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disteso sui cuscini entro una carriola quel ragazzo, che conosceva già. Era il figlio di un ortolano, caduto piccino da un albero e rimasto colle reni fracassate; lo aveva veduto mille volte alla finestra sul grande viale del cimitero, ma si meravigliò nel trovarlo ora alla estremità dell’orto, sulla ripa del fiume, solo, cantando come un uccello fra il verde. La sua sventura era di quelle, alle quali non si vuol pensare; non viveva che dalla cintura in su, sempre così coricato, col volto appannato dall’ombra stessa della sua vita.
Eppure viveva.
Impetuosamente egli se ne chiese il perchè, mentre l’altro cantava sempre quella romanza nella sicurezza di non essere udito da alcuno, sognando forse come Mignon un altro cielo più bello ancora che in quel mattino di maggio pur così pieno di profumi, nel silenzio trepidante del meriggio. Egli, morto a metà, cantava. Con una mano si reggeva ad un ramoscello dell’albero, tenendo il viso in alto, colle spalle quasi nella siepe, così che si distingueva appena tra il fogliame la sua figura.
Poi tacque.
L’orto era deserto: un uccello pigolò dall’altra ripa del fiume; lontano, ad un campanile suonò ancora una messa.
Per non farsi vedere dal malato, scese dal sentiero verso l’acqua e non risalì che oltre il cimitero; ma rimaneva sempre come in un fondo, tra ciuffi di alberette, che nascondevano ogni orizzonte. Era fuggito di casa, istintivamente, per nascondere la propria emozione; invece, fra quella viridezza della campagna, dentro al suo silenzio e alla sua luce, si sentiva nuovamente disorientato. Quindi un’altra paura