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cietà, come vittima espiatoria delle colpe altrui o delle proprie.
Quindi la vergogna dell’aver avuto paura lo mordeva anche allora, che nessuno se n’era potuto accorgere. L’orgoglio necessario al suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri, appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia, invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente, in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia trionfale.
Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente tutti i cuori!
Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perchè anche il suicidio ha bisogno di averne una.
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Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra le palme, piangeva.
Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito a ogni tratto nell’invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando. Non poteva decidersi,