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Il padrone ripassò dietro il banco, mentre uno dei più briachi cadeva quasi di peso sopra uno sgabello borbottando:

— Cognac!

— Beva un bicchierino con noi, signor Romani; ho risposto bene poco fa, non è vero?

— Mi sei piaciuto, Matteo, — tornò a dirgli il padrone con accento di sottile canzonatura: — bisogna bere per trovare simili risposte.

— Adesso vogliamo bere tutti insieme; anche lei, signor Romani.

In quel momento Romani vide le freccie dell’orologio sovrapporsi segnando mezzanotte; così in piedi, n’ebbe come un colpo di martello sul cuore, ma avvertiva ancora benissimo quanto gli accadeva intorno. Senza rispondere, fece atto di andarsene.

— Questo poi no, — insistè un compagno di Matteo, mentre il padrone diceva:

— Se ne va, signor Romani?

— Addio, Enrico! — rispose questi tendendogli la mano.

L’accento e la forma del saluto erano così insoliti, che l’altro ne rimase sorpreso, però fu pronto a stringergliela. Romani si mosse: allora Matteo volle sbarrargli la via, ma l’altro lo respinse con un gesto. Si alzò un mormorio di disapprovazione.

— Va là, — uno gli gridò dietro, — che anche tu sei un bel signore, per fare così l’aristocratico!

Il padrone, invece, gli teneva dietro con occhio pensoso, avendo sentito la sua mano tutta bagnata di un sudore diaccio.