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Poichè avevano mutato luogo alla stazione ferroviaria, costruendone poco lontano un’altra più ricca e più goffa, la strada fuori di Porta Vecchia a quell’ora non era più frequentata come in altri tempi. Egli dopo aver errato per molte vie della città, aveva finito per infilare quella; il sole si piegava al tramonto, dalla campagna veniva una frescura di verde umido e di piante in fiore.
S’imbattè in don Procopio, il mansionario, che abitava al disopra di lui; il vecchio ottantenne girava ancora solo, con passo abbastanza sicuro senz’altro appoggio che un bastone dal pomo di avorio ingiallito. Era vestito del solito vecchio soprabito con una leggera mantellina al disopra, tutto lindo e rasato di fresco: i capelli bianchi, troppo lunghi, gli uscivano in ciuffi dagli orecchi.
— Lei! — esclamò Romani.
Il vecchio gli sorrise, scoprendo due ammirabili fila di denti troppo lunghi, di un bianco gialliccio. Romani si era fermato.
— Dove va? — disse, cedendo finalmente al bisogno di una conversazione.
— Poco lungi, figliuolo mio. Nihil est longe a Deo: è l’avvertimento di Santa Monica al suo figlio Agostino.
Ma l’accento tranquillo contrastava con la lirica minaccia del motto latino.
— Sono stato sino alla sbarra della ferrovia.
— Ritorni ancora indietro con me.
— Nella sera si fa fresco, io sono vecchio e mi avvicino al termine.