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maverile rabbrividivano ancora. Qualcuno vi si aggirava come lui, in preda a pensieri forse più disperati. Il rumore della città si assopiva lentamente: i fanali punteggiavano l’oscurità, allineandosi fino lontano, donde un rumore veniva tuttavia, mentre alle finestre delle case per bene si vedevano già accendere i lumi per la gaiezza del pranzo.
L’isolamento gli aveva fatto paura: era stata una sensazione subitanea, violenta. Quell’ora del pranzo doveva essere ben terribile per tutti quelli che non avevano dove pranzare, dopo un giorno così lungo, e dinanzi alla notte anche più lunga senza ricovero!
Per non pensarci troppo era disceso dalla Montagnola, per il viale degli ippocastani, lungo le mura verso la stazione. Anche lì sembrava stagnare la vita; l’orologio della torre, alto sul mezzo della stazione in quel crepuscolo, col lume acceso dietro il trasparente, aveva una opacità di grande occhio ammalato. Egli così poco artista ed osservatore, n’ebbe l’impressione per la prima volta. Nel ritorno aveva avuto la fortuna di entrare in uno scompartimento di seconda classe vuoto; ma poi, nel viaggio, se ne era rammaricato. Non aveva mangiato e non aveva fame, però l’estenuazione cominciava a dargli quella sensibilità dolente, propria dei deboli; finalmente non si rinfrancò che arrivando in piazza dinanzi al Duomo, sotto quei portici così famigliari, salutando e ricevendo il saluto di voci amiche. Nel caffè c’era Gaudenzi, che lo invitò alla solita partita; un vecchio maestro delle scuole tecniche, vegeto, allegro, chiacchierino, un ricco mugnaio attempato, uno scrivano di notaio, mezzo storpio e divertente per la loquacità melodrammatica e letteraria, avevano circondato il loro tavolino, e la