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tale rovina. In questo caso diventava più ragionevole morire, risparmiandone a sè e agli altri l’inutile spasimo.
Tutto il problema era lì.
Invece non aveva che voglia di piangere; grosse lagrime gli si staccavano dagli occhi, mentre una trepidazione di fanciullo gli taceva rannicchiare tutte le membra quasi per farsi più piccolo, colle mani strette fra le coscie, scuotendo il capo paraliticamente. Era un pianto silenzioso, quasi dolce, che gli avrebbe reso facile persino la morte, se quello avesse potuto esserne il modo: vanire come una rugiada, che il sole essica coi primi raggi, o come un singhiozzo indistinto nei soliti rumori del giorno.
— Mio Dio, mio Dio! — mormorava tratto tratto, quasi sotto una sferzata improvvisa.
Infatti i terrori gli ritornavano in folla, più veementi. Non era più tempo da effusioni, il giorno poteva tardare poco a spuntare; una risoluzione era necessaria, anche per non osare di risolvere nulla, giacchè un qualunque contegno, un discorso bisognava pur prepararlo per presentarsi a Caterina o alla serva. Questa era solita ad alzarsi per tempo, qualche volta andava alla prima messa.
Guardò l’orologio: erano le due e mezzo.
La candela, bruciata più che a mezzo, aveva sulla punta dello stoppino una larga gemma rossastra, intorno alla quale saliva il fumo; la smoccolò con un buffetto, e rimase un pezzo a guardarsi l’unghia del dito medio lievemente annerita, come non sapendo più in qual modo pulirla.
La gola gli bruciava, lunghi crampi gli attanagliavano lo stomaco.