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— Quando ti occorrerebbero?
— Vattene.
Camilla si era tratta il cappellino e si spogliava senza badargli più, come se fosse già uscito: l’altro rimaneva perplesso, guardandola girare in sottana per la stanza col petto già scoperto e il busto azzurro-cupo, listato d’oro, che le disegnava una curva di anfora sulle anche e sul ventre.
Si accostò per darle un bacio, ma ella lo respinse brutalmente contro una sedia.
— Avaro!
— Non credi che io abbia duemila e cinquecento lire?
— Forse non le hai nemmeno, pitocco. Ma levati dunque di qui... Dio! che antipatico!
Era uscito pallido, con una tempesta di odio nel cuore.
Che cosa era accaduto dopo? Non se ne ricordava bene che l’ultima parte, la più terribile, quella che d’allora gli aveva creato tale tragica situazione. Era entrato nella bottega dello strozzino sotto il loggiato alle undici; passava poca gente; la piccola bottega al solito era vuota. Nella vetrina, distese come dentro una cassa di vetro, luccicavano molte antiche monete d’argento, e si drizzavano tinte di un pallido cilestro due larghe cartelle di una lotteria comunale: dentro, null’altro che un banco rettangolare, nero, che nascondeva forse nel ventre la piccola cassa forte, e parato al disopra di un panno turchino come usano gli orefici. Lo strozzino sedeva al banco leggendo la «Gazzetta dell’Emilia». La sua faccia grinzosa si volse di sbieco, ma gli occhietti grigi non si mossero, e la bocca rapace, quasi rientrata nel vano delle gengive, rimase chiusa come