, col tornargli della coscienza, tutti i tremiti lo scossero; le mani gli battevano quasi l’una contro l’altra, gli battevano le palpebre, mentre un’onda come di vento gli si rompeva dall’interno entro gli occhi, e glieli gonfiava inaridendoli.
Appoggiò una mano sull’orlo dello scrittoio, quindi girandovi intorno venne a cadere sulla poltrona. Era anch’essa in crespo di lana verde, con una stretta spalliera semicircolare. Si trasse più vicino la candela, si passò il fazzoletto sugli occhi. La fronte gli era diventata perlacea sotto i capelli neri, dritti e tagliati a spazzola, che rendevano più dura l’espressione della sua faccia.
Infine bisognava rileggere.
Benchè stravolto, comprendeva tutto; lo aveva capito nello scoppio stesso: era stata una visione istantanea, accecante come quegli incendi dei temporali notturni, alla luce dei quali si scorgono in un attimo i particolari più minuti, meno osservabili di un paesaggio, e poi tutto ritorna nero, tempestoso, fragoroso, pauroso.
Da molto tempo aveva voluto scordarsene, ma lo sapeva.
La lettera era proprio di Anselmo Roberti, il suo amico d’infanzia, poi di studi, nato a Marradi e venuto cancelliere nella città da quattro anni; era la sua calligrafia rotonda, chiarissima, una calligrafia da impiegato.
Che cosa era stato? Perchè?
Era troppo presto, non doveva essere, perchè mancavano ancora quarantacinque giorni alla scadenza.
Rileggeva sempre, forse per la decima volta, brancolando col pensiero fra le lettere, che gli si dilatavano dinanzi agli occhi, quasi staccate dalla carta. Ma attraverso tale sensazione leggeva con chiarezza sempre più spaventevole. Quelle poche righe frettolose, buone, senza un dubbio o una esagerazione, erano la forma più micidiale, più insopportabile, colla quale gli si fosse potuto comunicare, così impensatamente, la sua colpa.
— Ha la mamma ammalata, — pensò poco dopo in una sosta del turbinio, che lo aggirava; quindi corse nuovamente cogli occhi all’altra riga, dove Roberti gli annunciava la consegna della cambiale al pretore, senza crederne falsa la firma ed affermando anzi che non poteva trattarsi se non di un equivoco. Poi la lettera finiva con quel grido per la mamma forse già morta.
Nel gabinetto non c’era alcuno: fuori, in tutta la città, a chi rivolgersi? Malgrado la smania non potè muoversi; non c’era più niente da dire o da fare! Si trovava già lontano da tutti, con quella sensazione di un baratro buio, freddo, sordo, senza cielo, senz’aria, uno di quegli abissi di sogno, nei quali cadendo non si sente che il vuoto e quando la caduta si arresta non si tocca ancora nulla. Allora le forze l’abbandonarono e si accasciò sulla poltrona, colla testa bassa, in un atteggiamento sfatto. La sua vita, così normale poco prima, era svanita; egli vi rimaneva come un corpo molle, insaccato dentro gli abiti, coll’occhio sinistro, che in quella piegatura del capo ancora gli si vedeva aperto ed opaco, così che la moglie Caterina entrando in quel momento avrebbe gridato per la paura.
Intanto il tempo passava.
Quel colpo, che avrebbe atterrato qualunque altro, non aveva però nulla di strano, e ciò lo rendeva ancora più terribile. In tutta la giornata, pur non volendo pensarci, perchè gli rimanevano ancora circa due mesi prima della scadenza, ne aveva provato un presentimento; anzi nella sua vita ancora giovane, abituato come era da tempo a cercare danaro per la piazza, vantandosene cogli amici se gli riusciva bene qualche difficile operazione, non si era mai sentito così profondamente scoraggiato. Eppure non si trattava che di girare una cambiale di cinquecento lire, questa volta in piena regola. Ma il credito gli sfuggiva da parecchi mesi, la gente e le cose cangiavano intorno a lui; non aveva più quel bell’umore facile ed espansivo, che seduceva le persone, e col quale sovente perveniva a trarsi senz’altro d’impaccio: pensieri tristi lo travagliavano, improvvisi sgomenti gli facevano vedere il mondo in nero traendogli dalla bocca quelle frasi pessimiste di chi non si sente bene in gambe. Erano impazienze nervose, scatti ingiustificabili, coi quali offendeva talora scioccamente le persone inimicandosele; e poco dopo si accorgeva del male fatto, giacchè gli capitava d’intoppare in visi chiusi, gli cascavano addosso giudizi sospettosi, diventava come tutti gli altri caduti volontariamente nella sua posizione, un oggetto d’esame fra la gente pettegola o grave, che valuta le riputazioni e pesa tutti i valori.
A Bologna quella mattina aveva dovuto subirne la dolorosa esperienza più di una volta. La sua aria preoccupata, le grosse nubi che gli passavano sul volto, erano state osservate; tutti quei mercanti, quei minuscoli uomini d’affari, così poco colti e perspicaci parlando di politica o d’altro senza immediati rapporti alla loro vita, erano di una penetrazione inquisitoriale, avevano il colpo d’occhio infallibile per indovinare certe crisi o cogliere certe situazioni.
Era la loro stessa battaglia di tutti i giorni nell’imbroglio continuo di contratti fra gente di tutte le risme, in mezzo alla quale bisognava guardarsi da ogni lato e far buon viso a tutti i presenti, senza il permesso di potere ingannarsi sulla probità o sulla solvibilità di alcuno. Al primo dubbio tutte le espansioni si restringevano, ognuno per necessità di battaglia si rimetteva sulla parata con un orgoglio di egoismo, che non vuole lasciarsi abbindolare da pietà di sventure o da illusioni di risorse. Sotto la loquacità chiassosa della colazione egli aveva sentito la durezza impenetrabile dei cuori, la diffidenza vigilante e pronta a tentare col più atroce degli scherzi l’imminenza di una ruina per meglio evitarla.
Ma prima di quella cambiale, non aveva notato certe cose.
Quindi si era sforzato di non pensarci: il disegno per rimediarvi lo aveva, vendere l’unico podere a quello stesso strozzino, giacchè vi rimaneva ancora, malgrado le ipoteche, un margine di tre o quattro mila lire.
Ecco perchè quasi non se ne preoccupava; ma gli altri debiti, i regolari, lo urgevano tutti i giorni, senza requie. Era andato a Bologna appunto per girare una cambiale colla firma di un amico, un giovinotto in vena di ruinarsi gaiamente, e così fare fronte ad altre due cambiali, che gli scadrebbero lunedì alla Cassa di Risparmio e alla Banca Popolare; ma fra tutte e due non superavano le quattrocentosessanta lire. Era poco, però ne aveva altre, anche più piccole, poi tutto il resto dei debiti e delle liste.
Mai si era sentito più sconsolato di quel giorno; per reagire aveva bevuto parecchi vermouth nelle bottiglierie, aveva seguito per strada, sino a casa, una ragazza che nemmeno gli piaceva; ma ad ogni disillusione cogli amici, sui quali credeva di contare, pur confessando a se stesso di non averne motivo sufficiente, la tetraggine gli si addensava nell’animo. Quella giornata gli era parsa eterna, specialmente nelle ultime ore. Perchè aveva perduto il treno delle quattro e mezzo? non avrebbe saputo dirlo. Infatti quelle, che con uno sforzo di volontà potevano sembrargli combinazioni probabili per la girata della cambiale, erano tutte esaurite prima della colazione. Dopo, non aveva tentato ancora che per rabbia contro se stesso, per darsi dell’imbecille prima, e poi bestemmiando nel fondo del cuore contro il destino. Ma lo sapeva già. Quindi aveva girellato trovando sempre le strade troppo lunghe, curiosando senza voglia nelle vetrine, con quell’aria pesante e distratta, alla quale la gente non s’inganna quasi mai e fiuta i poveri, gli spostati, tutti coloro momentaneamente senza danaro e nella impossibilità di procurarselo malgrado qualunque dolore della necessità. Egli stesso si accorgeva di tradirsi; una vergogna nuova e sottile gli faceva credere di essere mal vestito, gli pareva di sentirsi sempre qualche occhiata addosso; poi non s’incontrava più, egli uso a trovare tanto lusso e tanta squisitezza a Bologna, in niente di bello.
Quando vide accendersi i primi lampioni, ne provò un sollievo: l’ombra del crepuscolo aveva spopolato le strade, rendendo meno osservabili coloro che vi passavano. Si avviò verso la stazione, allungando la strada per tutte le svolte sino alla Montagnola; il vecchio ed angusto passeggio era deserto, pieno di alberoni secolari, che avevano già messo le foglie, ma che in quel freddo di sera non abbastanza primaverile rabbrividivano ancora. Qualcuno vi si aggirava come lui, in preda a pensieri forse più disperati. Il rumore della città si assopiva lentamente: i fanali punteggiavano l’oscurità, allineandosi fino lontano, donde un rumore veniva tuttavia, mentre alle finestre delle case per bene si vedevano già accendere i lumi per la gaiezza del pranzo.
L’isolamento gli aveva fatto paura: era stata una sensazione subitanea, violenta. Quell’ora del pranzo doveva essere ben terribile per tutti quelli che non avevano dove pranzare, dopo un giorno così lungo, e dinanzi alla notte anche più lunga senza ricovero!
Per non pensarci troppo era disceso dalla Montagnola, per il viale degli ippocastani, lungo le mura verso la stazione. Anche lì sembrava stagnare la vita; l’orologio della torre, alto sul mezzo della stazione in quel crepuscolo, col lume acceso dietro il trasparente, aveva una opacità di grande occhio ammalato. Egli così poco artista ed osservatore, n’ebbe l’impressione per la prima volta. Nel ritorno aveva avuto la fortuna di entrare in uno scompartimento di seconda classe vuoto; ma poi, nel viaggio, se ne era rammaricato. Non aveva mangiato e non aveva fame, però l’estenuazione cominciava a dargli quella sensibilità dolente, propria dei deboli; finalmente non si rinfrancò che arrivando in piazza dinanzi al Duomo, sotto quei portici così famigliari, salutando e ricevendo il saluto di voci amiche. Nel caffè c’era Gaudenzi, che lo invitò alla solita partita; un vecchio maestro delle scuole tecniche, vegeto, allegro, chiacchierino, un ricco mugnaio attempato, uno scrivano di notaio, mezzo storpio e divertente per la loquacità melodrammatica e letteraria, avevano circondato il loro tavolino, e la partita era seguitata fra i soliti discorsi nella bonomia tranquilla di tutte le sere.
Ma quel gran colpo gli aveva tolto anche la memoria di tale triste ritorno.
Poi una paura lo assalì; si nascose frettolosamente la lettera nella tasca dei calzoni e in punta di piedi, lasciando la candela sulla scrivania, venne ad origliare all’uscio della camera da letto. Caterina dormiva con un russo leggiero: stette qualche minuto coll’orecchio incollato alla fessura dell’uscio, poi a ritroso, senza urtare in alcun mobile, rientrò nello studiolo.
La mente gli tornava: ritrasse la lettera dalla tasca e, ubbidendo alla preghiera dell’amico, la bruciò, con un senso quasi di sollievo. Era la prima accusa distrutta.
Che fare?
In quel subbuglio di tutte le idee non poteva ancora rendersi un conto, anche solo relativamente esatto, della propria situazione, ma sentiva che fra poco, quando saprebbe meglio dominarsi, non troverebbe egualmente nulla. Era sempre la stessa sensazione di un buio improvviso e cieco, nel quale non poteva nemmeno gridare: da chi invocare soccorso? Qualunque fosse il perchè o il come di tale catastrofe, la violenza non ne diventava che maggiore. Nessuno lo aveva rovinato, nessuno in quel momento lo spingeva nell’abisso. Era stato lui solo, gaiamente, storditamente, per un seguito di piccoli piaceri, di minime compiacenze, di false abitudini, a mettersi in quell’abbrivo, lusingandosi fantasticamente di potersi sempre fermare, coll’esempio di tanti altri, che avendo fatto o facendo tuttavia assai peggio, rimanevano ancora in piedi, salutati, ricevuti dovunque. Ed egli pure aveva voluto essere così forte, senza comprendere in che cosa tale forza consistesse, ma soprattutto vivere meglio del come era nato, in una più alta sfera.
Quindi il suo distacco lento ed orgoglioso dai primi compagni, che convinti della propria posizione l’accettavano, nella modestia degli inevitabili lavori, con una rinuncia onesta alla vivacità delle troppo facili speranze; poi la iniziazione nella classe dei signori, che avevano finito col trattarlo da pari, tutta una conquista assidua e minuta, piena di piccole gioie e di nascenti soddisfazioni, onde si era persuaso di essere un qualcuno importante, e di poter un giorno diventare anche qualche cosa. Finalmente lo scialo, non vistoso ma continuo, i vizi, sino a quella passione breve ma rapace, inevitabile, che gli aveva fatto perdere la testa rendendolo ridicolo fra i nuovi amici, e per la quale in una mattina di follia, una mattina pioviginosa e fredda, era andato da quello strozzino per fargli accettare la cambiale!
Nemmeno allora se ne era reso ben conto; aveva agito come sotto un incubo, con dei brividi freddi come quelli che adesso gli passavano per le reni, la testa pesante, ma recitando fin troppo bene la commedia preparata. Dopo, aveva sempre fatto degli sforzi per non pensarci, malgrado i debiti, che seguitavano a travolgerlo senza lasciargli un’ora di pace. E tutto era finito prima della scadenza vera; il dramma scoppiava in questa anticipazione imprevedibile, alla quale qualcuno doveva aver cooperato.
Non restava che morire.
Egli pronunciò mentalmente questa parola, come eco di una voce, che gli sonasse dentro nel profondo del cuore, e subito dopo fu più calmo. Perchè? Che cosa era stato? Nè la sua volontà, nè la sua ragione lo avevano condotto a questa decisione, e tuttavia potè ripetersi distintamente:
— Sì, morire!
⁂
Come accade sempre nelle decisioni troppo importanti, che agiscono sull’anima al pari di un abbarbaglio, una pesantezza torbida lo aveva poco dopo prostrato.
Quella idea della morte non gli si era mostrata con alcun significato preciso; non ne aveva veduta la forma, nè sentito il dolore, quantunque fosse già il distacco da tutto quanto componeva la sua vita di trentadue anni, una vita senza valore per gli altri, ma intera ed alacre entro l’angustia della propria orbita.
Adesso, nell’impossibilità per lui di ripensarla attraverso i molteplici minimi ricordi, acquistava come un’improvvisa, sconfinata dilatazione, nella quale si perdeva anche quel dramma finale come una voce di disperazione per la solitudine di un grande prato squallido, quando la notte sta per involgerlo nella propria ombra. Non gli restava che la sensazione di un vuoto. Sempre così seduto stancamente sulla poltrona teneva gli occhi fisi sulla fiammella della candela, alla quale il suo alito imprimeva tratto tratto qualche lieve oscillazione.
Sul suo volto, generalmente rosso, un pallore livido alterava tutti i lineamenti; la fronte diventata greve in quella improvvisa opacità, che le troppo lunghe meditazioni sembrano lasciare su quelle dei pensatori, gli si aggrondava sui sopracigli velandogli gli occhi, mentre uno stiramento gli irrigidiva la bocca convulsa.
L’orologio della piazza battè tre quarti d’ora dopo la mezzanotte.
La prima cosa che sentì, fu di essere così profondamente mutato. Benchè in casa propria, non vi si riconosceva più: vedeva la disposizione di tutto l’appartamento con quelli che vi abitavano, sua moglie Caterina addormentata nell’altra camera sotto la coperta di filugello verde; nella stanzina attigua Ada e Carletto nei due lettini di ferro; vedeva il proprio posto vuoto accanto a Caterina, l’attaccapanni col grande cappello nero a cencio, il mantello scuro, la specchiera sul comò di fronte al letto, udiva la respirazione regolare, il russo lieve di quei dormienti, ma con un senso inesplicabile d’indifferenza come di uno straniero, pel quale quella casa e quelle persone non potessero avere alcun significato. Era solo! La stessa intimità del suo passato con essi si rompeva improvvisamente, isolandolo dalla loro esistenza, della quale una volta provava le ripercussioni ad ogni atto, senza potersene staccare nell’avvenire nemmeno colla fantasia.
Quindi un più sottile malessere gli veniva da quel gabinetto quasi vuoto, rischiarato appena dalla candela, freddo e muto come una stanza d’albergo. Infatti era quasi il medesimo mobilio: sedie, scrittoio, scansie, sofà in noce e lana, senza stile, senza accento. Egli vi era solo.
Così? Perchè? Perchè così solo?
— Dove sono? — esclamò sommessamente, portandosi ambo le mani alla faccia.
L’idea gli si ripresentava lucida, inesorabile.
O la morte o la prigione, non vi era mezzo termine.
Ma daccapo ebbe paura, e si cacciò col pensiero come fuggendo per tutte le vie che gli si aprivano davanti, acciecato da una speranza di salvezza. La passione della vita gli si era ridestata in uno scoppio: qualunque fossero la colpa e la pena che lo minacciavano, non voleva morire. V’era tempo, tutto poteva ancora accomodarsi. Una ressa d’indistinti bisbigli gli saliva dalla memoria di tanti casi disperati, che aveva veduto a poco a poco acconciarsi nella normalità della vita, di altre esistenze quasi sradicate da un colpo di bufera, e che nullameno avevano potuto resistere rituffando le radici nel terreno e coprendosi dopo qualche mese di nuove foglie. Egli non voleva soccombere: la vita protestava in lui da ogni punto dell’anima in un orgasmo di tutte le fibre. Ma nessuna di quelle vie, per le quali il suo pensiero fuggiva smaniando, era neppure abbastanza lunga per dare tempo ad una illusione; tutte finivano contro lo stesso muro, la medesima impossibilità di evitare il processo, dal momento che la cambiale era già nelle mani del pretore. Questi, un giovane di Senigallia, eccezionalmente ricco per la sua classe, mirava a diventare presto giudice, facendo pompa di un riserbo e di una severità egualmente inflessibili.
Ma egli non voleva il processo, quella morte più lenta, ed atroce di qualunque altra nell’agonia del domani o del posdomani, appena il fatto si fosse divulgato, e poi di tutti gli altri giorni sino all’ultimo della condanna a cinque anni, giacchè ci aveva pensato involontariamente altre volte di sfuggita. Quel giorno non sarebbe mai finito su quello scanno degli accusati, dinanzi ai giudici e al pubblico, con Caterina nella sala che singhiozzerebbe, mentre egli dovrebbe rispondere all’interrogatorio sentendosi addosso tutti gli sguardi della folla indifferente nella certezza di una condanna, che rendeva egualmente inutile ogni abilità di accusa o di difesa. Tanto era morire altrimenti. Tutto intorno a lui si sarebbe del pari spezzato: Caterina e i bambini, ridotti alla più squallida miseria, non avrebbero più per lui che un orrore misto di odio, quell’odio doloroso ed onesto di tutti i caduti per colpa d’altri nella povertà umiliante di una condizione, dalla quale anche uscendo, rimane la macchia. Ma Caterina sopravviverebbe al colpo?
Si poteva durare a quella tortura del processo, che comincerebbe subito, colla sua prima parola, entrando nella camera da letto per confessare tutto?
Sarebbe stato il primo tratto di corda al cuore, nel silenzio di quella camera così tranquilla da dieci anni, mentre i bambini dormivano nell’altro stanzino, sempre coll’uscio aperto. Lo strido di Caterina somiglierebbe a quello di un ferito: se lo sentiva già dentro gli orecchi lacerante, lungo, che si perdeva in lontananza dopo avergli forato spasmodicamente il cervello. Egli non potrebbe calmarla. Che cosa dirle? L’origine di quella colpa l’aveva già sconvolta tre mesi prima, apprendendola solamente a mezzo; era stata una gelosia improvvisa, quasi furiosa, che gli aveva rivelato in lei tutta un’altra faccia del suo carattere apparentemente così bonario e insignificante. Egli in quella amarezza dell’essere tradito dall’altra, per la quale si era pazzamente perduto, ne aveva provato come una consolazione di orgoglio, nella certezza dell’affetto che gli restava.
In qual modo confessare ora il resto?
La colpa stessa spariva nella orribilità della espiazione: aspettare in casa l’arresto, chi sa quanti giorni, indovinando da lungi tutti i discorsi dei caffè; doverne serbare indarno il segreto con Anastasia, la serva, fino al momento che un delegato venisse ad intimarglielo con quella insopportabile gentilezza da impiegato, probabilmente nella forma di una chiamata in questura. Nessuna forza umana poteva bastare a tale supplizio: Caterina ne diverrebbe forse pazza, era impossibile non morirne.
Per quanto atroce, il fatto di trovarsi davanti al pretore e al cancelliere, dopo essere forse passato per la città fra le guardie, diventava insignificante al confronto dell’esame, che avrebbe dovuto subire, chi sa per quanto tempo, dinanzi alla moglie, sotto l’inquisizione disperata del suo silenzio o delle domande rinascenti indarno dalle memorie della sua anima calpestata ingiustamente, per sempre, senza un motivo e senza un avviso. Eppure egli lo aveva fatto!
Anzi qualche cosa gli restava nel cuore di quella passione istantanea ed irresistibile, una amarezza ed insieme un orgoglio quasi simile a quello che sostiene il coraggio dei delinquenti, e li consola nelle pene dell’espiazione. Si pentiva piuttosto delle conseguenze che del fatto: era stato fatale, senza ricerca da parte sua, senz’alcuna possibilità di resistenza. Adesso tutto era passato.
Un singhiozzo gli salì dal petto affaticato.
Seguitava sempre a cercare, sorpreso da sùbiti scoramenti, che gli davano la sensazione effimera di un bisogno di pregare, dopo i quali si cacciava più disperatamente avanti nella ricerca insensata di un espediente. Uno stesso smarrimento gli confondeva ragione e fantasia, così che non poteva seguire nemmeno la più semplice combinazione di sogno, o conchiudere il più volgare dei ragionamenti: capiva solo che niente e nessuno verrebbe ad aiutarlo, poichè si era consapevolmente posto in tale condizione. La sua testa, d’ordinario tutt’altro che potente, trabalzava di visione in visione, sfuggendo a quella dello scandalo in piazza con un più acuto terrore dello scandalo domestico, senza potersi ancora fermare al perchè di quella anticipazione, e come mai la cambiale fosse stata presentata al pretore due mesi prima della scadenza. Egli aveva già indovinato il colpo: era stato il Bonoli, socio secreto dello strozzino, freddamente perverso e ricco, ad affrettare la catastrofe. Infatti si era ricordato subito, sebbene confusamente, del suo ultimo saluto incontrandolo alla stazione sulle mosse per Firenze due giorni prima. Allora ne aveva provato dentro come un dissolvimento di tutto se stesso, ma nessuno si era accorto di nulla, ed egli non ci aveva pensato oltre. Il Bonoli doveva aver imposto ciò allo strozzino, giacchè questi non lo avrebbe forse fatto di per sè, anche per non aumentare in paese le proprie antipatie, contentandosi di acquistare a buon mercato il podere. Tutto ciò gli rimaneva non pertanto torbido nella testa. Non si era nemmeno fermato al solo espediente discutibile: partire per Firenze, presentarsi al conte Zoli, ex-deputato della città, un signore malaticcio, vecchio, infelice per la moglie e senza figli, confessargli il sopruso di quella firma falsa e scongiurarlo di riconoscerla per vera. Infatti era imitata abbastanza bene, perchè ciò fosse possibile senza troppo scandalo. Ma come affrontare una tale scena? Poi lo strozzino e Bonoli dovevano già aver ottenuto dal conte Zoli una qualche dichiarazione prima di presentare la cambiale al pretore; e quindi il vecchio signore non avrebbe potuto disdirsi che ben difficilmente, senza cadere egli medesimo nel processo. Questo filo, così tenue, era tuttavia l’unico che gli restasse in quella paura, che lo raggirava sovra se stesso da quasi due ore.
Non ci pensò.
Morire così era impossibile, mentre tutto era ancora intatto dentro e intorno a lui.
La profondità di questa contraddizione non gliene lasciava sentire spasmodicamente che l’orgasmo; nessun’altra sensazione di dolore per il modo o per il tempo della morte si mescolava al suo orrore. Si muore forse, quando si è così nella pienezza della vita? Come comprendere la morte? Egli non ne vedeva la ragione, pur soffrendone la necessità; quindi non faceva che fuggire dinanzi ad essa, che lo circuiva, lo premeva, costringendolo a rientrare da tutte le parti in se stesso, a spezzarsi volontariamente, senza lasciargli nemmeno la tregua indispensabile per riunire tutte le proprie energie in questo sforzo supremo.
Un acuto bisogno di aria e di moto lo fece alzare: non voleva restare lì, gli pareva già di essere in cella. Allungò la mano per riprendere il cappello, ma non ebbe il coraggio. Dove sarebbe andato a quell’ora? Tutti i luoghi gli erano diventati indifferenti; non pensava nemmeno a fuggire, sapendo di non aver più nè danaro nè altra risorsa, colla quale vivere altrove. La città gli fece improvvisamente paura: qualcuno riconoscendolo per via avrebbe potuto fermarlo ed interrogarlo. Egli lo sentiva; alla prima parola rivoltagli avrebbe dato in uno scoppio di pianto, e la confessione gli sarebbe sfuggita intera, spaurita, come ad un bambino, per lasciarlo dinanzi alla indifferenza alquanto stupefatta dell’altro. Perchè nessuno ha davvero pietà di ciò che non lo tocca; si guarda, si ascolta, si assente con una segreta inconfessabile soddisfazione di non essere in tale caso, e si accusa sempre chi vi soccombe.
Egli invece avrebbe avuto bisogno di un’immensa pietà. Forse vi avrebbe trovato l’energia di soffocare tutta la rivolta, nascondendo con un ultimo sforzo quella compiacenza del sentirsi quasi rimpianto, che è l’orgoglio segreto di tutti i nostri dolori, l’ultima impossibile rinuncia anche pei suicidi. Ma egli non aveva a cui parlare, e soprattutto non gli sarebbe riuscito di trovarne il modo. La sua colpa era troppo sciocca, nel motivo e nelle conseguenze, per eccitare le simpatie di qualcuno: non aveva nè padre nè madre; sua moglie non avrebbe capito più dei proprii bambini la tragica fatalità di quella scempiaggine.
Egli doveva esaminarla solo, senza la falsità di alcun aiuto.
Benchè avesse già deciso istintivamente, e tutte quelle incertezze non fossero che gli effetti appunto di tale decisione, tuttavia l’istinto vi tornava sopra. Morire subito, senza dir nulla, senza aver prima esaurito tutti i mezzi di difesa, era ancora più impossibile che assurdo. La vita, appunto perchè piena di drammi, ha un numero infinito di soluzioni, le quali non si possono vedere tutte al primo sguardo, mentre la morte aspetta pazientemente in fondo, terribile, inintelligibile anche quando la si accetta. Prima bisognava calmarsi.
— Vediamo: che cos’è? Ho fatto una firma falsa in una cambiale, — e questa cambiale è stata presentata al pretore prima della scadenza. Perchè?
Era stato il Bonoli, senza dubbio. Quell’uomo era il suo nemico sino dalle ultime elezioni, nelle quali egli lo aveva stupidamente combattuto, accusandolo appunto di essere un socio segreto dello strozzino Bugnoli. Tutti in fondo lo sapevano, ma nessuno aveva osato formularlo nettamente prima; egli solo, nell’orgasmo di una discussione al caffè, per far piacere al vecchio capo dei moderati, il signor Trenti, un omone altrettanto grosso di ventre che fine di spirito, vi aveva insistito così, citando fatti e satireggiando, che il nome del Bonoli era stato scartato dalla lista.
Allora se ne era sentito tutto orgoglioso: per un momento aveva quasi creduto che lo avrebbero sostituito col suo, poi era stato complimentato, messo quasi nel novero dei vincitori. Ma il Bonoli non era uomo da lasciarsi battere impunemente. Mezzo clericale, grasso, malaticcio, con cinque o sei figli brutti anch’essi, aveva rapidamente, inesplicabilmente accumulato un grosso patrimonio. Era infatti socio segreto del Bugnoli; ma ciò non spiegava abbastanza quel suo crescendo subitaneo in ricchezza: molti lo temevano, quasi tutti lo stimavano per la precisione del colpo d’occhio in affari e una sensata larghezza nello spendere. Dopo, si erano trovati parecchie volte al caffè, senza che nei discorsi o negli atti trapelasse alcun rancore, anzi il Bonoli pareva più amabile.
Adesso capiva tutto; il Bonoli stava appunto comprando dal conte Zoli un avanzo di tenuta, quattro grossi poderi, e quella doveva essere stata per lui l’occasione d’interrogare il vecchio signore sulla cambiale.
Quel sorriso freddo, senza canzonatura, alla stazione, lo rivedeva ancora, provandone lo stesso sgomento tremulo e diaccio: era la vendetta segreta dell’uomo forte, che schiaccia quasi disattentamente e dimentica.
Non v’era più riparo. Bonoli, anche scongiurato in ginocchio, avrebbe sempre negato la propria partecipazione in quella denunzia, mentre il Bugnoli avrebbe finito rammaricandosi di aver ceduto ad un moto irriflessivo di sdegno nella scoperta del tiro giocatogli con quella firma falsa. Ma era tardi. A chi rivolgersi? Forse il pretore, malgrado l’ostentata severità, avrebbe potuto, accorrendo subito presso di lui, simulare di non aver ricevuto la cambiale, forse non l’aveva ancora trasmessa alla procura del re; ma da chi farlo pregare? Le persone influenti, quelle pochissime capaci di tale miracolo, non lo avrebbero voluto per un uomo insignificante come egli era sempre stato: bisogna essere in una grande posizione, o aver reso ben grossi servigi in un partito, per ottenere siffatti contraccambi.
E la fantasia gli riprodusse istantaneamente tutti i tipi dei più noti signori in città: non erano gente a lui superiore per spirito, solamente erano signori. Ecco la vera, più costante superiorità nella vita. Una rabbia fredda gli strinse il cuore; egli periva come tutto il resto dei poveri o dei piccoli, appunto per essere piccolo e povero. Si ricordò del conte Landi, uno scapestrato del paese, che aveva fatto più d’una firma falsa, ma al quale per riguardi di nome e di parentele tutti erano venuti in soccorso, e lo salutavano, lo ricevevano sempre. Tale ingiustizia gli diede quel senso amaro di orgoglio contro la società, che aveva sempre sentito nei discorsi dei radicali, condannandolo come una bassa invidia. Invece era proprio così; a parte ogni altra differenza, la società giudica secondo le persone. Essere ricco! non v’era altra guarantigia, mentre egli si era rovinato stupidamente per sembrarlo; non si poteva essere più sciocco, lo capiva, se lo ripeteva con tutto il fiele, col quale l’avrebbe detto e ridetto sul viso al proprio peggiore nemico.
Venne alla finestra. Fuori c’erano le griglie chiuse, ma attraverso i loro vani gli apparve un lembo della strada e delle case di fronte: non passava alcuno, tutti dormivano ancora. Tese l’orecchio. Nessuno in tutta la città doveva trovarsi come lui in quel momento; involontariamente si paragonò ad un condannato a morte, ricordandosi in un lampo tutti gli articoli delle esecuzioni capitali letti sui giornali. Allora non gli erano parsi che interessanti.
La testa gli girava.
Perchè tanti altri peggiori di lui erano più fortunati? Egli non aveva commesso che una sciocchezza nella vita, innamorarsi di una cantante da operette, e non aveva fatta che quella firma falsa, sapendo di poterla sempre pagare colla vendita del podere. Era dunque appena uno strappo nelle formalità del codice, un fallo di procedura: lo sentiva, era sicuro di non ingannarsi. Era ancora un onest’uomo, uno scemo magari, che si era mangiato troppo presto il piccolo patrimonio della mamma, ma non un delinquente. Non aveva mai rubato. In quel momento si ricordava in blocco tutta la propria vita con una specie di malinconica alterezza, potendo ancora giudicarla migliore che quella di tanti.
Non vi era giustizia in tutto ciò; perchè tanta disparità di trattamento?... E Giovannone? pensò a denti stretti per la collera, ricordandosi uno dei più tristi farabutti della città, appaltatore, negoziante, baro, fallito, quasi ridicolo per i troppi incendi dolosi, e che nullameno aveva ammassato un duecentomila lire, era socio del club, della barcaccia, membro nella società delle corse, e avrebbe potuto essere magari consigliere comunale, volendo.
Se come tanti, i quali falliscono con un bel gruzzolo in tasca, avesse avuto nel portafogli molte migliaia di lire, sarebbe fuggito subito a Genova e di là in America, scrivendo poi alla moglie di venirlo a raggiungere. In paese avrebbero parlato qualche giorno di lui, Caterina avrebbe pianto, piuttosto per la sorpresa che per la vergogna, e si sarebbe imbarcata anche lei senza volergli meno bene di prima. Quella cambiale falsa non significava nulla moralmente, ma era stato come a lasciarsi prendere un dito nell’ingranaggio della ruota: nessuno vi salva più, si è presi, battuti, masticati da tutta la macchina, irremissibilmente. In America avrebbe mutato vita, e forse fatto fortuna per conseguenza di quella medesima cambiale falsa. Non lo aveva visto egli stesso mille volte? Non lo si vedrebbe anche nell’avvenire?
Ma senza danaro era impossibile salvarsi.
Adesso comprendeva lo spasimo feroce dei poveri alla vista dei ricchi, quegl’impeti fulminei di vendetta, che accendono gli sguardi e storcono le labbra. Perchè non era egli ricco? Perchè altri lo era? L’eterna, oscura domanda aveva dentro il suo cervello un rintocco lugubre di campana nella notte. Milioni di gente, morta o agonizzante come lui unicamente per mancanza di danaro, l’aveva ripetuta variandola indarno per tutta la gamma degli accenti, senza ottenere una risposta; lo strazio di quasi tutta l’umanità non aveva ancora meritato, nonchè la soluzione, una tregua al problema. Da due ore si sentiva sempre più venir meno sotto l’oppressione di tale necessità, come sotto un peso, che gli produceva sull’animo gli effetti dell’asfissia.
Si era tolto, senza accorgersene, dalla finestra e passeggiava per lo stanzino; fortunatamente le sue scarpe non scricchiolavano.
In quella visione netta della soverchiante importanza, che il danaro ha nella vita, e della impossibilità di attirarlo per meriti di virtù o di dolore, si era rivolto immediatamente col pensiero alla vendita del podere per fuggire in America. Ma lì pure si trovava a fronte dello stesso muro; il podere, che poteva valere dalle trentacinque alle quarantamila lire, era coperto di ipoteche, così che vendendolo onoratamente gli sarebbero forse rimasti cinque o sei mila franchi. I compratori non mancavano. Ferdinando Storchi, fra gli altri, l’occhieggiava da un pezzo; però un podere non si vende al mercato, come un paio di buoi, intascandone subito il prezzo, solo coll’abbandonare al compratore un paio di scudi. Anzi i quattro buoi del podere non erano nemmeno suoi, ma da tre anni del contadino. La casa pure aveva due ipoteche addosso per quasi cinquemila lire, e sarebbe stata più difficile a vendersi nel deprezzamento graduale di tutti i fabbricati da qualche anno: già la tassa medesima bastava oramai a divorarli. Non aveva altro; i mobili dell’appartamento non contavano, il suo credito era esausto: a far molto, avrebbe potuto racimolare qualche centinaio di franchi per fuggire solo. Che fare poi? Solo, si sentiva morire, giacchè non lo era mai stato. Prima, il babbo e la mamma lo avevano allevato in casa, vezzeggiandolo continuamente come figlio unico, poi il babbo era morto, ed egli si era ammogliato; non aveva imparato una professione, ma la colpa veramente era stata sua nel troncare gli studi dopo due anni di università, profittando stupidamente della condiscendenza dei genitori. Quindi la sua gioventù era passata fra i piccoli piaceri dell’ozio in quella cittadina; un po’ di caccia, il teatro nell’inverno, la partita al caffè, preoccupandosi soprattutto di vestiti, leggendo a mala pena i giornali.
Poco più tardi aveva sposato Caterina, unica figlia, dell’ex-ingegnere comunale, morto senza un soldo.
Come si era innamorato? Si era nemmeno innamorato? Egli stesso avrebbe stentato a poter rispondere: si era trovato così, quasi senza accorgersi, nell’impegno; la ragazza era buona e piacente, la mamma vedeva di buon occhio che egli si ammogliasse presto, per meglio scansare i pericoli di una giovinezza sfaccendata; ed egli lo aveva fatto allegramente, trovandosene bene anche dopo. Null’altro. La passione non vi era entrata. Quando la mamma si ammalò mortalmente di tifo, egli aveva già i due bambini, che riempirono in casa quel vuoto: tutto era andato bene sino allora, malgrado la dilapidazione sistematica e segreta del piccolo patrimonio. Caterina non aveva pretese, egli non sfoggiava nè troppo lusso, nè troppi vizii, così che i più tra gli indifferenti, coloro che non indagano nella vita al di là delle apparenze, dovevano ancora crederlo nella sicura e modesta posizione lasciatagli dalla mamma.
Invece erano bastati sei o sette anni per arrivare a tal punto.
Il dramma non poteva essere più semplice ed oscuro, un vero naufragio d’insetto in una goccia d’acqua piovana, fra due selci di strada.
Nullameno l’espiazione superava di troppo il peccato. Perchè morire, come nelle più alte tragedie, per una bagattella di cambiale, che la vendita del podere avrebbe sempre potuto saldare? Per lo meno ciò era altrettanto assurdo che ingiusto. Tutta la sua stessa onestà protestava contro un simile trattamento: morire! come? perchè? quando? La risoluzione sul modo sarebbe stata la vera decisione sulla cosa: come morire? Egli non lo capiva ancora, benchè i ricordi di molti altri suicidi gli mostrassero la tragica molteplicità delle varie maniere, tutta una visione lontana, nella quale l’anima non voleva istintivamente entrare. Forze più vive e misteriose la tiravano indietro nel passato, fra quadri domestici e campagnuoli, sotto il sole, in mezzo a brigate chiassose, a caccia, a teatro, nella intimità della sua casa colla moglie e i bambini. Egli non era nato per altro; le grandi emozioni, le imprese difficili non le comprendeva nemmeno abbastanza per ammirarle davvero, ma piuttosto le giudicava col volgo un romanticismo di teste stravaganti, salvo a consentire nel loro trionfo, e a giudicarlo un risultato dovuto ad un’altra categoria di gente, colla quale nè egli nè i suoi pari avrebbero mai a trattare. Così, riuscendo a trarsi da quell’impiccio, avrebbe poi finito come tutti gli altri in qualche impiego per mandare avanti la casa ed istruire i bambini. Tale quadro consolante gli appariva in una limpidezza di aurora con particolari quasi fragranti; egli si attardava, s’inteneriva dicendosi che alleverebbe Carlino meglio assai che la troppa condiscendenza dei genitori non avesse allevato lui, gl’insegnerebbe ad evitare i pericoli della gioventù nell’ozio della provincia, lo farebbe studiare avviandolo sicuramente sopra una bella strada. Ada aveva un carattere mite, tutto simile a quello di Caterina, e non gli dava pensiero.
Il suo cuore gonfio di pietà batteva più adagio: la confidenza gli tornava appunto nella intimità di quel gabinetto, nel quale pochi minuti prima si sentiva come straniero. Era rimasto cogli occhi spalancati nell’incanto di quella visione. La virtù di una simile vita era già un argomento abbastanza gagliardo contro la morte, che avrebbe rovinato tutti quegli innocenti, mentre l’espiazione del reato, purtroppo commesso, finiva col perdere della propria necessità nell’oblazione incondizionata di se stesso ai loro bisogni. E per un momento provò la pace fiduciosa, che la preghiera lascia nelle anime capaci di annullare dentro il mistero di Dio la propria volontà dolente.
Ma nemmeno questa illusione durò.
L’idea del processo, dileguata per un momento dentro la luce azzurra di quel quadro, gli apparve daccapo in tutta la propria terribilità. Forse lì stava l’espiazione vera, la purificazione violenta del dolore per ritornare poi lontanamente alla vita, se il suo spirito fosse stato abbastanza poetico per comprendere la superiorità anche pratica di una tale soluzione. Invece egli si fermava fatalmente all’orrore delle esteriorità penali, l’arresto, il dibattimento, la condanna, senza la convinzione di aver peccato davvero, e quindi nell’assoluta impossibilità di capire tale rovina. In questo caso diventava più ragionevole morire, risparmiandone a sè e agli altri l’inutile spasimo.
Tutto il problema era lì.
Invece non aveva che voglia di piangere; grosse lagrime gli si staccavano dagli occhi, mentre una trepidazione di fanciullo gli taceva rannicchiare tutte le membra quasi per farsi più piccolo, colle mani strette fra le coscie, scuotendo il capo paraliticamente. Era un pianto silenzioso, quasi dolce, che gli avrebbe reso facile persino la morte, se quello avesse potuto esserne il modo: vanire come una rugiada, che il sole essica coi primi raggi, o come un singhiozzo indistinto nei soliti rumori del giorno.
— Mio Dio, mio Dio! — mormorava tratto tratto, quasi sotto una sferzata improvvisa.
Infatti i terrori gli ritornavano in folla, più veementi. Non era più tempo da effusioni, il giorno poteva tardare poco a spuntare; una risoluzione era necessaria, anche per non osare di risolvere nulla, giacchè un qualunque contegno, un discorso bisognava pur prepararlo per presentarsi a Caterina o alla serva. Questa era solita ad alzarsi per tempo, qualche volta andava alla prima messa.
Guardò l’orologio: erano le due e mezzo.
La candela, bruciata più che a mezzo, aveva sulla punta dello stoppino una larga gemma rossastra, intorno alla quale saliva il fumo; la smoccolò con un buffetto, e rimase un pezzo a guardarsi l’unghia del dito medio lievemente annerita, come non sapendo più in qual modo pulirla.
La gola gli bruciava, lunghi crampi gli attanagliavano lo stomaco.
Prese la candela, e in punta di piedi venne nella saletta. Tornò ad origliare, quindi rassicurato da quel russo leggero della moglie, si accostò alla tavola per mescersi un bicchiere di vino. Sulle prime non andava giù, le lacrime gli tornavano agli occhi. Allora sedette guardingamente al posto solito, poggiando ambedue i gomiti sulla tavola.
Aveva scoperto macchinalmente il piatto, nel quale stava il mezzo pollo: le lagrime gli intorbidavano la vista, aveva paura di far rumore, e nullameno non avrebbe più saputo rientrare nel gabinetto. Era come una tappa già oltrepassata, la prima seduta del processo, che doveva fare a sè medesimo, eseguendone alla fine la sentenza colla inesorabilità di un carnefice. Adesso tutto diventava irrevocabile nel suo stato: non poteva formulare un pensiero, fare un gesto senza sentire che posdomani non avrebbe potuto più ripeterlo. Il suo tempo era misurato; anche se non lo avesse voluto, il più insignificante fra gli atti della sua vita di prima diventava ora di una tragica importanza. Invece la sensazione più acuta gli veniva dal freddo dello stomaco, vuoto sino da quella colazione del mattino nella trattoria delle Tre Zucchette. Benchè la possibilità di mangiare in simili condizioni gli ripugnasse, aveva senza accorgersene rotto fra le dita un cornetto del pane, e stava per metterselo alle labbra.
Quindi si rinfrancò con un secondo bicchiere di vino, guardò il pollo; la sua cresta era bruciacchiata nelle punte, due o tre goccie di grasso dorato si erano coagulate nel fondo del piatto.
— Adesso — mormorò, come se nel cedere a tale bisogno fisico scemasse valore a quella orribile situazione.
Poi le abitudini lo riprendevano; tagliò la pagnottina nel mezzo dividendola a fette, avvicinò la candela, dispose la saliera, insinuandosi la punta del tovagliolo dentro il colletto, come usava pranzando cogli abiti che portava fuori di casa.
Il viso gli rimaneva lagrimoso.
Nella saletta tutto era al solito posto. La sua grossa pipa in legno, ricurva, di modello tirolese, stava sul camino presso alla scatola dei grandi zolfanelli bianchi, fatti con le cannuccie di canapa: nella credenziera di legno giallo, fra i bicchieri e le bottiglie, si vedevano i due vasetti cilindrici, dorati, colla scritta nel mezzo — caffè — zucchero — ; sotto, fra il coperchio e il cassettone di fondo, nel quale erano disposti i piatti coi vasi delle conserve sotto aceto e delle ciliege nello spirito, v’era il panierino da lavoro della moglie con due grandi lettere sanguigne, ricamate in lana. Presso il camino chiuso dal paravento, giacchè da quindici giorni in quella mitezza di stagione non vi si accendeva più il fuoco, i fascetti di vite e i ciocchi segati riempivano ancora il panierone, mentre il grande cavallo pezzato di Carlino, con una gamba rotta sino quasi alla spalla, dormiva rovesciato sopra una sedia, scoprendo le rotelle del proprio basamento orribilmente fuori di squadro. Egli si ricordò che una rotella era spaccata sino quasi all’asse.
Aveva già riconosciuto tutti quei piccoli segni della sua vita quotidiana.
Caterina, i bambini e la serva non dovevano aver mangiato che l’altra metà del pollo; egli conosceva bene il piccolo ingegno parsimonioso della moglie e la sua abilità nel rimpinzare i bambini dando loro poca carne.
Questo particolare lo commosse di tenerezza; Ada era più docile, ma Carlino, famelico e battagliero come tutti i fanciulli che fanno molto moto, diventava spesso insopportabile. Egli, il babbo, avrebbe quasi sempre ceduto, se la mamma non si fosse opposta col solito argomento:
— No, bisogna che i bambini si avvezzino.
⁂
— Si avvezzeranno pur troppo... Adesso non temono ancora di nulla; ma non bisogna parlarne, tanto non servirebbe loro nemmeno dopo...
E la frase gli si imbrogliò, ma voleva dirsi, provandone un grande sollievo di egoismo, all’idea di non essere presente alla scena della catastrofe quando finalmente dovrebbero apprenderla: almeno io non ci sarò più!
Gli era accaduto spesso di rincasare tardi, a quel modo, cenando solo mentre gli altri già dormivano, e aveva sempre notato che la sua parte di cena era più abbondante che non quando mangiavano tutti insieme. Questo delicato riguardo alla sua autorità di capo di casa gli faceva ogni volta la stessa impressione gradevole: poi, dopo cena, era solito a fumare una pipa prima di entrare nella camera da letto.
Era come un ritorno alle sue notti di scapolo negli ultimi anni, prima del matrimonio, quando il babbo e la mamma, che si coricavano invariabilmente alle nove, gli lasciavano tutto preparato nella saletta, ed egli dormiva allora nello studiolo. Qualche volta si faceva accompagnare da un amico, ma, finchè era stata viva la mamma, non aveva mai osato, nemmeno di notte e sicuro di non essere sorvegliato, condurre seco alcuna donna: dopo, il rispetto della moglie e dei bambini lo avevano egualmente preservato da tale bruttura. Anzi, una volta che Camilla con quel suo riso impudente gli aveva detto a bruciapelo:
— Scommetto che tu non osi portarmi a cena in casa tua, ora che tua moglie dorme; ne hai paura, — questa frase gli aveva fatto una penosa impressione.
Invece la perversa ragazza aveva durato a riderne con gli altri per forse dieci minuti. Quella sera cenavano in quattro all’albergo del Falcone in uno dei camerini a pianterreno sul cortile. Con Camilla era venuta la grossa De Angelis e la Nani, più vecchia, con quel lungo neo nel mezzo della gota destra, Viani, l’ufficiale, con Ridolfi e Politi. Questi era già del tutto rovinato. Si era fatto del chiasso e bevuto del Conegliano spumante; poi egli aveva accompagnato Camilla a casa senza potervi entrare, malgrado tutte le istanze.
Camilla aveva il carattere cattivo; era di una eleganza stracciona, di un biondo ardente nei capelli e con una bocca quasi sanguinolenta.
La prima volta parlandole all’albergo, il terzo giorno dacchè la compagnia cantava all’Arena Borghesi fuori di porta Montanara, era rimasto interdetto dalle sue risposte. La ragazza vestiva un abito chiaro tutto sgualcito, con un paltoncino in casimira avana, del quale la fodera azzurra cominciava a tagliuzzarsi. Anche il suo cappellino rotondo, di una bizzarria temeraria, aveva i nastri e i fiori invecchiati.
Nessuno la trovava molto simpatica, benchè tratto tratto sulla scena scattasse in gesti di una comicità lubrica ed assieme ingenua. Egli invece era rimasto impressionato vivamente dal modo appunto nel quale si era lasciata prendere un bacio nel Boccaccio, costringendo la platea a gettare un urlo animale.
— Posso venirvi a trovare domani? — egli le aveva susurrato all’orecchio nell’offrirle il paltoncino, mentre la comitiva già in piedi stava per uscire dalla sala.
La ragazza lo aveva guardato enigmaticamente. Egli era andato, ma indarno; Camilla era fuori di casa. La sera aspettò al cancello dell’Arena per accompagnarla, ma la vide uscire con altre amiche ed alcuni giovanotti. Allora si mise a seguirla; la compagnia andava all’albergo del Falcone, Camilla invece si fermò alla propria porta. Egli affrettò il passo sfiancando al primo vicolo, lasciò passare il gruppo e tornò indietro: le finestre erano socchiuse.
Passeggiò, tossì, zufolò inutilmente per mezz’ora. Passava sempre gente; improvvisamente la porta si aperse, e Camilla uscì senza guardarsi attorno.
Egli la raggiunse.
— Ah! siete voi.
— Ero venuto oggi.
— Non ero in casa.
— Dove andate?
— A cena.
— Sola?
— Sola.
— Non mi volete?
— No.
— Perchè?
— Vi è bisogno di un perchè?
Egli rimaneva impermalito. Camilla invece aveva riso gaiamente; ma si erano accompagnati.
— Mi avete veduta stasera vestita da bebè?
— Siete sempre incantevole!
— Infatti mi parete incantato. Come vi chiamate?
— Adolfo.
— Avete moglie?
— Perchè me lo chiedete?
— Mi avete pur chiesto di accompagnarmi. Dove andiamo a cena? Badate che non voglio trovarmi con alcuno della compagnia.
Era una cosa difficile; nondimeno egli promise che all’Aquila d’Oro non avrebbero incontrato alcuno. Non era vero. Infatti ve n’erano molti. Camilla chiamò due o tre donne e uno dei tenori, cenarono, risero; ella diventava di una gaiezza sempre più irritante, mentre gli altri avevano l’aria di spalleggiarla in quella scena.
Solamente due giorni dopo egli era diventato l’amante.
La ragazza, senza un soldo, golosa, bestemmiava alla più piccola contrarietà e si lavava appena; la prima notte aveva ancora sul collo tutta la biacca della recita, ma in compenso diventava tratto tratto di una sfrenatezza voluttuosa, alla quale nessuno avrebbe potuto resistere. Egli ne era stato travolto. Quando la mattina sulle otto si destò dal torpore, che lo aveva sorpreso a giorno alto, ella intenta già a pettinarsi tornò verso di lui coi capelli mezzo disciolti; aveva la bocca più sanguinolenta nel volto più livido.
— Come ti senti? — gli disse ironicamente al vederlo così sfatto.
Un bagliore le correva sulla faccia smorta; gli aveva messo una mano nei capelli e gli tirava su la testa per cacciarsela in seno. Poi lo lasciò ricadere sul cuscino.
— Gli uomini, mi piace di vederli così.
Questa frase, che allora gli era parsa piacevole, non aveva più potuto scordarla: gliene era rimasta, in fondo all’anima come una paura segreta, non scevra d’antipatia. Infatti non si erano ancora detto di amarsi, malgrado l’inganno così facile in simili relazioni, quando la stanchezza inclina alla sentimentalità; egli rimaneva con un vago rimorso nella coscienza, ella non parlava che di teatro, della vita a Milano, ove era stata mantenuta di un gran signore. Allora cominciavano per lui le torture. Quella donna quasi magra, di un pallore caldo, coi grandi occhi grigi e quella bocca quasi sanguinante, non aveva mai un momento di abbandono; anzi ad ogni eccesso i suoi moti parevano diventar più agili, e dopo aver girato e rigirato per la camera, andava a gettarsi sul vecchio sofà mezzo sgangherato, stirandosi come un animale al sole.
Era la sfida inconscia della femmina, che può nutrirsi impunemente con qualche cosa anche più vitale del sangue, e nella propria insaziabile voracità non si compiace che di se stessa. Egli se ne rendeva conto a mala pena, ma ne soffriva. Era la prima volta che una donna gli faceva provare certe cose.
Ma poi si era innamorato, forse appunto per non sentirsi corrisposto, senza potere più adontarsi delle trivialità, che ella gli scopriva ad ogni momento. Una sensazione acuta lo vinceva al solo vederla, e subito dopo non gli restava che un bisogno crescente, tormentoso, di stringerle la testa fra le mani e di coprirla di baci. Ella, quando non era in vena di carezze, arrivava tosto alle ingiurie, l’altro implorava con tenerezze umilianti, si bisticciavano per finire sempre allo stesso modo, egli offrendo qualche regalo ed ella ricusando per irritarlo maggiormente, così sicura di se stessa che nemmeno si pigliava l’incomodo di mentire. Tali provocazioni impudenti, invece di farlo fuggire, lo attiravano tristamente, per quel mistero della donna, che solamente nell’abbiezione di tutta sè medesima trova le proprie forze supreme. Talora si prometteva di smettere, perchè quella ragazza, chi era mai finalmente? Una cantante d’operette, come tutte le altre, senza educazione, senza cuore, senza nulla; nemmeno piaceva agli altri. Come mai non piaceva? Forse nessuno l’aveva ancora veduta a certi momenti come lui. Questa supposizione vanitosa, inevitabile a tutti gli innamorati per il bisogno di modificare qualche cosa nella propria amante, lo rieccitava alla speranza di farsi amare, come se l’amore solamente potesse spiegare in lei quegli scatti deliranti.
Ella invece lo canzonava anche in pubblico sui vestiti, sulla sua educazione e soprattutto sulla spilorceria.
Due volte credette di averla abbandonata.
Quando le tornò l’ultima volta, ella gli buttò le braccia al collo; era mezzo discinta, aveva mangiato allora allora delle sardine colla cipolla, e il suo alito se ne risentiva.
Lo guardò fiso:
— Non te ne andrai che quando io vorrò!
Egli sentì la verità di questa condanna, poi pregò, ella non acconsentì in quel momento.
Poco dopo egli piangeva sopra una sedia.
— Non hai tua moglie?
Questa crudele bassezza non l’offese.
— Se ti annoi, vattene, — ella riprese: — per quello che mi hai dato, siamo pari.
— Che cosa vuoi?
Non pertanto aveva già speso molto danaro per lei, senza che la ragazza si fosse rimpannucciata. Dove lo metteva adunque? Neppure essa avrebbe saputo dirlo: aveva pagato dei debiti, ne aveva prestato alle compagne, lo buttava in piccole compre, e finiva col non avere mai un soldo, così credendo, quasi in buona fede, di non costargli nulla.
Intanto nella città la cosa cominciava a propagarsi. Egli sul principio temette qualche scena dalla moglie, poi rassicurato dalla ignoranza, che la vita casalinga le faceva, non ebbe più ritegno; solamente, quando rimaneva fuori di casa tutta la notte, inventava pretesti. Una strana morbosità aveva finito col fargli credere di essere cresciuto d’importanza possedendo quella ragazza di un temperamento così acre e voluttuoso. Tutte le segrete vanità del maschio, acuite da una passione mal corrisposta, si combinavano grottescamente nella sua testa. Poi erano esplosioni ardenti e luminose di sensualità, che lo lasciavano senza forza per andarsene, in una di quelle stanchezze pesanti ed insieme gradevoli, come dopo certe scorpacciate, quando si prova un ultimo piacere nel non potersi più muovere.
Ma i giorni passavano rapidamente, la compagnia doveva trasportarsi a Cesena.
— Mi lascerai? — egli le chiese scioccamente una mattina.
Ella, intenta a pettinarsi, lo guardò senza rispondere. Nella cassetta di cartone, entro la quale teneva i pettini, le forcelle e gli sfumini per pinturicchiarsi la faccia, c’erano tre o quattro fotografie di uomini e di donne.
Egli ne prese una.
— Dove sarà costui adesso?
— Chi lo sa!
— Eppure è stato il tuo amante! — sospirò tristamente.
— Vorresti che mi seguissero tutti? — ella rispose con uno scoppio di riso.
Capiva di essere assurdo, eppure la volgarità di quel finale gli faceva una pena infinita. Quella mattina le aveva portato centocinquanta lire, delle quali la ragazza diceva di essere in debito col direttore: il danaro era ancora sul comò.
— Mi verrai a trovare?
— Sì.
— Non ti credo. Voi altri uomini dimenticate anche più presto di noi altre; poi tu hai paura della moglie.
L’ultima sera, in teatro, mentre il pubblico fingeva allegramente d’entusiasmarsi in quella rappresentazione di addio, egli si sentiva il cuore così grosso che avrebbe quasi pianto; invece gli toccava di vociare in mezzo agli amici per non attirarsi i loro sarcasmi, e nemmeno vi era riuscito. La compagnia partiva la mattina col primo treno delle quattro; ma non ostante tutte le promesse, quella notte la ragazza non volle riceverlo: egli ne rimase furioso. Stette insino all’alba per i caffè, e andò con altri due nottambuli alla stazione per vedere la partenza.
Era già dimenticato. In quel trambusto, tra i fagotti, le valigie e tutti quegli uomini e quelle donne sonnacchiose, malvestite, affaccendate intorno alle proprie robe, mentre gli impiegati giravano su e giù con le lanterne, rispondendo con accento seccato alle brevi contestazioni, non gli fu possibile trovare il momento per uno sfogo. La ragazza sfringuellava sempre in qualche crocchio di compagne, quasi tutte incollerite, o correva su e giù per le sale con certi moti vispi, che a lui svegliavano troppi ricordi. Finalmente potè rattenerla un istante.
— Venite a Cesena domani sera, — ella gli disse senza badare alle sue parole.
Egli nascose a stento lo sdegno, l’altra era già lontana.
Quando il treno arrivò, il rimescolìo divenne pazzo addirittura. Era un treno diretto: il grosso dei bagagli restava in stazione per partire con un altro treno della giornata. Le donne si cacciarono dentro i vagoni con un garrito di passere, alcune in seconda, altre in terza classe; dagli sportelli aperti si vedevano gli scompartimenti gremirsi in un attimo di sottane, di cappellini, di fagotti, di valigie, mentre la voce dei conduttori scoppiava tratto tratto in sollecitazioni impazienti, e le figure tumultuavano dietro gli sportelli già chiusi, mentre il treno fischiava divincolandosi.
Egli rimasto sul marciapiede col cuore stretto e gli occhi fissi allo sportello, dietro il quale ella era scomparsa, traballò come il suolo, allungando il collo per vedere ancora, ma la fila nera dei vagoni si allontanava già, senza che la ragazza avesse sporto il capo dalle tendine svolazzanti nel vento di quella fuga.
L’indomani sera andò a Cesena.
D’allora la sua passione crebbe morbosamente. Camilla aveva confessato subito di avergli trovato un successore, con quella inconsapevole spudoratezza, davanti alla quale si resta quasi perplessi di aver torto; egli si esasperò, pianse, discese alle minaccie, e finì col lasciarsi vincere dalla prima carezza. Non pertanto gliene restava in fondo al cuore il rancore. Sciaguratamente l’altro era facoltoso, un uomo quasi sulla cinquantina, celibe, vissuto sempre allegramente, che, nell’apprendere la cosa, rise. Quindi una gelosia di vanità avvelenò quell’amore nato da un capriccio e cresciuto fra le immondizie della vita e della scena. Egli avrebbe voluto essere ricco per trarla da tale compagnia di saltimbanchi, tenendola tutta per sè in una qualche casa solitaria; e forse così sarebbe guarito; ma quella lotta senza alcun orgoglio morale, interrotta da transazioni ignobili, dopo le quali si sentiva più male di prima, lo degradava anche ai propri occhi.
Alla terza gita gli toccò di passare tutta la notte per Cesena, perchè Camilla cenava in casa di quel signore con alcuni artisti della compagnia; quindi capì che dovevano ridere di lui e della sua ridicola passione col cinismo proprio di tale gente, quando trova nel vino l’ultima falsa gaiezza.
— Come avrei dovuto fare? — fu tutta la risposta di Camilla nell’incontro successivo.
L’altro aveva una voglia pazza di batterla.
Improvvisamente ella cangiò: si era fatta malinconica, non discorreva più!
Era vestita elegantemente con un abito di lanetta crema, un cappellino piatto sulla testa, le scarpette gialle, le calze nere; il suo viso illuminato dalla fiamma dei grandi occhi grigi, fissi in uno sguardo indefinibile, diventava di una certa signorilità.
Egli stesso fu sorpreso da un nuovo sentimento.
Poi Camilla parlò adagio, coll’accento stanco di chi si lascia andare ad una confessione pur sapendola inutile; erano brani della sua vita passata, evocazioni triviali e dolenti di una giovinezza sagrificata come tante altre dalla brutale corruttela dei genitori. Ella pareva accettarne la necessità con una confusa poesia di sagrificio.
Però era stanca di se stessa.
Lo congedò, egli protestava.
— No? E perchè? A che cosa mi servi tu?
— T’imbarazzo? — egli rimbeccò amaramente.
— Certo.
— Come?
— Tu non puoi niente per me.
Dopo un lungo battibecco ella confessò di avere un bisogno imprescindibile di duemila cinquecento lire; doveva questa somma al direttore, che aveva minacciato di scacciarla. Evidentemente si trattava di una frottola, ma la sua faccia era così ansiosa e il suo accento così convinto, che l’altro si lasciò commuovere.
— Tu non li hai; poi se li avessi anche... ti conosco.
— E dopo che te li avrò dati, mi tratterai allo stesso modo?
Un lampo bruciò negli occhi della ragazza, egli lo vide.
— Mi vorresti possedere tutta la vita per duemila e cinquecento franchi!... Vattene.
Egli titubava.
— Mai più, mai più!
— Almeno l’ultima volta.
Ella ebbe una smorfia così sdegnosa che l’altro ne provò quasi la sensazione di uno schiaffo.
— Quando ti occorrerebbero?
— Vattene.
Camilla si era tratta il cappellino e si spogliava senza badargli più, come se fosse già uscito: l’altro rimaneva perplesso, guardandola girare in sottana per la stanza col petto già scoperto e il busto azzurro-cupo, listato d’oro, che le disegnava una curva di anfora sulle anche e sul ventre.
Si accostò per darle un bacio, ma ella lo respinse brutalmente contro una sedia.
— Avaro!
— Non credi che io abbia duemila e cinquecento lire?
— Forse non le hai nemmeno, pitocco. Ma levati dunque di qui... Dio! che antipatico!
Era uscito pallido, con una tempesta di odio nel cuore.
Che cosa era accaduto dopo? Non se ne ricordava bene che l’ultima parte, la più terribile, quella che d’allora gli aveva creato tale tragica situazione. Era entrato nella bottega dello strozzino sotto il loggiato alle undici; passava poca gente; la piccola bottega al solito era vuota. Nella vetrina, distese come dentro una cassa di vetro, luccicavano molte antiche monete d’argento, e si drizzavano tinte di un pallido cilestro due larghe cartelle di una lotteria comunale: dentro, null’altro che un banco rettangolare, nero, che nascondeva forse nel ventre la piccola cassa forte, e parato al disopra di un panno turchino come usano gli orefici. Lo strozzino sedeva al banco leggendo la «Gazzetta dell’Emilia». La sua faccia grinzosa si volse di sbieco, ma gli occhietti grigi non si mossero, e la bocca rapace, quasi rientrata nel vano delle gengive, rimase chiusa come sempre. Siccome l’altro si levava il cappello, anche lo strozzino salutò; allora la sua fisonomia divenne così caratteristica che Romani ebbe quasi paura davanti a quella testa pelata, piatta, con pochi capelli incollati sulla fronte, come una testa di magro avoltoio.
Il dialogo aveva cominciato stentatamente.
Poi una disinvoltura quasi spavalda gli era venuta improvvisamente, presentando quella cambiale falsa, ma colla firma imitata benissimo; lo strozzino avrebbe dovuto comprendere che colla firma di un tal signore non occorreva certo rivolgersi a lui per lo sconto; non di meno la sua fisonomia, ancora più chiusa in quel momento della sua cassa forte, non esprimeva nulla. Guardava attentamente la cambiale.
— Desiderereste per caso una firma migliore? — Romani credè di poter aggiungere scherzando, mentre un sudore freddo gli inumidiva istantaneamente tutta la pelle.
— Sconto del dodici per cento: impossibile a meno, lo sapete.
E lo strozzino aveva riabbassato gli sguardi sulla cambiale.
— È troppo.
— Presentate ad un altro la vostra cambiale; del resto ha una firma, che vi fa onore.
Vi era un doppio senso in queste parole?
L’altro si era affrettato a cedere.
— Ebbene, ripassate oggi alle due — soggiunse lo strozzino, mettendo accuratamente la cambiale in una casella del vecchio portafogli, che portava in tasca: adesso non ho pronto tutto il danaro.
Romani aveva avuto come una vertigine; guardava quella testa glabra, rugata, nella quale la bocca storta e socchiusa sembrava immobile per la fatica di una troppo lunga masticazione, mentre negli occhietti grigi si accendevano brevi luccicori di acciaio vecchio. Tutto in lui era povero; il colletto della camicia dritto, ma senza amido, usciva da un sottile cencio di cravatta, che doveva stringergli il collo fin troppo, il bavero del pastrano era grasso, il resto degli abiti sgualcito e stinto. Solo le scarpe apparivano solide, grosse e rossastre nella peluria, che la mancanza del lucido aveva lasciato crescere sulla tomaia.
Fino alle due Romani era vissuto dentro un incubo. Se ne ricordava bene, giacchè tutte le percezioni gli erano rimaste chiare: si era sentito già denunziato, perduto, senza che dal fondo dell’anima gli sorgesse una qualunque resistenza.
Quando rientrò nella bottega, aveva quello strano sorriso, col quale gli ammalati senza speranza accolgono talvolta il medico. L’altro invece era più ciarliero: trasse di tasca il danaro, lo contò e lo ricontò alla sua presenza.
Romani vi scorse un bono da cinque lire falso, ma non osò farne l’osservazione: si sentiva scoppiare in una dilatazione subitanea di benessere, che gli gonfiava cuore e polmoni; negli occhi gli entrava una luce stranamente limpida e, poichè vide passare due signore di sua conoscenza sotto il loggiato, si volse scioccamente per salutare.
— Siamo intesi per la scadenza.
— Non dubitate.
— Se avessi dubitato...
Ma Romani aveva già la gruccia dell’uscio in mano.
— Come sta il conte? — gli chiese l’altro alle spalle.
— Bene.
E si era affrettato ad uscire.
Corse alla stazione, alle quattro scendeva a Cesena. Non trovò la ragazza a casa. Quando l’incontrò due ore dopo, in compagnia di altri cantanti, non potè farle che un cenno, cui ella finse di non badare.
Allora divenne imprudente, la pedinò sino a casa e, poichè salivano anche coloro con lei, poco dopo arrischiò di presentarsi.
La padrona non voleva lasciarlo passare, Camilla accorse al rumore.
— Ho quella cosa, — egli le gridò quasi.
— Dammi... — e tese puerilmente la mano.
Ma l’altro non si mosse; non di meno il suo viso era così raggiante che la ragazza rimase convinta.
— Torna fra tre quarti d’ora. L’hai tutta, quella cosa?
Mezz’ora dopo risalendo le scale, giacchè nel bollore della propria impazienza non aveva neppure potuto attendere tutto il tempo assegnatogli, Romani incontrò per le scale un facchino carico di un baule; la ragazza era ancora sulla porta dell’appartamentino guardando.
— Ah! sei tu, vieni, — esclamò con un tremito nella voce; ma, appena dentro, la sua fisonomia si era fatta repentinamente dura.
— Non mi hai ingannata?
Egli, che aveva comprato appositamente un altro portafogli, lo trasse di tasca e glielo offerse: era di seta azzurra con una ballerina dipinta nel mezzo. La ragazza si chinò con le mani tremanti sul comò a contare il danaro; ma non erano che duemila e quattrocento lire, perchè egli ne aveva cavato un bono da cento, rosso, per quella piccola avarizia del non voler perdere tutto.
Ella gli saltò impetuosamente al collo mordendogli le guance, rispondendo alle sue parole come in una ubbriachezza improvvisa:
— Sì, sì.
Non poteva star ferma, si mise a girare su e giù per la stanza.
— A che ora sarai libera? — domandò tutto felice di contemplare quella sua gioia profonda: — Mi ami un poco adesso?
Non aveva saputo dir altro, soffocato egli stesso dal bisogno di riprendersela fra le braccia, per sentirsi scricchiolare sul petto il suo sottile corpicino di danzatrice.
Dopo, per tutta quella notte era stato come un abbarbaglio di girandola, un tumulto giocondo e brutale, che lo aveva lasciato al mattino rifinito e assonnato sul guanciale.
— A che ora parti? — ella gli aveva chiesto con la sottana già infilata.
— Col treno di mezzogiorno: torno qui?
— Ho da fare.
Invece egli si era riaddormentato sino alle undici.
Quando si svegliò ebbe l’impressione di qualche cosa di nuovo nella camera e nella ragazza: non trovò più nè il sapone nè il pettine di lei, che soleva adoperare.
— Mio Dio! non hai sentito sulle dieci che è venuto l’uomo a prendere la cesta per stasera? Ho dovuto mandare tutto in teatro, non hanno nulla laggiù in quella maledetta Arena, — ella rispose impazientita.
Si salutarono freddi.
Egli era stupito di sentirsi malcontento, col cuore vuoto e una spossatezza, nella quale gli ritornavano indefinibili paure.
Ripartì col treno di mezzogiorno: tre ore dopo Camilla fuggiva col secondo tenore della compagnia, senza lasciare il proprio indirizzo.
⁂
Era ancora a tavola, col mento sulla palma della mano e gli occhi nel vuoto.
Altre circostanze di quella sua relazione con lei gli ripassarono nella memoria senza interessarlo: ci aveva pensato già troppo, facendosi indarno tutti i rimproveri possibili: poi, a che pentirsi? Tanto la situazione non cangiava. Aveva amato davvero? Era stata una passione quella? Adesso non lo comprendeva più bene, ma sentiva che, rivedendo quella ragazza, non avrebbe provato nulla, nemmeno una sensazione di sdegno, come dinanzi alla causa di tutta la propria sventura.
La necessità di andare a letto lo riprese: la candela stava per finire, forse fra due ore Anastasia si alzerebbe, poichè quella mattina era domenica.
In tutta la sua vita non gli era ancora capitato di pensare tanto; oramai non ne era più capace, e la mente gli si distraeva in futili particolari, che avrebbero dovuto far stupire lui stesso in tale momento.
⁂
— Ah! — fece Caterina con voce sonnacchiosa, girandosi sul fianco verso di lui.
Egli si era spogliato nella saletta, entrando poi guardingamente nella camera con la speranza di stendersi sul letto senza destarla.
— Dormi?
Ma ella non dormiva più.
— Perchè hai fatto così tardi? — seguitò tastandogli una spalla.
— È appena mezzanotte.
— Non ti è accaduto nulla?
— No, dormi: anch’io ho bisogno di dormire.
Rimase supino, senza la forza di rivolgerle la schiena: un’idea lo aveva assiderato. Quella era l’ultima notte di matrimonio per lui e per Caterina, benchè nessuno dei due sapesse davvero che cosa accadrebbe l’indomani; ma una nuova angoscia più atroce di tutte le altre gli stringeva il cuore al pensiero che un altro forse, fra non molto, potesse trovarsi in quel letto al suo posto, cogli stessi diritti e senza la più piccola meraviglia, a parlare di lui, naturalmente per dargli torto. Caterina non avrebbe mai potuto approvare quella morte, e pigliando un secondo marito, come per centomila ragioni lo prendono quasi tutte le vedove giovani, gli sacrificherebbe anche il rispetto del primo.
— Con quale corsa sei ritornato?
Egli cercava di non rispondere.
— Dormi? Ma è dunque tardi? Ti abbiamo lasciato la cena.
Pareva che non volesse più riaddormentarsi.
— Stamane alle nove debbo andare dalla zia Matilde coi bambini; dovresti venire anche tu. Metterò l’abito rimodernato. Perchè non mi hai portato un mazzettino di viole in tela? Sono di ultima moda e costano quasi nulla.
— Come potevo pensarci?
— Ma che cos’hai? — tornò a chiedere con uno scoppio improvviso.
— Lasciami dormire.
— E se non lo volessi?
Egli era finalmente riuscito a voltarsi, e pensava:
— Se adesso suona l’orologio della piazza, siamo daccapo.
Attendeva raggomitolato colla testa mezzo coperta dalle lenzuola, benchè nella camera facesse caldo; il cuore gli batteva impetuosamente.
Aveva compreso che tutte le forze stavano per venirgli meno, e quell’interrogatorio così insignificante della moglie lo avrebbe con altre poche domande fatto scoppiare in pianto. Un desiderio spaventato gli cresceva ad ogni minuto di essere solo nel letto per ravvoltolarsi strettamente nelle coperte, col volto schiacciato nel cuscino.
Caterina si voltò dall’altro lato, e poco dopo si riaddormentò.
Egli vegliava cogli occhi dilatati, in ascolto del più piccolo rumore; dall’uscio dell’altro stanzino, ove dormivano i bimbi, si udiva russare Anastasia; un tenue filo di luce passava per una fessura della finestra, e si perdeva nel buio della camera senza rischiararvi alcun oggetto.
Gli parve di aspettare: che cosa? Non lo sapeva; ma il letto lo stancava invece di riposarlo. Una smania gli veniva dallo stomaco a tutti i muscoli, provocandovi dei piccoli sussulti, dei brividi lievi, simili a scariche silenziose, dopo le quali provava un’impressione di freddo. Una specie di vacuità gli si era fatta nel cervello. Avrebbe voluto assopirsi in quel primo vaneggiamento di febbre, colla testa pesante, sprofondata nel cuscino. Ma il letto non gli pareva buono come le altre notti, non poteva girarsi e rigirarsi sui fianchi pel timore di svegliare daccapo Caterina.
Strinse violentemente gli occhi, dicendosi con tutta la forza che gli restava, di voler dormire.
Poco dopo, l’orologio della piazza battè le due e tre quarti. Qualcuno cominciava a passare per strada. Coll’orecchio reso più acuto da quell’orgasmo seguì e distinse la battuta dei passi, che si allontanavano di sotto alle sue finestre. Quelli delle donne, quasi tutte vecchie in quell’ora, parevano strisciare; erano donne di piazza che vi si affrettavano per disporvi le mostre degli ortaggi, o beghine già fuori di casa per la prima messa del Duomo. Una biroccia scrollò i vetri della finestra; ma quel filo di luce vi passava sempre così tenue, vanendo a pochi passi nell’ombra.
Poi ebbe caldo. La smania gli aumentava, eccitata dal calore dei materassi in lana e da quello, anche più vivo, che il corpo giovane e grasso di Caterina radiava al suo fianco. L’aria stessa si faceva più pesante.
Perchè era venuto a letto, sapendo di non potervi dormire? Il pentimento fu così acuto che si rigettò le coperte dal collo; ma le riprese quasi istantaneamente, ritraendosi sulla sponda col proposito anche più fermo di addormentarsi.
Infatti la stanchezza lo aveva esaurito.
Poco dopo, sognava.
Le raffiche della pioggia si schiantavano sempre più violentemente urlando nell’aria sotto un cielo nero. Come mai si trovava egli solo nella campagna deserta a quell’ora? Non conosceva la strada, non si vedevano più case attraverso il velo pesante dell’acqua. Era rimasto immobile, rannicchiandosi timidamente sotto la bufera, col ricordo confuso di non essere diretto molto lontano, ma senza poter nemmeno tenere gli occhi aperti, perchè le goccie vi battevano contro dolorosamente.
Anzi per qualche tempo, colle mani nelle tasche dei calzoni, e l’acqua che dalle cuciture del cappello gli colava giù per il viso, si era abbandonato a piangere. Un pianto amaro e silenzioso gli era uscito dagli occhi, mentre collo sguardo incerto cercava di seguire una barchetta di carta azzurra, galleggiante sul fosso della strada e che ne discendeva il pendio, senza che i goccioloni sembrassero toccarla. Forse un fanciullo si era divertito nell’affidarla alle acque per una vaga reminiscenza del diluvio universale, quando gli oceani si congiungevano alle cime dei monti e l’arca sola errava sul mondo sommerso. Infatti la barchetta si dondolava appena, come nella letizia del temporale, serbando nella soavità cilestrina del proprio colore tutto il sorriso del cielo. E improvvisamente egli vi scorse dentro il cavallo di Carlino, quello medesimo che dormiva sdraiato sopra una sedia nella saletta da pranzo; ma adesso invece era dritto, malgrado la gamba davanti rotta sotto il ginocchio, e il vento gli sollevava di dietro il pennacchio della coda fatto con sottili setole bianche da spazzola. Dove andavano quella barca e quel cavallo? Quale comando di favola spediva il cavallo di Carlino, sopra una barchetta di carta, ove non era possibile indovinare? Non di meno in lui cresceva la preoccupazione di quel viaggio, come se il destino di suo figlio vi fosse congiunto, ed egli stesso si trovasse lì nient’altro che per sorvegliare la strana imbarcazione. Poi tra la melma spumeggiante dell’acqua cominciarono a passare mucchi di foglie morte e di pagliuzze, che negli urti contro la sponda aprivano spessi vortici, e vi sprofondavano per riapparire a strisce poco lungi. Anche la barchetta se ne risentiva. Benchè i suoi fianchi non lasciassero ancora schiudersi le ripiegature, era già affondata sino all’orlo e non inoltrava che lentamente. Il cavallo invece, niente preoccupato del pericolo, colla testa immobile, senza nemmeno sentire le larghe redini di panno rosso inchiodate sull’arcione della sella nera, teneva gli orecchi dritti nel vento ad un appello lontano.
La voce disperata di Carlino gridava:
— Il mio cavallo, il mio cavallo!
Ma la barca seguitava ad affondare, le sue ripiegature di poppa e di prua si erano distese sulla corrente. Per un minuto il cavallo apparve miracolosamente ritto su quella specie di piccolo manto cilestre, senza che per tutto il suo corpo un brivido solo tradisse la paura.
— Oh! — egli esclamò lanciandosi al suo soccorso, perchè un grosso manipolo di stecchi stava per investirlo; ma cadde pesantemente sotto l’acqua, rimanendogli negli orecchi l’ultimo strido di Carlino, che singhiozzava sempre:
— Il mio cavallo, il mio cavallo!
Aveva provato, per qualche secondo, l’asfissia dell’annegamento; poi gli pareva di essere trascinato per una cloaca; le acque non passavano più, ogni rumore era cessato, ed egli rimaneva immobile, coricato nella melma. Era dunque morto? Il suo pensiero solo viveva, perchè il pensiero non può morire, ma i suoi occhi spalancati non potevano muoversi nemmeno dentro le orbite. Non vedeva nulla. Allora un terrore senza nome gli coperse l’anima: era quella l’eternità assegnatagli? Una cloaca senza sfondo, nella quale tutto si arrestava separatamente, per sempre, nel silenzio di un’ombra vuota.
Fece uno sforzo delirante per gridare, ma la melma gli aveva otturato la bocca, e un lombrico vi si moveva pigramente.
⁂
Dalla fessura della finestra filtrava un lume più chiaro.
Spaventato, si volse dall’altro lato per dormire ancora, sentendosi tutto mollo di un sudore freddo.
— Mio Dio, mio Dio! — mormorò.
Le campane del Duomo suonavano lietamente nel mattino, la gente passava a frotte per la strada, le voci salivano, mentre il fragore sordo dei carri imprimeva ancora alle case gli stessi scuotimenti che nella notte. Così mezzo assonnato, cogli spaventi di quell’ultimo sogno si vedeva dinanzi la faccia dello strozzino diventato uno di quei grossi ragni, quasi rotondi, dalla pelle zebrata, che tessono la propria rete verticalmente dinanzi alle finestre delle cantine, e vi rimangono immobili nel centro aspettando le mosche. Lo strozzino aveva adesso un ventre enorme, lucido, con una testina nera e due occhietti ardenti, che lo fissavano senza stancarsi.
⁂
— Oh! — gridò di soprassalto al fracasso della finestra, che si apriva lasciando il varco ad un vivissimo raggio di sole.
— Non t’immagini che sono già le nove e mezzo! — gli rispose Caterina, ritta fra le tende coi capelli biondi incendiati dalla luce: — Ti abbiamo lasciato dormire sino ad ora, perchè dovevi essere stanco. Ieri sera hai fatto tardi.
Egli cogli occhi abbacinati non la vedeva ancora bene, aveva la testa pesante, la bocca pastosa.
— I bambini sono già andati a messa con Anastasia, — seguitò Caterina: — Se avessi visto, quando abbiamo provato loro le vestine nuove! Ada si è messa a piangere.
— Perchè?
— Voleva un nastro celeste alla cintura, come quello di Carlino.
Caterina si era appressata al letto.
Portava il solito abito di lanetta azzurro-cupa, che dava un bel risalto alle sue carni fresche di bionda; l’abito aveva, secondo la moda oramai vecchia di qualche anno, le maniche a sbuffi verso la spalla e la gonna, quasi corta, pieghettata sui fianchi. Il suo viso calmo, con un principio di pinguedine sotto le guance, aveva sempre la stessa espressione di bontà; qualche lentiggine le macchiava i pomelli, gli occhi troppo rotondi e quasi bianchi non dicevano gran cosa, ma il suo sorriso era dolce come sempre.
— Non ti alzi?
— Sì, aspetta.
— Ti aiuterò io: ho mandato i bambini a messa, perchè, così vestiti di nuovo, con me non sarebbero stati fermi, in chiesa. Carlino era in un orgasmo incredibile. Io andrò sola alla messa delle dieci e mezzo in S. Bartolomeo, poi torno a casa per condurli a fare un giro nel corso. Sono tanto carini così, li vedrai!
Egli si era svegliato, al solito, in quella camera, nella quale tutto gli era famigliare. Il mobilio in noce si componeva di un letto, due comò, l’armadio collo specchio, un tavolino da toeletta e due portacatini, uno per lui e uno per Caterina, nascosti nell’angolo dietro l’armadio. Ma i comodini erano ricoperti di un piccolo ricamo bianco ad uncinetto, perchè i candelieri e i bicchieri dell’acqua per la notte non ne sciupassero la lustratura.
L’aria ed il sole avevano riempito allegramente la camera.
Caterina andò nella saletta a prendergli i panni già spazzolati.
— Avresti potuto spogliarti qui, stanotte.
— Non volevo disturbarti.
— Ti ho sentito ugualmente. Alzati, dunque, vado a prenderti l’acqua fresca.
Egli si accorse di avere le ossa indolenzite. Improvvisamente quel pensiero dimenticato lo riassalse.
Quando Caterina tornò con la brocca bianca nella mano, egli guardava la parete con gli occhi spaventati.
— Muterò l’asciugatoio dopo; per questa mattina ti puoi ancora servire del vecchio; — e ne aveva già tolto un altro dal comò, a lunga frangia candida, ornato da due grandi lettere sottili, a colori rosso e turchino.
Ma siccome l’altro non si alzava, si voltò ad osservarlo.
— Mi sembri pallido: hai dormito male?
— No, no, — rispose nervosamente, allungando un piede fuori dalle lenzuola per cercare le pantofole; poi così in camicia, coi piedi nudi, venne a mirarsi nello specchio della toeletta.
Infatti aveva l’aria sparuta; chiazze plumbee gli macchiavano la pelle, gli occhi gli si erano affossati; si vide dimagrito, invecchiato, con un senso doloroso di sorpresa.
— Tu hai qualche cosa, — disse nuovamente Caterina, venuta per di dietro a guardare nello specchio.
— Ti dico di no: chiudi piuttosto i vetri della finestra.
— Con questo bel sole!
Intanto li chiudeva.
— Ti farò un caffè, se hai rimasto qualche cosa d’indigesto nello stomaco.
Finalmente fu solo.
Tutta la lunga tempesta della notte gli si ripresentava nella memoria, piuttosto indolenzita che calmata dal sonno pesante di quelle poche ore, e gli ricominciava nella coscienza quella novità insopportabile del sentirsi straniero nella propria casa. Daccapo il freddo lo sorprendeva, così in camicia, malgrado il tepore dell’aria e l’impeto rutilante del sole, che passava trionfalmente attraverso i vetri.
Per rischiararsi la mente si affrettò a tuffare il viso nel catino. Ordinariamente la sua toeletta era svelta e poco accurata; si lavava il viso, poi colla spazzola si ravviava i capelli, non aveva altre abitudini di culto per sè medesimo. Ma dopo essersi asciugato davanti allo specchio, si vide colla stessa faccia di prima, anzi gli occhi gli si tornavano a gonfiare. Quindi si rimise la camicia del giorno innanzi cogli stessi abiti.
— Ma come! — esclamò Caterina rientrando nella camera, dopo aver lasciato il caffè a precipitare lentamente entro la cocoma sul focolare della cucina: — non ti cangi il vestito? Hai ancora la camicia di ieri, oggi che è domenica.
Egli alzò le spalle, ma l’altra insisteva.
— Che importa?
— Lo hai sempre fatto tutte le domeniche.
— Non lo farò più.
— Che cosa?
Per non spiegarsi egli tentò di sorridere scrollando la testa; però pensava che altri, vedendolo a quel modo, poteva fare la stessa osservazione di Caterina.
Dovette andare con lei in cucina a prendere il caffè. Sul fornello fumava la pentola, una coscia di capretto infilata nello spiedo stava entro un piatto sulla tavola, poichè in casa non avevano gatti; era questa una mania di Caterina.
— Oggi Anastasia farà anche una piccola zuppa inglese per i bambini; avranno quest’altro piacere, dopo quello degli abitini nuovi.
E la mamma sorrideva contenta nel pensiero della sorpresa, alla quale i piccini avrebbero battute le mani a tavola gridando.
Poi l’interrogò sulla gita a Bologna: come mai aveva potuto fare tanto tardi? Che cosa era successo?
— A proposito, aspetta: me n’ero scordata.
E scappò, ritornando indi a poco colla faccia attonita.
— L’hai presa tu? Avevano portata una lettera.
— Sì, — egli rispose con voce strozzata.
— Niente d’importante?
— Niente.
Dopo questa parola egli depose la tazza del caffè sul focolare, invece di accostarla alle labbra.
— Vi avrò messo poco zucchero; a te piace che tutto sia dolce.
— Già!
Vuotò la tazza, e tornò nella camera per finire di vestirsi; aveva fretta di uscire.
— Ma non aspetti i bambini? Eccoli! — ella gridò sporgendosi dalla finestra, che aveva riaperto.
Due minuti dopo i fanciulli entravano trionfalmente nella camera, e correvano ad abbracciare le ginocchia del babbo, più guardingamente del solito in quella vanità dei vestitini nuovi. Al vederli così belli egli stentò a frenare le lagrime; cadde sopra una sedia e si mise a baciarli furiosamente; essi ridevano, Caterina sorrideva, ma Anastasia protestò.
— Vuole dunque spiegazzare tutto, mio Dio! è proprio così; — e con una mano afferrando quella di Ada, l’aveva già tirata indietro.
Carlino invece si era arrampicato sulle ginocchia del padre.
— Io vado, — riprese Caterina, — tornerò a prendervi fra un’ora: non vi sporcate, piccini! Mi raccomando, Anastasia.
— Io... come si fa? debbo preparare l’arrosto: riconduca i bambini a messa con lei.
— Figurati! mi farebbero impazzire, adesso che l’hanno già ascoltata con te.
— Ci baderò io, — egli esclamò con voce intenerita.
— Allora facciamo così: siccome andrò dalla zia Matilde per mostrarglieli, vieni anche tu. È un pezzo che le dobbiamo una visita, ci sdebiteremo tutti insieme.
Anastasia era passata nello stanzino per cangiare abito prima di rimettersi a cucinare; egli sempre più tremante entrò coi due fanciulli nella saletta. La prima cosa che vide, fu appunto il cavallo di Carlino, ancora sdraiato sopra la sedia, colla zampa rotta sino quasi alla spalla e le rotelle del piedestallo sgangherate. Il sogno misterioso della notte gli ritornò alla memoria, rinnovandogli la stessa angoscia, come se davvero un medesimo destino unisse suo figlio a quel giocattolo. Si era riseduto su quella sedia, mentre i bambini giravano intorno alla tavola svogliati.
Non sapeva più che cosa dire loro.
Una tenerezza di lagrime gli ammolliva il cuore; i due fanciulli erano belli, Ada maggiore di due anni, così abbigliata, aveva già della donnina nelle movenze. I magnifici capelli biondi, sciolti sulla schiena, brillavano nel fulgore dell’oro, incorniciandole il viso illuminato soavemente da due grandi occhi chiari, assai più vivi che quelli della mamma. Aveva una pelle di gelsomino e un’ineffabile freschezza sulla bocca; Carlino invece più tozzo, bruno, coi capelli corti e il nasino all’in su, pareva un contadinello, che si movesse goffamente, con quella pesantezza così esilarante nei bambini.
— Siete stati a messa? — egli ricominciò.
— Sì, — rispose Ada: — Amelia mi ha sempre guardata, poi mi mostrava alla mamma, perchè ero meglio vestita io.
— Ah la superbetta! e tu Carlino?
— Lui non s’è voluto inginocchiare per non sporcarsi i calzoni.
Infatti anche adesso tornava a mostrarli superbamente così puliti, senza una appannatura al ginocchio.
Egli dovette alzarsi per resistere alla emozione; lo spettacolo di quella letizia, così primaverile ed inconsapevole, gli produceva come uno stordimento doloroso; avrebbe voluto dir loro qualche cosa, ed invece stentava a frenare certe grida, che gli salivano impetuosamente dal cuore. Che cosa aveva dunque deciso nella notte? Una debolezza gli era rimasta in tutti i nervi da quei sogni, nei quali doveva aver sudato come sotto un accesso di febbre.
Tratto tratto le mani gli tremavano.
— Che cos’hai, babbo? — chiese improvvisamente Ada, impressionata dalla fissazione del suo sguardo.
Invece di rispondere egli rientrò nella camera per prendere la rivoltella dal tiretto del comodino; ma potè cacciarsela appena nella tasca interna della giacca, che i due fanciulli gli erano daccapo fra le gambe.
— Andiamo in cucina, — disse con un ultimo sforzo.
Anastasia aveva riacceso il fuoco ed infilava lo spiedo nel girarrosto.
— Ecco! — proruppe subito: — perchè qui? vuole che si sporchino? Se la signora Caterina vedesse...
Carlino si era già troppo appressato al focolare.
— Indietro, marmottina: vedete un poco! gli hanno messo l’abitino nuovo solamente da un’ora.
Allora egli dovette sorridere e ritirarsi coi due fanciulli sopra una sedia presso la tavola, lasciandosi sgridare; ma l’altra, che doveva preparare di nascosto la zuppa inglese, e temeva soprattutto un rabbuffo dalla padrona se i bimbi avessero macchiato le vesti, seguitava:
— Lo sa pure anche lei che debbo preparare quella cosa: perchè stanno qui?
— Non aver paura, ci bado io.
— Sì, lei! ci saranno dei guai anche oggi.
Ma Ada, col suo garbo di donnina, l’ammansì chiedendole quale minestra avrebbe fatto in quella domenica.
— Il risotto alla milanese.
Ada battè le mani.
— Indietro adunque; state tranquilli col papà, o vi mando via tutti.
La cucina, piccola, non riceveva luce che da un cortiletto morto; v’era una madia e un largo tavolo rettangolare appoggiato al muro. La pentola gorgogliava fra lo scoppiettio della fiammata accesa per l’arrosto.
Padre e figli rincantucciati dietro la tavola si facevano delle carezze in silenzio: egli li aveva ricinti con un braccio e lisciava loro i capelli coll’altra mano.
— Dammi un soldo, — domandò improvvisamente Carlino.
— E a me? — proruppe Ada.
— Tu sei già una donnina.
Il complimento fece effetto.
Egli si era tratto un soldo dalla tasca, lasciando che Carlino glielo ghermisse di mano come un gatto.
— Che cosa ne farai? non hai nemmeno la tasca.
Ma osservando quel soldo, il fanciullo si accorse che era bucato.
— Cambiamelo.
— No, non lo spendere oggi, avvezzati a risparmiare.
Era esausto. Si volse ad Anastasia, scappando nella propria camera a prendervi il cappello:
— È tardi, io debbo andare.
Un minuto dopo riapriva, col cappello in testa, l’uscio della cucina, che dava sull’anticamera; i fanciulli erano ancora presso la tavola esaminando il buco di quel soldo.
— Anastasia, mi capisci? quella cosa cerca di farla grande. Che siano contenti, che siano contenti!
⁂
Era uscito di casa quasi fuggendo, ma appena sulla strada la vivezza della luce lo arrestò.
Passava molta gente, una indefinibile allegrezza si espandeva nell’aria col suono delle voci da tutta la festività delle faccie e delle vesti; le finestre sembravano aperte alla letizia sopra le botteghe chiuse nella tranquillità del riposo.
Egli si sentì stravagante. Istintivamente si riadattò il cappello sulla testa ed allentò il passo, dirigendosi verso la barriera, oltre la quale si scorgevano le ali troppo alte del ponte in ferro fra il borgo e la città e subito dopo, nell’avvallamento del suolo, un grosso gruppo di case dipinte di giallo. Fuori, la via di circonvallazione era fiancheggiata da masse enormi di sabbia che s’imbiancava al sole; di quando in quando un parapetto giallognolo impediva alle carrozze e ai passanti di pericolare nel fiume, già scarso di acqua fra le ripe scabre e senza piante. Ma anche lì proseguiva la festa della domenica. I soliti operai non trascinavano su per le ripe, col viso adusto, i calzoni rimboccati fin sopra il ginocchio, ansando e vociando, le carriole cariche di sabbia sgocciolante. Non passavano carrette: i contadini allegri ritornavano dalla città ai campi, dopo la messa; piccoli scolari vagabondavano nell’ozio e nella incertezza del chiasso, col quale stordirsi. Infatti le loro scaramuccie accadevano sempre nel pomeriggio.
Di qua e di là del fiume i campi si stendevano sotto al sole, in una gioia verde, lampeggiante di sorrisi nel tremolio delle foglie, mentre gli uccelli festanti in quel mese degli amori si inseguivano per l’aria rapidi e bruni, o s’arrestavano talvolta sulla cima flessibile di una fronda quasi ad ammirare l’incantevole mattino.
Egli solo camminava cupamente preoccupato.
Lungi, dinanzi ai suoi occhi, le prime vette dell’Appennino sfumavano il proprio verde sul ceruleo dell’aria, entro una leggerezza di vapore trasparente. Alla prima svolta, fra mucchi di ghiaia e di sabbia, si fermò a guardare il cimitero dei cavalli: era un lembo di terra sommossa, a picco sul fiume, brulla e triste; dirimpetto biancheggiava silenziosa una pila da riso, che il padrone milionario aveva per capriccio chiusa da gran tempo, e le sue bocche da acqua, vuote ed aride, rimanevano indarno inclinate sul fiume dentro un’ombra, che rendeva anche più cupa la loro tenebrosa profondità.
Un ragazzo in bicicletta gli passò rasente a volo.
Egli lo seguì macchinalmente cogli occhi, e lo perdette in cima alla salita, dalla quale sparve strisciando come una rondine. Non sapeva ancora dove andare; ma la città gli faceva paura in quel giorno. Tutti vi erano sfaccendati, la requie della domenica rendeva la gente più occupata dei fatti altrui e più dura verso coloro che non potevano nè riposarsi nè godere del riposo comune.
Oltrepassò il ponte, bel ponte di un arco solo, che la gente chiamava Rosso, non si sa perchè; poco lungi il camino tozzo ed alto di un mulino a vapore fumava malgrado la domenica, un vecchio cane bracco era sdraiato al sole dinanzi alla porta, alcune anitre si dondolavano pesantemente col collo ripiegato, frugando del becco il terreno intorno. Volse a sinistra per un sentiero, che fra la riva e gli orti, passando dietro il cimitero monumentale, benchè i monumenti vi siano scarsi e brutti, si allontanava per ombre incerte di acacie. Allora, finalmente solo, respirò. Al di sotto, il fiume non era più che un canalaccio dal letto melmoso, nel quale l’acqua stagnava in lunghe pozzanghere opache; di fianco, invece, gli orti lussureggiavano. La gamma dei loro verdi vibrava tutta nella luce, mentre la poca terra scoperta era così umida e scura che, guardando bene, si sarebbe creduto di vederne salire i vapori nel sole. Ma egli camminava invece a testa bassa, preoccupato dall’angusto sentiero slabbrato, pel quale non sarebbe stato molto difficile mettere il piede in fallo. Guardò se v’erano pescatori, qualcuno di quei maniaci, che venivano spesso a passare lunghe ore seduti sopra uno sghembo della sponda, con una canna e una lunga lenza inutile. Nessuno!
I muraglioni muffosi del cimitero arrivavano fino quasi sul fiume.
Quel sentiero malinconico e mezzo invisibile era prediletto dagli amanti e dai vecchi per un bisogno di solitudine, forse meno dissimile fra loro che non paia. Egli vi era passato poche volte, quasi sempre con un gruppo d’amici, in una di quelle giornate, nelle quali, per ammazzare la noia della solita passeggiata per lo Stradone, l’unico passeggio pubblico della città, si cercava di commettere qualche facile stravaganza.
Ma alla prima svolta, dove un viottolo sfiancava lungo il nuovo muro del cimitero, si arrestò; una voce sottile canterellava la celebre e delicata romanza della Mignon:
- Non conosci il bel suol
- che di porpora ha il ciel...
l’opera data in quell’inverno al teatro comunale. Era una voce di uomo, incerta nelle parole e nell’aria, che pareva fremere di una curiosità triste. Si turbò; istintivamente gli era ritornato nella memoria che lungo quel sentiero, negli anni andati, erano avvenuti parecchi suicidii, tutti di giovani operai, forse spaventati dalle crudeli esigenze della vita.
L’ultima volta erano stati due ragazzi di appena vent’anni, morti insieme avendone avvisato prima gli amici, che non avevano voluto crederlo e non seppero poi indovinarne il motivo. Si erano ammazzati colla stessa rivoltella, l’uno dopo l’altro, ed erano rimasti sul sentiero col cranio aperto, sanguinolenti, vestiti cogli abiti di festa, quasi per una suprema ironia.
Ma la voce ripeteva sempre la stessa domanda di Mignon, povera abbandonata nel freddo di un paese nebbioso, che risognava i trionfi abbaglianti del sole sulla marina napoletana, dove tutto è musica ed incanto, festa ed oblio. E a pochi passi, nell’ombra di un albero piegato a capanna, vide disteso sui cuscini entro una carriola quel ragazzo, che conosceva già. Era il figlio di un ortolano, caduto piccino da un albero e rimasto colle reni fracassate; lo aveva veduto mille volte alla finestra sul grande viale del cimitero, ma si meravigliò nel trovarlo ora alla estremità dell’orto, sulla ripa del fiume, solo, cantando come un uccello fra il verde. La sua sventura era di quelle, alle quali non si vuol pensare; non viveva che dalla cintura in su, sempre così coricato, col volto appannato dall’ombra stessa della sua vita.
Eppure viveva.
Impetuosamente egli se ne chiese il perchè, mentre l’altro cantava sempre quella romanza nella sicurezza di non essere udito da alcuno, sognando forse come Mignon un altro cielo più bello ancora che in quel mattino di maggio pur così pieno di profumi, nel silenzio trepidante del meriggio. Egli, morto a metà, cantava. Con una mano si reggeva ad un ramoscello dell’albero, tenendo il viso in alto, colle spalle quasi nella siepe, così che si distingueva appena tra il fogliame la sua figura.
Poi tacque.
L’orto era deserto: un uccello pigolò dall’altra ripa del fiume; lontano, ad un campanile suonò ancora una messa.
Per non farsi vedere dal malato, scese dal sentiero verso l’acqua e non risalì che oltre il cimitero; ma rimaneva sempre come in un fondo, tra ciuffi di alberette, che nascondevano ogni orizzonte. Era fuggito di casa, istintivamente, per nascondere la propria emozione; invece, fra quella viridezza della campagna, dentro al suo silenzio e alla sua luce, si sentiva nuovamente disorientato. Quindi un’altra paura gli cresceva: nella fretta di evitare la città non aveva temuto anzitutto che un incontro col signor Bonoli o con lo strozzino, a quest’ora naturalmente piccati da un desiderio crudele di curiosità a suo riguardo. Avevano presentato essi medesimi la cambiale in pretura? Il caso era poco probabile; secondo il solito, colle più vecchie convenienze del mestiere, lo strozzino doveva aver finto una qualche girata, giacchè tutti i suoi pari sono sempre provvisti delle così dette teste di ferro. Ma egli, incontrandolo, non avrebbe saputo qual contegno tenere; non lo odiava, anzi per una di quelle condiscendenze imposte dalla pratica della vita, riconosceva che, agendo in tal modo, colui faceva solamente il proprio interesse. Di che cosa lagnarsi? Ma dinanzi alla sua faccia di sparviero disseccato, con quegli occhi metallici, la bocca che non sorrideva mai, gli sarebbe stato impossibile resistere.
Sotto l’argine del fiume, lungo il ripiano della sponda, erano aperte ancora alcune cavità di alberi abbattuti da gran tempo, che un’erba minuta aveva tappezzato finamente. Il sole dardeggiava, aliavano farfalle, un soffio di scirocco scuoteva mollemente le cime già pesanti dei grani. Si fermò per udire qualche cicala stridere; invece dal fiume ascese la nota dolce e gorgogliante di un rospo. Allora calò dall’argine per nascondersi entro una di quelle buche, all’ombra di una vecchia quercia dai rami rachitici e il tronco giallastro come di una ruggine d’oro.
L’erba era soffice.
Cavò di tasca la rivoltella a canna corta, nichelata, del calibro dodici: stette lungamente contemplandola, come in una di quelle distrazioni attonite, che ci sorprendono talvolta: l’arma piccina riverberava.
Si sarebbe servito di essa? Perchè? E quando si è morti? Era già molto difficile morire; ma e dopo? Sino a quel giorno egli non ci aveva mai pensato. Come accade sempre, specialmente finchè si è giovani, la morte non aveva esistito per lui; sapeva che, essendo nato, morrebbe, ma questa soluzione lontana ed inevitabile non aveva mai pesato sulla sua coscienza. Non si capisce veramente di dover morire, sino a che il pensiero della morte non si allarga come un’ombra nel mezzo del nostro spirito. Tutto è così facile nella prima parte dell’esistenza! Funzioni ed abitudini vi si ripetono favorevolmente, si mangia, si passeggia, si chiacchiera, si ride, si dorme; poi il mattino vi desta, intorno a voi tutto prosegue: la moglie, i bimbi, la serva, la casa alternano i propri motivi senza un pensiero che tutto ciò sia effimero, che basti la presenza di un insetto a produrvi lo scompiglio, o la morte appiattata in ogni ombra possa in un istante distruggere tutto senza ragione, senza traccia. Si vive così, come se la morte non fosse, in una sicurezza d’immortalità. Invano in tutte le case qualcuno si ammala e muore; si fanno i funerali, la gente li guarda passare distratta, ognuno preoccupato dei propri interessi, in una febbre continua di passioni, e non ci si pensa più. Coloro, che amarono quel morto, piangono qualche giorno, gli altri non dànno importanza al caso o parlando della morte, che li aspetta, rimangono indifferenti come a cosa che verrà poi, un poi problematico nella data ed insignificante finchè la data non arriva. Egli era stato come gli altri.
Aveva veduto morire il babbo e la mamma senza risentirne troppo dolore. Certo avrebbe desiderato loro più lunghi anni, ma essendo troppo giovane per aver provato gli scoramenti della suprema vigilia, quando la vita non sa più distrarsi dal computo dei propri ultimi giorni, aveva trovato naturalissimo che i vecchi se ne andassero.
Invece adesso si trovava dinanzi alla morte nella pienezza di tutte le proprie forze.
Non era nè credente nè incredulo; come nella maggior parte della gente, la vita spirituale era cominciata per lui coll’insegnamento religioso, senza che la religione modificasse troppo il suo sentimento, pur lasciando nel suo pensiero impronte non cancellabili. La concezione cristiana, poco comprensibile nei dogmi e nella tragedia della sua morale, rimaneva quindi la base di tutti i suoi giudizi, sotto la solita indifferenza mondana. Così aveva sposato Caterina anche in chiesa e battezzati i bambini, trovando giustissimo di apprendere loro la religione, che egli non praticava più. E in quella indefinibile cultura guadagnata un po’ dovunque, nei caffè, su per i giornali, massa informe di idee e di sentimenti contradditorii, solamente la forza della tradizione durava: la religione era cosa da non parlarne, poichè non se ne sarebbe potuto mai sapere qualche cosa di preciso, ma forse era così, e in fondo ne convenivano tutti, anche coloro che affettavano di spregiarla pubblicamente.
Le sue riflessioni non erano mai andate più oltre. Caterina non lo aveva mai vessato per la sua indifferenza religiosa: egli viveva come gli altri nella inconsapevolezza della propria contraddizione, fra un barlume di fede e un pettegolezzo di miscredenza, trionfando di entrambi col non pensarci.
Ma la morte, improvvisamente, gli stava davanti nella propria immobilità.
Aveva avuto paura.
Morire era, prima di tutto andarsene; ma per quanto la natura ripugnasse a tale sparizione e tutte le malattie fossero spaventevoli appunto per questo, non era difficile il fissarvisi. Già nella notte lo aveva fatto: andarsene, piuttosto che restare per la tortura del processo e della prigione!, molto più che la morte essendo inevitabile, si trattava solo di sceglierne il momento, quando tutto il resto delle condizioni nella vita diventava intollerabile. Così, quasi non pensandoci, aveva già abbracciato questo punto di vista: era stato un lavorìo lento, inavvertito del suo spirito, subito dopo il tremendo distacco prodottovi dalla lettura di quella lettera. Quanto poteva soffrire, l’aveva già sofferto nella notte: lo sentiva, era sicuro che per una simile crisi non ripasserebbe più. Si muore forse due volte? La morte è tutta nello sforzo per staccarci dalla vita; se lo era detto, capiva di aver ragione. Il suo pensiero risoluto, quantunque torpido, andava sino in fondo: si sarebbe ucciso! Non aveva deciso il modo, ma il tempo era misurato ormai su quel giorno; era così, non voleva ritornarci più sopra: morire per sè medesimo e per la sua famiglia, alla quale non sarebbe più che d’imbarazzo e di disonore, ecco tutto! Ma il momento dopo, quel momento che pure ci doveva essere, giacchè il tempo avrebbe seguitato egualmente, quando egli non sarebbe più, dove sarebbe egli in quel momento?
Tutto finiva lì? La religione diceva di no, la maggioranza della gente d’accordo colla religione, e quelli ancora che si vantavano di non crederle, rimanevano perplessi dinanzi al problema. Finire! Sarebbe stato semplice, ma non era chiaro. Che cosa significava allora tutto il prima? La sua testa si perdeva. Confuse memorie gli ritornavano di ammaestramenti, di fatti, di uomini, che si erano trovati come lui dinanzi al grande quesito, e che egli aveva udito a parlarne. Tutti avevano tremato. Il primo momento dopo la morte, la possibilità di un’altra vita, quindi di un giudizio su quella trascorsa, di una vita in un altro mondo, mentre il nostro corpo resterebbe a putrefarsi in questo, di una vita incomprensibile e tuttavia di una supposizione così inevitabile al nostro pensiero, era senza dubbio ciò che rendeva spaventevole la morte, incerto quanto ognuno di noi compie prima d’incontrarla.
Senza questo mistero che cosa sarebbe stato il suicidio? Poichè suicidandosi si è sicuri di sottrarsi a tutti i guai, non vi sarebbe dal canto della vita alcuna difficoltà: si ha forse paura di addormentarsi, pur non essendo sicuri del risveglio? Il problema era dunque nel momento dopo la morte. L’esperienza e la scienza umana non avevano trovato un modo per inoltrarsi in quest’ombra; tutti vi arrivavano nella medesima ignoranza, colla stessa angoscia, il più grande come il più piccolo, per sparire silenziosamente, mentre la religione sola dichiarava di averne penetrato il mistero colla parola di Dio. Non di meno la sua spiegazione era oscura; se no come la gente avrebbe seguitato a dubitare?
Vi era dunque Dio? Era lui che, volendoci così oscuramente soggetti al suo volere, distribuiva con tanta inesplicabile parzialità la gioia e il dolore? Malgrado l’impossibilità di comprendere il mondo senza un creatore e di sottrarsi alla concezione poetica del cristianesimo, una rivolta gli saliva dal cuore contro questa ingiustizia della vita, che quasi sempre prodigava gli spasimi più micidiali ai più innocenti. Egli stesso ne era stato mille volte testimonio: che cosa non soffrivano i poveri, mentre i ricchi finiscono per annoiarsi non trovando abbastanza divertimenti? Se dopo morte non vi era altro, i signori diventavano ben sciocchi nel fare l’elemosina ai poveri, e questi lo erano anche di più non depredando in qualunque modo i ricchi. Perchè fare l’elemosina? Tutto era caso, il fortunato non doveva logicamente che conservare la fortuna a se stesso. Invece non accadeva così: i poveri sopportavano, i ricchi li soccorrevano; forse v’era parità di dolori in tutti, perchè i ricchi si suicidavano anche più facilmente dei poveri. Lo aveva sentito dire molte volte, aveva potuto notarlo egli stesso. La morte non era solo in fondo alla vita, ma la colpiva ad ogni istante da per tutto; i bambini vi soccombevano spesso prima di nascere o appena nati, si moriva sempre, in qualunque grado, nelle più inverosimili circostanze: ingegno, ricchezza, danaro non servivano a nulla, la gloria o l’infamia non toglievano niente a quest’uguaglianza della morte, la virtù e il vizio vi conducevano colla stessa rapidità; e dopo, un eguale oblio copriva tutti i defunti, la medesima spensieratezza seguitava nei viventi.
Pensando alla morte si finiva col non potere uscire più da tale pensiero: ecco perchè la gente non voleva fermarvisi.
Tutte queste riflessioni gli toglievano di sentire il dolore della propria posizione; una specie di tranquillità gli si era fatta nello spirito, come una luce fredda, entro la quale tutto gli appariva lontanamente. La sua testa, poco abituata alle meditazioni, si distraeva già nelle sensazioni di quel meriggio. Qualche raggio, filtrando fra le foglie, gli produceva sugli abiti chiazze luminose e scottanti.
Il bisogno di muoversi lo riprese. Tutta quella meditazione sul suicidio non gli aveva aggiunto che un terrore di più nella coscienza: se la vita significava qualche cosa, doveva essere ordinata ad uno scopo, che i capricci degli uomini non saprebbero mutare, e quindi tutto si riuniva nella morte come dinanzi ad un tribunale. Le menzogne, i sofismi, le oblivioni così comode e frequenti nella vita, si dissipavano nel suo ultimo istante: tutti vi si trovavano egualmente nudi davanti al proprio passato. Ecco perchè si provano talora rimorsi, che ci costringono a condannare le nostre azioni più proficue, o ci impediscono l’abbandono alle nostre tendenze più personali: egli stesso forse non si trovava ora davanti alla necessità del suicidio che per aver voluto sacrificare i propri doveri di marito e di padre ad un ignobile capriccio. Era una sentenza di quella giustizia segreta, che corregge ogni errore dell’altra, e piega tutte le fronti sotto il mistero di Dio? Ma Dio permetteva agli uomini di suicidarsi? Vi erano un inferno ed un paradiso, come affermano i preti con tanta sicurezza, vivendo tuttavia al pari di coloro i quali non volevano crederci? Perchè tanti grandi uomini non avevano ammesso una seconda vita? Per quanto questi problemi fossero insolubili, egli credeva di sentire adesso una grande verità nel suicidio: l’uomo, togliendosi la vita, espiava in tale dolore tutto quanto poteva aver commesso, giacchè seguitando a vivere non avrebbe potuto soffrire di più. Era quindi inutile voler cercare oltre la vita qualche cosa che non doveva dipenderne; poi vi era questa differenza: gli uomini, uccidendo, sentivano tutti di commettere un delitto, mentre uccidendosi sentono solo di essere infelici. Infatti egli non sapeva altro, non era sicuro di aver ragione, ma la sua tristezza nell’accettare la morte era scevra dai rimorsi, che avevano accompagnato tante altre sue colpe. Questa volta non avrebbe fatto male ad alcuno sottraendosi ad una condanna, che in lui colpirebbe Caterina e i bambini. Sciaguratamente non v’era altra soluzione. Il suo suicidio non era rifiuto della vita, perchè non se ne era anzi sentito mai così pieno: vivere nella propria casa tranquilla con Caterina e i bambini, amministrare il piccolo patrimonio, aiutarlo con qualche guadagno, fare la partita al caffè, mandare innanzi i figli finchè, diventati grandi, non avessero più bisogno di lui, sarebbe stato un idillio, era l’idillio di quasi tutta la gente! Egli doveva invece suicidarsi, appunto per averlo reso impossibile. Il suo suicidio non aveva quindi le ribellioni pessimiste, che sole possono renderlo tale; come quei coscritti, che affrontano la morte agli avamposti, perchè fuggendo dovrebbero sopportare umiliazioni e pene troppo amare, egli non avrebbe voluto nè la battaglia nè la morte, e subendo l’una e l’altra si riconosceva senza volontà. Era così, perchè era così.
Questa conclusione vuota fu l’ultima. Allora, perchè era venuto lì? Che cosa vi aveva risoluto? Sulla campagna luminosa e calda il cielo si era fatto di una serenità abbagliante, nell’aria passavano ondate di fremiti. Eppure avrebbe dovuto aver deciso qualche cosa, essersi preparato per quella giornata! Vi era ancora una speranza? Come contenersi? Questa domanda non ne nascondeva che un’altra: era dunque stabilito?
Tale decisione restava però fuori del suo spirito, giacchè non ne provava ancora tutto il peso.
— Che cosa faccio qui? — si chiese con un sussulto.
A casa sua pranzavano circa al tocco e mezzo: lo aspettavano, manderebbero fuori la serva a cercarlo.
Si figurò vivamente la scena. Se non tornava più a casa, dove passare tutta la giornata? Rimaneva perplesso, tutte le angoscie della notte lo riassalivano, eppure non gli veniva nella mente di poterlo finire subito. Più tardi, di notte, solo, in qualche altro luogo, ma allora no. Era impossibile.
Si era assegnato un giorno, vi aveva diritto.
Poi gli sembrava di avere molte altre cose da fare, lettere da scrivere, vedere qualcuno, rientrare ancora fra gli altri, prima di non vederli più. Aveva bisogno della notte, adesso tutto lo distraeva.
Si avviò per ritornare, ma appena ebbe presa questa decisione, ridivenne triste triste; sentì che tutto era finalmente stabilito, non tornerebbe più in campagna, non rivedrebbe più quel luogo. Era la sua ultima passeggiata da solo, che nessuno conoscerebbe mai, e nella quale aveva risoluto di morire. Comminava a testa bassa, non sentiva più la vivezza dell’aria, la vampa del sole, il fresco del verde: il suo sguardo si chinava su quel letto di fiume melmoso, squallido, abbandonato, senza un rumore nè un guizzo nelle pozzanghere d’acqua indolenti sotto al sole.
E l’idea della morte seguitava nel suo spirito come quel letto di fiume invisibile fra i campi.
⁂
— Perchè, vedi, — gli diceva Caterina sul finire del pranzo, — io sono persuasa che ella ci lascierà tutto. Capisco che non è gran cosa, in ogni modo sarà la dote per Ada, ma bisogna che non seguitiamo a trattarla così. Tu hai sempre detto che la zia Matilde non ti ha amato, e pare anche a me che sia così. Non so, — ella seguitava con quel suo buon senso di donna, nella quale la tranquillità del temperamento favoriva l’equilibrio dello spirito, — se tu abbia ragione sostenendo che ella ti voglia ancora male per un vecchio rancore contro la tua povera mamma, però dovresti mutare contegno verso di lei.
— Che cosa vuoi che faccia? — egli rispose, preso nell’interesse di quei discorsi, che preparavano l’avvenire.
Infatti Caterina lo aveva subito sgridato per non essersi fatto vedere in quella visita alla zia Matilde, dopo che ella imprudentemente l’aveva avvisata della sorpresa. E sarebbe stata davvero tale, s’egli vi fosse andato, giacchè per una antipatia istintiva cansava sempre quella vecchia parente; ma questa, inciprignita naturalmente dal non vederlo arrivare, aveva finito con lo strapazzare Caterina come di un cattivo scherzo.
Caterina, irritata dall’insuccesso, dopo aver troppo contato sul magnifico effetto dei bambini, non aveva poi badato all’aria abbattuta di lui. Non di meno il pranzo era proseguito abbastanza bene.
Per fortuna i bambini, lieti dei vestiti nuovi e più liberi nei vecchi, che la serva aveva loro rimesso per il pranzo, si erano abbandonati al più vispo chiacchierio, mentre la mamma ogni tanto li sgridava dolcemente per frenarli ed egli acconsentiva con un sorriso.
Quindi il discorso era ritornato sulla zia Matilde, la quale avendo oltrepassato i settant’anni non poteva ancora campare molto. Con quella ingenuità di egoismo propria degli eredi, Caterina valutava tranquillamente tale probabilità, traendone una lunga serie di conseguenze per se stessa e per i figli, molto più che i modi di lui con la vecchia le avevano sempre dato pensiero. Ella credeva alla buona, quantunque modesta posizione della propria casa, ma coll’antiveggenza delle madri, quando amano, cominciava a preoccuparsi dell’avvenire.
Il suo affetto era specialmente per la bambina.
Le difficoltà sempre più tristi per le ragazze di trovare un discreto partito, le avevano messo in cuore una specie di pessimismo, unica sua reazione contro la vita, della quale aveva sempre accettato il corso blando senza chiedersi di più. Ma Ada, che a giudicare da quel momento doveva crescere molto bella, avrebbe avuto bisogno di una certa dote per accasarsi convenientemente dopo la buona educazione, che ella pensava di darle anche a costo dei più gravi sacrifici; su questo argomento Caterina, così arrendevole, non voleva intendere ragioni.
— Tu manderai avanti Carlino.
Era questa la risposta, quando egli le faceva osservare che per mettere Ada nell’educandato di Fognano occorreva una grossa spesa annuale, mentre poi le ragazze uscendo dal convento non sapevano far nulla per la vita. Caterina, invece, sognava d’interessare a questo suo disegno prediletto la vecchia zia Matilde.
— Che cosa vuoi dunque che faccia un giorno Ada? La maestra, la sarta?
La fanciulla, già viziata dalle troppe carezze, scuoteva la testa con una smorfietta, ed egli non sapeva come replicare.
Quindi colla facilità delle donne a vedere già realizzati i propri sogni, Caterina s’inteneriva orgogliosamente sull’avvenire, vedendo Ada mescolata a tutte le signorine delle migliori famiglie, e più bella di loro fare appena uscita di convento un grande matrimonio.
— Stasera, poco prima dell’Ave Maria, ritorneremo dalla zia Matilde per scusarci: verrai anche tu, non me lo negare. Io ti ho sempre lasciato fare quando hai voluto: ti ho forse mai disturbato? — proruppe ad un suo moto; — e poi non si tratta di me o di te. Oramai per noi è finita: che cosa ci può accadere? Invecchieremo così alla meglio, ma essi hanno bisogno di una buona posizione. Tu hai sempre voluto che Carlino debba andare all’università; io ti approvo, ma debbo preoccuparmi anzitutto dell’altra. Io sono la mamma. Un uomo nella vita arriva sempre a cavarsela, ma una donna se non trova presto marito, senza una buona posizione, può essere perduta.
— La zia non ci lascierà nulla, — egli osservò: — sai pure che è pazza per quella sua figlioccia.
— Lo dici tu, io non lo credo. Sarebbe da parte sua una ingiustizia: è capitale di famiglia, deve ritornare a noi.
— Deve!
— Non si può gettare via il capitale della famiglia.
Egli s’irritò.
— Molti lo fanno.
— Hanno torto. Adesso ti diverti a farmi arrabbiare: verrai anche tu?
— Non ci andiamo, mamma, la zia Matilde mi fa paura, — protestò Ada agitandosi sulla sedia.
La zuppa inglese, portata trionfalmente da Anastasia sopra un piatto oblungo, interruppe la conversazione; i fanciulli batterono le mani strepitando, ma la mamma ne tagliò subito col cucchiaio la metà per serbarla all’indomani.
— Lascia che la mangino tutta, — egli disse, intenerito dalla smorfia dei bambini.
— Ma che cos’hai oggi? mi contraddici sempre.
Egli aveva mangiato quasi come al solito, obliandosi nelle abitudini di tutti i giorni, fra il pettegolezzo dei fanciulli, le chiacchiere della moglie e le osservazioni di Anastasia, che si vantava per la riuscita del pranzo. Però gli era parso che questa, di quando in quando, lo scrutasse.
— Perchè non ne mangia lei? — gli chiese infatti, vedendolo dare la propria porzione a Carlino.
Allora Ada s’ingelosì.
— Lascia lascia, egli è più piccolo di te.
Ma sulla fine dei pranzo l’allegria scemava. I fanciulli non gridavano più, sorvegliandosi a vicenda, malgrado l’attenzione che mettevano a forbire il piatto della crema; Caterina, ricaduta nella preoccupazione della zia Matilde non parlava.
Improvvisamente egli si sentì scoppiare il cuore: non esisteva già più per loro.
— In quale stato pranzeranno domani!
Eppure nulla era ancora mutato intorno. La saletta, quieta come sempre, aveva la stessa aria di pulizia e di modesta agiatezza; la tovaglia, essendo domenica, era bianca, il cavallo di Carlino dormiva dimenticato sopra quella sedia. Tutto invece sarebbe sossopra domani: forse il vecchio mansionario scenderebbe lui pure, attirato inconsciamente dalla paura della morte. Chi sà quali pianti, quali commenti!
Dove sarebbe allora il suo cadavere?
— Lei non sta bene; — lo destò la voce brusca d’Anastasia.
— Io!
— Io dunque? proprio lei, che cosa ha?
— Infatti anch’io ti ho osservato.
— Ma non ho niente! dammi piuttosto da bere, ecco. Che cosa debbo avere? Avete paura che muoia?
Aveva cercato di fare la voce scherzosa, affrettandosi a bere per dissimulare il turbamento, ma quell’ultima parola lo trascinò.
— Bah! se dovessi anche morire...
— Che discorsi sono questi?
Siccome Carlino aveva finito di pulire il piatto coi ditini, egli vinto da un impeto di tenerezza si sporse, afferrandolo sotto le ascelle, e se lo mise sulle ginocchia.
Il piccino rideva superbo.
— Hai ancora il soldo? No? lo avrai nell’altro abitino.
— Eccolo, papà: guarda il buco.
— Dì alla mamma che ci passi dentro un cordoncino, e te lo metta al collo. Mi hai promesso di non spenderlo: manterrai la promessa? Vuoi più bene a me o alla mamma?
Carlino esitava.
— Hai ragione, hai ragione: lei è migliore di me; va a prendere il tuo cavallone.
Così potè alzarsi per accendere lo zigaro.
— Dunque siamo intesi; stasera verrai anche tu dalla zia Matilde, — tornò ad insistere Caterina.
— No, non vengo. Vedrai che domani verrà lei da te.
— Tu scherzi sempre.
— Già!
Si era rimesso il cappello per uscire, scordandosi di scrivere quelle lettere; la paura lo riprendeva. Se fosse rimasto ancora qualche tempo, non avrebbe più saputo come andarsene; poi capiva che, solo coi bambini anche per un momento, sarebbe scoppiato a piangere. Fortunatamente il pranzo aveva durato sino alla solita ora, nella quale usciva a prendere il caffè.
— Me ne vado, — disse due volte, — senza riuscire a decidersi.
Caterina si era alzata per andare in cucina, egli la seguì; avrebbe voluto voltarsi per stringere in un abbraccio furioso le teste dei fanciulli, ma Anastasia rientrava già per sparecchiare.
— Va pure, siamo intesi! — ripetè Caterina una ultima volta.
Per risposta egli le diede un gran bacio sulla bocca, fuggendo subito dopo.
Caterina rimase sorridendo di quella soluzione.
⁂
Nel caffè, a quell’ora, la gente era già affollata intorno ai tavolini, che lasciavano appena un varco sotto il loggiato: regnava l’allegria, le voci si alzavano scherzose. Al suo apparire molti lo salutarono, mentre altri si ritraevano per fargli posto nel solito crocchio; egli invece si sentiva freddo di dentro. Quel nuovo aspetto di festa nel pomeriggio lo turbava. Per un momento aveva pensato di andare nell’altro grande caffè aperto all’angolo del palazzo Rondinini, frequentato dai più grossi signori, quasi tutti naturalmente di parte moderata, per incontrarvi il Bonoli e lo strozzino, che di rado vi mancavano. Poi una paura irragionevole, che tutti a quell’ora sapessero già della sua cambiale falsa mandata in pretura, lo aveva sorpreso.
Perchè non lo saprebbero? Se Roberti certamente non ne aveva parlato con altri prima di partire, il pretore poteva bene averne fatto a qualcuno la confidenza; il caso non era molto probabile, e non di meno, nell’odio improvviso, che si sentiva in cuore contro quel giovane magistrato, adesso divenuto inevitabilmente il suo padrone, si ostinava a dubitare. Del signor Bonoli invece e dello strozzino, più interessati e quindi più facili a tale propalazione, quasi quasi non sospettava: il perchè non avrebbe saputo dirlo.
Quando nello svoltare dalla fontana vide quel pezzo di loggiato, dinanzi al caffè così gremito di gente, fu per arrestarsi, ma parecchi dovevano già aver guardato verso di lui. Colla bruschezza, che dalla lettura di quel biglietto gli aveva così profondamente mutato il carattere, si decise quindi ad andare innanzi. Se altra volta si fosse battuto in duello, avrebbe creduto di risentirne quell’emozione indefinibile allorchè i padrini, dopo avervi tratta la camicia e legato il fazzoletto al polso in qualche angolo appartato, vi dicono improvvisamente, con voce breve:
— Andiamo.
Non gli accadde nulla. I discorsi erano gli stessi degli altri giorni; a un tavolino alcuni radicali, tutta gente della piccola borghesia, vestiti a festa, e quindi con un’aria più importante e una più grossolana affettazione di chiasso, ciaramellavano di politica; altri parlavano d’affari, più in là un crocchio di giovanotti discuteva di donne, naturalmente in termini vivaci ed osceni, i camerieri andavano e venivano, mescolandosi spesso alla conversazione con una famigliarità poco rispettosa, e nondimeno punto antipatica in quelle abitudini di provincia.
Sotto il portico cominciava a passare qualche ragazza: allora tutti gli occhi si voltavano e prorompevano giudizi sommarii, espressioni scoppiettanti come razzi. Quel giorno non v’era alcun argomento speciale di pettegolezzo. Egli sedette. Il cameriere, ragazzotto piccolo e pallido, in giacchetta nera, gli portò al solito il caffè senza averne aspettato l’ordine, e gli sorrise deponendolo sul tavolo.
Appoggiato colla schiena ad una colonna egli guardava il Duomo. L’enorme portone di mezzo era socchiuso, e sull’arco del suo vano si agitava lievemente un drappo rosso, segnacolo di qualche festa religiosa in quel giorno; la scalinata di granito pareva più bianca nel sole, la fontana gorgogliava da tutti i propri zampilli, avvolta in un pulviscolo d’acqua tenue come un vapore.
Tutto quel largo dinanzi al Duomo sino in fondo alla piazza rimaneva deserto, nessun fiacchero stazionava ancora presso il caffè, l’omnibus del grande albergo era già ritornato dalla stazione; solo qualche bicicletta passava tratto tratto nel vuoto, silenziosamente.
Siccome quella gente non sapeva ancora nulla della sua disgrazia e, sapendola, si sarebbe subito scostata, colle cautele così pronte ed assennate dell’egoismo, egli tra la distrazione di quei discorsi tornava a ricordarsi tutto quanto sapeva sopra ognuno degli interlocutori. Pochi avevano una posizione solida ed equilibrata, ed anche questi pochi non avrebbero probabilmente davanti ad un giudice, capace di legger loro nelle coscienze, saputo giustificarne l’origine o il modo: tutti gli altri vivevano come lui, fuori della propria orbita naturale, rammendando ogni mattina gli strappi di ogni sera, nella stessa impotenza di frenare i propri vizi o di guadagnare abbastanza per alimentarli senza pericolo. A vederli così vestiti e con tale disinvoltura giuliva, un estraneo avrebbe potuto crederli ricchi e felici, mentre ognuno celava nella propria vita qualche ignobile controscena di compromissioni domestiche o commerciali, vergogne di donne comprate o vendute, orrori di figli assassinati nell’avvenire per inconfessabili passioni. Eppure sarebbero domani i suoi giudici perspicaci, perchè sommerebbero tutte le loro osservazioni su lui, e condannerebbero, avvelenando la condanna di scherni, per quella inconsapevole necessità in tutti di separarsi da coloro, che soccombono nella vita. Era così, non poteva essere altrimenti; se no la gente per compiangerlo avrebbe dovuto condannare se stessa.
Egli solo si era scioccamente messo in tale condizione di suicidio, mentre gli altri facendo di peggio sapevano restare a galla.
Però questa spiegazione superficiale non gli bastava: un’altra forza oscura spingeva innanzi la vita d’illusione in illusione, di guaio in guaio, sino alla fine, che interrompeva tutto senza risolvere nulla. La moglie, i figli, quanti restano dopo, prorompono in lamenti contro il morto, cercano di rassettare la posizione, e invece tornano a comprometterla con la medesima serie di vizi e di sciocchezze. Era questa l’eterna ridda, l’eterna morale: i figli si lagnano dei padri e, divenuti padri, sacrificano l’interesse dei figli al proprio: le donne, per lo più morigerate come ragazze, si abbandonano da spose e da madri ad ogni sorta di eccessi: i patrimoni oscillano, si scompongono, si ricompongono attraverso un tafferuglio di rapine, di leggi, di prodigalità, di avarizie, di casi tragici o fortunati, nei quali non si capisce nulla, ed è impossibile resistere.
Tuttavia in quel momento egli falsario, deciso a morire della propria colpa senza chiedere soccorso ad alcuno, si sentiva migliore di quanti lo circondavano. Un orgoglio doloroso gli gonfiava la coscienza. Invece di scusarsi ai propri occhi come aveva tentato più volte nella notte, si compiaceva quasi ad ingrandire l’accusa, spremendone un’acre vanità. Non era egli pronto a morire? Che gl’importava di tutta quella gente? Quale di loro, malgrado tutte le vanterie, che avrebbero fatto sul suo conto, affermando l’uno contro l’altro di averlo conosciuto benissimo, saprebbe solamente indovinare le sue nuove sensazioni in quell’ora? Era una specie di alterezza, che gli faceva guardare intorno come dall’alto: qualche cosa di profondo e di freddo, che doveva somigliare alla emozione del comando supremo per un generale, nel momento di arrischiare sopra l’ultima idea la vita di migliaia e migliaia di uomini. La morte innalza sempre. Invece di scrutare nella sua oscurità, il che lo avrebbe daccapo atterrito, si guardava indietro come per una lontananza, nella quale le cose e gli uomini perdevano coll’esattezza del rilievo quasi tutta la propria importanza. Che cosa era mai la vita, a pensarci bene? Egli avrebbe sempre seguitato a quel modo, con le solite soste al caffè, sempre fra quelle persone, quei discorsi, senza una speranza mai di mutare, di salire, di provare qualche cosa di nuovo. Null’altro. Tant’era dunque andarsene prima che la vita divenisse solamente un seguito interminabile di ore nel vuoto di una prigione, e dopo, più tristamente, un fuorviare fra la folla per evitare certe persone, per cansare certi sguardi; poi, rabbuffi strazianti in casa dalla moglie e dai figli, fuori un bisogno sempre più umiliante di trovare un impiego, un modo egualmente indispensabile ed impossibile di guadagno.
— Oh! non dici niente oggi? — gli si volse Cavina, un giovane mastro-muratore dalla fisonomia malaticcia, che la passione e una tal quale raffinatezza di gusto nella musica rendevano al tempo stesso simpatico ed un po’ avversato.
— Pensi ai miei debiti o ai tuoi? — seguitò con lo scherzo solito fra di loro, che, troppo desiderosi di spendere, finivano collo sbertarsi reciprocamente sulle angustie della propria posizione.
Egli sussultò.
— Sono così, non lo so; — ma gli parve subito dopo di avere risposto male.
Il muratore confessava che sarebbe andato volentieri alla prima rappresentazione del Lohengrin: c’era tempo ancora, un treno partiva sulle quattro.
— Bisognerebbe avere cinquanta franchi da buttar via.
— Perchè cinquanta franchi?
— Sai, dopo il teatro viene la cena, la donnetta...
Si rideva: altri sarebbero partiti con lui per Modena, avendo in tasca i cinquanta franchi, meno ancora per ascoltare la musica del Lohengrin che per il piacere della gita.
Allora Romani ebbe un impeto di sdegno.
— Perchè spendere cinquanta franchi? Sono cose che bisogna lasciarle fare ai signori.
— Ai signori! — un altro replicò celiando — ma sono un signore anch’io, quando spendo cinquanta franchi in una sera: vuol dire che per quella sera ho cinquanta franchi di rendita.
Tutti risero.
Romani si accorse trepidando di essersi lasciato trasportare dalla collera contro quella falsa facilità del vivere, che lo aveva condotto all’ultimo punto: quindi per distrarre l’attenzione rimise il discorso sul Lohengrin. Allora tutti protestarono: non sarebbe mancato altro che, non potendo assistere alla rappresentazione, ne avessero dovuto subire la disquisizione da Cavina.
Ma questi, che parlava benino, non resistette; da pari suo aveva letto troppo o si ricordava abbastanza le spiegazioni del mito lohengriniano.
— È un gran bel finale, — concluse dopo non molto, giacchè s’imbrogliava nel patto fra Elsa e Lohengrin; — nessuno muore, eppure è una tragedia. Lohengrin ritorna in cielo col cigno: è un motivo, che fa venire la pelle d’oca, lo stesso motivo, col quale viene rimandato il cigno nel primo atto; ma nessun musicista avrebbe mai saputo trovarne uno uguale. Poi è di una naturalezza! — seguitò animandosi: — Lohengrin canta perchè non deve morire, mentre in tutti gli altri finali italiani si ammazzano il tenore e la donna obbligandoli a cantare con tutte le loro forze. Ciò è falso: un ferito, un moribondo non possono cantare; sì, altro che cantare in quel momento!
— Ma in teatro...
— Che c’entra? In teatro si deve rappresentare la verità. Il finale del Rigoletto è bello, lo concedo anch’io, ma la donna trapassata da un colpo di spada come potrebbe cantare? Sono convenzionalismi, che hanno fatto il loro tempo: io dico che la musica deve rispettare le situazioni drammatiche, e non pretendere di far cantare in condizioni impossibili. C’è l’orchestra appositamente: perchè il maestro non la fa cantare invece del tenore o della donna? Sì! il duetto della barella nella Forza del Destino! Don Alvaro ferito a morte, che urla come un dannato! Tiriamo via. Io credo che non solo un moribondo o un ferito, ma nemmeno un condannato a morte, proprio all’ultimo momento, lo si possa far cantare. Che cosa ne pensi tu, Romani?
— Mi pare che hai ragione.
— Perchè? Si sono visti tanti condannati salire il patibolo indifferentemente, — disse un altro.
— Indifferentemente! Metti loro una mano sul cuore... Ti sentiresti tu di cantare nei loro panni? — ripetè ostinandosi in questa, che a lui pareva una grande idea novella in arte.
Ma la conversazione deviò ancora.
⁂
Mentre il passeggio della gente cresceva pel largo del Duomo e sotto i portici, gli avventori del caffè si diradavano. Le donne sfilavano vestite a colori vivaci, in ritardo dalla moda e non pertanto esagerandola con una volgarità di tagli e d’intenzioni, alle quali la goffaggine del portamento finiva col dare un non so che di maschile. Egli, divenuto più perspicace, interrogava curiosamente ogni fisonomia per indovinare sotto la sua maschera della domenica il segreto di tutti i giorni. Quindi si accorse che in quella bruttezza di quasi tutte le donne mancava appunto ciò che avrebbe potuto riscattarla, l’incantevole e delicata debolezza del sesso. Fu come una rivelazione per lui. Invece colei, che lo aveva perduto, era donna nel più profondo significato della parola. La paragonò mentalmente per cinque minuti a quante passavano, senza arrivare alla spiegazione della sua superiorità: in che cosa consisteva? Dove era adesso? S’immaginava nemmeno che egli potesse trovarsi così?
Erano le cinque.
Fuori di porta Montanara, per lo Stradone, il passeggio doveva essere incominciato.
Daccapo non seppe che cosa fare. Dinanzi all’altro caffè la larga distesa dei tavolini arrivava insino al palco della banda, senza un avventore; si ricordò del primo pensiero, svoltando alla fontana, di andare piuttosto a quel caffè, dove capitavano il signor Bonoli e lo strozzino. Allora non aveva osato, adesso gliene ritornava un desiderio malato.
Siccome era rimasto solo al proprio tavolo, si alzò senza salutare alcuno, giunse in fondo al portico, ne discese i gradini, e si mise all’ultimo tavolino presso l’ultima colonna.
Chiese il Secolo ed un gelato. Ma, così solo, gli tornava la paura.
— Quanto ci vorrà ancora, prima che sia sera?
Rapidamente pensò ai nuovi incontri, ai discorsi che dovrebbe ascoltare, a quelli cui sarebbe inevitabile rispondere, alle combinazioni, ai casi inavvertiti tutti gli altri giorni. Avrebbe potuto tradirsi senza accorgersene. Di quando in quando rimaneva senza forze, in una attonitaggine, dalla quale lo toglieva la sensazione improvvisa del pianto, che stava per sfuggirgli. A quanto doveva compiere nella notte aveva deciso di non pensarci, anzi era sorpreso di scordarsene tratto tratto. Come avveniva ciò? Nessuna di quelle terribili strette, di quei dolori trafiggenti, sotto ai quali nella notte aveva creduto tante volte di svenire, gli si era ancora rinnovato: le ore passavano, dandogli solamente una sensazione vacua, come se ne provano assistendo a certi spettacoli senza prendervi interesse. In tale momento il luogo più deserto era appunto il caffè, ma il suo isolamento avrebbe finito coll’essere notato anche lì. Dove andare? Non aveva nulla da fare; e poi a che scopo lo avrebbe fatto?
In questa impassibilità stava già la morte.
Oramai era fuori del mondo, non apparteneva più a nessuno, non aveva più nulla. La vecchiezza non deve essere altro che la lenta progressione di questo sentimento, l’abbandono reciproco di tutti verso uno e di uno verso tutti per una solitudine annebbiata, silenziosa, immobile.
Aveva acceso un altro sigaro.
Guardò alle notizie del giornale senza fermarsi ad alcuna, poi le appendici lo attrassero: Un Idillio tragico, di Bourget; I milioni della scema, di Montfermeil: nel primo la scena era a Montecarlo, nei saloni da gioco rutilanti d’oro, invasi da una folla cosmopolita, di tutti i costumi, di tutti i gradi, di tutte le fortune. L’autore dipingeva finamente e rapidamente; egli ebbe la sensazione di quell’ambiente, nel quale la gente andava per tentare di non morire, ottenendo da una vincita la guarigione della propria vita anemica di oro, di fede, di speranza, di amore, perchè presso alla morte tutto si fa pallido. E in quella folla, nella quale l’egoismo delle disperazioni non permette lo scambio di alcun sentimento, e fra quelle le pupille chine e vacillanti sui tavoli nello stesso sogno di riscatto; fra quel silenzio, che neppure il delirio della salvezza improvvisa o la sùbita rivelazione della morte arrivano a turbare; in mezzo a quella moltitudine famelica di ozio e di ricchezza, dentro il profumo dei fiori, l’incendio dei lampadari, la pompa abbacinante di un lusso divoratore, Bourget aveva messo due incantevoli figure di donne, sorridenti in un dialogo di amore.
Egli ne lesse le prime battute affascinato, arrestandosi in fondo all’appendice, quasi colla stessa sensazione che se si fosse urtato in un muro.
A Montecarlo il suicida tenta di forzare ancora una volta la fortuna; può bastare un solo scudo per ritornare felice e trionfante alla vita. Quanti vi avevano vinto la posta della propria esistenza! Quanti altri l’avevano perduta! Erano più i primi o i secondi? Quanti suicidii si compiono all’anno in Italia, in Europa? Egli non lo sapeva, ma se qualcuno gliene avesse detto la cifra enorme, gli sarebbe parsa esagerata: nullameno ebbe come una vaga visione di questi volontari della morte, strano esercito senza generale e senza disciplina, che tutti gli anni si esauriva sino all’ultimo soldato, e si rinnovava tutti gli anni inutilmente. Ogni suicida credeva di agire solo: qualche volta morivano a poca distanza l’uno dall’altro, egualmente separati dalla differenza dei motivi. Chi poteva dire davvero il perchè di un suicidio? Egli stesso non avrebbe saputo definire il proprio caso; le ragioni erano molte, forse una per una non sarebbero bastate, forse neppure la loro somma diventava decisiva... Egli ci aveva pensato molto, poi si era accorto di non poter concludere.
Era a questo punto, quando Gualtiero Ponti gli battè la mano sulla spalla:
— Anche tu leggi il nuovo romanzo di Bourget: bisognerebbe invece, mio caro, poter andare a Montecarlo e vincere.
— Vincendo, che cosa faresti tu?
— Mi divertirei.
— Come?
— Seguiterei a giocare.
E l’allegro giocatore, del quale aveva il giorno prima tentato di scontare indarno la cambiale, rise al pensiero di chiudere così la parentesi della propria vita.
— E la cambiale? — chiese.
— No, è stato impossibile.
— Allora?
— Allora!
L’altro si era voltato a guardare una donna.
— Ma quando sarai rovinato? — domandò Romani, che provava un bisogno crudele di affliggerlo, benchè quello scapestrato non gli avesse fatto alcun male.
Gualtiero Ponti si contentò di alzare le spalle.
— Andiamo a fare un giro per lo Stradone? fra poco verranno Tamberi, Marzocchi; sai, questa notte Marzocchi ha perduto settecento lire, io mi ero rifatto, poi ho finito col perderne settantacinque. Ceniamo insieme?
Non si era ancora seduto. Era un giovanotto piccolo, brutto, coi baffi a spazzola, la testa rotonda e già calva, che mostrava indifferentemente, giacchè si era tratto il cappello per asciugarsi il sudore, rimanendo così a capo scoperto; un tic nervoso gli faceva di quando in quando scattare le dita della mano destra.
— Tu non ci pensi dunque? — insistè ancora Romani.
— A che cosa serve il pensarci?
⁂
Non c’era altra filosofia nella vita: sciaguratamente non bastava, perchè giungeva il momento di dover pensare per forza. Finirebbe così anche colui? Istintivamente rispose di no, conoscendolo troppo bene per supporlo capace di un simile sforzo. Tuttavia in quel momento, per una specie di giustizia che si sentiva dentro, avrebbe avuto bisogno di credere che per lui pure sarebbe venuta quell’ora insopportabile di espiazione.
Quindi n’ebbe come uno scatto violento.
— Te ne vai? chiese l’altro, vedendolo alzarsi.
— No, debbo fare una lettera.
— Va’ dentro nella sala a scriverla: ti aspetto qui.
Infatti qualche cosa bisognava che scrivesse. La prima idea fu di rivolgersi alla zia Matilde per raccomandarle i bambini; non voleva dir altro, non ne sarebbe stato capace. Si era messo all’ultimo tavolino presso la porta, che dava nella seconda sala del bigliardo: notò che due vecchi lo guardavano.
Aveva la mano ferma. Gualtiero Ponti si affacciò dalla strada alla vetrina; allora egli si affrettò.
- Cara zia,
2 maggio 1896.
Vi raccomando i miei bambini, abbiate pietà di loro che sono innocenti; io sconto tutte le mie colpe colla morte.
E firmò, avvolgendo come al solito tutta la firma dentro il riccio dell’ultima i.
– Hai fatto presto, — gli disse Ponti avvicinandosi.
L’altro aveva già chiuso la lettera nervosamente, la mano gli tremava nello scrivere l’indirizzo.
— Dammela: te la getto nella buca, mentre vado dal tabaccaio a comprare le sigarette, altrimenti potresti scordartene, come accade quasi sempre a me.
Romani rimaneva perplesso; se impostava la lettera, la cosa diventava irrevocabile. Una nebbia di sangue gli salì dal cuore agli occhi.
Quasi senza comprenderlo, si cercò in tasca il soldo per il francobollo.
— Va! ce lo metto io, — disse Ponti colla mano tesa per ricevere la lettera.
Quindi la prese senza guardare la soprascritta, e uscì dal caffè.
Romani non si poteva muovere, ma pensava, rabbrividendo:
— In ultimo, vi è sempre qualcuno che vi spinge.
⁂
Poichè avevano mutato luogo alla stazione ferroviaria, costruendone poco lontano un’altra più ricca e più goffa, la strada fuori di Porta Vecchia a quell’ora non era più frequentata come in altri tempi. Egli dopo aver errato per molte vie della città, aveva finito per infilare quella; il sole si piegava al tramonto, dalla campagna veniva una frescura di verde umido e di piante in fiore.
S’imbattè in don Procopio, il mansionario, che abitava al disopra di lui; il vecchio ottantenne girava ancora solo, con passo abbastanza sicuro senz’altro appoggio che un bastone dal pomo di avorio ingiallito. Era vestito del solito vecchio soprabito con una leggera mantellina al disopra, tutto lindo e rasato di fresco: i capelli bianchi, troppo lunghi, gli uscivano in ciuffi dagli orecchi.
— Lei! — esclamò Romani.
Il vecchio gli sorrise, scoprendo due ammirabili fila di denti troppo lunghi, di un bianco gialliccio. Romani si era fermato.
— Dove va? — disse, cedendo finalmente al bisogno di una conversazione.
— Poco lungi, figliuolo mio. Nihil est longe a Deo: è l’avvertimento di Santa Monica al suo figlio Agostino.
Ma l’accento tranquillo contrastava con la lirica minaccia del motto latino.
— Sono stato sino alla sbarra della ferrovia.
— Ritorni ancora indietro con me.
— Nella sera si fa fresco, io sono vecchio e mi avvicino al termine.
— Che importa? — proruppe l’altro: — bisogna ben finirla una volta con questa vita.
— Eh! finirla... finirà certo. Quando si è giovani si parla male della vita, perchè non se ne capisce il pregio, e al più piccolo contrasto si pensa persino male di Dio.
— Perchè dunque permette egli tante infamie? Perchè vi è della povera gente, che deve morire in miseria dopo aver fatto ogni sforzo per non meritarla, mentre i farabutti riescono sempre in quello che vogliono?
— Lo sapremo dopo, figliuolo mio: finchè viviamo, bisogna rispettare la vita come un dono di Dio.
— Poteva tenerselo.
Ma siccome la voce gli aveva tremato, il vecchio si fermò a guardarlo in viso.
— Non vi è altro in questo mondo che la vita: che cosa volete vi sia di più importante?
— Come mai dunque certuni se la tolgono?
— Pazzie, suggerimenti del demonio! Tutti i dolori passano, è questione di pazienza: dopo, pensandoci, si resta sempre sorpresi di aver disperato. Vedete, io che sono vecchio, ho avuto anch’io le mie disgrazie, i dispiaceri... e poi, se si potesse ricominciare, ricomincerei.
— Lei non può avere sofferto veramente nella vita; bisogna esserci dentro per provarla e comprendere come alle volte non c’è altro modo di cavarsela che andandosene. A che cosa serve la pazienza, quando non c’è più alcuna speranza?
— Volete farmi parlare perchè sono prete, non è vero? Oggi tutti i giovani, che discorrono con noi, pretendono d’imbarazzarci; ma voi stesso in questo momento non potete essere al caso di giudicare sulle tristi condizioni, che spingono certi infelici al suicidio.
Romani si era arrestato, aspettando la sua opinione, ma il vecchio tacque. Andava adagio, soffermandosi spesso a guardare quelli che incontravano, mentre una collera sorda spingeva l’altro a bestemmiare davanti a questo prete, il quale pretendeva naturalmente di rappresentare Dio e di poter parlare in suo nome.
Quindi seguitò:
— Si fa presto a dire che uno, il quale si uccide, è pazzo; ma se non lo fosse? Moltissimi dànno prova del massimo sangue freddo sino all’ultimo istante.
— Pazzi, pazzi! La chiesa permette appunto il loro seppellimento in terra benedetta, perchè li considera pazzi. Ma se non c’è altro al mondo che la vita, la quale ci fu data per guadagnarne un’altra migliore! Lasciate correre, sono fandonie delle moderne filosofie; ma intanto tutti questi filosofi e questi poeti, che bestemmiano la vita, tirano a campare.
— E quelli che si ammazzano?
— Matti!
— Non è vero! — proruppe: — Vi sono delle circostanze, nelle quali il suicidio diventa l’azione più onesta e più utile, che un uomo possa fare. E poi, perchè si deve tribolare tanto? Se Dio...
— Non bestemmiare, figliuolo mio.
— Non bestemmio; se Dio fosse giusto...
— Andiamo, andiamo, — ripetè il vecchio, alzando un pochino la canna in segno di disapprovazione; ma il fischio della vaporiera li interruppe. Si fermarono, il cantoniere chiudeva dinanzi a loro la barriera.
— Passa il vapore, lo vedremo, — disse il prete, voltandosi verso la stazione invisibile, alla quale il treno doveva essersi arrestato.
Anche Romani non parlava più; l’affermazione così sicura di quel vecchio sulla vita lo aveva scosso; capiva che confessandogli anche la propria tragedia, non solo non lo avrebbe commosso abbastanza da farlo vacillare nelle proprie convinzioni, ma nemmeno da intenerirlo. I vecchi non si appassionano più per alcuno, ma, chiusi in se stessi, si nutrono dei propri giorni, adagio, come per farli durare maggiormente. Quindi rimaneva irritato; il bisogno di discutere, senza rivelarlo, il proprio suicidio, lo tormentava sempre più dolorosamente. I dubbi filosofici, i terrori religiosi della mattina lungo l’argine del fiume, tornavano a sopraffarlo dinanzi a quel prete, che rappresentava la doppia rivelazione della vita e della religione. Egli doveva sapere per aver provato, e perchè credeva senz’alcuna incertezza.
Lo esaminò.
La sua faccia esprimeva una calma senza nessuna vivacità, adesso che la vita era per lui ridotta al minimo; non diceva nemmeno più la messa, tutto si riduceva al pranzo e a quella passeggiata. Eppure era come tutti gli altri; nessuno voleva pensare alla morte.
Egli invece fremeva. Dopo aver lasciato impostare quella lettera, un nuovo orgasmo lo aveva obbligato a muoversi, quasi a fuggire, solo nelle strade, per non tradirsi con qualche scoppio irrefrenabile. Che cosa gli importava della vita? In quel momento, pur di finirla subito, avrebbe accettato anche la morte più dolorosa. Era la rivolta degli animali deboli, che trovano nella disperazione il coraggio dell’attacco.
Quel prete di una religione, che secondo la gente ha un balsamo per tutti i dolori, non aveva indovinato in lui, non aveva sentito niente nella sua voce! Un sorriso amaro gli contrasse le labbra.
Un altro fischio acuto, prolungato, fendè l’aria; s’intesero gli scoppi di un’enorme respirazione che si avvicinava, si vide in alto uno stendardo azzurrognolo di fumo, e il treno passò alla barriera rapido, nero, perdendosi nella campagna, che si assopiva languidamente sotto il tramonto.
Don Procopio lo aveva seguito cogli occhi:
— Quello sarà sempre giovane, mentre i nostri cavalli, — e si battè una gamba colla canna — non vanno oramai più!
Romani era diventato pallido come un cencio; nei suoi occhi sbarrati vi era la fissità dell’agonia, che non vede più o vede già troppo lontano.
⁂
Non aveva potuto parlarne nemmeno col prete.
Questa impossibilità di trovare un’anima, nella quale riversare tutta l’angoscia della propria, gli era diventata uno spasimo maggiore della stessa necessità di uccidersi. Sino dalla notte, dopo la lettura di quella lettera, resisteva all’angoscia di rivoltarsi per terra mordendo qualche cosa: invece aveva dovuto comporsi una maschera simile al volto di tutti i giorni, perchè nessuno si accorgesse di quello che soffriva. Gli pareva di essere un sonnambulo, colla coscienza di non poter più uscire dal proprio sogno. La vita seguitava intorno a lui più intensa di prima; la luce animava le cose, l’aria vibrava, alitavano profumi, i rumori salivano dalla terra mescendosi in una sonorità inesauribile, dentro la quale passava un’altra infinità di musiche, mentre la gente affaccendata di sè medesima sembrava non accorgersi neppure del tramonto imminente. Non poteva essere che così. Era come di quelle danze che i più piccoli insetti fanno nei raggi del sole: volano, si riproducono senza posa, in una confusione ardente ed instancabile, e quello che si arresta un istante, cade non visto nell’ombra, sulla terra. Nessuno può fermarsi al dramma o alla morte di un altro, perchè il dramma è in tutti, e tutti debbono morire; la pietà è appena un sorriso, che si volge ai feriti capaci di rialzarsi; per quelli che soccombono, la disattenzione previene già l’oblio.
Egli stesso non sapeva più che cosa dire agli altri; si sentiva come una di quelle foglie galleggianti nel fosso sotto il temporale del suo sogno: che cosa avrebbe potuto dire una di quelle foglie morte alle erbe dei margini sbattute dalla corrente? Il problema della morte è più lontano e più in alto della vita, dove il tempo dilegua nell’eternità; e quando l’anima s’affaccia nuda a tale problema, se non vi scorge qualche cosa nel buio, ciò vuol dire che la luce della lampada accesa dalla religione in quelle insondabili profondità si è spenta. Il giorno cadeva. Un vapore si distendeva pel cielo, abbassandosi lentamente sull’aria, che si raffreddava; gli oggetti si velavano incertamente, la moltitudine pareva calmarsi. Però le sue voci si facevano più inquiete, tutti i passi si affrettavano. Le grida degli uccelli erano cessate all’improvviso nell’oscurità misteriosa del fogliame: dentro le finestre, prima incendiate dal sole, il buio si era fatto denso come un panno nero, le strade piene di popolo avevano una ondulazione di marcia sotto la notte imminente.
Egli aveva oramai finito quel giorno.
Le campane della sera disperdevano il proprio gemito nel silenzio delle lontananze, come un’invocazione saliente dalla terra dinanzi al terrore delle tenebre, che stavano per sommergerla. Nell’agonia di tale fine, che non aveva mai avvertito prima di allora, gli parve che la morte sfiorasse tutte le cose. Quanto era succeduto in quel giorno, non succederebbe più, era già perduto irrevocabilmente dove tutto si perde, ciò che fu e ciò che dovrà essere, perchè la vita non è appunto che una evanescenza, un suono di suoni, un’ombra di ombre vagolanti in un infinito infinitamente remoto.
La sua anima si ravvolse nel lungo brivido di quella solitudine, che solamente il pensiero avrebbe potuto riempire. Poi il crepuscolo si oscurò ancora, le prime stelle spuntarono dalla volta del cielo, mentre per la città si accendevano i primi fanali, fra un mormorio più indistinto di voci, al disopra della folla, che dileguava nella oscurità delle strade.
Ma le stelle crescevano sempre nel cielo opaco, troppo grandi e troppo vivide perchè la notte potesse appannarle: miriade di mondi viventi di un’altra vita inesplicabile alla nostra, malgrado tutte le rivelazioni della scienza e della fede.
Che cosa c’era lassù? Più alto di lassù?
Dio?
Un minuto dopo la morte, questa domanda sarebbe ancora possibile?
⁂
Egli soccombeva all’umiltà di un annichilimento finale. La sua volontà si era disciolta al pari di ogni altra cosa nell’ombra, come in un ritorno alla primordiale indeterminatezza dell’essere; non soffriva più. Persino quest’ultimo dubbio, balenatogli più in alto, oltre lo splendore delle stelle, si era spento con tutto quanto moriva intorno a lui, nella dissoluzione della notte. Che importava il motivo della morte, quando bisognava morire?
Il medesimo silenzio penetrava in tutti i cuori, la stessa ombra in tutte le teste: non si poteva essere immortali; perchè noi pretendevamo dunque di esserlo?
Vi era differenza nella morte? Che cosa era il suicidio? Si muore di tutto, tutti si suicidano, giacchè ogni gioia troppo intensa, ogni dolore troppo acuto ci costa forse un giorno: qualunque opera ci toglie quella parte di noi stessi, colla quale la compimmo; i nostri figli sono i nostri parassiti sino al giorno che, non potendo più nutrirsi di noi, ci abbandonano per soccombere altrove. In qualsivoglia momento la morte è sempre la stessa: un terrore, un’angoscia, e la soffocazione in fondo. Non ci si pensa, perchè tutte le idee adunate intorno alla morte, paradisi, inferni, non riproducono che teatralmente il nostro oggi sullo sfondo di una notte senza domani.
Quando l’ora della morte è suonata bisogna rassegnarsi: non è sempre così davanti a tutte le difficoltà della vita? Si chiudono gli occhi, e si ingoia il bicchiere dell’olio di ricino, come fanno i bambini.
Una carrozza, che gli passò accanto fragorosamente, coi fanali accesi, gli ridiede la visione del treno sbuffante, fumante, coi grandi occhi sbarrati nella notte, come se venisse contro di lui, e tutta la terra intorno tremasse sotto la violenza del suo impeto.
⁂
— Vieni con me dalla Marietta: è arrivata una ragazza d’Imola.
Romani alzò la testa, Gualtiero Ponti seguitava:
— Venturini dice che è bella, vieni con me: poi ceneremo.
Ma sebbene la domanda fosse insistente, la voce rimaneva fredda; Romani stava seduto alla cantonata del caffè Rondinini, in quell’ora pieno di gente, sotto il chiarore rossastro dei lampioni a petrolio: tutti erano vestiti a festa. Era la prima ora del passeggio notturno, per la piazza e sotto il loggiato dei signori; le ragazze passavano a frotte negli abiti chiari, sorridendo fra gli sguardi, che le cercavano avidamente. Romani si era seduto, solo, a quell’angolo. Una stanchezza malata aveva finito di vincerlo, dopo tutte quelle corse fuori e dentro la città: si era cacciato per molti vicoli, sino alle mura, che da Porta Pia vanno a Porta Montanara dirimpetto alla linea delle colline, e anche là aveva trovato la stessa gente, coppie di amanti, torme di bambini, crocchi di mamme, e, tratto tratto, un vecchio, che passava come un’ombra nell’ombra sempre più densa della sera.
Gli era rimasta negli orecchi la cantilena di alcune voci.
— Dove ti sei nascosto oggi, che non ti ho più visto? — ridomandò Ponti.
— Ho girato.
— Solo?
— Così... non sempre, — si corresse, ricordando l’incontro con don Procopio.
— Dunque vieni?
— No.
— Perchè? Vieni.
— Non ne ho voglia.
Sopraggiunse un altro, al quale Ponti fece la stessa proposta, e che accettò.
Romani rimase solo daccapo.
Perchè non aveva accettato? Era stato un rifiuto istintivo, ripugnante, quasi di un ferito, che qualcuno, stupido o villano, invitasse a ballare, poichè gli era accaduto di ricusarsi così nella giornata ad altri inviti, sempre colla stessa sensazione amara di disgusto. Il passaggio delle donne, che talvolta a quell’angolo gli sfioravano quasi il ginocchio colla gonnella, lo tirava inconsciamente ad altri pensieri: qualche profumo vaporante dalle vesti errava nella sera, nomi femminili salivano dai crocchi vicini a lui, mentre al di là della strada, in quel largo dinanzi al loggiato, fra i tavolini, molto signore si erano già fermate, e i camerieri correvano affaccendati, recando o togliendo i bacili. La festa diventava più tentatrice nelle ombre della notte; pochi bambini erano ancora in giro, nell’aria agitata da uno scirocco leggero soffiavano improvvise caldezze. Le donne, quasi belle a quell’ora, avevano nel passo qualche cosa di diverso, un’ondulazione, che gli abiti festivi rendevano più provocante, quindi voltavano il capo allungando i sorrisi, o si chiamavano fra loro a sussurrare una confidenza non difficile ad immaginarsi. Egli si accorgeva di osservare tutto questo intorno a sè. E quell’invito brutale di Ponti gli ritornava più insistente dalla varietà di quella scena trepida di voci e di fruscii femminini. Perchè aveva adunque rinunciato? Fra la folla delle donne ne distinse alcune, delle quali in gioventù era stato l’amante: passavano come le altre, sedotte e seduttrici, in quella prima notturna promessa della primavera. Si capiva, si vedeva che la gente, immemore delle proprie sciagure, o magari a cagione di queste, voleva esaltarsi gaudiosamente in tutte quelle sensazioni, che, risvegliate dai rapidi contatti della strada, nei brevi incontri ai caffè, ingrosserebbero a cena fra la crapula dei discorsi e la fiamma dei bicchieri, per irrompere più tardi nei convegni colle donne irritate dalla troppo lunga attesa.
Egli stesso aveva fatto così mille volte, senza riflettervi.
Conosceva quelle stanze della Marietta, nell’angolo di un vicolo, sopra un’osteria, poco lungi dalla piazza. La Marietta, non ancora vecchia, pareva quasi un uomo alla durezza della fisonomia e con quella voce grossa. Raramente capitava da lei qualche bella ragazza.
Se avesse seguito Ponti, non vi sarebbero in due rimasti più di mezz’ora, giacchè in quel luogo si entrava e si usciva, avendo preso tra le braccia per cinque minuti una donna incognita, come lungo la strada i carrettieri si arrestano talvolta ad una bettola e vi bevono un litro in piedi, presso il banco dell’oste. Anche Camilla doveva spesso aver fatto come le altre, prestandosi all’amore momentaneo, nel baratto assurdo di un bacio contro uno scudo, senza piacere, senza pudore, senza memoria. Si ricordano forse certe cose e certi appuntamenti? Ma se ciò non fosse, forse la gente impazzirebbe; tutto nella vita ha la propria immagine falsa, l’amore e la gloria, il vizio e la virtù, e quando il sangue fermenta improvviso, o l’anima non resiste più alla visione di sè medesima, si ricorre a queste falsificazioni come ad un rimedio, che placa il male senza ingannarlo e ci lascia, nella prostrazione dello sforzo compito, una più pronta facilità al riposo.
Il suo sguardo frugò rapidamente la strada, che da quell’angolo del caffè Rondinini saliva parallelamente al Corso, per vedere se Ponti ritornava, pentendosi già in cuore di non averlo seguito. Tutto quell’incubo di morte, così soffocante da venti ore, gli faceva schizzare dalla coscienza un desiderio acuto, quasi stridente, di gustare anche una volta quel piacere che, falsato, rimane pur sempre senza confronto con alcun altro. Perchè resistere? Aveva egli paura che gliene fosse domandato conto dopo la morte? Come quei condannati, cui era tutto permesso nell’ultimo giorno, e che si sentivano prendere subitamente da golosità frenetiche, egli avrebbe voluto adesso una donna a qualunque costo; era quasi un orgoglio di sfida lanciato al mistero della tomba, un estremo impeto di profanazione contro tutto quanto stava per abbandonare. Le stesse contraddizioni, delle quali nel giorno aveva tanto sofferto, gli si mutavano in un bisogno anche più spasmodico di afferrare per l’ultima volta la vita nel suo momento più intenso, e spremerla, col superbo sottinteso della morte, in una sola stretta. Pregustava già una gioia acre nel constatare l’inintelligenza della donna davanti all’orrore imminente di tale tragedia, con quella falsità di carezze sempre uguali nell’amore gratuito o venduto.
Sul marciapiede di contro, rasente all’ultimo gradino della grande scalinata, in quel momento passò l’Anitra, una donna di trent’anni, cui il portamento dei fianchi troppo bassi aveva meritato questo nomignolo: era sola, vestita al solito con una certa modestia, malgrado il proprio mestiere di etèra plebea.
Si alzò di scatto per seguirla, nessuno gli aveva badato.
Dovette passare attraverso molti gruppi di donne, ma dai loro sguardi si accorse subito di essere sospettato, perchè andava troppo dritto su quella traccia. Sapeva dove ella abitava: un vicolo remoto, lercio, dal nome purissimo “Delle Vergini”: ma l’Anitra rasentò la fontana a sinistra.
Si era accorta di lui.
Allora egli non osò più accelerare il passo, il pentimento lo ripigliava.
Ella proseguiva adagio, con quel suo pesante ondulamento delle anche, che si distingueva bene nell’ombra rotta dai fanali. I capelli neri le facevano un grosso mazzo sulla nuca.
La gente si rarefaceva ancora, lungi dalla piazza, l’ombra s’infittiva: egli passò sull’altro marciapiede per essere più libero.
— Perchè non la fermo? — si chiese, senza saper rispondere.
Tuttavia quell’orgasmo gli durava, si sentiva battere il cuore, come altre volte recandosi a qualche convegno passionale; aveva i sensi irritati e quella leggerezza, che il desiderio della donna sembra dare a tutto il corpo.
L’altra rivolse la testa.
Egli la riconobbe: il suo viso tondo dalle guance troppo rosse, col mento quasi da bambina, gli occhietti chiari. Gli parve di distinguere persino quella riga grassa sotto il collo, la cosa che più in lei gli era piaciuta.
— Non ha altro lei! Anche Camilla, che cosa aveva di più? Quando si è eccitati, si farebbero delle pazzie per loro, e dopo non ne resta niente. Le donne sono tutte uguali: Caterina getterà qualche urlo, poi non ci penserà più, come le altre. Gli sciocchi siamo noi, a credere che esse ci amino. Chi ama? Io stesso, che mi sono rovinato per questo, amo forse Camilla adesso?
Intanto proseguiva sul marciapiede, sempre alla stessa distanza.
Un uomo fermò l’Anitra, che girò ancora la testa indietro; egli si arrestò, mentre i due invece seguitavano innanzi chiacchierando a bassa voce.
Allora svoltò al primo vicolo allungando il passo per ritornare in piazza. Erano le otto e mezzo. Improvvisamente, tra quella moltitudine festiva, si ricordò di una biroccia incontrata nel pomeriggio, lungo la strada di circonvallazione, dinanzi al nuovo macello. L’aveva guardata con una sensazione di stupore, poi non ci aveva pensato altro. Era una delle solite biroccie, verniciate di turchino, dalle ruote alte, tirata da un grande mulo secco; un vecchio carrettiere senza giacca le veniva di fianco, con un mozzicone di frusta nelle mani e una pipetta quasi senza cannuccia fra i denti.
Egli si era dovuto ritrarre sull’orlo del fosso per non lasciarsi schiacciare, seguendola collo sguardo sino alla svolta della strada, dove il canale si allarga in una immensa pozzanghera.
La biroccia, colma di stracci e scossa da un triste tremito di paralisi, pareva tratto tratto stridere lamentosamente sotto il cumulo delle miserie, che le gonfiavano i fianchi. Gli stracci, gettati gli uni sugli altri a palate, si confondevano in un colore sudicio, dentro al quale qualche cosa biancheggiava ancora, un rimasuglio di candore fra tutte quelle immondizie lasciate indietro dalla vita, e nullameno raccolte da qualcuno per viverne. Egli aveva veduto tutto alla prima occhiata, l’aggrovigliamento di quei cenci tessuti con ogni sorta di fibre, lacerati, sfrangiati, coperti di macchie e di croste, che ricordavano altre piaghe, esalandone ancora il puzzo grasso e penetrante. Una polvere cinerea ondeggiava sopra di essi ad ogni traballone senza potersene staccare, mentre la massa, scrollandosi con una mollezza di carne in putredine, rabbrividiva ancora sotto un volo di mosche affamate.
E sopra i suoi fianchi, lievi brandelli riaccendevano tratto tratto nel sole qualche pallore di lino o luccicore di seta, tosto soffocato dalla bigia pesantezza degli altri stracci, che si spostavano senza cadere, come se tutte le loro morti vi si tenessero avvinghiate. Una fetida nausea di cadaveri veniva da quella bara, coi segni tuttavia visibili della vita passata, già fermentante nell’ultima dissoluzione. Tutto lì dentro era stato nuovo in altri giorni: quante migliaia di gente vi aveva lasciato il segreto della propria esistenza! Quanto vino, quanto sudore, quante lacrime, quanto sangue vi erano caduti! Quanti sogni vi rimanevano ancora, che sparirebbero nella medesima buca!
Dalla camicia della vergine al mantello del soldato, dalla fascia del bimbo al grembiule del beccaio, dalla veste che tutto un popolo aveva ammirato, all’abito che l’accattone aveva lasciato solamente morendo, forse nulla di quanto la vita umana aveva adoperato per nascondere la propria nudità, mancava in quella bara. Il pensiero avrebbe potuto frugarvi senza fine, come dentro un cimitero.
Egli ne aveva ricevuto confusamente questa impressione nella fugacità di un istante, poi aveva riflettuto che dovevano essere stracci troppo sordidi per cangiarsi in carta dopo il solito imbianchimento, e destinati quindi come concime a qualche grassa coltivazione.
Adesso la visione immonda gli ritornava in piazza come un finale ironico, che conchiudesse quella festa, trattando allo stesso modo gli abiti e coloro che li portavano. Infatti la bellezza nella vita non dura più della primavera nell’anno: uno splendore di qualche mattino, una purità sorridente di cielo, qualche dolcezza nei tramonti, poi il sole brucia tutto daccapo, e l’autunno imputridisce quanto il sole ha bruciato, e l’inverno seppellisce quanto l’autunno ha imputridito. Quella folla di immemori era attesa come lui dalla morte a un gomito improvviso della strada: uno per uno avrebbero provato la stessa angoscia subitanea nel crollo di tutto il passato, davanti alla impenetrabile oscurità dell’avvenire. E vi arriverebbero forse peggio di lui, logori, maculati di putredine come i cenci di quella biroccia, esalando già prima di morire il fetore della decomposizione sepolcrale. Forse valeva meglio andarsene così, ancora intatto, nella pienezza delle proprie forze e del proprio dolore.
La gente condanna i suicidi per dispetto della paura, che questi non hanno avuto.
Un pensiero bizzarro gli solcò la mente: se la gente, volendo, potesse non morire mai, vi sarebbero egualmente dei suicidi? Qualcuno si ammazzerebbe ancora, per odio della vita? Il problema era troppo profondo nella sua stravaganza, perchè egli potesse trovarne la soluzione, ma vi pensò nondimeno qualche tempo. Sapeva che le bestie non si suicidavano, pur essendo esposte a tutti gli stessi mali fisici della umanità. Era dunque l’anima che anelava alla morte, era la mente che si ribellava alla inutilità dello spasimo! Infatti la povera gente, quella che vive più materialmente, non pensa mai al suicidio: non la fame uccide, ma l’umiliazione di mostrarsi affamato fra la gente satolla. Chi nacque accattone, mendica per tutta la vita, e trova forse la felicità in quest’ozio; chi invece è costretto da un disastro a questuare, non potrà mai perdonare nè a se stesso nè agli altri lo strazio di tale subordinazione.
La sua angoscia in quel momento stava appunto nel sentirsi come un mendicante fra la folla allegra e spendereccia, che non gli avrebbe dato un soldo. Essere espulso dal mondo, come sono cacciati i poveri importuni dalla porta, quando si commise l’errore di lasciarla loro oltrepassare!
— La carità? — pensava. — Ma, se ci scacciamo l’un l’altro da tutti i posti, se dovendo tutti morire, la morte degli altri non ci tocca nemmeno... Dov’è la carità? Anch’essa è un lusso di certi istanti: si dà qualche cosa, perchè la momentanea gioia di chi riceve aumenta la nostra giocondità. È come nei pranzi: ci vogliono degli invitati; ma si amano forse i proprii invitati? Bisogna essere in molti ad una festa di ballo; ma la soddisfazione di ognuno è appunto nel primeggiare sugli altri, vedendoli così segretamente iracondi del piacere loro tolto.
⁂
Sapeva che non vi sarebbe entrato, ma da venti minuti passeggiava sull’altro marciapiede, dinanzi alla porta della propria casa.
La gente si era diradata anche nella piazza, solo nei due grandi caffè, più vivamente illuminati, proseguiva la festa della domenica. Poche donne passeggiavano ancora. Egli si era diretto verso casa, per abitudine: Caterina doveva aspettarlo e, non vedendolo comparire, avrebbe certamente pensato che volesse evitare un nuovo discorso sulla zia Matilde. Lungo la strada notò molte finestre illuminate; era quella l’ora più dolce, dalle nove alle nove e mezzo, quando le donne rientravano, e si andava a cena chiacchierando della giornata, con quella contentezza di non aver lavorato, e non pensando ancora alle necessità dell’indomani.
Egli si riproduceva nella mente la scena di Caterina coi fanciulli a tavola; questi volevano senza dubbio l’altra metà della zuppa inglese serbata a pranzo per il giorno dopo, mentre ella, indispettita per la nuova assenza di lui, si ostinava nel rifiuto.
Improvvisamente, questo piccolo dolore dei bambini, prodotto dalla sua assenza, gli divenne intollerabile.
— La mia assenza! — si ripetè sottolineando questa parola, della quale si era inconsapevolmente servito.
Caterina era poi andata dalla zia Matilde? Questa domanda lo forzava a riflettere sull’orario, secondo il quale la posta distribuiva le lettere; ma si persuase subito che la sua non sarebbe recapitata prima delle nove, all’indomani. Chi era il postino, che faceva il servizio per il rione della zia Matilde? Forse essa, riconoscendo la calligrafia, avrebbe aperto la lettera prima ancora che quegli avesse potuto uscire di casa: e allora? In un baleno vide tutto il dramma dopo la propria morte, ma così rapidamente, in una luce così intensa, che non potè sostenerla.
Camminava senza accorgersene, a testa bassa, con tale fiacchezza, che qualcuno fra i rari passanti avrebbe necessariamente finito col notarlo; arrivava dal campanile di San Lorenzo, il più alto della città, nel mezzo della strada, sino alla barriera. La notte era stellata, il fiume, ridivenuto quasi secco fino dalla mattina, non mormorava più come nella notte antecedente; i primi fanali del borgo illuminavano sinistramente le alte spalliere del ponte in ferro. A forza di andare su e giù, la coscienza tornava ad assopirglisi nel ritmo stesso di quell’impulso, ma nel passare dinanzi alla propria porta alzava sempre gli occhi. Due finestre v’erano illuminate, quella della saletta da pranzo e, all’ultimo piano, l’altra della camera da letto di don Procopio. Se non che la luce filtrando appena di fra le griglie, diventava impossibile sorprendere nell’interno il passaggio di un’ombra. Si ricordò dei progetti con Caterina nel primo periodo del matrimonio per un restauro alla facciata della casa: sarebbe stata una spesa di quasi duemila lire, alla quale avevano rinunciato senza fatica. Caterina invece avrebbe desiderato di accomodare qualche stanza nel podere a Santa Lucia in Vado per potervi villeggiare di qualche guisa nell’estate. Anche quello era stato un sogno impossibile. Tutto dileguava, per sempre! Si dovrebbe vendere ogni cosa dopo, quasi subito, in mezzo a una disperazione piena di rimproveri contro di lui: eppure egli non ne soffriva più in quel momento. Come se il grande distacco si fosse già compito, vedeva tutto a una distanza troppo grande, con quella indifferenza che ci lasciano le cose impossibili alla nostra volontà. In lui non sopravviveva che l’abitudine, quel fascio di rapporti indefinibili, onde l’uomo è legato alla propria casa, quella incapacità di pensare sè medesimo in modo diverso dal come si è vissuti, tutte quelle impronte incancellabili, colle quali la vita compose la nostra fisonomia spirituale. La casa, con quanto vi stava dentro, era come una parte di lui stesso.
Il tempo passava.
Quella passeggiata lenta, uguale, aveva finito coll’attrarre l’attenzione delle due guardie daziarie sedute al fresco fuori della gabella; si erano alzate e lo spiavano. Allora egli diè volta bruscamente, ma quando fu al campanile non seppe andare oltre.
Voleva vedere quella finestra ancora una volta. L’orologio della piazza sonò le dieci e un quarto, il lume passava sempre attraverso le griglie: allora si ricordò che Caterina soleva spesso la sera ripassare la lezione dell’indomani a Ada.
— Finchè c’è il lume non me ne vado, — borbottò ostinatamente.
Ma le guardie si erano messe a passeggiare, e venivano verso di lui: dovette tornare indietro. Per un momento pensò di salire con un pretesto, salutare tutti e scappare; titubava, si sentiva affranto.
Ritornò ancora, ma siccome le guardie stavano ferme in mezzo alla strada, a quaranta passi dalla gabella, fumando, si persuase di essere sorvegliato. Quasi ciò potesse distogliere i sospetti, traversò la strada per venire sull’altro marciapiede, volgendo daccapo la schiena alla propria casa.
Poi un passo sollecito gli risuonò dietro.
— Oh tu, Romani!
— Tu, Landi?
— Esci di casa?
— Sì.
— Io non ho potuto cenare a casa mia: un’altra scena con quella linguaccia di mia moglie! Vado al Falcone, accompagnami.
⁂
Aveva già bevuto due ponci, seduto all’ultimo tavolino di sinistra nella prima sala, col gomito appoggiato sulla cassa di vetro, nella quale si conservavano le paste.
Gaudenzi, l’impiegato del telegrafo, non si era ancora veduto, l’avv. Guglielmi doveva essere al club, quel vecchio maestro chiacchierino giocava nell’altra sala, e s’udiva spesso la sua voce in falsetto salire fra scoppi di risa.
Una malinconia fredda gli era penetrata sino dentro le carni, come certe umidità notturne, contro le quali non sembra giovare alcuna bontà di panni. Nel caffè, pieno degl’insoliti avventori domenicali, il chiasso cresceva più villano; erano gruppi di artieri in gazzarra dal pomeriggio, vestiti con pretensiosità plebea, dalle faccie inintelligenti e vanitose. Quasi tutti portavano un piccolo cappello a cencio sull’orecchio, e tentavano sui divani o sugli sgabelli la posa più provocante, giacchè pareva loro una specie di conquista quel bere ai tavoli, dove per solito sedevano i signori. Nei loro discorsi, quasi tutti di politica, ritornava sempre la stessa frase con voce sempre più alta, o con accento più marcato, mentre in fondo ai loro sguardi vaghi nel primo imbambolimento dell’ebbrezza, s’accendevano piccole fiamme. E i più irrequieti si guardavano intorno, cercando qualcuno dall’aspetto signorile per la compiacenza di potersi momentaneamente, davanti a lui, mostrare in una ostilità mimica.
Egli vedeva tutto questo senza che alcuno gli badasse, perchè non era mai stato veramente un signore.
Colla testa abbandonata sull’alta spalliera rossa del divano, una mano in tasca, osservava i cerchi di fumo turchiniccio allontanarsi, dilatandosi lievemente dalla punta dello zigaro, nell’aria già greve di tutti quegli aliti.
Al momento di entrare sotto il loggiato aveva rivolto la testa verso il grande orologio della piazza, illuminato: segnava le dieci e mezzo. Le ore, così lente nel giorno, si erano tuttavia involate con una rapidità raccapricciante.
Si tastò la rivoltella nella tasca sinistra della giacca, pensando un’altra volta, con un senso d’impazienza, come non avesse incontrato nè lo strozzino, nè il signor Bonoli, nè il pretore, che dovevano conoscere il suo dramma. Credeva che la loro vista sarebbe bastata a raddoppiargli l’energia, almeno per quella necessità d’ingannarli sino all’ultimo col fingersi indifferente.
Invece, per tutta quella lunga giornata, nulla era venuto ad aiutarlo: aveva recitato troppo bene dissimulando.
La sua fine doveva compiersi come per qualunque altra malattia, senza nè ricevere nè dare ad altri alcuna insolita emozione. Perchè? A che cosa serve la morte? Perchè era nato? Se non vi erano perchè, tale infinita inutilità diventava il più profondo dei misteri. Nel bisogno di scostarsi dall’ultimo momento, il suo pensiero fluttuava daccapo all’urto delle sensazioni, che gli si rinnovavano nella memoria. Il babbo e la mamma, pieni per lui di tenerezza, lo avevano allevato in un bel sogno di avvenire, addormentandosi per sempre nella tristezza sconsolata di una disillusione finale; egli aveva amato i proprii bambini, rifacendo sopra di essi il medesimo sogno.
Perchè? Questa parola lo sbalzava da un altro lato; Camilla era passata una sera dinanzi a lui, si erano parlati, egli aveva provato un rimescolamento profondo, non aveva capito più bene, si era rovinato per lei senza accorgersene, e senza che ella se ne accorgesse. Perchè? Lo strozzino, d’accordo col signor Bonoli, aveva portato la sua cambiale falsa al pretore: volevano mandarlo in galera? Volevano costringerlo al suicidio? Perchè? Che cosa importava loro? Era così. Tutte le vite si rompono come bicchieri l’uno contro l’altro, senza che alcuno abbia mai potuto leggervi la marca di fabbrica, o indovinare chi verrà a raccoglierne i cocci.
Solamente allora si accorgeva di aver sempre agito senza un perchè; tutta la sua esistenza non aveva un solo atto necessario, che la spiegasse, all’infuori dell’avere mangiato e dormito, due bisogni istintivi per mantenerla.
Il resto rimaneva inesplicabile. Camilla e Caterina erano entrate nella sua vita quasi allo stesso modo, egli non aveva riflettuto in nessuno dei due casi; era diventato padre così, perchè le donne rimangono gravide, ecco tutto, e aveva allevato i figli per un altro istinto. Gli affari, i divertimenti dipendevano sempre dalle circostanze, anche quando si voleva combinarli con ogni studio possibile: perchè dunque si pensava e si soffriva tanto? La sua mente ritornava alle meditazioni della mattina su quell’argine del fiume, nel silenzio della campagna, con un nuovo terrore degli stessi problemi. Ma invece di domandarsi se Dio era, e come ci giudicherebbe nel momento dopo la morte, si sentiva sopraffare dal mistero primordiale della vita.
La nozione, per lui oscura ed inevitabile, di un creatore, non faceva che rendere ancora più inintelligibile il quesito: perchè si nasce? Anche se Dio esistesse, e dovesse punirci o premiarci dopo morti, la ragione di averci voluto in questo mondo non si vedeva. Se egli era Dio, che cosa poteva importargli di noi? La nostra vita non spiegava sè medesima, mentre l’antagonismo fra la sua legge e la nostra volontà, per lui che ne doveva sapere anticipatamente il risultato, diventava una ridicolaggine. Che bisogno c’era di nascere, per dover pensar sempre senza capire nulla di nulla, soffrirne di tutte le sorta, e morire non avendo compito niente? Essendo cattivi, aggraviamo l’uno contro l’altro le nostre disgrazie, essendo buoni, ci aiutiamo scambievolmente contro il male che non abbiamo fatto, ma che ci tocca patire ad ogni modo.
E davanti a questa tenebrosa fatalità del male, che si varia nella vita per tutta la gamma del dolore, dalla più lieve fitta corporea alla più larga lacerazione spirituale, egli tornava sempre a chiedersi, con l’insistenza spaventata di un bambino: perchè si nasce? Un terrore fantastico gli faceva pensare a qualche potere mostruoso, che dirigesse il mondo e vi rinnovasse continuamente tutte le crudeli necessità: così i viventi dovevano divorarsi a vicenda per mangiare, e straziarsi l’un l’altro per godere. Infatti, non vi era gioia nella società, che non fosse un dolore per qualcuno; non nasceva nel mondo un individuo, senza essere composto coi resti di altri morti, non si poteva respirare, senza uccidere milioni di microbi, senza inghiottirne altri milioni, che dovevano ucciderci. La legge suprema era dunque la morte: nessuno vi sfuggiva, nessuno aveva torto o ragione davanti ad essa. L’immaginazione esaltata da quella crisi troppo lunga, gli si smarriva in una continua evanescenza di quadri orribili, che mettevano in quel suo sonnambulismo una specie di incubo.
La sua faccia era diventata bianca, cogli occhi fissi, mentre il chiasso delle voci e il tinnìo dei bicchieri nelle sottocoppe e nei bacili cresceva sempre da tutti i tavoli.
— Ho qualche cosa sullo stomaco, portami un bicchierino di cognac, — disse.
Il cameriere si affrettò sorridendo; il padrone, bell’uomo, già cameriere nello stesso caffè pochi anni prima, si accostò fumando in una elegante pipa di schiuma, a testa di cavallo.
— Che cosa ha mangiato, signor Romani? — gli chiese cortesemente.
— Non lo so neppur io.
— Forse dipende anche da tutta questa gente! — l’altro soggiunse a bassa voce, girando intorno un’occhiata di disprezzo.
Si era seduto famigliarmente sopra uno sgabello accanto a lui.
— Questa sera la sua partita è andata a monte. Ha letto la nuova appendice del Secolo? — e si allungò per prendere dal banco un fascio di giornali: — a me pare bella assai.
Romani rimaneva distratto.
— Ecco Montalti! — esclamò il padrone, vedendo entrare quello scrivano storpio, che venne diritto al loro tavolo; poi capitò Cavina, il muratore wagneriano; Rotoli, il vecchio maestro chiacchierino, che aveva finito la partita nell’altra sala, si fermò anch’esso dinanzi a loro.
Era quasi la stessa conversazione di tutte le altre sere.
Il padrone ricominciò il discorso sul nuovo romanzo del Secolo — Idillio tragico — di Bourget, spiegando come gli paresse bello, perchè Montecarlo vi era dipinto colla massima esattezza. Egli vi era stato, da giovane, nelle proprie peregrinazioni di cameriere. Ma lo scrivano, socialista malcontento, protestò: quello era un romanzo aristocratico, buono a nulla, giacchè gli scrittori di vero ingegno non potevano occuparsi che delle miserie popolari.
— Ho letto anch’io qualche appendice di questo nuovo romanzo del Bourget, — e pronunziò il nome come era scritto.
Allora Cavina lo corresse, corsero frizzi.
— Tu sei un wagneriano.
— E me ne vanto.
— Wagner era socialista.
— Va! se daranno il Lohengrin in carnevale, vedrai quanto popolo vi andrà, — ribattè l’altro, che intanto aveva preso il Secolo per leggere le notizie dei teatri.
Fortunatamente nessuno di loro si sentiva in vena quella sera, poi vi era troppa gente nel caffè, e Montalti davanti alla brutalità di quelle sbornie, che stavano già per scoppiare, non osava i soliti sproloquii. La voce fessa e la sillabazione troppo staccata e monotona, colla quale declamava, gli avrebbero attirato dal pubblico qualche villana interruzione.
Si misero a parlare di donne: anche Cavina quella sera era stato in casa della Marietta.
— La ragazza era bella? — chiese Montalti con un luccicore di gatto negli occhi.
— C’è ancora, parte col diretto di un’ora dopo mezzanotte.
Romani si voltò: — E dove va quel treno?
— Bella! a Bologna.
Rimase perplesso:
— Ci sono altri treni?
— Prima di giorno? Quello che da Bologna ritorna per Ancona alle tre, e l’altro che arriva da Ancona verso le quattro e mezzo, perchè rimane ancora impedita la linea di Porretta.
— Ah!
— Deve partire, signor Romani? — gli si volse il padrone.
— Sì, — e la voce gli si era fatta quasi dolce.
— Dove vai? — domandò Cavina.
— Non lo so.
— Un mistero dunque?
— Grande.
Tutti sorrisero.
Ma il baccano domenicale li teneva in disagio. Lo scrivano, malgrado le declamazioni socialiste, sapeva di essere poco gradito; Cavina era sospettato di aristocrazia per i modi abbastanza garbati e quella istintiva predilezione della grande arte, che lo traeva imprudentemente a ridere delle commedie e delle musiche gustate dal popolino; il vecchio maestro, benchè simpatico per la dolce ingenuità del carattere e l’onestà della lunga vita, s’irritava troppo, nella lieta viridezza di tutte le proprie forze, contro ogni critica alla parte moderata. Egli era rimasto dentro la formula cavourriana, condannando ad alta voce tutti gli eccessi politici e le demenze atee dei nuovi rivoluzionari.
— Eh, maestro! — esclamò Cavina; — ecco qui altri due suicidii a Torino; non c’è più religione.
— Voi lo dite per ischerzo, giovinastro.
— Come si sono ammazzati? — domandò Romani.
— Uno si è avvelenato, l’altro si è gettato sotto il treno.
E Cavina lesse i due incisi di cronaca, secchi, terribili.
— I giornali non dovrebbero nemmeno stampare certi fatti, — disse il maestro: — le teste leggere si esaltano e, una volta esaltate, li commettono più facilmente.
— Allora io sono una testa pesante. Possono raccontarne dei suicidii, io non mi suiciderò mai, — replicò Cavina.
— Chi può dirlo? — ribattè Romani.
— Io! Stai pur sicuro. Ammazzarsi per amore o per debiti, giacchè la gente si ammazza quasi sempre per queste due cause? Per amore? Se una donna non ti vuole, ve ne sono sempre troppe disposte a prenderti; e quanto ai debiti, aspetterò che si ammazzino prima i creditori. Se io non ho quattrini per pagarli, mi pare che nell’imbarazzo ci siano essi.
Si rise.
Romani non rispose.
— La gente si ammazza, perchè la società è in isquilibrio, — sentenziò Montalti.
— Si è sempre ammazzata in tutti i tempi, dev’essere una malattia.
— Colpa di non credere in Dio; la nostra vita ha il suo scopo altrove.
— Quale? — domandò Romani al maestro.
— Quale? — ripeterono ad una voce Cavina e Montalti.
— Dio..., — cominciò il maestro.
— Non deve aver parlato molto chiaro, — interruppe sorridendo il padrone, — perchè si discute ancora su quello che ha detto. Fatto sta che, quando la gente sta male, se ne va; non c’è altro di evidente. Nessuno può dire che non si ammazzerà... le circostanze sono tante!
Tutti si arrestarono perchè, pochi mesi prima, l’altro suo socio nel caffè si era appunto suicidato con un colpo di rivoltella alla tempia destra.
Però Montalti, che voleva sempre dire l’ultima parola scientifica, propose il problema:
— Quale categoria di persone dà minor contingente al suicidio?
— I preti, perchè stanno meglio di tutti, — si affrettò a rispondere il padrone.
— I milionari, — ribattè Montalti, con quell’acre accento d’invidia, proprio a quasi tutti i socialisti quando parlano di signori.
— T’inganni; c’era appunto venerdì sul Secolo un articolo, non ricordo più di quale scienziato, che spiegava come le probabilità del suicidio aumentino in ragione della ricchezza.
— Non può esser vero, — si ostinò Montalti.
— Lei, maestro? — tagliò corto il padrone.
— Coloro che non sentono più la religione.
— Lo sapevo...
Romani doveva dire ancora la sua, ma dal tavolo prossimo due o tre operai si erano voltati, udendo il quesito, ed ascoltavano le risposte.
Uno proruppe:
— Lo dico io: i beccamorti! essi sanno meglio degli altri che la morte è brutta: la morte è come una donna, ma finchè non ci pare bella, non commettiamo la sciocchezza di sposarla.
— Bene! — fu gridato in coro.
— Un bicchierino a Matteo!
— Questo voglio offrirlo io, — disse il padrone alzandosi: — mi sei piaciuto nella risposta.
⁂
Guardava il grande orologio nero fra le due scansie gialle, al disopra della porta.
Gli altri se n’erano andati in gruppo, e a poco a poco quasi tutti i tavolini erano rimasti deserti, mentre l’aria della notte, entrando leggera dalla bussola spalancata sul portico, spazzava i vapori dei ponci e dei sigari. Dal fondo della cucina giungeva, tratto tratto, un tintinno dei bacili e dei bicchieri, che il facchino lavava forse per la centesima volta nella giornata.
Collo sguardo fisso sul quadrante dell’orologio, egli misurava il muoversi lento della grande freccia, che segnava i minuti; ne mancavano undici a mezzanotte.
A quell’ora in punto uscirebbe dal caffè.
Il sangue gli batteva a grosse ondate sul cervello, facendogli vacillare la vista. Adesso era quella paura materiale, che i nervi non possono più sopportare nella estrema imminenza della catastrofe, quando il pericolo cessa oramai di esser tale per il compiersi stesso del fatto. Non c’era più tempo di riflettere, di soffrire: fra pochi minuti sarebbe entrato nell’orbita della esecuzione. Quindi tutto quanto aveva patito nel giorno gli si condensava in uno spasimo solo, attanagliandogli ogni fibra del corpo e dell’anima; sentiva, dentro, un incalzare di sensazioni, una ressa di idee, uno sbaraglio di memorie, come quando un falco piomba sopra una nidiata di pulcini e ne ghermisce uno a volo, risalendo al cielo con un solo colpo d’ala, e tutti gli altri si sbandano esterrefatti fra le erbe alte del campo.
Il suo sguardo era diventato così acuto, che distingueva veramente quel minimo spostarsi a gradi delle frecce. Tutta la sua vita stava ancora in quel piccolo segmento, interrotto dalle cifre nere e madreperlate del X e del XI, due spazi che si sarebbero riempiti con due dita. Non aveva altro. Avrebbero potuto offrirgli chi sa che cosa, e non sarebbe bastato ad allungargli di un altro dito la vita.
Il padrone era tornato dietro il banco, e si era messo a contare dei soldi da una scodella di legno.
Romani pensava:
— Non ho più che otto minuti. La freccia gira senza sapere il perchè, ma se sbagliasse, il tempo passerebbe egualmente nella stessa misura: non si può fermarlo. Ecco qui, questi ultimi otto minuti sono inutili, vuoti, come tutto il resto della mia esistenza! Che cosa posso fare? Rimango qui, non mi muovo, eppure il tempo mi trascina. Debbo finire prima di essere logorato: quando l’orologio si ferma, è forse logoro? Finirò così; una ruota che s’incaglia, e la freccia si ferma. Anche la vita è un circolo come quello dell’orologio: tutte le ore sono identiche, non significano nulla; il tempo non è soggetto all’orologio, più che la vita non dipende da noi. Potrei essere il più potente uomo del mondo, e tutta la mia volontà non saprebbe da questo posto arrestare quella freccia, che va sempre... È già passato un altro minuto. Debbo essere pronto.
Si portò ambo le mani al volto, strofinandoselo violentemente come per destarsi.
Nel caffè entrò un altro gruppo d’operai, più avvinazzati di quelli che n’erano usciti, ma per fortuna si fermarono in fondo agli ultimi due tavolini presso la bussola. Vide il padrone uscire dal banco e passargli dinanzi per servire prontamente i nuovi avventori, perchè i camerieri erano in quel momento nel retrobottega.
— Debbo decidermi!
Non capiva che questo, la necessità ultima, la stretta suprema, senza nome, nella quale già soffocava. Tutto il resto non esisteva più. La febbre gli faceva battere i polsi, tremava in quell’incertezza dello smarrimento finale, che toglie tutte le direzioni, pur sentendosi nel profondo certi impeti, simili ai guizzi della candela che si spegne.
Aveva appoggiato la testa sopra ambo le mani, per non guardare più l’orologio; gli pareva di ascoltarlo, benchè non l’udisse.
— Appena mi alzo di qui, sarò morto! Caterina, i miei bambini saranno già altre persone; adesso sono ancora mia moglie e i miei bambini... per cinque minuti. Poi, più nulla. Non c’è altro. Ho fatto il possibile inutilmente; quella prima cena all’Aquila d’oro mi ha ammazzato, mi ha ammazzato quella donna, che non ho amato; non la conosco nemmeno, adesso, ella non mi conosce più. Domani ci sarà ancora il sole, senza di me. Non ho più che due o tre minuti... È impossibile, sento che è impossibile, non avrò mai il coraggio di uccidermi!
Non lo aveva: la testa gli pesava sempre più sulle mani, come una cosa morta.
Si tastò ancora la rivoltella nella tasca.
— Con questa, no.
⁂
Il medesimo gruppo, dal quale Matteo si era voltato per dare anch’egli la propria soluzione al problema proposto da Montalti, rientrò vociando nel caffè; erano stati a bere nella liquoreria sotto il campanile della piazza, e ritornavano per bere.
Parve che vedendolo ancora a quel posto, si decidessero unanimemente, senza consultarsi, con una di quelle intese da ubbriachi, a gettarsi sul suo tavolo. Egli spaventato si alzò. In un lampo aveva veduto sulla faccia di Matteo, invanito di quella prima risposta, l’intenzione di riparlarne; si voltò verso il banco, ma era già tardi. Il gruppo lo circondava; avevano gli occhi imbambolati, e sui volti madidi quella espressione vaga di spavalderia ostile.
Il padrone ripassò dietro il banco, mentre uno dei più briachi cadeva quasi di peso sopra uno sgabello borbottando:
— Cognac!
— Beva un bicchierino con noi, signor Romani; ho risposto bene poco fa, non è vero?
— Mi sei piaciuto, Matteo, — tornò a dirgli il padrone con accento di sottile canzonatura: — bisogna bere per trovare simili risposte.
— Adesso vogliamo bere tutti insieme; anche lei, signor Romani.
In quel momento Romani vide le freccie dell’orologio sovrapporsi segnando mezzanotte; così in piedi, n’ebbe come un colpo di martello sul cuore, ma avvertiva ancora benissimo quanto gli accadeva intorno. Senza rispondere, fece atto di andarsene.
— Questo poi no, — insistè un compagno di Matteo, mentre il padrone diceva:
— Se ne va, signor Romani?
— Addio, Enrico! — rispose questi tendendogli la mano.
L’accento e la forma del saluto erano così insoliti, che l’altro ne rimase sorpreso, però fu pronto a stringergliela. Romani si mosse: allora Matteo volle sbarrargli la via, ma l’altro lo respinse con un gesto. Si alzò un mormorio di disapprovazione.
— Va là, — uno gli gridò dietro, — che anche tu sei un bel signore, per fare così l’aristocratico!
Il padrone, invece, gli teneva dietro con occhio pensoso, avendo sentito la sua mano tutta bagnata di un sudore diaccio.
⁂
Romani traversò il portico con passo tentennante, e si fermò nel largo, davanti alla fontana. La notte era sempre bruna, ma piena di stelle, i fanali avevano un chiarore pallido, velato, come il murmure della fontana chiusa entro quella funerea cancellata a palle di ottone.
— No! — rispose ad un pensiero, che lo avrebbe condotto a porta Appia, passando ancora una volta sotto le finestre di casa.
Pel loggiato, e per quel largo, non si vedeva alcuno; abbassò la testa, e si avviò verso il corso Garibaldi, che conduceva difilato alla vecchia stazione ferroviaria. Una forza oscura lo spingeva in linea retta, come una cosa, mentre la sua mente acquistava, grado a grado, una certa lucidità: come sempre, la fascinazione della meta lo aveva preso, appena entrato nell’orbita della esecuzione, eccitandogli quel coraggio fisico proprio degli animali. Nella luce opaca della notte le case perdevano i piccoli particolari delle proprie fisonomie, le sonorità anche più lievi sembravano attardarsi nell’aria. Egli sentiva solo di andare, appoggiandosi come sulla sensazione medesima del proprio passo sul marciapiede, così che, nel passare dinanzi ad ogni porta, l’interruzione del muro gli faceva un’impressione meno rapida e tuttavia lontanamente simile a quella degli alberi fuggenti agli sportelli dei vagoni, quando il treno corre veloce. Prima di arrivare alla grande barriera fiancheggiata da due casotti giallognoli, rigati e rabescati come due grandi gabbie da canarino, verdeggiava sul piazzale di una chiesa un piccolo giardino dominato da un alto abete storpio alla cima. Il getto esile della fontana, sprizzante da un sasso e ricadente sopra una minima vasca, sembrava un singulto di bambino nella notte: un ranocchio mise uno strido gutturale e tacque subito.
Nessuna finestra era illuminata.
Il cancello della barriera apparve alto, massiccio, coi lampioni sulle due grosse colonne centrali; al di fuori nereggiavano i tigli dei due viali fra le case del sobborgo.
Egli vide da lontano la guardia passeggiare, fumando uno zigaro, dinanzi alla gabella; nella notte nessun rumore, nessun incontro.
La guardia gli aperse colla chiave il piccolo cancello a sinistra, pel quale passavano i pedoni, e rinchiuse. Egli ne risentì la scossa, l’ultima che gli dava la città; piegò a sinistra per la via di circonvallazione, lungo il canale fiancheggiato da due alte file di pioppi bruni, ombrelliferi. L’aria era più fresca, il silenzio diverso: cori di ranocchi si rispondevano a distanza nella notte, passavano dei brividi nell’aria, qualche fronda dormendo pareva percossa da un’ala fuggente, un odore di terra e di verde saliva da per tutto.
Egli allentò il passo.
Sapeva che avrebbe preso per la scorciatoia del Borghetto, prima d’arrivare al nuovo macello, per salire l’argine sinistro del fiume, presso al grande ponte della ferrovia. La distanza dalla barriera al Borghetto era breve; sulla sinistra sorgevano alcune case nuove di fabbri, di falegnami, di piccoli bottegai, il commercio dei quali viveva appunto non pagando dazio. Egli andava sempre innanzi spinto da quella forza oscura, che in noi sembra sostituire la volontà, quando questa non è più sufficiente a dirigere la vita. Il sonno della campagna era però meno profondo che quello della città: le piante sognavano, e la loro respirazione e i loro fremiti turbavano l’aria; miriadi d’insetti, amanti o lavoratori notturni, vi si muovevano, la terra medesima non aveva quella insensibilità dei selciati e dei marciapiedi.
I suoi occhi perdevano la fissità atonica, la frescura tornava a vivificargli la pelle.
Improvvisamente gli apparve davanti la vasta pozza, nella quale si allargava il canale, immota come un grande antico specchio appannato; le due righe dei pioppi nascondevano le mura della città. Il Borghetto, formato da un solo vicolo, aveva un unico fanale in fondo: vi passò. La strada, pessimamente selciata, sfiancava, avvallando, per un sentiero fra un’alta siepe e un ruscello, poco più largo di un fosso. Odori immondi e penetranti crescevano appunto dove finivano le case.
Dovette badare al come poneva i piedi per non cadere; l’argine s’alzava di contro. La sua linea, biancheggiante pel sentiero che le orme vi avevano impresso e che l’erba orlava scuramente, spiccava nello sfondo dell’aria, simile ad una larga striscia d’argento.
Quando vi fu salito, abbassò gli occhi sul fiume vacuo, del quale i grandi archi del ponte in pietra e laggiù la spalliera dell’altro in ferro nascondevano le estremità, quindi si volse contro le mura. Solo la chiesa di sant’Ippolito col suo campanile, e l’altro di san Lorenzo e quello della piazza si distinguevano bene: il resto era una massa cupa, incerta, nell’ombra.
Egli n’era già fuori per sempre.
E allora gli parve, stando fermo, che la città si allontanasse, oscillando lentamente dinanzi a lui.
⁂
La notte era bruna.
Nell’aria vagavano sentori di foglie e quell’indefinibile aroma, che la terra fecondata sembra alitare nel maggio: l’erba era umida, le stelle brillavano sul silenzio notturno pieno di sussurri. Dentro al fiume larghe pozzanghere s’illuminavano tratto tratto di tenui chiarori, mentre laggiù, sul ponte di ferro, i lampioni parevano contigui, e più lontano l’ombra oscillava. Oltre gli argini del fiume non si coglieva che un avvallamento della tenebra in una invisibile profondità, dalla quale si sentivano salire le preoccupazioni terrifiche della notte. Le linee del paesaggio, circoscritto dagli argini e dai ponti, si confondevano oscuramente, pur serbando lo stesso aspetto regolare intorno a quella cavità del fiume, rimasto senz’acqua e senza voce. Non si vedevano case: solo il ponte della ferrovia aveva un biancicore roseo di muro, sulla cima del quale fantasticamente alto, guardava nella notte il grande occhio rosso del disco.
Egli vi si incantò.
La colonna di ferro sotto il disco si distingueva appena, giacchè il piano della ferrovia, sfuggendo dai parapetti del ponte, vaniva esso pure dinanzi a quella enorme pupilla rossa senza una oscillazione. Così ebbe daccapo paura: i fanali lontani dell’altro ponte in ferro sparivano nella loro chiarezza come dentro un bagliore, mentre quel rotondo occhio rosso non illuminava, e vedeva e doveva essere visto ad un’immensa distanza, come una scolta ciclopica sulla ferrovia deserta nella notte.
Era rimasto in piedi, inchiodato sul sentiero biancastro.
Dal ruscello, che per una larga chiavica passando sotto l’argine sboccava nel fiume, la nota tremula di un rospo s’interruppe timidamente; gruppi lontani di ranocchi gracidavano con violenza, coprendo un vocìo sottile di grilli, che si confondeva d’intorno. Dopo aver guardato da ogni canto si voltò ancora verso la città; dietro la sua lunga massa, bruna come una scogliera di notte, pallidi chiarori sembravano uscire da invisibili cavità; ma non pensò più che egli era vissuto là dentro per trentasei anni. Solamente guardava.
⁂
Sul ponte della ferrovia il casello del guardiano era illuminato; egli strisciò guardingamente lungo il parapetto pel sentiero lasciato dall’alta ghiaia, sulla quale poggiavano le rotaie, affrettando il passo per non lasciarsi sorprendere, giacchè si ricordava come fosse severamente proibito di transitare per le linee della ferrovia. Non sapeva se il guardiano avrebbe fatto la ronda d’ispezione prima dell’arrivo del treno, ma quel divieto bastava in tale momento a fargli paura. La strada ferrata si allungava dinanzi a lui dritta, piana, nera, con quei due regoli sottili, in una uniformità e in un silenzio inesprimibile: nessuna traccia, nessun suono, nessun segno. Aveva voltato la schiena al disco, e scorgeva dinanzi a sè per cento metri un filo luminoso sulla costola interna delle rotaie; null’altro. Quel piano troppo stretto gli limitava la vista, mentre una impressione gelida gli veniva da quelle due rotaie inamovibili, che non si sarebbero toccate mai.
Di qua e di là della strada i campi bassi s’affondavano in un’ombra più densa, dentro la quale si distinguevano appena i ciuffi dei primi grandi alberi.
Ma i suoi occhi guardavano sempre sulle rotaie quel tenue filo luminoso, che sembrava avanzare con lui. Finalmente era solo. A quell’ora, in quel luogo, per quella strada non passava alcuno; sentì di non essersi mai trovato in una solitudine simile. Vedeva la ghiaia tersa, quasi vi fosse stata posta da poco tempo, e le rotaie luccicargli dinanzi, brunite.
Quindi si ricordò di esservi trascorso in vagone molte volte, di notte e di giorno, senza prestarvi attenzione: chi guarda alla ferrovia? Gli occhi sfuggono sul paesaggio che scompare.
Adesso invece la solitudine di quella strada, così diversa da tutte le altre, l’opprimeva. Si fermò al quinto palo del telegrafo, volgendosi indietro, verso la stazione. Incontrò il grande occhio rosso del disco fiso sopra di lui, e laggiù un riverbero largo d’incendio prossimo a spegnersi gl’indicò il luogo della stazione. Pareva molto più lontano che non fosse.
D’un tratto, nel silenzio della notte, udì il grosso orologio di sant’Ippolito battere le ore dal campanile; le contò rattenendo il respiro.
— Due quarti dopo mezzanotte, — esclamò voltandosi istintivamente verso Forlì, donde doveva giungere il treno.
⁂
Dall’altro lato della strada un’ombra passò con una lanterna nella mano; istintivamente egli girò dietro il palo del telegrafo, abbracciandovisi per non scivolare dall’alta ripa, e tenne il fiato. La lanterna nell’allontanarsi lentamente allungava un riverbero oscillante sulla vicina rotaia, si udiva la ghiaia stridere sotto un passo pesante.
Era la ronda del guardiano; dal fondo della notte doveva presto spuntare la prima luce del treno.
Il guardiano vigilava, secondo il solito, quel tratto di linea di là del ponte, perchè non vi accadessero disgrazie; a un certo punto la lanterna di un altro guardiano avrebbe risposto alla sua, e il disco muterebbe il proprio rosso ardente in un vivido color verde. Romani sapeva tutto questo, giacchè in una bella notte d’estate, l’anno prima, se lo era fatto spiegare dal guardiano sul ponte, ove aveva fatto sosta con alcuni amici. Quella notte gli risorse nella mente coi più minuti particolari; si ricordò dell’immenso soprabito biancastro, una meraviglia fra gli eleganti del paese, che allora portava Mario Angelini. Anche questi era morto.
Ma una paura lo tenne nascosto, così abbracciato al palo, togliendogli ogni facoltà di ragionare; aveva pensato che il guardiano nella propria ronda potesse passare dal suo lato, e allora scoprendolo gli avrebbe necessariamente intimato di andarsene.
Che cosa rispondere in questo caso? Avrebbe l’altro indovinato il vero motivo?
Il palo ogni tanto vibrava, percosso da tremiti improvvisi. Era un dispaccio che passava irresistibile, invisibile sul filo, o una oscillazione, che questo, mosso dall’aria della notte, imprimeva al palo? La sua attenzione rimase per qualche tempo divisa fra il brontolio interno del palo e il luccicore saltellante della lanterna già molto lontana.
— Ritornerà dal mio lato?
Lo credette istantaneamente, quindi svegliandosi come da un sogno, che quel ritorno avesse già rotto, si disse:
— Me ne vado.
Nuovamente tutto dipendeva da questo caso. Un’angoscia di speranza lo soffocò, accorgendosi della vivezza dei raggi che la lanterna retrocedeva; sarebbe bastato che un suo bagliore traversasse la strada e gli battesse sul viso ad impedire la disgrazia, per la quale appunto si ordinavano le ronde.
La lanterna si avvicinava sempre.
Allora tornò a tremare di essere scoperto, ma, per una reazione quasi di collera contro sè medesimo, si mise di sbieco, perchè lo spessore del palo lo nascondesse meglio.
Voltandosi, laggiù, vide una luce.
⁂
Era il treno, ma non era ancora che una fiammella misteriosa nella notte.
Pareva immobile, tutto rimaneva immoto intorno, il guardiano era scomparso dentro il casello: nel silenzio tranquillo dell’aria non un soffio, il fiume taceva.
Un brivido del palo gli passò per tutto il corpo facendolo tremare a verga a verga, mentre, laggiù, quella fiammella rimaneva sempre così piccola e ferma.
Un impeto freddo gli raggomitolò l’anima in uno di quei terrori sùbiti, senza nome, dei sogni.
E strinse violentemente il palo guardando.
La fiamma appariva rossastra come in un’aureola, entro la quale pareva di scorgere le larghe maglie tremule di una rete nera. La sua immaginazione si rappresentò subito la marcia rapida, folgorante, del treno apparentemente fermo per la sua stessa velocità, con quei due immensi occhi di fuoco, che gli rischiaravano la strada. Veniva da lungi, andava lungi, nero, veloce, misterioso, fatale. Nulla poteva arrestarlo; il suo respiro era mostruoso; ansava, soffiava fumo senza perdere la lena, senza spossarsi nel palpito enorme, scivolando sulle rotaie che tremavano, sfondando la notte inconsapevole. Non aveva meta, si arrestava, ripartiva; la gente spariva nei suoi vagoni neri, tappezzati all’interno come stanze, vi si obliava chiacchierando, in una fede sicura al mostro immane, che non aveva mai saputo nulla e non saprebbe mai nulla di coloro, che viaggiavano nel suo ventre. Di giorno e di notte, in qualunque stagione, sotto il sole, sotto la pioggia, sulla neve, andava sempre; il suo tremito diventava più profondo traversando i ponti, il suo respiro si faceva asmatico sotto i tunnels, dai quali prorompeva con un fischio trionfale d’ironia avventandosi giù per le valli, e non di meno ubbidendo docile alla mano, che gl’imponeva di rallentarsi dinanzi alle prime case di un villaggio.
Era la forza stessa del sole diventato carbone, che si sprigionava daccapo in un altro fuoco; era la giovinezza eterna del moto, che crea tutte le giovinezze.
Si ricordò la frase invidiosa di don Procopio: come è sempre giovane, è sempre come la prima volta che lo si guarda!
In un attimo, la sua fantasia aveva riveduto tutti i quadri e tutti i sogni della vita.
Quel treno misterioso nella notte trasportava indifferentemente gli uomini e le merci, i dolori e le gioie, era esso medesimo tutta la vita nella sua corsa perpetua che nulla può fermare, nella sua insensibilità, nella sua fiamma, nel suo rombo, nel suo orgoglio vincitore di ogni ostacolo. Bastava salirvi per sfuggire subito a tutte le proprie difficoltà, e non essere più che uno sconosciuto fra sconosciuti, in viaggio verso una meta non confessata, a ricominciare sopra una terra nuova la vita quasi consunta in un’altra. Tutto diventava piccolo dinanzi al prodigio di un treno: impotenza ed impossibilità non sono che conseguenza di un luogo, risultati di un ambiente, mentre la vita sempre giovane, corre sempre, si rinnova, si perpetua, dimentica, divora il tempo e lo spazio, bella come il sole che l’accese, più lunga del sole che si spegnerà. L’uomo non è più nulla, se vuole contraddire o dominare la vita, non ne può saper nulla, non vi deve mutar nulla: la morte vera è quando il nostro corpo si rompe da sè, ma allora la vita intorno non se ne accorge. Bisogna vivere come si può, più che si può, bisognerebbe poter vivere sempre.
Un tremito profondo del palo lo scosse; la campagna sempre addormentata non si accorgeva che il treno l’oltrepassava vigile ed indifferente come il pensiero.
Allora l’umiliazione, che gettandosi sotto quel treno ne sarebbe stato stritolato senza produrvi nemmeno una scossa sensibile, lo vinse. E se il macchinista, avvertendo il caso, arrestasse la corsa, quel cadavere di uno sconosciuto, che faceva perdere qualche minuto al treno, non sarebbe stato che uno spiacevole incidente per tutti.
— Perchè si sarà gettato sotto il treno? — si sarebbero appena domandato tra di loro gl’impazienti.
Ma s’intendeva già il suo rombo, si distinguevano i due fanali rossi, dilatati, abbacinanti; la terra incominciava a tremare, l’aria palpitava, dalla notte desta di soprassalto uscivano sussurri inquieti, giù pei campi alcune voci spaurite sembravano richiamarsi.
Egli sentì tutto questo. Come se le fiamme dei fanali gli fossero entrate per gli occhi nel cervello, non vedeva più, mentre la stessa convulsione spasmodica lo faceva stringersi sempre più violentemente al palo, che oscillava quasi scosso da una bufera.
Era tardi, non c’era più tempo.
Il treno gli fuggiva agli occhi enorme, nero, con quel ventaglio di fiamma dinanzi, respingendo tutto col suo respiro di fornace; dalle rotaie parevano sprizzare fiammelle, una colonna di fumo illuminata internamente si distendeva sopra di lui, dietro di lui, come una bandiera: e al disotto, fra lunghe fessure, si distingueva ancora una vivezza di braciere, dal quale sfuggivano faville e bracie, che cadevano e si spegnevano.
Egli si volse; il disco guardava col grande occhio verde, lungi dal disco un trenta passi l’ombra del guardiano protendeva ancora la lanterna nera col piccolo vetro rotondo.
Nessuno sospettava adunque di una disgrazia.
Sarebbe stato uno slancio, uno scricchiolio e più nulla. Davanti alla rapidità spaventevole del treno capì che egli avrebbe potuto essere anche più rapido, gettandosi bocconi sulla rotaia per lasciarsi passare sul collo l’immane valanga.
Quest’ultima sensazione gli durò, quando il treno col proprio vento non lo scuoteva più così abbracciato al palo; e i vagoni neri s’inseguivano quasi contigui nell’ombra, e dai finestrini si travedevano dentro gabinetti illuminati, rossi, scuri, in una nudità di legno, o non si vedeva nulla, mentre i vagoni fuggivano chiusi sino alla cima, oscuri e sinistri come catafalchi.
⁂
La notte non mutava.
Seduto presso quel palo, colle gambe abbandonate giù per la ripa erbosa, aveva ancora nella fantasia ansante quella visione. Aveva ascoltato il fischio d’arrivo e quello di partenza, gli ultimi rumori e gli ultimi tremiti nella notte, con l’angoscia che si prova solo sfuggendo momentaneamente alla morte. Nessuno fra quanti viaggiavano su quel treno si era certamente immaginato che a quel palo qualcuno fosse rimasto in dubbio di gettarsi sotto le ruote per finirla colla esistenza; ciarlavano o dormivano, nel pensiero dell’arrivo, trasportati dalla corrente della vita, più impetuosa ancora del treno. Potervi salire e vivere, null’altro!
Egli lo aveva sentito con una intensità, che gli rovesciava nella coscienza tutte le ragioni della morte. Il treno gli era apparso dentro una poesia strana ed imperiosa: la sua forza, il suo impeto esprimevano un trionfo costante nell’orgoglio del suo stesso prodigio. Ognuno dei viaggiatori, rapiti dalla sua foga, avrebbe potuto essere già sfinito nelle novissime disillusioni della morte, e non avrebbe meno provato, nel profondo della coscienza, la vittoria di quella corsa. Ma gli era rimasta nella fantasia quella successione di gabinetti rossi, coi divani a mezzo ricoperti dai grandi, grossolani merletti bianchi, sui quali aveva traveduto qualche testa di donna. Qualcuna andava forse a Parigi, un sogno che egli aveva rifatto tante volte inutilmente, ciarlando cogli amici nelle dolci notti di estate, quando, non sapendo come meglio ammazzare il tempo, andavano sino alla barriera per veder passare il treno della mezzanotte. Egli si ricordava le invidie provate nei brevi tragitti dinanzi ai viaggiatori esteri, così riconoscibili alla disinvolta eleganza del vestito e dei più minuti comodi di viaggio: erano i felici, i veri padroni del mondo, pei quali i climi non avevano inconvenienti e le stagioni mutavano indarno. Il lusso di queste esistenze superiori gli riappariva davanti come un quadro rosso di quegli scompartimenti di prima classe, ammantellati di ricami bianchi, con delle teste di donne soffuse di un tenue pallore.
Tutto era bello: i cuoi delle valigie avevano tinte esotiche, i fermagli sprizzavano raggi fra il disordine soffice dei veli, degli scialli, delle coperte gettate alla rinfusa, in alto, sulla piccola rete. Si fumava, si chiacchierava, alcuni leggevano il giornale.
Invece egli era venuto in quella notte per gettarsi sotto il treno.
Si strinse con ambe le mani la testa per riordinarvi i pensieri: perchè dunque non lo aveva fatto?
Non seppe rispondere.
⁂
Ma voleva farlo.
Sentiva sempre la suprema inutilità del suicidio, quantunque non gli tornasse nella mente un ricordo della famiglia abbandonata, e non gli rampollasse dal cuore un rimpianto della vita trascorsa. Dopo quella lunga giornata, era rimasto veramente solo. La morte, balenatagli così terribilmente nel primo tumulto di quella lettera, lo aveva poco a poco affascinato come il vuoto, nel quale nessuno sguardo può fissarsi lungamente: egli aveva resistito precipitandosi da ogni lato, ma perdendo sempre qualche cosa in ogni sforzo, sentendo svellersi dal profondo del proprio essere una per una tutte le più sottili radici. Doveva essere così, perchè la coscienza arriva sempre nuda dinanzi alla morte. L’anima affacciandosi all’infinito non può essere che sola: i morenti mutano allora fisonomia, poichè sono già assenti prima di essere morti, mentre tutto quanto formava la loro vita non ha più nemmeno il valore di un passato, e il futuro non traspare ancora dalla torbidezza del mistero finale.
Così solo, non aveva più nè coraggio nè paura.
Lungamente pensò al tempo che gli rimaneva da passare in quella posizione. Nessuno lo aveva sospettato durante il giorno, nessuno lo aveva ancora visto, nessuno quindi lo vedrebbe su quella strada. Chi poteva pensare che egli stesse per morire? Quale influenza poteva avere la sua morte?
Solamente la sua volontà vegliava ancora nell’attesa dell’ultimo momento.
⁂
Per quella necessità di far pure qualche cosa finchè si è vivi, macchinalmente si cercò nelle tasche un sigaro per fumare, ma non ne aveva: poi si sdraiò lungo il sentiero, sul margine della ripa, perchè quella posizione, così seduto, gli aveva indolenzito la schiena. La terra gli diede sotto la nuca una impressione di frescura.
A sinistra, nel cielo, si era formato un largo, sottile velo scuro, le stelle splendevano piccole e rade. Tutto taceva. Al di sopra di quel silenzio assonnato, la vigilia eterna degli astri rompeva le ombre dell’infinito, ma la tenebra sulla campagna era così densa che tutto vi era naufragato. Il suo sguardo salì attratto dal tremolio di quei fuochi di bivacco, e si perdette nella loro confusione.
La volta cerula si allontanava ugualmente, da qualunque punto l’occhio la contemplasse, per una distesa trasparente come le fiammelle che vi bruciavano nella inutilità della loro distanza senza misura. Nella sua mente oscura egli non riceveva che questa impressione. Le poche nozioni scientifiche apprese nelle scuole non avevano potuto dargli un concetto vivente del cielo; le stelle, come tanti mondi simili alla terra, probabilmente popolati come la terra, erano rimaste per lui un’idea vuota, un’ipotesi smentita ad ogni notte dall’apparenza del fatto. Il suo pensiero, troppo piccolo, come quello del popolo, per accogliere le spiegazioni della scienza, ritornava involontariamente alla primitiva concezione poetica del cielo, una volta azzurra, punteggiata di fanali e magnificamente spiegata sul mondo. Ma tutto era sulla terra. Questa rappresentazione immutabile per lo spirito umano e contro la quale nessuna scienza potrà prevalere, non gli dava anche adesso che una sensazione di stupore; per concepire le stelle come tanti mondi uguali al nostro, avrebbe dovuto immaginarsele spente, e allora gli sarebbe parso di non poterle più vedere; quindi l’enormità del loro mistero, moltiplicata per l’infinito del loro numero e per quello anche più terribile dei destini, che vi si svolgevano, avrebbe soffocato istantaneamente il suo pensiero.
Egli guardava quel cielo senza una piega, velario diafano e costellato, che avvolgeva la terra oscura, tutta piena di dormienti destinati a morire, mentre l’anima gli si assopiva sempre più in un torpore di coma.
Il lungo, dissolvente lavoro dell’agonia si era omai compito dentro di lui: un vuoto aveva inghiottito il suo spirito, e tutto quanto gli restava di vita non era più che un moto di abitudini.
Tale ultimo stadio gli dava appunto quella calma, che appare sempre così inesplicabile nei condannati a morte.
⁂
In quella torpidezza così simile al sonno, che teneva la campagna, il suo corpo si riposava dalla stanchezza della lunga giornata. La frescura era blanda, l’aria tranquilla. Sdraiato lungo il sentiero, colla testa in alto, non vedeva più nella strada ferrata nè il disco, nè il palo del telegrafo: solo i fili neri di questo, tesi sopra il suo capo, formavano come una scalea di un significato misterioso, mentre gli steli alti del fieno si ripiegavano sul margine della ripa a toccargli le vesti, o cedevano sotto la sua mano distratta, inumidendogliela.
Se qualche cosa avesse attraversato la notte in quel momento, soffio o voce, il suo spirito l’avrebbe seguita come si muovono nell’aria le piume di essa più lievi. Il sopore gli si faceva sempre più profondo, la vita vegetale della terra l’invadeva.
Era per lui come un benessere di albero sbattuto dal vento, arso dal sole nel giorno, e che di notte ridiventa fresco, e dalle foglie ristorate manda un murmure indistinto. Qualche stella sembrava tremolare nel sorriso della propria luce, altre si stringevano a gruppi entro un albore diafano, e altre più remote scintillavano tratto tratto, quasi barattando segnali di scolte. Ma tutto era pace anche lassù: una dolcezza di riposo si spandeva su tutte le cose; perfino il fiume aveva cessato di muoversi, e i ranocchi adunati nelle pozzanghere dei campi non gracidavano più.
⁂
Un lungo brivido gli discese dal pensiero giù per le reni, mentre un fischio stridente, quasi di un proiettile, gli passava sulla testa.
Il fischio seguitava rompendosi nell’acutezza di appelli ripetuti, la terra tremava: prima ancora di essersi potuto levare in piedi aveva scorto nuovamente la pupilla verde del disco dilatata nell’ombra, e al disotto di essa, sulla ghiaia della strada, un chiarore che si muoveva colla lanterna del guardiano.
Era il treno delle tre, un misto, che veniva da Bologna.
Rimase dritto, cogli occhi laggiù, spalancati sulla luce saliente dalla stazione invisibile. Non aveva raccolto di terra il cappello, si sentiva un continuo soffio agghiacciato sulla faccia, la gola gli si era improvvisamente disseccata. Sbirciò due o tre volte il vetro verde del disco, sorvegliando l’ombra del guardiano; non tremava, ma era come se tutto tremasse intorno a lui.
Aspettava in una tensione, che non gli permetteva di fare un moto neppure coll’anima. Aveva i capelli irti e la bocca aperta: il suo sguardo s’illuminava di una profonda chiarezza interna.
Il fischio ricominciò, poi a un certo momento parve un urlo, che l’immane respiro della macchina già in moto soffocasse; stridè ancora. La lanterna del guardiano si era alzata.
Si vedevano distintamente i due fanali rossi e, più in alto, una oscillazione oscura di fumo: egli guardava ancora, attonito, senza respirare, scosso dal tremito convulso della terra, che pareva sfuggirgli sotto i piedi.
La sua vita non aveva più che alcuni minuti secondi.
La macchina ebbe uno sbuffo più violento.
Rapidamente, inconsapevolmente, si gettò bocconi colla testa sulle rotaie; la rotaia tremava. Egli guardava venire la macchina, ma non vedeva più che un immenso ventaglio di fiamma alto come una parete, la terra oscillava sotto di lui; chiuse gli occhi e sentì sulla ghiaia, nel medesimo attimo, il palpito del proprio cuore e i battiti dell’orologio. Istintivamente aperse le braccia puntando le palme sulla ghiaia, abbacinato dall’immenso fulgore di quell’incendio, che si precipitava contro di lui rugghiando.
I suoi occhi sostennero per un istante l’urto, non capiva, non sentiva; poi gli parve che il ventaglio di fiamme si sollevasse, si vide la macchina lanciata a volo sulla testa, come un’enorme arco di ponte che ardesse, un vento impetuoso gli sferzò il volto, mentre la terra squarciata da un ultimo sforzo si apriva sotto di lui.
— No, no! — ebbe appena il tempo di urlare, ritraendo disperatamente la testa, che la macchina gli era forse già a soli venti metri.
Un torrente nero; solido, alto: un soffio gelido ed irresistibile lo gettò quasi giù dalla ghiaia, sulla quale puntellava ancora le mani, raggricchiato nello sforzo istintivo di farsi più piccolo, senza potersi muovere, chiudendo gli occhi ad ogni vano fra vagone e vagone, come ad una scudisciata che gli fendesse a mezzo le pupille.
E il treno enorme, vertiginoso, freddo, nero non finiva.
All’ultimo vagone egli rotolò sul sentiero.
Quando si rialzò non vide più il treno.
⁂
Egli se ne andava lungo il sentiero, a testa bassa.
Una vergogna amara di quanto gli era accaduto aumentava sulla sua coscienza, come dopo la pioggia in certe pozzanghere cresce l’acqua. Si era gettato sotto il treno cedendo alla pressione di una forza interna che lo spingeva, e la sua ragione, rianimata dal fracasso della macchina, aveva avuto irresistibilmente paura. La sua volontà, incapace di qualunque sforzo, non si era più mossa, quando puntato sulle mani, colla testa rasente ai predellini dei vagoni, aveva sentito sfilare ruinosamente tutto il treno. L’aria, che fuggiva smaniando fra i larghi raggi delle ruote, gli schiaffeggiava il volto gelato da uno di quegli orrori fantastici, pei quali nella notte i fanciulli perdono la voce.
Egli non si era immaginato la morte così enorme, con quella onnipotenza di uragano!
Adesso tutta la sua natura di uomo timido ed inetto ripigliava il sopravvento. Una specie di buon senso gli diceva sommessamente che aveva avuto ragione di aver paura: lo spettacolo del treno, veduto colla testa sulle rotaie, era qualche cosa d’inesprimibile, d’insopportabile. Le rotaie oscillavano sotto la sua fronte, quasi come il filo del telegrafo quando il vento soffia impetuoso, la terra reboava, quel ventaglio di fiamma, formato dalla congiunzione dei due fanali, si dilatava sempre come per la spinta di una eruzione, dalla quale sfuggiva in alto un’immensa colonna di fumo. Era una scossa saltellante di valanga, con un rombo di tuono fra schianti di baleni e un vento freddo e una minaccia fulminea che rovesciava, dissolveva tutto dinanzi a sè.
Perciò non aveva resistito.
Per un solo istante si era irrigidito nel duello, premendo la tempia sul ferro gelido della rotaia collo sguardo ardente su quell’incendio; sarebbe abbisognato che il treno non fosse stato più che a tre metri, e allora forse il delirio stesso gli avrebbe fatto mantenere la posizione.
Ma uno spavento lo aveva avviluppato, e lo cacciava nuovamente per quel sentiero nella notte tranquilla. Dove andare? Sentiva di avere ancora paura della morte, che gli era quasi passata addosso con quel treno oscuro e fiammeggiante, nell’impeto procelloso di una vittoria: ne aveva rimasto l’abbarbaglio negli occhi e il vento nei capelli. La sua faccia non gli sarebbe parsa più la medesima, se avesse potuto vederla; era di un pallore lapideo, cogli occhi vitrei e una specie di smorfia immobile sulla bocca. Come tutti i toccati dalla morte, aveva mutato. Nel suo stesso terrore gli rimaneva qualche cosa di estraneo alla vita, un senso di profondità interminabili, un freddo di caduta per una ruina di abissi. Infatti quel treno non gli era parso che si allontanasse per la strada ferrata, ma era dileguato per lo spazio, come il tuono, in uno di quei rapimenti che accendono a razzi le stelle.
⁂
Si arrestò.
Aveva camminato per qualche miglio, senza por mente alla diversità della sottoposta campagna nella tenebra. Si accorse di essere tutto bagnato di sudore e di rugiada, il luogo non pareva mutato, e le rotaie gli si perdevano sempre dinanzi a pochi passi sul piano oscuro della strada.
— Diranno che ho avuto paura!
Infatti lo avrebbero detto, vedendolo così. Era stato lo sbigottimento inevitabile della morte, giacchè il coraggio non è appunto che uno sforzo contro di esso, che la gente non vorrebbe mai vedere in coloro che debbono morire. Il soldato, il condannato titubante divengono istantaneamente spregevoli; bisogna che entrambi fingano il disprezzo, quasi la provocazione, perchè tutti si esaltino in questa vittoria della volontà umana. Ma il suicida, che si vantò, per una qualunque ragione, di gettare la propria esistenza come un cencio immondo dietro di sè, non ha più diritto alla paura. In questo caso la gente insorge contro il falso temerario, che voleva sottrarsi alla pressione della morte, più greve ancora di quella dell’aria, giacchè ci mantiene aderenti alla vita malgrado tutti i dolori: e le contumelie diventano la rivincita dell’umiliazione, che il coraggio inesplicabile di ogni suicida infligge alla moltitudine sempre invocante la morte e singhiozzante di viltà ad ogni sua apparizione.
Chi l’ha voluta davvero, non può ritornare nella vita. È una consacrazione come quella che la religione pratica sui propri sacerdoti, i quali non sanno più riconfondersi cogli altri uomini.
Egli si rappresentava tutto questo oscuramente, nelle scene che ne sarebbero seguite a casa sua e nel caffè. Si ricordava di alcuni, che avevano annunziato il proprio suicidio, di altri ancora più infelici, che vi erano sopravvissuti rimanendo per tutti un oggetto di scherno. Se egli fosse tornato addietro, avrebbe intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella lettera? Perchè intercettarla?
Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva più, ma, sola dinanzi a sè medesima, assisteva come uno spettatore al supremo duello della volontà contro l’istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva spezzarla, ed egli provava un’ultima indicibile vergogna per se stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l’obbligavano a morire.
Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in un’altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava l’elemosina.
Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto qualche altra cosa, poichè a quel modo si sarebbe veramente ucciso da sè, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto sè medesimo, ma un’altra forza, un mostro vivente, ansante, il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva un’ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la società, che lo costringeva a morire colla assurda contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il suo suicidio non aveva altro motivo.
La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi è più possibile, sentiamo la necessità di morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La società non è pari alla natura, nella quale anche i residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa personalità, non gli rimane nè posto, nè gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l’istinto che vorrebbe vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo.
Infatti egli non aveva, coll’imprudenza di quella cambiale falsa, sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un tragico complimento all’importanza della classe, nella quale era nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poichè la nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che l’individuo fa di se stesso alla società, come vittima espiatoria delle colpe altrui o delle proprie.
Quindi la vergogna dell’aver avuto paura lo mordeva anche allora, che nessuno se n’era potuto accorgere. L’orgoglio necessario al suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri, appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia, invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente, in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia trionfale.
Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente tutti i cuori!
Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perchè anche il suicidio ha bisogno di averne una.
⁂
Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra le palme, piangeva.
Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito a ogni tratto nell’invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando. Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero d’incendio.
Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance, sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l’ultimo pianto, quello che non si sente più, perchè tutto è già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore sotto le pietre, e pare un pianto l’umidità che l’aria del crepuscolo vi lascia.
⁂
Un gallo cantò.
L’aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba: le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva, ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i segni, l’alba si avvicinava. Nell’aria più fredda altri brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi. Toccò un ciuffo d’erba sull’orlo della ripa, e ne ritrasse le dita imperlate di rugiada.
Da quell’altezza della strada cominciava a discernere la campagna.
Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si spense all’improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto, molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente.
Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo, perchè sul margine della strada, nell’aria sempre più diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si scrollavano lievemente, sibili d’insetti, tintinni misteriosi preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava all’ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole stracciate. Ma più che dell’albore, egli aveva paura dei suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e precipitarsi nuovamente giù nell’ombre più dense, ad ogni chiarore che si diffondeva nell’aria. Si era allontanato mezzo miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano ancora.
Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano accesi, appena l’ultima linea dell’orizzonte si era rischiarata, e qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo, adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era più simile a se stessa; la sua frescura, la sua tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le voci. La solitudine si riempiva.
Guardò l’orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere le quattro: forse a quella distanza l’orologio di sant’Ippolito si sarebbe ancora udito; poi n’ebbe paura. Qualunque voce gli faceva male; nell’aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che s’innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno? Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso, ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli, gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della città; nei due grandi caffè della piazza, sempre aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata comincerebbero a parlare di separarsi, perchè odiavano istintivamente l’alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto la immutabile necessità dell’andare avanti. Anch’egli era un nottambulo, l’ultimo, per l’ultima volta. Nel tormento di quella paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla, perchè non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di sentirsi cacciato; non v’era altro tempo da perdere. Fra venti o trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo. I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano appena.
Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo come una risata, lo fece trasalire.
Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo a grande distanza, e tuttavia era ancora presto.
Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll’occhio teso sulle ultime lontananze della strada, l’orecchio aperto sospettosamente a tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava sonoramente sino al fondo dell’anima. Ma tutte le forze gli erano improvvisamente tornate: era l’attacco finale di quel duello troppo lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più orribile nell’impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana evocati dall’ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto, perchè vi si soffre solamente, e coll’amore di un minuto vi si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l’immenso manto stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare ultimo sulla ruina finale di quanto era stato.
— Ah! — gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo.
Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell’aria, ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase così immobile, colla volontà tesa contro il treno, calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa.
Un fremito d’orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già così vicino che si discernevano distintamente i due fanali; aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò sulla rotaia abbandonato.
Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia, lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina.
Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel pensiero.
Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò, chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già l’investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino, ripeteva:
— Non importa, non importa!
Con un ultimo sforzo premè ancora il collo sulla rotaia.
Poi un’estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga, d’incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile gridò:
— Mio Dio!
Ma l’enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l’inutile parola.
FINE