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Dalla camicia della vergine al mantello del soldato, dalla fascia del bimbo al grembiule del beccaio, dalla veste che tutto un popolo aveva ammirato, all’abito che l’accattone aveva lasciato solamente morendo, forse nulla di quanto la vita umana aveva adoperato per nascondere la propria nudità, mancava in quella bara. Il pensiero avrebbe potuto frugarvi senza fine, come dentro un cimitero.
Egli ne aveva ricevuto confusamente questa impressione nella fugacità di un istante, poi aveva riflettuto che dovevano essere stracci troppo sordidi per cangiarsi in carta dopo il solito imbianchimento, e destinati quindi come concime a qualche grassa coltivazione.
Adesso la visione immonda gli ritornava in piazza come un finale ironico, che conchiudesse quella festa, trattando allo stesso modo gli abiti e coloro che li portavano. Infatti la bellezza nella vita non dura più della primavera nell’anno: uno splendore di qualche mattino, una purità sorridente di cielo, qualche dolcezza nei tramonti, poi il sole brucia tutto daccapo, e l’autunno imputridisce quanto il sole ha bruciato, e l’inverno seppellisce quanto l’autunno ha imputridito. Quella folla di immemori era attesa come lui dalla morte a un gomito improvviso della strada: uno per uno avrebbero provato la stessa angoscia subitanea nel crollo di tutto il passato, davanti alla impenetrabile oscurità dell’avvenire. E vi arriverebbero forse peggio di lui, logori, maculati di putredine come i cenci di quella biroccia, esalando già prima di morire il fetore della decomposizione sepolcrale. Forse valeva meglio andarsene così, ancora intatto, nella pienezza delle proprie forze e del proprio dolore.