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sarebbe sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano accesi, appena l’ultima linea dell’orizzonte si era rischiarata, e qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo, adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era più simile a se stessa; la sua frescura, la sua tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le voci. La solitudine si riempiva.

Guardò l’orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere le quattro: forse a quella distanza l’orologio di sant’Ippolito si sarebbe ancora udito; poi n’ebbe paura. Qualunque voce gli faceva male; nell’aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che s’innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno? Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso, ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli, gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della città; nei due grandi caffè della