L’Aja

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Delft Leida
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L’AJA.


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La barca era vicina a un ponte, in un piccolo bacino formato dal canale che va da Delft all’Aja, e ombreggiato dagli alberi della sponda come un laghetto di giardino.

Le barche che portan passeggieri da una città all’altra si chiamano in olandese trekschuiten.

Il trekschuit è la barca tradizionale, emblematica dell’Olanda, com’è per Venezia la gondola. L’Esquiroz la definì: il genio della vecchia Olanda galleggiante sulle acque. E infatti, chi non ha viaggiato in trekschuit, non conosce l’aspetto più originale e più poetico della vita olandese.

È una grande barca occupata quasi tutta da un casotto, della forma d’una diligenza, diviso in due scompartimenti: quello a prora per la seconda classe e quello a poppa per la prima. Sulla prora è piantata un’asta di ferro con un anello per il quale passa una lunga corda che da una parte si [p. 148 modifica]va ad annodare vicino al timone, e dall’altra a un cavallo di rimorchio montato da un barcaiolo. Le finestrine del casotto hanno le loro tendine bianche; le pareti e le porte sono dipinte; dentro lo scompartimento di prima classe vi son dei sedili con cuscinetti, un piccolo tavolino con qualche libro, un armadio, uno specchietto; ogni cosa lucidissimo. Posando la valigia, lasciai cadere un po’ di cenere di sigaro sotto il tavolino; dopo un minuto rientrai e non ce la vidi più.

Ero solo; non ebbi da aspettare molto tempo; il timoniere fece un cenno, il rimorchiatore montò a cavallo, e il trekschuit cominciò a scorrere mollemente sul canale.

Era un’ora dopo mezzogiorno e splendeva un bellissimo sole, ma la barca passava nell’ombra. Il canale era fiancheggiato da due file di tigli, di olmi, di salici, e da siepi alte, che nascondevano la campagna. Pareva di navigare a traverso un bosco. A ogni svoltata si vedeva una lontananza profonda, tutto verde e chiuso, e qualche mulino a vento sulla sponda. L’acqua era coperta di un tappeto di lemna, e in alcuni punti tempestata di fiorellini bianchi, d’iridi, di ninfee, di lenti palustri. L’alta spalliera di verzura che fiancheggiava il canale, s’apriva qua e là in brevi tratti, e allora si vedeva come da una finestra l’orizzonte lontano della campagna, che subito era rinascosto.

Ogni tanto s’incontrava un ponte. Era bello vedere la rapidità con cui l’uomo a cavallo, e un [p. 149 modifica]altro, fisso là di guardia, facevan la manovra delle corde per far passare il trekschuit; e come i due conduttori, quando i trekschuiten s’incontravano, si cedevano il passo, l’uno facendo scorrer la corda sotto quella dell’altro, senza dire una parola, senza salutarsi neanco con un sorriso, come se la serietà e il silenzio fossero obbligatorii. Per tutta la strada non si sentiva altro rumore che il frullo delle ali dei mulini.

S’incontravano dei barconi carichi di legumi, di torba, di pietre, di botti, rimorchiati con una lunghissima corda da un uomo aiutato qualche volta da un grosso cane con una cordicella al collo. Alcuni erano rimorchiati da un uomo, una donna e un ragazzo, l’uno dietro l’altro, colla fune legata a una specie di sottopancia di cuoio o di tela; tutti e tre tanto inclinati innanzi da non capire come malgrado il ritegno della fune potessero tenersi in piedi. Altri barconi eran rimorchiati da una vecchia sola. Su parecchi, c’era al timone una donna con un bambino al seno; altri bambini intorno; un gatto sur un sacco, un cane, una gallina, dei vasi di fiori, delle gabbie d’uccelli. Su altri la donna faceva la calza dondolando una culla col piede; su altri faceva da mangiare; in alcuni, tutta la famiglia, meno uno che rimorchiava, stava mangiando in crocchio. E non si può dire la pace che spirava nei visi di quella gente, nell’aspetto di quelle case acquatiche, di quegli animali divenuti, in certo modo, anfibii; la placidità di quella vita [p. 150 modifica]galleggiante, l’aria sicura e libera di quelle famiglie erranti e solitarie. E così vivono in Olanda migliaia di famiglie che non hanno altra casa che la barca. Un uomo piglia moglie, fra tutti e due comprano un battello, ci s’installano e portan le derrate da un mercato all’altro. I bambini nascon sui canali, sono allevati e crescon sull’acqua; la barca porta le masserizie, il piccolo peculio, le memorie domestiche, gli affetti, il passato, tutto il bene presente e tutte le speranze dell’avvenire. Si lavora, si risparmia, e dopo molti anni si compra un battello più grande, vendendo la vecchia casa a una famiglia più povera, o lasciandola al figlio maggiore che vi condurrà una sposa cresciuta sur un altro battello, e adocchiata per la prima volta in un incontro sul canale. E così di barca in barca, di canale in canale, la vita scorre soave e tranquilla, come la casa vagabonda che la ricetta e l’acqua silenziosa che l’accompagna.

Per un pezzo non vidi sulle due sponde che piccole case di contadini; poi cominciai a vedere villette, chioschi e capanni, mezzo nascosti fra gli alberi; e negli angoli più ombrosi, qualche signora bionda, vestita di bianco, seduta, con un libro in mano; o qualche grosso signore avvolto in un nuvolo di fumo, coll’aria soddisfatta del negoziante arricchito. Tutta queste villette son dipinte d’un color roseo o azzurrino, hanno i coppi del tetto inverniciati, terrazzi sostenuti da colonnine, e giardinetti davanti o intorno, con aiuole e sentieri da [p. 151 modifica]presepio; miniature di giardini, puliti, lisciati, leccati. Alcune case son poste sull’orlo del canale, col piede nell'acqua; e lascian vedere i fiori, i vasi e i mille ninnoli luccicanti dell’interno delle stanze. Quasi tutte hanno un’iscrizione sulla porta, che è come l’aforismo della felicità domestica, la formula della filosofia del padrone, come: — La pace è denaro. — Piacere e riposo. — Amicizia e società. — I miei desiderii sono soddisfatti. — Senza fastidi. — Tranquillo e contento. — Qui si godono i piaceri dell’orticultura. — Qua e là c’era qualche bella vacca bianca e nera, accovacciata sulla sponda, col muso a fior d’acqua, che sollevava placidamente la testa verso la barca. Incontravamo degli stormi d’anitre che si scansavano per lasciarci passare. C'erano di tratto in tratto a destra e a sinistra dei canaletti quasi coperti da due alte siepi che consertavano i rami formando una vòlta di verzura, sotto la quale si vedevano allontanarsi e sparire nell’oscurità delle barchette di contadini. Di tempo in tempo, in mezzo a tutto quel verde, saltava fuori all’improvviso un gruppo di case, un villaggetto variopinto e lindo, coi suoi specchietti e i suoi tulipani alle finestre; senza un’anima viva; e quel silenzio profondo era rotto da un’arietta allegra d’un campanile che non si vedeva. Era un paradiso pastorale, un paesaggio da idillio, pieno di freschezza e di mistero; un’arcadia chinese, tutta piccoli nascondigli, piccole sorprese, piccoli artifizi innocenti di bellezza, che facevan l’effetto come di tante voci [p. 152 modifica]sommesse di gente invisibile che bisbigliassero: — Siamo contenti.

A un certo punto il canale si biforca; un braccio che si nasconde fra gli alberi va a Leida, l’altro volge a sinistra e va all’Aja. Dopo questo punto, il trekschuit cominciò a soffermarsi ora dinanzi a una casa, ora dinanzi alla porta di un giardino per ricevere involti, lettere e imbasciate a voce da portare all’Aja.

Un vecchio signore uscì da una villa e salì accanto a me. Parlava francese, attaccammo discorso. Era stato in Italia, sapeva qualche parola d’italiano, aveva letto Les fiancés; mi domandò dei particolari sulla morte di Alessandro Manzoni: dopo dieci minuti, l’adoravo. Da lui ebbi dei ragguagli sul trekschuit. Per capire la poesia di questa barca nazionale, bisogna fare dei viaggi lunghi, in compagnia di gente del popolo. Allora ognuno ci s’installa come in casa sua, le donne lavorano, gli uomini salgono a fumare sul tetto; desinano tutti insieme; dopo desinare, si adagiano fuori del casotto per vedere tramontare il sole; i discorsi si fanno più intimi, la brigata diventa una famiglia. Vien la notte; il trekschuit attraversa come un’ombra dei villaggi immersi nel silenzio, scivola sui canali inargentati dalla luna, si nasconde nelle macchie, esce nell’aperta campagna, rasenta le case solitarie in cui brilla la lucerna del contadino, e incontra barche di pescatori che gli passano accanto come fantasimi. In quella pace profonda, in quell’andar lento ed eguale, [p. 153 modifica]uomini e donne s’addormentano a poco a poco gli uni accanto agli altri e la barca non lascia più dietro di sè che il bisbiglio confuso dell’acqua e dei respiri.

Via via che s’andava innanzi, i giardini e le ville spesseggiavano. Il mio compagno di viaggio mi accennò un campanile lontano, e mi nominò il villaggio di Ryswijk, dove fu firmato nel 1697 il celebre trattato di pace tra la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, l’Alemagna e l’Olanda. Il castello del principe d’Orange, dove convennero i firmatari, non esiste più, e fu alzato in suo luogo un obelisco.

Tutt’a un tratto, il trekschuit uscì di mezzo agli alberi, e vidi una vasta pianura, un gran bosco e una città coronata di torri e di mulini a vento.

Era l’Aja.

Il barcaiolo mi chiese e ricevette i denari in un sacchettino di cuoio. Il rimorchiatore stimolò il cavallo. In pochi minuti arrivammo in città, e dopo un quarto d’ora io mi trovavo in una stanza luccicante dell’Albergo Turenna, chi sa! forse nella stanza medesima dove il celebre maresciallo aveva dormito da giovanetto quando era al servizio dell’Olanda.


L’Aja — in olandese S’Gravenhage o S’Hage, — la capitale politica, la Washington dell’Olanda, della quale Amsterdam è la New-York, — è una città mezza olandese e mezza francese, con larghe strade senza canali; vaste piazze piene d’alberi, case [p. 154 modifica]signorili, alberghi splendidi, e una popolazione composta in gran parte di ricchi, di nobili, d’impiegati, di letterati, d’artisti; e d’un popolino più raffinato che quello delle altre città olandesi.

Nel primo giro che feci per la città, quello che mi colpì di più furono i quartieri nuovi, dove abita il fiore dell’aristocrazia danarosa. In nessuna città, nemmeno nel sobborgo Saint-Germain a Parigi, mi sentii tanto povero diavolo come in quelle strade. Sono strade larghe e diritte, fiancheggiate da palazzini di forme snelle e di colori gentili, con grandi finestre senza persiane, per le quali si vedono i tappeti, i vasi di fiori e i mobili sontuosi delle sale a terreno; con tutte le porte chiuse; e non una bottega, non un annunzio sui muri, non una macchia, non una festuca a cercarla con cent’occhi. Quando passai per quelle strade, v’era un silenzio profondo. Solo di tratto in tratto incontravo qualche carrozza aristocratica che scorreva sul pavimento di mattoni quasi senza far rumore, e vedevo qualche lacchè impalato dinanzi a una porta, o qualche testa bionda di signora dietro a una tendina. Passando rasente le finestre, osservavo colla coda dell’occhio il mio meschino vestiario di viaggiatore riflesso spietatamente dalle grandi vetrate, mi pentivo di non aver portato i guanti, provavo una certa umiliazione di non essere almeno cavaliere di nascita, e mi pareva di udire qua e là delle voci sommesse che dicessero: — Chi è quel pezzente?

Della città antica, la parte più considerevole è [p. 155 modifica]il Binnenhof, un gruppo di vecchi edifizi di differenti stili d’architettura, che da due lati guarda su due vaste piazze, e da un altro sopra un grande stagno. In mezzo a questo gruppo di palazzi, di torri, di porte monumentali, d’un aspetto medioevale e sinistro, v’è uno spazioso cortile, nel quale s’entra per tre ponti e tre porte. In uno di quegli edifizi risiedevano gli Statolderi, e ora v’è la seconda Camera degli Stati generali; dalla parte opposta, v’è la prima Camera, i Ministeri e diversi altri uffici d’amministrazione pubblica. Il ministro dell’interno ha il suo ufficio in una piccola torre bassa, nera, lugubre, che pende a filo sulle acque dello stagno.

Il Binnenhof, la piazza che si stende ad occidente chiamata Buitenhof, e un’altra piazza di là dallo stagno chiamata Plaats, nella quale si giunge passando sotto una vecchia porta che faceva parte d’una prigione, furono il teatro dei più sanguinosi avvenimenti della storia d’Olanda.

Nel Binnenhof, fu decapitato il venerando Van Olden Barneveldt, il secondo fondatore della repubblica, la più illustre vittima di quella lotta secolare tra il patriziato borghese e lo statolderato, tra il principio repubblicano e il principio monarchico, che travagliò così miseramente l’Olanda. Il patibolo era innalzato dinanzi all’edifizio dove sedevano gli Stati generali. Dalla parte opposta v’è la torre dalla quale si dice che Maurizio d’Orange, non visto, assistesse al supplizio del suo nemico. Nella [p. 156 modifica]prigione ch’è fra le due piazze, fu torturato Cornelio De Vitt accusato ingiustamente d’aver tramato contro la vita del principe d’Orange. Nel Plaats furono trascinati dal popolo furioso, laceri e insanguinati, Cornelio e Giovanni De Vitt, il gran pensionario, e là sputacchiati, calpestati, uccisi a colpi di picca e di pistola; e poi mutilati e vilipesi i loro cadaveri. Nella stessa piazza fu pugnalata Adelaide di Poelgest, amante d’Alberto, conte d’Olanda, il 22 settembre del 1392; e si mostra ancora la pietra sulla quale cadde spirando.

Queste memorie funeste, quelle porte massiccie e basse, quel gruppo disordinato di edilizi cupi, che la notte, quando la luna batte sulle acque del lago morto, presentano l’aspetto d’un castello enorme e inaccessibile, destano in mezzo a quella città allegra e gentile, un sentimento di tristezza solenne. Il cortile, di notte, non è rischiarato che da qualche raro fanale; le poche persone che passano, s’affrettano come se avessero paura; non si sente il rumore dei passi, non si vede una finestra illuminata; vi si entra con una vaga inquietudine e se n’esce quasi con piacere.

Fuor di questo, l’Aja non ha monumenti considerevoli nè antichi nè moderni. Vi sono parecchie mediocri statue di diversi principi d’Orange; una cattedrale vasta e nuda e un palazzo reale modesto. Su molti edilizi pubblici si vede scolpita una cicogna, ch’è l’animale araldico della città. Parecchi di questi uccelli passeggiano liberamente nella piazza [p. 157 modifica]del mercato dei pesci, mantenuti a spese del municipio come gli orsi di Berna e le aquile di Ginevra.

Il più bell'ornamento dell’Aja è il suo bosco; una vera meraviglia dell’Olanda e uno dei più magnifici passeggi del mondo.

È un bosco d’ontani, di querele e dei più grandi faggi che si vedano in Europa, del circuito di più d’una lega francese, posto ad oriente della città, a pochi passi dalle ultime case; una vera oasi deliziosa in mezzo alla malinconica pianura olandese. Appena vi s’è entrati, appena si sono oltrepassati i padiglioni, le casette svizzere, i chioschi sparsi in mezzo ai primi alberi, par di essersi smarriti in una foresta sterminata e solitaria. Gli alberi sono fitti come un canneto, i viali si perdon nel buio; ci son laghi, canali quasi nascosti dalla verzura delle sponde; ponti rustici, crocicchi di sentieri abbandonati, recessi chiusi, oscurità profonde e fresche in cui par di respirare l’aria d’una natura vergine e d’essere infinitamente lontani dai rumori del mondo.

Questo bosco, che come quello della città di Haarlem, si vuol che sia un resto d’un’immensa foresta che copriva anticamente quasi tutta la costa dell’Olanda, è rispettato dagli Olandesi come un monumento della loro storia nazionale. Nella storia d’Olanda, in fatti, si trovano moltissimi atti che gli si riferiscono, e che provano che in ogni tempo si ebbe una cura gelosa della sua conservazione. Gli stessi generali spagnuoli rispettando questa specie [p. 158 modifica]di culto nazionale, preservarono il bosco sacro dalle offese dei soldati. In più d’un’occasione di gravi strettezze finanziarie quando il governo sarebbe stato disposto a decretarne la distruzione per vender le legna, i cittadini scongiurarono il pericolo con una oblazione volontaria. Mille ricordi sono legati a questo bosco diletto: ricordi d’uragani spaventosi, ricordi d’amori principeschi, di feste celebri, di avventure romanzesche. Alcuni alberi portano il nome di re e d’imperatori, altri di elettori germanici; un faggio ha la fama d’esser stato piantato dal gran pensionario e poeta Giacobbe Catz; altri tre, dalla contessa d’Olanda, Giacomina di Baviera; e si accenna ancora il luogo dove essa soleva riposare delle sue passeggiate. E ci lasciò il suo ricordo anche il signor Voltaire, che ci ebbe non so che ripesco galante con la figliuola d’un parrucchiere.

In fondo al bosco, dove la piccola vegetazione presa da una sorta di furia conquistatrice, s’alza, s’ammucchia, s’arrampica su per gli alberi, s’intreccia sopra i sentieri, si stende sulle acque, e intercetta da tutte le parti il passo e la vista, come se volesse celare i misteri di qualche dimenticata divinità silvestre, si nasconde un palazzetto reale, chiamato la Casa del Bosco, una specie di Casa del labrador della villa d’Aranjuez, eretta nel 1647 dalla principessa Amelia di Solms in onore di suo marito Federico Enrico lo Statoldero.

Quando andai a visitare questo palazzo, mentre stavo cercando cogli occhi la porta d’entrata, vidi [p. 159 modifica]uscire e salire in carrozza una signora d’aspetto nobile e benevolo, che presi per una viaggiatrice inglese, che avesse terminata la sua visita. La carrozza mi passò accanto, mi levai il cappello, la signora fece un cenno del capo e scomparve.

Seppi un momento dopo da una cameriera del palazzo che quella «viaggiatrice» era niente meno che sua maestà la Regina d’Olanda.


Mi sentii una leggera scossa al sangue. La parola «regina» m’ha fatto sempre, indipendentemente dalla persona a cui si riferisca, quest’effetto; e non saprei dirne chiaramente il perchè. Forse perchè mi ricorda certe visioni luminose e confuse dell’adolescenza. L’immaginazione amorosa d’un ragazzo di quindici anni qualche volta striscia sulla terra e qualche volta si slancia con desiderii mostruosamente audaci a un’altezza vertiginosa. Sogna delle bianchezze sovrumane, dei profumi che danno il delirio e delle voluttà che fanno cader fulminati, e suppone che tutto questo si ritrovi nelle creature misteriose e inaccessibili che la fortuna ha poste in cima della scala sociale. E fra i mille casi strani, insensati, impossibili, che s’avvicendano nella sua mente nelle notti febbrili, sogna anche di superare nelle tenebre, colla sua agilità infantile, muri altissimi, cancellate formidabili, fossi profondi, di sospingere porte misteriosamente aperte, di passar per corridoi senza fine, in mezzo a gente assopita, per sale immense, nel silenzio; di salire per scale [p. 160 modifica]aeree, di arrampicarsi su pei rilievi d’una torre, rischiando la vita, a una tremenda altezza, sopra i grandi alberi d’un giardino illuminato dalla luna; e infine di giungere spossato e insanguinato sopra un balcone, e là sentir da una voce sovrumana parole d’una pietà profonda, e rispondere con altre parole d’una tenerezza immensa, scoppiare in pianto, invocar Dio, curvar la fronte sul marmo, coprir di baci disperati un piede scintillante di gemme, abbandonar il viso nei rasi profumati, e sentirsi fuggir la ragione e la vita in un amplesso più forte della natura umana.

In quel palazzo, chiamato il Palazzo del Bosco, v’è, fra le altre cose considerevoli, una sala ettagona coperta dal pavimento alla vòlta di pitture dei più celebri artisti della scuola del Rubens, fra le quali uno smisurato quadro allegorico del Jordaens che rappresenta l’apoteosi di Federico-Enrico; una sala piena di preziosi regali dell’imperatore del Giappone, del vicerè d’Egitto e della Compagnia delle Indie; e un’altra elegante saletta decorata di pitture a chiaroscuro che si scambiano, anche considerate attentamente, per bassorilievi: opera di Jacob De Witt, pittore che acquistò in quell’arte corbellatrice una grande rinomanza sul principio del secolo scorso. Le altre son sale piccine, belle, ma senza fasto, e piene di tesori che non dan nell’occhio, come si convengono alla grande e modesta casa d’Orange.

[p. 161 modifica]Mi parve strano quell’uso di lasciar entrare gli stranieri nel palazzo nel momento stesso che la Regina ne usciva; ma non mi fece più specie quando conobbi altre consuetudini, altri tratti popolari, il carattere, in una parola, della famiglia reale d’Olanda.

Il re, in Olanda, è considerato quasi più come statoldero che come re. V'è in lui, come diceva del duca d’Aosta quel tal repubblicano spagnuolo, la minor quantità di re possibile. Il sentimento che il popolo olandese nutre per la famiglia reale non è tanto di devozione per la famiglia del monarca quanto di affetto per quella casa d’Orange che partecipò a tutti i suoi trionfi e a tutte le sue sventure, che visse, per così dire, della sua vita per lo spazio di tre secoli. Il paese, in fondo, è repubblicano, e la sua monarchia è una sorta di presidenza coronata, senza alcun fasto monarchico. Il Re pronunzia dei discorsi ai banchetti e nelle feste pubbliche come da noi i ministri; e gode anzi la fama di oratore, poichè parla all’improvviso, con una voce potentissima e un certo impeto d’eloquenza soldatesca, che eccita un indicibile entusiasmo nel popolo. Il principe ereditario, Guglielmo d’Orange, studiò all’Università di Leida, sostenne esami pubblici e prese la laurea d’avvocato. Il principe Alessandro, secondogenito, sta studiando ora nella stessa Università, è membro del Club degli studenti, e invita a pranzo i suoi professori e i suoi compagni di scuola. All’Aja, il principe Guglielmo entra nei caffè, discorre coi vicini, s’accompagna per la strada [p. 162 modifica]coi giovani suoi conoscenti. Nel bosco, la regina si mette a seder sur una panca accanto a una povera donna. E non si può dire che usin così, come altri principi, per acquistare popolarità, poichè la famiglia d’Orange non ne può nè acquistare nè perdere, non essendoci in quel popolo, per natura e per tradizione repubblicano, nemmeno un indizio di fazione, non dico che voglia la repubblica, ma che ne pronunzi il nome. Per contro, quel popolo, che ama e venera il suo re, che nelle feste in onor suo gli stacca i cavalli dalla carrozza ed esige che tutti portino una coccarda color d’arancio in omaggio al nome d’Orange, nei tempi ordinari non si occupa punto dei fatti suoi e della sua famiglia. All’Aja mi ci volle molto per sapere che grado avesse nell’esercito il principe ereditario. Uno dei primi librai della città, al quale rivolsi quella domanda, si meravigliò della mia curiosità che gli parve puerile, e mi disse che probabilmente non avrei trovato in tutta l’Aja cento persone che sapessero darmi una risposta.

La sede della corte è all’Aja; ma il re passa una buona parte dell’estate in un suo castello nella Gheldria, e va ogni anno a star qualche giorno in Amsterdam. Il popolo dice che v’è uno statuto il quale obbliga il re a passare in Amsterdam dieci giorni all’anno, e il municipio di quella città a fargli le spese per quei dieci giorni; suonata la mezzanotte dell’undecimo, un fiammifero che bruci Sua Maestà per accendere il sigaro, è a carico suo.

[p. 163 modifica]Tornando dalla villa reale all’Aja, trovai il bosco animato dalla passeggiata della domenica: musica, carrozze, una folla di signore, i caffè pieni di gente, e stormi di bambini da ogni parte.

Allora osservai per la prima volta il bel sesso olandese.

La bellezza è un fior raro in Olanda come in tutti i paesi; ma vidi nondimeno assai più donne belle in un giro di cento passi nel bosco dell’Aja, che non ne abbia viste in tutti i quadri dei Musei olandesi. Non si vede fra quelle signore nè la bellezza scultoria delle romane, nè gli splendidi colori delle inglesi, nè l’espressione vivacissima delle andaluse; ma una finezza, una grazia innocente e affabile, una leggiadria tranquilla, un’ideina che piace. Hanno l’attrattiva, disse giustamente uno scrittore francese, del fiore di valeriana che adorna i loro giardini. Son piuttosto alte che piccine, e grassette; hanno i tratti del viso irregolari, la pelle unita e brillante, d’un bel bianco pallido o d’un roseo delicatissimo, che vi sembra stato suffuso dall’alito di un angelo; i pomelli delle guancie salienti; gli occhi d’un azzurro chiaro, sovente chiarissimo, in alcune di un’apparenza vitrea, che danno uno sguardo vago come quello d’una persona distratta. Si dice che non hanno bei denti: non lo potrei affermare perchè ridon poco. Camminano con meno leggerezza che le francesi, con meno rigidezza che le inglesi; vestono alla moda di Parigi; con più grazia all’Aja che ad [p. 164 modifica]Amsterdam, benchè meno riccamente; e mettono in pomposa evidenza le loro grandi capigliature bionde.

Mi fece specie il vedere ancora vestite da bimbe, colle sottane corte e i calzoncini bianchi, ragazze che da noi hanno già il vestire e l’aria di donne fatte. In Olanda, dove la vita è lenta e l’impazienza un sentimento ignoto, le ragazze non hanno fretta di smetter gli usi e l’aspetto della puerizia, e d’altra parte, entrano naturalmente assai più tardi che in altri paesi in quella età così critica, nella quale, come dice mirabilmente, al solito, Alessandro Manzoni, par che entri nell’animo una potenza misteriosa, che solleva, adorna e rinvigorisce tutte le inclinazioni e tutte le idee. Raramente una ragazza si marita prima di vent’anni. Non dico le bambine del regno di Decan che per quel che si racconta piglian marito all’età di ott’anni e son nonne prima dei venti; ma le italiane e le spagnuole che si sposano a quattordici o quindici, in Olanda sono considerate come creature miracolose. Là le ragazze quindicenni vanno sole alla scuola coi capelli giù per le spalle, e non c’è anima nata che le guardi. Ho inteso parlare quasi con orrore d’un giovanotto dell’Aja accusato da altri giovanotti di cercare delle avventure amorose in quell’età per essi non meno sacra dell’infanzia.

Un’altra cosa che si nota subito in una città olandese, — eccettuata Amsterdam, — è la mancanza della prostituzione elegante. Quell’abbigliamento e [p. 165 modifica]quei modi particolari, che dicono: — Son del bel numer una, — non si vedono affatto o quasi; e quel che si vede, c’è da scommettere nove volte su dieci che viene dall’immenso semenzaio della Senna. — “Badate,” mi dicevano certi olandesi liberi pensatori, “siete in un paese protestante, c’è molta ipocrisia.” Sarà; ma non può essere una gran piaga quella che si può ancora dissimulare. Società equivoca non n’esiste; non ce n’è ombra in pubblico, non ce n’è idea nella letteratura; la lingua stessa è ribelle alla traduzione d’una sola delle formule infinite che costituiscono il linguaggio doppio, lubrico e guizzante di quella società, nei paesi dov’ella si trova. D’altra parte, nè padri, nè madri non chiudon gli occhi sulla condotta dei figli scapoli, sian pure uomini tanto fatti; la disciplina della famiglia non fa eccezione per le barbe lunghe; e quello che poi cospira colla disciplina è il temperamento freddo, l’abitudine all’economia e il rispetto dell’opinion pubblica.

Parlare del carattere e della vita delle donne olandesi, coll’aria di esporre i frutti dell’esperienza propria, non essendo stato che qualche mese in Olanda, sarebbe una presunzione più ridicola ancora che impertinente; mi debbo dunque contentare di far parlare i libri e gli amici.

Molti scrittori hanno trattato scortesemente le donne olandesi. Uno le chiamò macchine da bambini; un altro massaie apatiche; un anonimo del secolo scorso spinse l’impertinenza fino a dire che [p. 166 modifica]come gli uomini, in Olanda, sogliono cercare le loro amanti nella classe delle fantesche, così le donne (le signore, intende di dire) non spingono molte volte più in alto le loro aspirazioni. Ma questi son giudizi dettati dalla stizza di qualche corteggiatore scorbacchiato. Daniele Stern, che come donna ha in questa materia un’autorità particolare, dice che sono altere, leali, attive, caste. Qualcuno lasciò trapelare dei dubbi intorno alla tanto predicata placidità dei loro affetti. Sono acque chete, scrisse l’Esquiroz, ma si sa quel che si dice delle acque chete. Sono vulcani gelati, disse l’Heine, che quando sgelano....! Ma di tutti i giudizi letti, mi parve il più notevole quello di Saint Evremont: che le donne olandesi non sono abbastanza vive per turbare il riposo degli uomini; e che ce ne sono, sì, delle amabili; ma che non v’è nulla a sperarne, o per la loro saggezza, o per una freddezza che tien luogo in loro di virtù.

Un giorno, in un crocchio di giovanotti dell’Aja, citai questo giudizio di Saint Evremont, e domandai bruscamente: — È vero? — Sorrisero, si guardarono, uno rispose: — Direi...; — un altro: — Mi pare...; — un terzo: — Sarebbe...; — infine s’accordarono tutti nel dire che era vero. Altre volte raccolsi degl’indizi provanti che le cose corrono oggi tale e quale come ai tempi dello scrittore francese. Si parlava in un crocchio d’un personaggio leggermente ridicolo. “Eppure, — disse uno, — quell’ometto d’apparenza così posata è un donnaiolo di prima riga.” Io domandai colla frase sacramentata: “Turba [p. 167 modifica]il riposo delle famiglie?” Si misero tutti a ridere e uno rispose: “Che! Turbare il riposo delle famiglie in Olanda! Sarebbe una delle dodici fatiche di Ercole.” “Noi olandesi,” — mi disse una volta un amico, — “non siamo conquistatori, e non possiamo esserlo perchè ci manca la scuola. Non c’è nulla di più falso in Olanda che la famosa definizione: il matrimonio è come una fortezza assediata; chi è fuori vorrebbe esser dentro; chi è dentro vorrebbe esser fuori. Qui chi è dentro ci sta bene e chi è fuori non pensa ad entrare.” — “La donna olandese,” mi disse un altro, “non sposa l’uomo, sposa il matrimonio.” — Questo che si dice all’Aja, città elegante, nella quale è grande l’influsso della civiltà francese, è anche più vero detto delle altre città dove i costumi antichi si son serbati più schietti. E dicano e scrivano pure i viaggiatori galanti che in Olanda si dorme, e che la felicità domestica vi è un bonheur un peu gros. Questa donna che esce poco, che balla poco, che ride poco, che non s’occupa che dei suoi bambini, di suo marito e dei suoi fiori, che legge libri di teologia e guarda la strada collo specchio per non farsi vedere alla finestra, quanto è più poetica.... Oh perdonami, stavo per dirtene una dura, Andalusia!


Sino a questo punto, potrebbe credere qualcuno ch’io voglia far sott’intendere che so la lingua olandese. Mi affretto a dire che non la so e a scusare la mia ignoranza. Un popolo, come l’olandese, grave [p. 168 modifica]e taciturno, più ricco di qualità nascoste che di belle qualità lampanti, che vive, se posso così esprimermi, molto più dentro che fuori di sè, che fa molto più di quello che dice, che non si spende per quello che vale; si può studiare anche senza comprendere la sua lingua. D’altra parte, in Olanda è straordinariamente diffusa la lingua francese. Nelle grandi città non v’è quasi persona colta che non parli francese correntemente, non v’è bottegaio che non sappia spiegarsi bene o male, non v’è quasi ragazzo, anche tra il popolo minuto, che non sappia quelle dieci o venti parole, che bastano a cavar d’impiccio uno straniero. Questa diffusione d’una lingua così diversa da quella del paese, è un fatto tanto più ammirabile quando si pensi che non è la sola lingua straniera che si parli comunemente in Olanda. L’inglese e la tedesca vi sono quasi altrettanto conosciute che la francese. Lo studio di tutte e tre queste lingue è obbligatorio nelle scuole medie. Le persone colte, quelle che in Italia sono quasi in dovere di sapere il francese, in Olanda leggono la maggior parte libri inglesi, tedeschi e francesi colla medesima facilità. Gli Olandesi hanno una particolare disposizione ad imparare le lingue, e un’incredibile franchezza nel conversare. Noi Italiani, prima di rischiarci a parlare una lingua straniera, vogliamo saperla tanto da non lasciarci sfuggire dei grossi errori; arrossiamo, quando ci scappano; evitiamo le occasioni di discorrere finchè non siamo sicuri di parlare in modo da tirarci un complimento; e così facendo, allunghiamo sempre più il [p. 169 modifica]periodo del nostro noviziato filologico. In Olanda segue soventissimo d’incontrare gente che parla francese rimestando con infiniti sforzi un capitale di cento parole e di venti frasi; ma parla, regge una lunga conversazione e non mostra di curarsi menomamente di quello che voi possiate pensare dei suoi spropositi e della sua audacia. Portinai, facchini, ragazzi, interrogati se sappiano il francese, rispondono colla più grande sicurezza: — Oui, o — un peu, e s’industriano in mille modi per farsi capire, ridendo qualche volta essi medesimi delle stravaganti contorsioni del loro linguaggio, e arrotondando ogni risposta con un s’il vous plaît o un pardon, Monsieur, detto il più delle volte così graziosamente a sproposito, da doverne ridere ad ogni costo. E pare così ovvio a tutti il sapere il francese, che quando qualcuno deve rispondere che non lo sa, tituba, si vergogna, e se è interrogato per la strada, finge d'aver fretta e vi pianta su due piedi.

Quanto alla lingua olandese, per chi non sappia il tedesco è buio pesto; e anche sapendo il tedesco, si può capirne qualcosa nei libri, con un po' di studio; ma a sentirla parlare, è buio egualmente. Se avessi da dire l'effetto che fa sull'orecchio a chi non la intende, direi che par tedesco parlato da gente che abbia un pelo nella gola; il che è dovuto alla frequenza d'un'aspirazione gutturale che somiglia alla jota spagnuola. Gli Olandesi stessi non trovano che la loro lingua sia armoniosa. Mi accadde spesso di sentirmi domandare con un'aria [p. 170 modifica]scherzosa: — Che effetto le fa? — quasi sottintendendo che dovesse essere un effetto poco gradevole. Eppure ci fu chi scrisse un libro per dimostrare che Adamo ed Eva, nel paradiso terrestre, parlavano olandese. Ma benchè parlino tante lingue straniere, gli Olandesi tengon molto alla propria; e s’indignano quando uno straniero ignorante mostra di credere, così per sentita dire, che l’olandese sia un dialetto tedesco; cosa, per verità, creduta da molti di coloro che conoscon quella lingua soltanto di nome. È quasi superfluo il rammentare la storia della lingua. I primi popoli del paese parlavano il teutono nei suoi varii dialetti. Questi dialetti si fusero e formarono l’antica lingua neerlandese, la quale passò nel medio evo, come le altre lingue d’Europa, per le differenti fasi germanica, normanna, francese, e ne uscì l’olandese attuale, nel quale rimane il fondo dell’idioma primitivo, con qualche impronta latina. Certo v’è una grande somiglianza fra l’olandese e il tedesco, e soprattutto un’infinità di radicali comuni; ma ne differisce molto la sintassi, nell’olandese assai più semplice, e moltissimo la pronunzia. E questa medesima somiglianza è cagione che gli Olandesi parlino per lo più men bene il tedesco che l’inglese o il francese, sia per la difficoltà che nasce dalla facilità dell’equivoco, sia perchè, non dovendo fare un gran sforzo per riuscire a comprendere la lingua e a parlarla per il proprio bisogno, s’arrestan lì, come segue a molti di noi per il francese, che lo parliamo già a dieci anni e non lo sappiamo ancora a quaranta.

[p. 171 modifica]È tempo ora d’andar a vedere il Museo di pittura che è il più bel gioiello dell’Aja.

Appena entrati, ci si trova dinanzi alla più celebre di tutte le bestie dipinte: il toro di Paolo Potter; quell'immortale toro che, come ho detto, ebbe l’onore, nel Museo del Louvre, quando c’era la mania di classificare i quadri in una sorta di gerarchia di celebrità, d’esser posto accanto alla Trasfigurazione di Raffaello, al san Pietro martire del Tiziano e alla Comunione di san Geronimo del Domenichino; quel toro, che l’Inghilterra pagherebbe un milione di lire, e l’Olanda non darebbe per il doppio; quel toro infine, sul quale furono certamente scritte più pagine che non ci abbia dato pennellate il pittore, e su cui si scrive e si disputa ancora, come se invece d’una immagine fosse una creazione vera e viva d’un nuovo animale.

Il soggetto del quadro è semplicissimo: un toro di grandezza naturale, ritto, col muso rivolto verso chi guarda; una vacca accosciata in terra; alcune pecore, un pastore, un paesaggio lontano.

Il merito supremo di questo toro, si dice in una parola: è vivo. L’occhio grave ed attonito, che esprime il sentimento d’una vitalità vigorosa e d’una alterezza selvaggia, è reso con tanta verità, che, a primo aspetto, vien quasi fatto di scansarsi a destra e a sinistra, come si fa in un sentiero in campagna, quando s’incontra uno di quegli animali. Le narici umide e nere, par che fumino e assorbiscano [p. 172 modifica]l’aria con un’aspirazione profonda. I peli son resi uno per uno con tutte le pieghe, le torsioni, le traccie dei fregamenti contro gli alberi e la terra, e sembran peli veri attaccati alla tela. Gli altri animali non son da meno: la testa della vacca, la lana delle pecore, le mosche, l'erba, le foglie e le fibre delle piante, il muschio; ogni cosa è reso con una verità prodigiosa. E mentre si capisce l’infinita cura che deve averci messo l’artista, non si vede la fatica, la pazienza della copia; par quasi un lavoro d’ispirazione, di foga, nel quale il pittore, infiammato da una sorta di furore del vero, non abbia avuto un momento d’esitazione o di stanchezza. Furon fatte su questo «incredibile colpo d’audacia d’un giovane ventiquattrenne» infinite censure. Si censurò la sua grandezza eccessiva per la natura volgare del soggetto; la mancanza d’effetto luminoso, perchè la luce v’è uguale per tutto e dà risalto a ogni cosa, senza contrasto d’ombra; la rigidezza delle gambe del toro; il colorito secco delle piante e degli animali lontani; la mediocrità della figura del pastore. Ma con tutto questo, il toro di Paolo Potter riman coronato della gloria dei grandi capolavori e l’Europa lo considera come l’opera più magistrale del principe dei pittori d’animali. «Col suo toro, — disse giustamente un critico illustre — Paolo Potter ha scritto il vero idillio dell’Olanda.»

Questo è il grande merito dei pittori d’animali dell’Olanda, e del Potter soprattutto. Egli non ha soltanto rappresentato gli animali; ma ha reso [p. 173 modifica]visibile e celebrato colla poesia dei colori l’amore attento, delicato, quasi materno, che nutre per essi il popolo agricolo dell’Olanda. S’è servito degli animali come d’interpreti per rivelare la poesia della vita rustica. Ha espresso con essi il silenzio e la pace dei campi, il piacere della solitudine, la dolcezza del riposo e la soddisfazione del lavoro tranquillo. Si direbbe ch’egli era riuscito a farsi capire da loro e a ottenere che s’atteggiassero espressamente per essere copiati. Ha saputo dar loro tutta la varietà e l’attrazione di personaggi. La tristezza, la quiete contenta che segue la soddisfazione dei bisogni, il sentimento della salute e della forza, l’amore e la riconoscenza per l’uomo, tutti i barlumi d’intelligenza e gli embrioni d’affetti, tutte le varietà di carattere, li ha afferrati e significati con fedeltà amorosa, ed è riuscito a trasfondere negli altri il sentimento che l’animava. Guardando i suoi quadri, ci si sente risvegliare a poco a poco non so che istinto primitivo di vita pastorale, un certo desiderio innocente di mungere, di tosare, di lavorare con quegli animali benefici, pazienti e belli, che rallegrano l’occhio ed il cuore. Paolo Potter, in quest’arte, s’è innalzato su tutti. Il Berghem è più fine, ma egli è più naturale; il Van de Velde ha più grazia, ma egli ha più energia; il Du Jardin è più amabile, ma egli è più profondo.

E pensare che l’architetto, che fu poi suo suocero, non voleva da principio accordargli la figliuola perchè non era che un pittore di bestie; e che il suo [p. 174 modifica]celebre toro fa fatto, se si sta alla tradizione, per servir d’insegna alla bottega d’un macellaio, e venduto per 1260 lire!

Un altro capolavoro del museo dell’Aja, è un quadretto di Gherardo Dov, l’autore della celebre Donna idropica, ch’è nel Museo del Louvre fra i quadri di Raffaello e del Murillo; uno dei più grandi pittori di scene intime della scuola olandese, e il più paziente tra i più pazienti artisti della sua patria. Il quadro non rappresenta che una donna seduta vicino a una finestra, con una culla accanto; ma in questa semplicissima scena, v’è una così cara e santa aura di pace domestica, un riposo così profondo, un’armonia così amorosa, che il più ostinato scapolo della terra non ci potrebbe fissar gli occhi senza sentirsi nel cuore un desiderio irresistibile di essere colui che manca ed è aspettato in quella stanzina quieta e pulita, o almeno di poterci entrare per un momento, anche di soppiatto, anche colla condizione di starci rannicchiato nel buio, pur di poter aspirare quel profumo di felicità innocente e segreta. Questo quadro, come tutti quei del Dov, è dipinto con la prodigiosa finitezza, che già in lui tocca quasi l’eccesso, che lo toccò poi con quello Slingelandt, che impiegò tre anni di lavoro continuo a dipingere la famiglia Meerman, e che degenerò posteriormente in quella maniera lisciata, leccata, tormentata, delle figure d’avorio, dei cieli di smalto e dei campi di velluto, della quale il pittore Van der Werff fu il più rinomato maestro. Fra gli [p. 175 modifica]altri oggetti si vede in questo quadro del Dov un manico di scopa, grande come l’asticciuola d’una penna, intorno al quale si dice che il pittore abbia lavorato assiduamente per lo spazio di tre giorni; il che non pare strano, quando si pensi che ci son segnati tutti i più minuti filamenti, le venature, i nodi, le macchiette, le ammaccature, le traccie delle dita. Di questa sua sovrumana pazienza si raccontano cose appena credibili. Si dice che abbia impiegato cinque giorni a copiare una mano d’una signora Spirings di cui fece il ritratto: chi sa quanto ci avrà messo a fare la testa! I malcapitati che volevano farsi ritratti da lui, li riduceva alla disperazione. Si racconta che macinasse egli medesimo i suoi colori, che facesse i suoi pennelli e tenesse ogni cosa ermeticamente chiuso, perchè non pigliasse ombra di polvere. Quando entrava nel suo studio apriva delicatamente la porta, si sedeva con gran flemma e rimaneva immobile fin che ogni menoma agitazione prodotta in lui dal movimento fosse cessata. Poi cominciava a dipingere, servendosi di vetri concavi per rimpicciolire gli oggetti. Questo sforzo continuo finì per indebolirgli la vista, e fu costretto a dipingere colla lente. Con tutto ciò, il suo colorito non è punto affaticato o raffreddato dal lavoro, e i suoi quadri conservano lo stesso vigore così visti da lontano che da vicino. Furono, con molta giustezza, rassomigliati a scene naturali rimpicciolite in una camera oscura. Il Dov fu uno dei molti discepoli del Rembrandt, che si divisero l’eredità del suo [p. 176 modifica]genio. Egli ne raccolse la finezza e l’arte d’imitare la luce, soprattutto delle candele e delle lucerne, nella quale, come vedremo nel Museo d’Amsterdam, s’elevò all’altezza del suo maestro. Raro fra i pittori del suo genere, non si piacque nella rappresentazione della bruttezza e dei soggetti triviali.

Il genere intimo è rappresentato nel Museo dell’Aja, oltrechè dal Dov, da Adriano van Ostade, dallo Steen, e dal Van Mieris il vecchio.

Il Van Ostade, chiamato il Rembrandt della pittura intima, poichè imitò dal grande maestro l’arte potentissima del chiaroscuro, delle sfumature delicate, della trasparenza delle ombre, della ricchezza del colorito, ci ha due quadretti che rappresentano l’interno e l’esterno d’una casa rustica, con figure; pieni tutti e due di poesia, malgrado la volgarità dei soggetti, ch’egli ha comune cogli altri pittori dello stesso genere. Ma ha questo di particolare: che le ragazze notevolmente brutte dei suoi quadri sono immagini prese nella sua famiglia, la quale, per quel che si dice, era un gruppo di mostriciattoli, che egli mise alla berlina dell’universo. Così quasi tutti i pittori olandesi scelsero fra le donne che dipinsero le meno belle che caddero sotto i loro occhi, come se si fossero dati l’intesa per screditare il tipo femminino della loro patria. Le Susanne del Rembrandt, per citare i soggetti che avrebbero richiesto più degli altri la bellezza, sono brutte serve olandesi; e non occorre parlare delle donne dello Steen, del Brouwer e d’altri. E sì nel loro paese non [p. 177 modifica]mancavano, come s’è visto, i modelli d’una bellezza nobile e graziosa.

Francesco van Mieris il vecchio, il primo discepolo di Gherardo Dow, come lui minuzioso e finissimo (che appartiene col Metsu e col Terburg, due pittori eminenti per finitezza e colorito, a quel gruppo di pittori del genere intimo, che scelsero i loro soggetti nelle classi elevate della società), ha tre bei quadri, uno dei quali rappresenta l’artista con sua moglie. Dello Steen v’è fra gli altri il suo soggetto favorito; un medico che tocca il polso a una ragazza malata d’amore, e una governante che assiste; ammirabile gioco di sguardi e di sorrisi inesprimibilmente arguti e bricconi, che voglion dire nel medico: — Mi par di capire; — nella malata: — Ci vuol altro che le tue ricette, — e nella governante: — Lo so io quel che ci vuole! — Altri quadri di genere intimo del Schalken, del Tilborg, del Netscher, di Guglielmo van Mieris, rappresentano cucine, botteghe, desinari, famiglie di pittori.

In fatto di paesaggi e di marine vi son le più belle gemme del Ruysdael, del Berghem, del Van de Velde, del Van der Neer, del Backhuizen, dell’Everdingen, oltre un buon numero di quadri di Filippo Wouwermann, il pittore dei cavalli e delle battaglie.

Vi son due quadri del Van Huysum, il grande pittore di fiori; quegli che, nato in un tempo in cui l’Olanda era presa da una sorta di follia amorosa per i fiori e possedeva i più belli d’Europa, [p. 178 modifica]celebrò col pennello questa follia, e ne destò un’altra coi suoi quadri. Nessuno ha reso più meravigliosamente di lui le sfumature infinite, la freschezza, la trasparenza, la vellutatura, le grazie, i pudori, le languidezze, i mille segreti di bellezza, tutte le sembianze della vita pomposa e delicata di questa perla della vegetazione, di questo vezzo amoroso della natura, che è il fiore. Gli Olandesi gli portavano le meraviglie dei loro giardini perchè le copiasse; tutti i re gli domandavan dei fiori; i suoi quadri eran pagati somme, per quei tempi, favolose. Geloso di sua moglie e della sua arte, lavorava solo, invisibile ai suoi stessi fratelli, perchè non scoprissero i segreti del suo colorito; e così visse e morì glorioso e malinconico in mezzo ai petali e ai profumi.

Ma il primo capolavoro del Museo è la celebre Lezione d'Anatomia del Rembrandt.

Questo quadro gli fu ispirato da un sentimento di riconoscenza per il medico Tulp, professore di anatomia ad Amsterdam, il quale lo protesse nella sua giovinezza. Il Rembrandt rappresentò il Tulp coi suoi discepoli aggruppati intorno a una tavola sulla quale è disteso un cadavere nudo con un braccio sparato dal coltello anatomico. Il professore col cappello in capo, ritto, mostra colle forbici i muscoli del cadavere ai suoi discepoli, e spiega. Dei discepoli alcuni sono seduti, altri ritti, altri chinati sul cadavere. La luce che vien da sinistra a destra, illumina i volti e una parte del corpo morto, [p. 179 modifica]lasciando nell’oscurità i vestimenti, la tavola e le pareti della stanza. Le figure son di grandezza naturale.

È difficile spiegare l’effetto che produce questo quadro. Il primo sentimento è l’orrore e il ribrezzo del cadavere. Ha la fronte nell’ombra, gli occhi aperti colla pupilla rivolta in su, la bocca socchiusa in un atteggiamento come di stupore, il petto enfiato, le gambe e i piedi stecchiti, le carni livide, che pare se ne debba sentire il freddo a metterci sopra la mano. Con questo corpo irrigidito, fanno un contrasto potente gli atteggiamenti vivaci, i volti giovanili, gli occhi umidi, intenti, pieni di pensiero dei discepoli, che rivelano in diverso grado l’avidità del sapere, la gioia dell’apprendere, la curiosità, la meraviglia, lo sforzo dell’intelligenza, la sospensione dell’animo. Il maestro ha il volto tranquillo, l’occhio sereno e il labbro quasi sorridente dell’intima compiacenza del sapere. V'è nel complesso del gruppo un’aria di mistero, di gravità, di solennità scientifica, che impone la riverenza e il silenzio. Il contrasto tra la luce e l’ombra è meraviglioso al pari di quello tra la morte e la vita. Tutto vi è rappresentato con una finitezza incredibile: si possono contare le piegoline delle gorgiere, le rughe dei visi, i peli delle barbe. Si dice che lo scorcio del cadavere è sbagliato e che in qualche punto la finitezza degenera in secchezza; ma il giudizio universale pone la Lezione d’Anatomia fra i più grandi capolavori del genio umano.

Il Rembrandt non aveva che ventisei anni quando [p. 180 modifica]fece questo quadro, il quale appartiene perciò alla sua prima maniera, nella quale non si vede ancora la foga, l’audacia, la sovrana sicurezza del proprio genio, che sfolgora nei lavori della sua età matura; ma v’è già tutta quell’immensa potenza illuminatrice, quell’arte meravigliosa del chiaroscuro, quella affascinante magía dei contrasti, che è il tratto più originale del suo genio.

Per quanto si sia profani all’arte, e s’abbia fatto il proponimento di non peccar più di soverchio entusiasmo, quando s’è dinanzi a Rembrandt van Rhijn, non si può a meno d’alzare un po’, come dicon gli Spagnuoli, la chiavica dello stile. Il Rembrandt esercita un prestigio particolare. Frate Angelico è un santo, Michelangelo è un gigante, Raffaello è un angelo, il Tiziano è un principe: il Rembrandt è uno spettro. Come chiamar diversamente questo figlio d’un mugnaio, nato in un mulino a vento, che salta su inaspettato, senza maestri, senza esempi, senza alcuna derivazione di scuola; diventa un pittore universale, abbraccia tutti gli aspetti della vita, dipinge figure, paesaggi, marine, animali, i santi del paradiso, i patriarchi, gli eroi, i monaci, la ricchezza e la miseria, la deformità e la decrepitezza, il ghetto, la taverna, l’ospedale, la morte; fa insomma una rivista del cielo e della terra e avvolge ogni cosa in una luce arcana che sembra scaturita dal suo capo; ed è nello stesso tempo grandioso e minuzioso, idealista e realista, pittore e incisore; che trasfigura tutto e non dissimula nulla, che cangia gli uomini [p. 181 modifica]in fantasmi, le scene più volgari della vita in apparizioni misteriose, questo mondo, sto per dire, in un altro mondo, che non par più questo e lo è ancora? Dove ha attinto quella sua luce indefinibile, quei bagliori di raggi elettrici, quei riflessi d’astri ignoti, che fanno pensare come un enigma? Che cosa vedeva nelle tenebre questo sognatore, questo visionario? Qual era l’arcano che gli tormentava l’ingegno? Che cosa ha voluto dire coll’eterno conflitto dei suoi raggi e delle sue ombre questo pittore dell’aria? Fu detto che le opposizioni del chiaro e dell’oscuro corrispondevano in lui ai diversi movimenti del pensiero. E veramente pare che quello che seguiva allo Schiller, di sentirsi dentro, prima di cominciare un’opera, un’armonia di suoni indistinti, ch’era come un preludio dell’ispirazione; seguisse al Rembrandt, il quale nell’atto di concepire un quadro, aveva una visione di raggi e d’ombre, che volevano dire qualche cosa prima che li animasse coi suoi personaggi. Nei suoi quadri infatti c’è una vita, un’azione, direi quasi, drammatica, estranea a quella delle figure umane. Fasci di luce vivissima irrompono in un ambiente tenebroso come grida di gioia; le tenebre fuggono impaurite, lasciando qua e là penombre piene di malinconia, riflessi tremoli che paion lamenti, oscurità profonde, piene di minaccie funeree; guizzi di luce, scintillamenti, ombre ambigue, trasparenze che sembran dubbi, domande, sospiri, parole d’un linguaggio soprannaturale, che si sente, come la musica, e non si comprende, e [p. 182 modifica]riman nella memoria come il ricordo d’un sogno. E in quest’atmosfera pose i suoi personaggi, dei quali alcuni rimasero vestiti della luce sfolgorante d’un’apoteosi teatrale, altri velati come larve, altri saettati da un sol raggio di luce nel viso; vestiti di abiti pomposi o miseri, ma tutti con qualcosa di strano e di fantastico; senza contorni precisi, ma carichi di colori possenti, con rilievi scultorii e tocchi di pennellate temerarie; e per tutto l’espressione calda, la furia dell’ispirazione violenta, l’impronta superba, capricciosa, profonda del genio senza freno e senza paura.

Del resto, ognuno vuol dir la sua; ma chi sa che il Rembrandt se potesse leggere tutte le pagine che si sono scritte per spiegare le segrete intenzioni della sua pittura, non darebbe in uno scoppio di risa! Tale è la sorte degli uomini di genio: ognuno, per mostrare che li ha capiti meglio degli altri, se li rimpasta a modo suo; sono come un bel tema dato da Dio, che gli uomini svolgono in mille modi diversi; un telaio su cui l’immaginazione umana dipinge e ricama secondo le torna o le frulla.

Uscii dal Museo dell’Aja con un desiderio insoddisfatto, per non averci trovato nessun quadro di Girolamo Bosch, nato a Bois-le-duc, nel decimoquinto secolo. Questo cervellaccio pieno di diavolerie, questo spauracchio di bigotti, questo stregone dell’arte, m’aveva fatto accapponar la pelle per la prima volta nel Museo di Madrid, con un quadro che rappresenta un orribile esercito di scheletri vivi [p. 183 modifica]sparpagliati sur un immenso spazio, in lotta con una folla varia, confusa, disperata di uomini e di donne, che essi vogliono trascinare in una voragine dove li aspetta la morte. Solamente dall’immaginazione inferma d’un uomo agitato dal terrore della dannazione, poteva uscire una così mostruosa stravaganza; dinanzi alla quale, per quanto sia lontano il tempo in cui s’aveva paura dei fantasmi, si risente un confuso risvegliarsi di quella paura. Tali furono i soggetti di tutti i suoi quadri: torture di dannati, spettri, abissi di fuoco, draghi, uccelli soprannaturali, mostri schifosi, cucine diaboliche, paesaggi sinistri. Uno di questi spaventosi quadri si trovò nella cella dove morì Filippo II; altri si sparsero in Spagna e in Italia. Chi era questo pittore chimerico? Come visse? Che strana manìa lo tormentava? Non si sa; passò sulla terra avvolto in una nuvola, e disparve come una visione d’inferno.

Al pian terreno del palazzo del Museo v’è un «Gabinetto Reale di curiosità» che contiene, oltre un gran numero di oggetti vari della China, del Giappone e delle Colonie olandesi, alcune reliquie storiche preziosissime. Fra le altre, v’è la spada di quel Ruyter, che cominciò la sua vita facendo il cordaio a Flessinguen, e fu poi il più grande ammiraglio dell’Olanda; la corazza, traforata dalle palle, dell’ammiraglio Tromp; una seggiola della prigione del venerando Barnevelt; una scatola contenente dei capelli di quel Van Spoyk, che nel 1831, sulla Schelda, [p. 184 modifica]fece saltare in aria il suo vascello per salvare l’onore della bandiera olandese. V'è pure il vestiario completo che portava Guglielmo il Taciturno quando fu assassinato a Delft: la sua camicia macchiata di sangue, la sua giubba di pelle di bufalo forata dalle palle, i suoi larghi calzoni, il suo gran cappello di feltro; e nella stessa vetrina le palle, le pistole dell’assassino, e il testo originale della sua sentenza di morte.

Quel vestiario modesto, quasi rozzo, che portava nel colmo della sua potenza e della sua gloria il capo della repubblica dei Paesi Bassi, è una bella testimonianza della semplicità patriarcale dei costumi olandesi. Non v’è forse altro popolo moderno che abbia avuto, in un grado uguale di prosperità, meno vanità e meno fasto. Si racconta che quando il conte di Leicester, mandato dalla regina Elisabetta, giunse in Olanda, e quando vi fu lo Spinola per trattare della pace in nome del re di Spagna, la loro magnificenza fece quasi scandalo. Si dice che gli ambasciatori spagnuoli, andati all’Aja nel 1608 per stipulare la famosa tregua, videro dei deputati degli Stati d’Olanda, meschinamente vestiti, sedersi in un prato, e far colezione con un po’ di pane e di cacio che avevano portato in una bisaccia. Il gran pensionario Giovanni De Witt, l’avversario di Luigi XIY, aveva un solo servitore. L’ammiraglio Ruyter viveva ad Amsterdam in una casa da pover uomo e scopava la sua camera da letto.

Un altro oggetto curiosissimo di questo Museo è [p. 185 modifica]una cassa aperta sul davanti, come una scansía, che rappresenta in tutti i suoi più minuti particolari l’interno d’una ricca casa di Amsterdam del principio del secolo XVIII. Lo czar Pietro il Grande, durante il suo soggiorno in Amsterdam, aveva dato a un ricco borghese di quella città l’incarico di fargli quel giocattolo di casa, per portarla in Russia come un ricordo dell’Olanda. Il ricco borghese, che si chiamava Brandt, fece la cosa da bravo olandese: adagio e bene. I più abili ebanisti dell’Olanda costrussero i mobili, gli orefici più esperti fecero le argenterie, i tipografi più accurati stamparono libriccini, i miniatori più delicati dipinsero i quadri, la biancheria fu preparata in Fiandra, le tappezzerie a Utrecht. Dopo venticinque anni di lavoro tutte le stanze si trovarono allestite. La camera nuziale aveva tutto il necessario per il prossimo parto della padroncina; nella sala da pranzo c’era un microscopico servizio da thè sur un tavolino largo come uno scudo; la galleria dei quadri, a guardarci bene colla lente, era completa; in cucina ci era di che fare un lucullesco desinare per una compagnia di lilliputti; c’era la biblioteca, un gabinetto di varietà chinesi, gabbie d’uccelli, libriccini di preghiera, tappeti, biancheria per tutta la famiglia con trine e ricami finissimi; non mancava che una coppia coniugale, una cameriera e una cuoca un po’ più piccini d’una marionetta ordinaria. Ma c’era un guaio: la casetta costava centoventimila lire; lo czar che, come tutti sanno, era un uomo economo, la rifiutò [p. 186 modifica]e il Brandt, piccato, per svergognare l’imperiale avarizia, la regalò al Museo dell’Aja.

Fin dal primo giorno avevo incontrato per le strade dell’Aja certe donne vestite in una maniera così strana, che m’ero messo a pedinarne una per osservare attentamente tutti i particolari del suo costume. A primo aspetto immaginai che appartenessero a qualche ordine religioso, o che fossero eremite, o pellegrine, donne di qualche popolo nomade di passaggio per l’Olanda. Portano uno spropositato cappello di paglia foderato d’indiana a fiori, una mantellina da frate di rascia color cioccolatte, foderata di una stoffa rossa; una sottana pure di rascia, corta, gonfia che par che abbiano la crinolina; le calze nere e gli zoccoli bianchi. La mattina si vedono andare al mercato con una cesta piena di pesci sulla testa, con un carretto, tirato da due grossi cani. Sono per lo più scompagnate, o a due a due, senz’uomini. Camminano in una maniera particolare, a passi lunghi, con un certo accasciamento, come chi è abituato a camminare sulla sabbia; e hanno nel viso e nel contegno qualcosa di triste, che concorda coll'austerità cenobitica del loro vestire.

Un olandese a cui domandai chi fossero, mi disse per tutta risposta: “Vada a Scheveningen.”

Scheveningen è un villaggio, distante due miglia dall’Aja, e ci si va per una strada diritta, fiancheggiata in tutta la sua lunghezza da parecchie file di bellissimi olmi, che non vi lasciano penetrare un [p. 187 modifica]raggio di sole. Di là dagli olmi, dalle due parti della strada, ci son palazzine, padiglioni, villette coi tetti frangiati, come chioschi di giardino, e facciate di mille forme capricciose colle solite iscrizioni che invitano al riposo e al piacere. Quella strada, che è il passeggio favorito del popolo dell’Aja la sera della domenica, gli altri giorni è quasi sempre solitaria. Non vi s’incontra che qualche donna di Scheveningen, qualche carrozza, e le diligenze che vanno e vengono tra la città e il villaggio. Andando innanzi, par che si debba riuscire in faccia a un palazzo reale, in mezzo a un gran giardino o a un gran parco. Quella folta vegetazione, quell’ombra, il silenzio, ricordano il bosco dell’Alhambra di Granata. Non si pensa più a Scheveningen e si dimentica che s’è in Olanda.

Arrivati in fondo, è un istantaneo cambiamento di scena che fa rimaner trasognati: la vegetazione, l’ombra, le immagini di Granata, tutto è sparito: si è in mezzo alle dune, nella sabbia, nel deserto; si sente soffiar nel viso un vento salino, e si ode un gran rumore sordo e diffuso; si sale sopra un’altura, e si vede il Mare del Nord.

Per chi non ha mai veduto che il Mediterraneo, lo spettacolo di quel mare e di quella spiaggia, desta un sentimento nuovo e profondo. La spiaggia è tutta sabbia chiara e finissima come cenere, sulla quale scorre avanti e indietro, come un tappeto continuamente spiegato e ripiegato, l’ultimo lembo delle onde del mare. Questa spiaggia sabbiosa si stende fino ai [p. 188 modifica]piedi delle prime dune, che son monticciuoli di sabbia, ripidi, rotti, corrosi, deformati dall’eterno flagello delle onde. Tale è tutta la costa olandese dalle foci della Mosa ad Helder. Non vi son molluschi, nè stelle di mare, nè conchiglie viventi, nè granchi, nè un cespuglio, nè un filo d'erba. Non si vede che acqua e sabbia, sterilità e solitudine.

Il mare non è meno tristo della costa, e risponde veramente all’immagine che ci formiamo del Mare del Nord, leggendo dei superstiziosi terrori degli antichi che se lo raffiguravano agitato da venti eterni, e popolato da mostri giganteschi. Vicino alla sponda è giallastro, più in là d’un verde pallido, e più lontano d’un azzurro smorto. L’orizzonte è per lo più velato dalla nebbia, che spesso discende fin sulla spiaggia, e nasconde tutto il mare, come un’immensa cortina, lasciando veder soltanto le onde che vengono a morire sulla sabbia, e qualche larva di barcone da pescatore poco lontano. Il cielo è quasi sempre grigio, percorso da grandi nuvole che gettano sulle acque ombre dense e mobilissime; in alcuni punti nero d’un’oscurità quasi notturna, che fa balenare alla mente immagini di tempeste e di naufragi orrendi; in altri punti rischiarato da sprazzi, da righe serpeggianti di luce vivissima, che sembrano fulmini immobili, o albori di qualche astro misterioso. L’onda, sempre agitata, corre a mordere la riva con un impeto furioso, e manda un rumore prolungato che pare un grido di minaccia e di dolore d’una folla infinita. Il mare, il cielo e la terra si [p. 189 modifica]guardano con aspetto sinistro, come tre nemici implacabili, e sembra, a contemplare quello spettacolo, che sia imminente qualche grande sconvolgimento della natura.

Il villaggio di Scheveningen è posto sulle dune, che lo difendono dal mare, e lo nascondono in modo che, a guardar dalla spiaggia, non si vede che il campanile a pan di zucchero della chiesa, ritto come un obelisco in mezzo alle sabbie. Il villaggio è diviso in due parti. L’una è composta di casette eleganti, di tutte le forme e di tutti i colori olandesi, fatte ad uso degli stranieri, con l’appigionasi scritto in diverse lingue; l’altra parte, nella quale abita la popolazione indigena, è tutta casupole nere, stradette, recessi dove gli stranieri non mettono mai piede.

La popolazione di Scheveningen, che conta poche migliaia di anime, è quasi tutta composta di pescatori, la maggior parte poverissimi. Il villaggio è ancora una delle stazioni principali della pesca dell’aringa, di quel pesce celeberrimo cui l’Olanda deve la sua ricchezza e la sua potenza; ma i frutti di quest’industria vanno agli armatori dei bastimenti da pesca, e gli uomini di Scheveningen, arrolati come marinai, guadagnano appena di che vivere. Sulla spiaggia, davanti al villaggio, si vedon sempre parecchi di quei battelli larghi, robusti, con un albero solo, e una grande vela quadrata, schierati l’uno accanto all’altro sulla sabbia, come le galere dei greci sulla riva di Troia, per essere al sicuro dai colpi di vento. La flottiglia per la pesca [p. 190 modifica]dell’aringa parte i primi mesi di giugno, accompagnata da una corvetta a vapore, e si dirige verso la costa della Scozia. Le prime aringhe pescate, sono subito mandate in Olanda, e portate in un carro imbandierato al Re, che contraccambia il regalo con cinquecento fiorini. Quei battelli fanno pure la pesca d’altri pesci, che sono in parte venduti all’incanto sulla riva del mare, e in parte lasciati ai pescatori di Scheveningen che li mandano per mezzo delle loro donne al mercato dell’Aja.

Scheveningen, come tutti gli altri villaggi della costa, Katwijk, Wlardingen, Maassluis, è un villaggio decaduto dall’antico stato di floridezza in conseguenza del decadimento della pesca dell’aringa, cagionato, come tutti sanno, dalla concorrenza dell’Inghilterra e dalle guerre disastrose. Ma la miseria, invece d’infiacchire, rinvigorì il carattere di quel piccolo popolo, che è fuor di dubbio il più originale e il più poetico dell’Olanda. Gli abitanti di Scheveningen formano per aspetto, per indole e per costumi quasi una famiglia straniera al proprio paese. Sono a due miglia da una grande città e conservano l’impronta d’un popolo primitivo, che sia sempre vissuto nella solitudine. Quali erano secoli addietro, tali sono oggi. Nessuno abbandona il proprio villaggio, nessuno che non ci sia nato, ci penetra; non si maritano che fra loro; parlano un linguaggio particolare; son tutti vestiti nello stesso modo e degli stessi colori, com’erano i padri dei loro padri. Al tempo della pesca, non rimangono nel villaggio che [p. 191 modifica]le donne e i bimbi: gli uomini vanno tutti al mare. Partendo, portano con sè la Bibbia. A bordo non s’ubriacano, non bestemmiano, non ridono. Quando il mare in tempesta solleva e precipita da spaventose altezze il loro piccolo battello, chiudono tutte le aperture, e aspettano la morte con rassegnazione. In quel momento le loro donne, chiuse nelle casette flagellate dalla pioggia e dal vento, cantano i salmi. Quei piccoli abituri, che furono testimoni di tante ansietà mortali, che sentirono i singhiozzi di tante vedove, che videro la santa gioia dei ritorni e gli addii sconsolati di tanti sposi, rappresentano colla loro pulizia, colle loro tendine bianche, colle vesti e colle camicie marinaresche appese alle finestre, la povertà libera e dignitosa dei loro abitanti. Da quelle case non escono nè vagabondi, nè donne corrotte; nessun abitante di Scheveningen ha mai disertato il mare, e nessuna fanciulla ha mai sdegnato la mano d’un pescatore. Uomini e donne hanno nel portamento del capo e nell’espressione dello sguardo, un non so che di grave e di sdegnoso che impone rispetto. Salutano senza chinar la fronte, guardando la gente negli occhi, come per dire: — Non abbiamo bisogno di nessuno. —

Anche in questo piccolo villaggio vi son due scuole, e non si può dire il sentimento che si prova vedendo a una cert’ora sparpagliarsi per quelle misere stradicciuole uno sciame di bambini biondi con una lavagna sotto il braccio e il gessetto in mano.

[p. 192 modifica]Scheveningen non è solamente un villaggio famoso per l’originalità dei suoi abitanti, che tutti gli stranieri visitano, e tutti i pittori dipingono. Vi sono due grandi case di bagni, dove convengono in estate Inglesi, Russi, Tedeschi, Danesi; il fiore dell’aristocrazia settentrionale; principi e ministri; mezzo l’almanacco di Gotha; e là balli, illuminazioni fantastiche e fuochi d’artificio sul mare. Le due case son poste sulle dune. A tutte le ore del giorno, certe carrozze della forma di baracche ambulanti di ciarlatani, tirate da un cavallo robusto, s’avanzano dalla spiaggia nel mare, fanno un giro sopra sè stesse, e n’escono signore che si tuffano nelle onde, lasciando errare le capigliature d’oro in preda al vento marino. La notte, echeggiano le musiche, i bagnanti escono, e la spiaggia si popola di una folla festiva, varia, elegante, in mezzo alla quale si odono accenti di tutte le lingue e si vedono bellezze di tutti i paesi. A pochi passi da quella festa, lo straniero malinconico trova la solitudine oscura delle dune, dove la musica gli giunge appena all’orecchio, come un’eco lontana, e le case dei pescatori gli mostrano i loro lumicini che fan pensare alla famiglia e alla pace.

La prima volta che andai a Scheveningen, feci una passeggiata per quelle dune, tanto illustrate dai pittori, le sole alture che intercettino lo sguardo sull'immensa pianura olandese, figlie ribelli del mare a cui contrastano il passo, e nello stesso tempo prigioniere e guardiane dell’Olanda. Vi sono tre ordini [p. 193 modifica]di dune che formano un triplice baluardo contro il mare; le esterne sono le più aride, quelle di mezzo le più alte, e quelle interne le più coltivate. L’altezza media di queste montagnole di sabbia non è maggiore di una quindicina di metri; e tutte insieme non s’addentrano nelle terre per più di una lega francese. Ma non essendoci nè vicino nè lontano alcun’altura maggiore, esse offrono all’occhio ingannato l’aspetto d’una vasta regione montagnosa. Vi si vedono le vallate, le gole, i precipizi; prospetti che sembrano lontanissimi, e sono a un trar di mano; cime di dune vicine, sulle quali sembra che un uomo dovrebbe apparire appena come un bambino, e pare invece un gigante. A guardar quella regione dall’alto, presenta l’immagine d’un mar giallo, tempestoso ed immobile. La tristezza di questo deserto è ancora accresciuta da una vegetazione selvaggia, che par come la gramaglia di quella natura morta e abbandonata: erbe esili e rade, fiori coi petali quasi diafani, ginestre, eriche, rosmarini, gallinelle, fra cui si vede tratto tratto fuggire qualche coniglio. Per grandissimi spazi non si scorge una casa, nè un albero, nè un’anima viva. Passano di tempo in tempo corvi, chiurli, gabbiani; e i loro gridi, e lo stormire degli arbusti agitati dal vento, sono il solo rumore che rompa il silenzio di quella solitudine. Quando il cielo è nero, il colore smorto della terra acquista una chiarezza sinistra, simile a quelle luci fantastiche in cui appariscono gli oggetti guardati a traverso un vetro [p. 194 modifica]colorato. Allora, stando soli in mezzo alle dune, si prova un senso quasi di sgomento come chi si trovasse in un paese ignoto, sterminatamente lontano da ogni terra abitata; e si cerca con ansietà sull’orizzonte nebbioso qualche ombra di campanile che riconforti il cuore.

In tutta la mia passeggiata non incontrai che qualche contadino. Cosa notevole in un paese settentrionale, i contadini olandesi salutano quasi sempre la gente che incontrano per via. Alcuni si tolgono la berretta con un gesto curioso, di sbieco, che par fatto per celia. Per il solito dicono buon giorno buona sera senza guardare in viso coloro che salutano. Se incontrano due persone dicono: “Buona sera a tutti e due” o se son più di due: “Buona sera a tutti insieme.” In un sentiero, in mezzo alle prime dune, vidi parecchi di quei poveri pescatori che passan quasi tutta la giornata nell’acqua fino alla cintola, a raccoglier conchiglie, che servon a fare un cemento particolare, o si spargono pei sentieri dei giardini in luogo di sabbia. L’operazione che debbon fare per togliersi gli enormi stivali di cuoio con cui vanno nel mare, richiede a dir poco una mezz’ora di fatica noiosissima, la quale fornirebbe a un marinaio italiano il pretesto per tirar giù tutti i Santi. Essi invece fanno quel lavoro con una flemma da metter sonno, senza lasciarsi sfuggire il menomo atto d’impazienza, e non alzando la testa, prima d’aver finito, neanche se sentissero una cannonata.

[p. 195 modifica]Stando su quelle dune, vicino a un obelisco di pietra che rammenta il ritorno di Guglielmo d’Orange dall’Inghilterra dopo la caduta del dominio francese, vidi per la prima volta uno di quei tramonti di sole che destano in noi Italiani un sentimento di meraviglia diversa, ma non meno viva, di quella che i tramonti di Napoli e di Roma destano negli stranieri del nord. Il sole, per l’effetto rifrangente dei vapori di cui è sempre piena l’aria in Olanda, appariva d’una grandezza meravigliosa e diffondeva tra le nuvole e sul mare uno splendore velato e tremulo come il riflesso d’un immenso incendio. Pareva un altro sole, apparso inaspettatamente sull’orizzonte, che dovesse tramontare per non mostrarsi mai più a questa terra. Un fanciullo avrebbe creduto vero quello che disse un poeta: — In Olanda il sole muore; — e l’uomo più freddo si sarebbe lasciato fuggir dalle labbra un addio.


Poichè ho parlato d’una passeggiata a Scheveningen, ricorderò altre due belle escursioni che feci dall’Aja l’inverno passato.

La prima fu al villaggio di Naaldwijk, e da questo villaggio alla riva del mare, dove si sta aprendo il nuovo canale di Rotterdam. A Naaldwijk, grazie alla cortesia d’un ispettore scolastico ch’io accompagnava, soddisfeci il mio vivissimo desiderio di vedere una scuola elementare; e dico fin d’ora che la mia favorevole aspettazione fu di gran lunga superata. La casa, fabbricata apposta ad uso di scuola, è [p. 196 modifica]isolata, e non ha che il piano terreno. Entrammo prima in un piccolo vestibolo, dov’era un monte di zoccoli, che l’ispettore mi disse appartenere agli scolari, i quali sogliono deporli entrando nella scuola e riprenderli uscendo. Nella scuola, i ragazzi stanno colle calze sole, e non patiscon punto freddo, perchè hanno calze spessissime; ma soprattutto perchè le stanze sono riscaldate come gabinetti di ministri. Entrammo, gli scolari s’alzarono e il maestro venne incontro all’ispettore. Anche quel povero maestro di villaggio parlava francese, e così si potè fare un po’ di conversazione. V'era nella sala una quarantina di scolari, metà maschi e metà femmine, queste da una parte, quelli dall’altra; tutti biondi, grassotti, faccioni pieni di bonomia, con una cert’aria precoce di babbi e di mamme, che avrebbe fatto sorridere un impiegato del Censimento. L’edifizio è diviso in cinque sale, separate l’una dall’altra da una grande vetrata che chiude tutto il vano come una parete; in modo che, quando manca il maestro in una classe, quello della classe vicina può sorvegliare gli scolari del suo collega, senza moversi dal proprio posto. Tutte le sale sono spaziose e hanno finestroni alti dal pavimento fin quasi al soffitto, così che c’è chiaro come nel mezzo della strada. I banchi, le pareti, il pavimento, i vetri, le stufe, ogni cosa era nitida come in una sala da ballo. Ricordandomi di certe sentine pestifere delle scuole ch’io frequentai da ragazzo, volli vedere i luoghi segreti, e li trovai quali si trovano in pochi dei primi alberghi. Vidi poi [p. 197 modifica]nelle pareti molti di quelli oggetti che mi ricordo d’aver tanto desiderato quando sedevo su quei banchi: come quadretti con paesaggi e figure, ai quali il maestro riferisce racconti e insegnamenti, perchè si stampino meglio nella memoria; immagini d’oggetti e d’animali; carte geografiche fatte appositamente con grandi nomi e colori vivi; sentenze, regole grammaticali, precetti stampati in caratteri di scatola. Una sola cosa mi parve che lasciasse a desiderare: la pulizia delle persone.

Non voglio qui ripetere quello che molti scrissero, ed anche qualche olandese afferma, che in Olanda si trascuri generalmente la pulizia della pelle, che le donne non faccian bagni e che le gambe delle tavole sian più nette che le gambe dei cittadini. Ma è certo che la pulizia delle cose vi si cura infinitamente più della pulizia delle persone, e che la mediocrità di questa piglia risalto dall’eccellenza di quella. In una scuola italiana, forse quei ragazzi mi sarebbero parsi puliti; ma confrontandoli colla nitidezza meravigliosa degli oggetti che li circondavano, e pensando ch’eran figliuoli di quelle stesse donne che impiegan mezza la giornata a lavar usci ed imposte, mi parvero, ed erano infatti un po’ sudici. In certe scuole della Svizzera ci sono dei lavatoi, dove i ragazzi sono obbligati a lavarsi entrando ed uscendo. Mi sarebbe piaciuto, perchè non mi rimanesse nulla a desiderare, veder quei lavatoi anche nelle scuole d’Olanda.

Ho detto « quel povero maestro» per modo di [p. 198 modifica]dire, perchè seppi poi che ha uno stipendio di più di duemila e duecento lire e un quartierino in una bella casa del villaggio. In Olanda i maestri delle scuole elementari, i capi, poichè vi son pure gli aiutanti, non han nessuno uno stipendio minore di ottocento lire, che è il minimum, stabilito dalla legge, che possan dare i Comuni. Nessun Comune però si attiene a questa somma, e vi son maestri, che hanno lo stipendio d’uno dei nostri professori d’università. È vero che in Olanda la vita è assai più cara che in Italia; ma è anche vero che quegli stipendi, che a noi paiono pingui, là si riconoscono scarsi, e si tratta d’accrescerli. E bisognerebbe anco mettere in bilancia che i maestri olandesi, stante la diversità del carattere nazionale, hanno da fare assai minor spesa di polmoni, di pazienza e di buon umore che i maestri italiani; il che non è da disprezzarsi, se è vero che la salute conta per qualche cosa.

Da Naaldvijk ci dirigemmo verso il mare. Strada facendo, il mio cortese compagno mi spiegò chiaramente a che punto è in Olanda la quistione dell’insegnamento. Nei paesi latini la gente interrogata da uno straniero, gli risponde collo scopo di far veder che sa e che parla bene; in Olanda, badano piuttosto a farvi capir la cosa; e se non la capite alla prima, ricomincian da capo e ve la pestan nella testa fin che ci sia entrata intera e netta come ce l’hanno loro.

La quistione dell’insegnamento, in Olanda, è, [p. 199 modifica]come quasi tutte le altre, una quistione religiosa, la quale, alla sua volta, è la più grave, anzi l’unica grande quistione che agiti il paese.

Dei tre milioni e mezzo d’abitanti che conta l’Olanda, un terzo, com’è noto, son cattolici; centomila, circa, israeliti; gli altri protestanti. I cattolici, che abitano in grandissima parte le provincie meridionali, Limburgo e Brabante, non sono, come in altri paesi, divisi politicamente; ma costituiscono una sola legione clericale, papista, ultramontana, — la più fedele legione di Roma, come dicono gli stessi Olandesi; — in mezzo alla quale si vende la paglia su cui dorme il Pontefice, e si fulmina l’Italia dal pergamo e coi giornali. Questo partito cattolico, che non avrebbe gran forza per sè stesso, ne acquista moltissima dall’essere i protestanti divisi in un gran numero di sètte religiose: calvinisti ortodossi; protestanti che credono nella rivelazione, ma rigettano certi dogmi della Chiesa; altri che negano la divinità di Cristo, senza però separarsi dalla chiesa protestante; altri credenti in Dio, ma separati da ogni Chiesa; altri, e fra questi molti uomini di alto ingegno, che fanno professione aperta di ateismo. In questo stato di cose, il partito cattolico ha naturali alleati i Calvinisti, i quali, come credenti fervidissimi, e conservatori inflessibili della religione dei loro padri, sono assai meno profondamente divisi dai cattolici che da una buona parte dei loro correligionari, e formano, in certo modo, il partito clericale del protestantesimo. Ora [p. 200 modifica]negli Stati Generali vi sono da un lato cattolici e calvinisti, dall’altro un partito liberale, e fra questi e quelli una schiera ondeggiante che non consente una superiorità assoluta ad alcuna delle due parti. Il campo principale di battaglia fra i partiti estremi è la quistione dell’insegnamento primario, e questa si riduce, da parte dei cattolici e dei calvinisti, nel volere che alle attuali scuole, così dette miste, nelle quali non è dato alcun particolare insegnamento religioso perchè vi possano concorrere insieme cattolici e protestanti d’ogni dottrina; nel volere, dico, che a queste scuole, siano sostituite altre, mantenute pure dai Comuni sotto la direzione dello Stato, nelle quali si dia un insegnamento dogmatico. È facile comprendere la gravità delle conseguenze che porterebbe una tale scissura nell’educazione popolare, i germi di discordie e d’ire religiose, il perturbamento che nascerebbe, col tempo, dallo stringere la gioventù in gruppi di diversa fede. Sinora il principio della scuola mista prevalse, ma le vittorie dei liberali furono difficili; i cattolici e i calvinisti strapparono successivamente delle concessioni, e si preparano a strapparne delle nuove; il partito cattolico, in una parola, più potente ancora che il partito calvinista, uno, saldo, risoluto, acquista di giorno in giorno terreno; e non è inverosimile che riesca a conseguire una vittoria, benchè passeggiera, la quale provochi nel paese una reazione violenta. A tale son dunque le cose in quell’Olanda che lottò ottant’anni contro il dispotismo cattolico, [p. 201 modifica]e che ora ha gravi ragioni di temere in un tempo forse non lontano una guerra religiosa!

Malgrado questo stato di cose, che impedì finora l’istituzione, sollecitata dai liberali, dell’istruzione obbligatoria, e che allontana dalle scuole un gran numero di ragazzi cattolici, l’istruzione popolare, in Olanda, si trova in condizioni che qualunque stato europeo può invidiare. Proporzione fatta, vi son meno analfabeti che in Prussia. Di tutta Europa, come disse con giusto orgoglio uno scrittore olandese in altri giudizi severo verso la sua patria, è il paese dove le cognizioni indispensabili ad un uomo civile sono più universalmente diffuse. Mi fece una gran specie, una volta che domandai a un Olandese se nella classe delle donne di servizio ce n’era qualcuna che non sapesse leggere, sentirmi rispondere: — Eh sì; mi ricordo che vent’anni fa mia madre n’aveva una analfabeta; e se ne parlava come di una cosa strana. — Ed è un gran piacere per uno straniero che non sappia la lingua, in una città di Olanda, far leggere un nome sulla Guida al primo monello che gli capita tra i piedi, ed esser sicuro che intende e che s’ingegna d’insegnar la strada coi gesti.

Discorrendo di cattolici e di calvinisti arrivammo alle dune, e benchè fossimo a un trarre di mano dalla spiaggia, non vedevamo ancora il mare. “Strano paese l’Olanda,” dissi al mio amico; “in cui tutte le cose giuocano a rimpiattino! Le facciate nascondono i tetti, gli alberi nascondono le case, le città [p. 202 modifica]nascondono i bastimenti, gli argini nascondono i canali, la nebbia nasconde i campi, le dune nascondono il mare.” — “E un giorno o l’altro,” mi rispose l’amico, “il mare nasconderà tutto, e sarà finito il giuoco.”

Passammo le dune e ci avanzammo nella spiaggia dove si fanno i lavori preparatorii per aprire il canale di Rotterdam.


Due dighe, una lunga più di mille duecento metri, l’altra più di duemila, e distanti un chilometro tra loro, si avanzano nel mare, in direzione perpendicolare alla spiaggia. Queste due dighe, costruite per proteggere l’entrata dei bastimenti nel canale, sono formate da parecchi ordini di palafitte enormi, di blocchi smisurati di granito, di fascine, di sassi, di terra, e hanno la larghezza di dieci uomini schierati di fronte. Il mare, che le flagella di continuo, e le copre in gran parte durante l’alta marea, ha vestito interamente pietre, travi e fascine d’uno strato fittissimo di conchiglie nere come l’ebano, che da lontano paiono un immenso tappeto di velluto, e danno a quei due giganteschi baluardi un aspetto severo e magnifico, come d’un paramento guerresco spiegato dall’Olanda per celebrare la sua vittoria sull’oceano. In quel momento, montava la marea, e ferveva la battaglia intorno all’estremità lontana delle dighe. Non si può dire la rabbia con cui le onde livide si vendicavano dello scherno di quelle due smisurate corna di granito che l’Olanda [p. 203 modifica]appunta nel seno del suo superbo nemico. Le palafitte e i massi erano sferzati, morsi, schiaffeggiati da ogni parte, sorvolati da ondate sdegnose, sputacchiati da una pioggia vaporosa che li nascondeva come un nuvolo di polvere; ravvolti da ringorghi contorti come serpenti furiosi; percossi, anche i lontani dalla lotta, da spruzzi inaspettati e lunghissimi, come avanguardie impazienti di quell’esercito infinito; e intanto l’acqua saliva e si avanzava costringendo gli operai più lontani a indietreggiare a mano a mano.

Sulla diga più lunga, non molto lontano dalla spiaggia, si stava piantando delle palafitte. Alcuni operai sollevavano a gran fatica, per mezzo d’un apparecchio a carrucole, dei blocchi di granito; e altri, a dieci, a quindici insieme, rimovevano vecchie travi per far posto alle nuove. Era bello a vedersi il contrasto tra la furia delle onde che flagellavano i fianchi della diga, e la calma impassibile di quegli uomini che pareva quasi un’espressione di disprezzo per il mare. Mi passò per la mente che dicessero in cuor loro, come il marinaio dell’orca dei Comprachicos nel romanzo di Vittor Hugo: “Muggi, vecchio!” Un vento, che agghiacciava le carni, faceva ondeggiare sul viso di quei bravi olandesi i loro lunghi riccioli biondi, e gettava tratto tratto ai loro piedi e sui loro vestiti degli spruzzi di schiuma: sciocche provocazioni, alle quali non rispondevano neanche collo sguardo.

Vidi piantare nel mezzo della diga una palafitta, [p. 204 modifica]un grossissimo tronco d’albero acuminato all’una delle estremità, e rizzato in mezzo a due travi parallele, fra le quali una macchina a vapore faceva scorrere un enorme martello di ferro. La palafitta doveva farsi strada a traverso parecchi strati fortissimi di fascine e di sassi; eppure, ad ogni colpo di quel formidabile martello si profondava spezzando, lacerando, stritolando, per più d’un palmo dentro la diga, come sarebbe penetrata nella terra. Ciò nondimeno, tra l’apparecchiare e il piantare, l’operazione durò, per quella sola palafitta, quasi un’ora. Io pensai alle migliaia ch’erano state confitte, alle migliaia che si dovevan configgere, alle interminabili dighe che difendono l’Olanda, a quelle infinite che furon rovesciate e ricostruite, e abbracciando col pensiero, per la prima volta, la grandezza favolosa di quel lavoro, provai un senso di spavento che mi fece rimanere lungo tempo immobile e senza parola. Intanto le acque salivan già fin quasi all’altezza della diga, facendo un rumore come di soffi, di aneliti, di voci stanche, che pareva mormorassero segreti di mari lontani e di lidi sconosciuti; il vento soffiava più freddo; l’aria cominciava a oscurarsi; e io provavo un desiderio inquieto di ritirarmi da quegli spalti avanzati nell’interno della fortezza. Tirai per la falda il mio compagno che da un’ora stava ritto sur un macigno, e tornammo sulla spiaggia. Entrammo a bere un bicchiere di schiedam in una di quelle botteghe che si chiamano in olandese: Vieni e domanda, dove si vendon vini, salumi, sigari, scarpe, [p. 205 modifica]burro, panni, biscotti, un po’ d’ogni cosa; e poi ripigliammo la via di Gravenhagen.

L’altra passeggiata fu la più avventurosa ch’io abbia fatta in Olanda. Un mio carissimo amico dell’Aja m’invitò ad andare a desinar con lui in casa d’un suo parente, il quale gli aveva manifestato il cortese desiderio di conoscermi. Domandai all’amico dove il suo parente stava di casa; mi rispose: “Lontano dall’Aja.” Domandai da che parte, non me lo volle dire; mi disse di trovarmi la mattina seguente alla stazione della strada ferrata, e mi lasciò. La mattina, ci troviamo alla stazione; l’amico prende i biglietti per Leida; arriviamo a Leida, scendiamo, e invece d’entrare in città, pigliamo una strada a traverso la campagna. Allora pregai il mio compagno di svelarmi il segreto; mi rispose che non lo poteva svelare. Sapevo che quando un olandese non vuol dire una cosa, non c’è potenza in terra che gliela faccia dire; mi rassegnai. Era febbraio, tempo chiuso, punta neve; ma tirava un vento impetuoso e freddo che dopo cinque minuti di strada ci ridusse il viso pavonazzo. Era di domenica, la campagna deserta. Si va, si va, si vedon mulini a vento, canali, praterie, casette mezzo nascoste tra gli alberi, con altissimi tetti di stoppia tappezzata di musco. S’arriva a un villaggio; i villaggi olandesi son chiusi da una barriera; s’infila la porticina della barriera, si entra, non c’è nessuno, le porte son chiuse, le finestre hanno le tendine calate, non si sente una [p. 206 modifica]voce, non un passo, non un respiro. Si attraversa il villaggio, si passa davanti a una chiesa tutta coperta d’edera come una capanna di giardino, nella quale, guardando per uno spiraglio della porta, si vede un ministro protestante, in cravatta bianca, che predica, e dei contadini coi visi rigati d’oro, di verde o di porpora dalla luce delle vetrate colorite. Si va oltre per una bella strada di mattoni, si vedono antenne per i nidi delle cicogne, palafitte piantate dai contadini perchè le vacche ci si strofinino, paracarri tinti di color celeste, casette colle tegole di vario colore che forman delle lettere e delle parole, bacini con barchette, ponticelli, chioschi d’uso ignoto, chiesuole con un gran gallo dorato sulla punta del campanile; e non un’anima viva, nè vicino nè lontano. Andiamo innanzi, innanzi; il cielo si rischiara un po’, poi si riabbuia; la luce del sole illumina un canale qui, fa scintillare il tetto d’una casa là, indora un campanile lontano, fugge, ritorna, promette, dice, disdice, fa mille civetterie; e sull’orizzonte si vedono delle strisce oblique di pioggia. Cominciamo a incontrare qualche contadina col cerchio d’oro intorno al capo, il velo sul cerchio, il cappello sul velo, un mazzo di fiori sul cappello, e grandi nastri svolazzanti; qualche carrozza di campagnuoli, dell’antica forma Luigi XV, colla cassa dorata, adorna di sculture e di specchietti; contadini con gran vestito nero e gran zoccoli bianchi; ragazzi con calze di tutti i colori dell’iride. Arriviamo a un altro villaggio pulito, lustro, colorito, colle sue strade am[p. 207 modifica]mattonate, e le sue finestre ornate di tendine e di fiori, saliamo in una carrozza e via. Appena usciti, ci coglie una pioggia minuta e diacciata che ci penetra fino alle ossa. Imbacuccati nelle coperte, intirizziti, fradici, arriviamo sulla sponda d’un grande canale, un uomo esce da un casotto, fa salire la carrozza sopra una zattera e ci porta sani e salvi all’altra sponda. La carrozza scende per una larga strada, ci troviamo nel fondo dell’antico mare d’Haarlem, il cavallo corre dove una volta guizzavano i pesci, il cocchiere fuma dove spiravano i naufraghi delle battaglie navali; vediamo di sfuggita canali, villaggi, campi coltivati, un nuovo mondo di cui trent’anni fa non c’era traccia. Dopo un miglio di strada, cessa la pioggia, e comincia a nevicare con una furia non mai veduta; una vera tempesta di neve fitta e dura, che il vento impetuoso ci getta quasi orizzontalmente nel viso. Spieghiamo la tela incerata, apriamo gli ombrelli, ci tappiamo, ci raggomitoliamo; ma il vento butta all’aria tutte le nostre difese e la neve irrompe, c’imbianca e ci agghiaccia dai piedi alla testa. Dopo un lungo giro usciamo dal lago, la neve cessa, arriviamo a un altro villaggio fatto di case da presepio, lasciamo la carrozza, ripigliamo la strada a piedi. Si va, si va, si vedon ponti, mulini, casette chiuse, strade solitarie, praterie immense, e nessuno. Si passa sur un braccio del Reno, si arriva a un altro villaggio tutto sbarrato e silenzioso, si va innanzi non vedendo che qualche viso che ci guarda di dietro i vetri dei finestrini, si [p. 208 modifica]esce dal villaggio e ci si trova in faccia alle dune. Il cielo comincia a oscurarsi ed io comincio ad inquietarmi. Domando all’amico dove si va e l’amico mi risponde: — Alla ventura. — C'inoltriamo in mezzo alle dune, per stradicciuole sabbiose e serpeggianti; non si vede più indizio d’abitazione da nessuna parte; si sale, si scende; il vento ci getta la sabbia nel viso, i piedi s’affondano; il paese si fa sempre più arido, accidentato, sinistro. “Ma chi è questo vostro parente,” dico al mio compagno, “dove vive, che cosa fa? Qui c’è sotto qualche diavoleria; non può essere un uomo come un altro; ditemi dove mi conducete.” L’amico non risponde, s’arresta e guarda davanti a sè; guardo io pure e vedo lontano un qualche cosa che somiglia a una casa, sola nel mezzo del deserto, quasi nascosta da un rialto del terreno. Affrettiamo il passo, la casa sparisce e riapparisce come un’ombra. Vi si vedono intorno delle antenne che presentan la forma di patiboli, e il mio amico mi vuol far credere che sono le antenne dei nidi delle cicogne. Arriviamo a un centinaio di passi: vediamo lungo un muro un condotto di legno che par bagnato di sangue; il mio amico mi dà ad intendere che è colorito di rosso. La casa è piccola, circondata da uno stecconato; le porte e le finestre son chiuse. “Non entriamo,” dico io; “siamo ancora in tempo, in quella casa c’è qualche stregoneria, badate a quello che fate, guardate in su: io non ho mai visto un cielo così nero.” L’amico non mi dà retta, s’avanza coraggiosamente, io lo seguo. [p. 209 modifica]Invece di andar verso la porta, piglia una scorciatoia; ci scoppia alle spalle un feroce latrar di cani, ci mettiamo a correre, attraversiamo una foresta di cespugli, saltiamo un muricciuolo, picchiamo a una porticina. “Siamo ancora in tempo!” esclamo. “È tardi!” mi risponde l’amico. La porta s’apre, non c’è nessuno; saliamo per una scaletta a chiocciola, entriamo in una stanzina.... Oh dolce meraviglia! Il solitario, lo stregone, era un giovanotto allegro e gentile; e la casa diabolica era una villetta piena di comodi, calda, luccicante, sibaritica, una vera palazzina fatata, nella quale il nostro ospite si raccoglieva alcuni mesi dell’anno a fare studi ed esperienze per infertilire le dune. Che gusto era veder quel freddo deserto a traverso una finestrina colle tende frangiate e coi vasi di fiori! Entrammo nel salotto da pranzo e sedemmo intorno a una tavola scintillante di argenteria e di cristalli, sulla quale, in mezzo a una corona di bottiglie blasonate e dorate, fumava un desinare da principi. La neve batteva contro i vetri delle finestre, s’udiva il lamento del mare, e il vento infuriava intorno alla casa, che pareva d’essere in un bastimento nel forte della burrasca. Si propinò all’infertilimento delle dune, ai vincitori di Atchin, alla prosperità delle colonie, alla memoria di Nino Bixio, alle fate.... Eppure un po’ d’inquietudine mi rimaneva ancora. Il nostro ospite, per chiamare il cameriere, toccava un ordigno nascosto; per avvertire il cocchiere che preparasse la carrozza, diceva non so che parole in un buco [p. 210 modifica]della parete; e questi armeggíi non mi piacevano. “Mi rassicuri” gli dicevo; “mi dica che questa casa esiste davvero; mi prometta di non far lo scherzo di farla sparire, non lasciando più che un buco nella terra e un puzzo di zolfo nell’aria! Mi giuri che dice le sue orazioni tutte le sere!” Non posso ridire le risa, l’allegrezza, i discorsi stravaganti che si succedettero fino a notte avanzata accompagnati dal tintinnìo dei bicchieri e dal fragore della tempesta. Infine giunse il momento di partire, scendemmo, e ci cacciammo in un carrozzone che si slanciò a traverso il deserto. La terra era tutta coperta di neve, le dune disegnavano i loro contorni bianchi sul cielo tenebroso, la carrozza scorreva senza far rumore in mezzo a mille forme strane e indistinte, che si succedevano rapidamente al chiarore della lanterna, e pareva che si trasformassero l’una nell'altra; e in quell'ampia solitudine regnava un silenzio morto, che impediva la parola. Dopo molto andare, si cominciò a vedere qualche casa; s’arrivò a un villaggio; s’attraversarono due o tre strade deserte, fiancheggiate da casette coperte di neve, con qualche rara finestra illuminata, che lasciava vedere delle ombre umane; e finalmente s’arrivò a una stazione della strada ferrata, di dove arrivammo in pochi minuti all’Aja, coll’illusione di aver fatto un lunghissimo viaggio a traverso un paese favoloso. L’ho da dire? Se mi chiedessero di giurare che quella casa in mezzo alle dune, ora che scrivo, c’è ancora, domanderei dieci minuti per [p. 211 modifica]pensarci. È vero che il padrone ebbe la gentilezza di venirmi a salutare alla stazione, il giorno che partii dall’Aja, e che guardandolo bene alla luce del giorno, non gli vidi nulla di strano; ma chi non conosce gli scambietti, le simulazioni, le mille arti di quei.... Nel nome del padre, del figliuolo e dello spirito santo.


Vidi finalmente l’inverno olandese, non come l’avevo sperato partendo dall’Italia, perchè fu mitissimo; ma pure tale da presentarmi l’Olanda nell’aspetto in cui sogliamo raffigurarcela noi del mezzogiorno d’Europa.

La mattina per tempo, la prima cosa che dà nell’occhio nelle strade bianche e silenziose, son le innumerevoli impronte di zoccoli lasciate nella neve dai ragazzi che vanno a scuola, impronte che paiono di zampe d’elefante, tanto gli zoccoli son grandi; e che per lo più si succedono in linea diritta, ciò che dimostra che gli scolari vanno a scuola per la via più corta, senza fare il chiasso, da olandesini sodi e zelanti. Si vedon file di bimbi imbacuccati in grosse ciarpe, col capo mezzo nascosto nello spalle, tutti in un gomitolo, a braccetto a due a due, a tre a tre, o uniti in gruppi serrati come un mazzo di asparagi, nei quali non si vedono che punte di nasi ed estremità di libri. Spariti che sono i ragazzi, le strade rimangono deserte per qualche tempo, perchè gli Olandesi, sopratutto d’inverno, non hanno l’abitudine di levarsi molto presto. Si può [p. 212 modifica]camminare per un pezzo senza incontrare nessuno, e senza sentire il più leggero rumore. La neve, in mezzo a quelle case di color rosso, pare d'una bianchezza più viva; e le case, con tutti i rilievi segnati di una linea bianca purissima, colle teste di legno delle botteghe che sembrano imparruccate di bambagia, colle catene dei paracarri, che somiglian festoni d’ermellino, presentano un aspetto dei più strani. Nei giorni di gelo, quando splende il sole, le facciate luccicano di pagliuole d’argento; i ghiacci ammucchiati sulle sponde dei canali brillano dei colori dell’iride; e gli alberi scintillano d’infinite piccole perle, come le piante dei giardini fatati delle mille e una notte. Allora è bello passeggiare nel bosco dell’Aja, verso il tramonto, sulla neve indurita che scricchiola sotto i piedi come polvere di marmo, in mezzo ai grandi faggi sfrondati e bianchi, che presentano l’immagine d’una cristallizzazione gigantesca, e gettano sui viali lumeggiati di color di rosa dal sole cadente, delle ombre azzurre e violette, picchiettate di miriadi di puntini risplendenti come diamanti. Ma nulla vale lo spettacolo della campagna olandese vista la mattina, dopo una grande nevata, dall’alto d’un campanile. Sotto un cielo grigio e basso, si vede quell’immensa pianura bianca, dove non appare più traccia nè di strade, nè di sentieri, nè di case, nè di canali; ma solo prominenze e depressioni, che lasciano indovinare vagamente, come i rilievi e le pieghe d’un lenzuolo, le forme delle case nascoste; e quella infinita bianchezza non è [p. 213 modifica]macchiata che da nuvoli di fumo che escono qua e là quasi timidamente dalle case lontane, come per annunciare a chi guarda che sotto quel deserto di neve palpita ancora la vita umana.

Ma non si può parlare dell’inverno in Olanda, senza dire di ciò che costituisce l’originalità e l’attrattiva principale della vita invernale di quel paese: ossia il patinamento, orrenda parola, alla quale sostituirei volentieri quella di sdrucciolamento, per non farmi dar sulle dita dai lettori puristi, se non temessi di far ridere tutti gli altri; il che mi pare un danno maggiore.

Il patinamento, in Olanda, non è soltanto un esercizio dilettevole, ma un mezzo ordinario di trasporto. Tutti sanno, per citare un esempio illustre, come se ne siano giovati gli Olandesi nella memorabile difesa della città d’Haarlem. Nei tempi di forte gelo, i canali si cangiano in strade, e gli zoccoli ferrati fanno l’uffizio di barca. Scivolando, il contadino va al mercato, l’operaio al lavoro, il piccolo negoziante agli affari; intere famiglie vanno dalla campagna alla città coi loro sacchi e le loro ceste sulle spalle o sulle slitte. L’esercizio di scivolare sul ghiaccio è per loro altrettanto abituale e facile che quello del camminare; e scivolano con una rapidità che appena si segue cogli occhi. Negli anni passati si facevano spesso delle scommesse fra i più abili patinatori olandesi a chi, scivolando sui canali che fiancheggiano la strada ferrata, andasse alla pari col treno; e la maggior parte delle volte i [p. 214 modifica]patinatori, non solo non gli rimanevano indietro, ma per un certo tratto lo precedevano. V'è gente che va scivolando dall’Aja ad Amsterdam e ritorna all’Aja nella stessa giornata; studenti d’università che parton la mattina da Utrecht, vanno a desinare ad Amsterdam e ritornano a casa prima di sera; fu fatta e vinta più volte la scommessa di andare da Amsterdam a Leida in poco più d’un’ora. E non è solamente ammirabile la rapidità, che a detta di coloro i quali hanno provato ad attaccarsi al bastone di qualche patinatore famoso, è tale da dar le vertigini; è ammirabile pure la sicurezza colla quale si percorrono quelle grandi distanze. V’hanno dei contadini che fan quelle corse da una città all’altra di notte. Vi son dei giovani che vanno da Rotterdam a Gouda; a Gouda comprano una lunghissima pipa di gesso; e poi tornano a Rotterdam colla pipa intatta fra le mani. Qualche volta, passeggiando lungo un canale, si vede passare come una saetta una figura umana che sparisce appena vista; ed è una contadinella che porta il latte a una casa di città.

Vi son poi le slitte d’ogni grandezza e d’ogni forma; quelle spinte di dietro da un patinatore, quelle tirate dai cavalli, quelle messe in moto per mezzo di due bastoni ferrati dalla stessa persona che ci sta seduta; carri e carrozze, private delle ruote, e poste su due assicelle, colle quali scivolano colla rapidità delle altre slitte. In occasioni di feste, si son persino veduti correre sulla neve per le strade [p. 215 modifica]dell’Aja i bastimenti di Scheveningen. Altre volte si facevan correre sul ghiaccio dei grandi fiumi bastimenti a vela spiegata, i quali andavano con una velocità così grande, che i visi della gente a bordo eran ridotti dalla sferza del vento in uno stato da far raccapriccio; ed eran pochi i temerarii che ardissero di mettersi a quella prova.

Le più belle feste, in Olanda, si fanno sul ghiaccio. A Rotterdam, quando la Mosa è gelata, diventa un luogo di convegno e di piaceri. La si spazza dalla neve in modo che riman netta come un pavimento di cristallo; vi si rizzan caffè, trattorie, padiglioni, baracche da spettacoli; la notte s’illumina; il giorno v’è un formicaio di patinatori d’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni ceto. In altre città, e soprattutto nella Frisia, che è la terra classica dell’arte, vi sono società di patinatori e di patinatrici, che istituiscono gare pubbliche e premi. Si piantano antenne e bandiere lungo i canali, si rizzano steccati e tribune; accorre una moltitudine immensa di popolo dai villaggi e dalle campagne; assiste il fiore della cittadinanza; le bande suonano; i patinatori si presentano vestiti d’un costume particolare, le donne in calzoni; si fanno le corse di uomini soli, poi di donne fra loro, poi di uomini e di donne accoppiati; e i nomi dei vincitori e delle vincitrici sono iscritti nei fasti dell’arte e rimangon famosi per molti anni.

In Olanda vi sono due scuole di patinamento affatto diverse: la scuola olandese propriamente detta e la scuola frisona, ciascuna delle quali si [p. 216 modifica]serve d’una forma particolare di zoccoli. La scuola frisona, che è la più antica, non mira che alla celerità; la scuola olandese non cerca che la grazia. I frisoni vanno rigidi, stecchiti e per diritto, coll’occhio alla mèta, pigliando la spinta in avanti; gli Olandesi vanno a zig-zag, slanciandosi da sinistra a destra e da destra a sinistra con un movimento ondulatorio dei fianchi. Il frisone è la freccia, l’olandese è il razzo matto. Alle donne convien meglio la scuola olandese. Le signore di Rotterdam, d’Amsterdam e dell’Aja sono infatti le più seducenti patinatrici delle Provincie unite. Cominciano da bambine, continuano da ragazze e da spose; raggiungono nello stesso tempo il colmo della bellezza e l’apogeo dell’arte, e fanno coi loro zoccolini ferrati schizzar dal ghiaccio le scintille amorose che vanno a suscitare gl’incendi. Non è che sul ghiaccio che la donna olandese accenni a cadere, e riesce per questo in special modo attraente. V'hanno delle signore, che giungono a un grado di maestria meravigliosa. Chi le ha viste, dice che non è possibile immaginare la grazia degli ondeggiamenti, degli inchini, dei guizzi, delle mille graziette mollissime e vezzosissime che spiegano in quei loro giri e fughe e ritorni di rondini e di farfalle, e come si animi e si trasfiguri la loro tranquilla bellezza in quel turbinio. Ma non tutte riescono, molte non osano mostrarsi in luoghi pubblici, e quelle che da noi otterrebbero i primi onori, là richiamano appena l’attenzione; tanto vi è alta l’arte! Così degli uomini, che fanno ogni [p. 217 modifica]sorta di giuochi e di prodezze; alcuni descrivendo coi loro giri figure fantastiche o parole d’amore, altri facendo una piruletta rapidissima, e spiccandosi poi indietro sur una gamba sola per un lunghissimo tratto; altri serpeggiando con infinite vertiginose giravolte in un piccolo spazio curvi, scontorti, ritti, accoccolati, come fantocci di gomma mossi da una molla segreta.

Il primo giorno che i canali e i bacini presentano uno strato di ghiaccio abbastanza solido da poterci scivolare, è per le città olandesi un giorno di festa. Dei patinatori mattinieri, che han fatto gli esperimenti allo spuntar del giorno, spargono la voce; i giornali l’annunziano; frotte di ragazzi si sparpagliano per le strade gettando grida di allegrezza; i servitori, le serve chiedono ai loro padroni il permesso d’uscire coll’aria di gente risoluta di ribellarsi a un rifiuto; vecchie signore scordano gli anni e i malanni e corrono ai canali a gareggiare colle amiche e le figliuole; all’Aja, il bacino ch’è nel mezzo della città, vicino al Binnenhof, è invaso da una folla di gente che vi s’intreccia, si confonde, s’urta, si rimescola come una turba presa dalle vertigini; il fiore dell’aristocrazia va a patinare in un bacino in mezzo al bosco; e là volteggiano confusamente in mezzo alla neve ufficiali, signore, deputati, studenti, vecchi, ragazzi, e in mezzo a loro, qualche volta, il principe ereditario; e intorno s’accalcano migliaia di spettatori, la musica accompagna la festa, e l’enorme disco del sole d’Olanda, che [p. 218 modifica]volge al tramonto, le manda, a traverso i faggi giganteschi, il suo sfolgorante saluto.

Quando c’è la neve indurita, si fan le corse sulle slitte. Ogni famiglia ne ha una, e all’ora della passeggiata si vedono uscire a centinaia. Passano volando in lunghe file, a due, a tre di fronte; alcune della forma di conchiglia, altre di cigni, di draghi, di barche, di cocchi, dorate e variopinte, tirate da cavalli coperti di ricche pelliccie e di drappi magnifici, colla testa ornata di pennacchi e di nappe e gli arnesi tempestati di chiodi scintillanti; e portan signore vestite di martora, di castoro e di volpe di Siberia. I cavalli scuotono la testa circonfusa dai vapori della traspirazione e la criniera imperlata dal gelo e le slitte saltellano; la neve vola all’intorno simile ad una schiuma d’argento, e il treno splendido e sfrenato passa e dispare come un turbine muto sopra un campo di gigli e di gelsomini. Di notte, quando si fan le corse colle fiaccole, quelle migliaia di fiammelle che volano e s’inseguono per la città silenziosa, gettando lividi bagliori sui ghiacci e sulla neve, offrono l’immagine d’una gran battaglia infernale, alla quale presieda, dalla cima della torre del Binnenhof, lo spettro di Filippo II.

Ma, ahimè! tutto decade, anche l’inverno, e con esso l’arte del patinamento e l’uso delle slitte. Da molti anni agli inverni rigidi s’alternano in Olanda degl’inverni tanto miti, che non solo non gelano più i grandi fiumi; ma neanco i piccoli canali della città. Ne segue che i patinatori, rimasti troppo [p. 219 modifica]tempo fuori d’esercizio, non si arrischiano più a dare spettacolo pubblico, quando l’occasione si presenta; e così a poco a poco se ne ristringe il numero, e il bel sesso specialmente si disavvezza dal ghiaccio. Nell’inverno dell’anno scorso non si patinò quasi punto; nell’inverno di quest’anno non s’è fatto un solo concorso, e non si è vista neanche una slitta. Voglia il cielo che questo deplorevole stato di cose non duri, che l’inverno ritorni ad accarezzare l’Olanda colla sua gelida zampa d’orso polare, che la bell’arte del patinare si rialzi col suo manto di neve e colla sua corona di diacciuoli. Annunzio intanto la prossima pubblicazione d’un’opera intitolata Il Patinamento, intorno alla quale lavora da molti anni un deputato degli Stati d’Olanda, opera che sarà la storia, l’epopea e il codice dell’arte, a cui tutti i patinatori e le patinatrici d’Europa potranno attingere insegnamenti e ispirazioni.


Per tutto il tempo che stetti all’Aja frequentai il principale club della città, composto di più di duemila soci, che occupa tutto un palazzo vicino al Binnenhof; e là feci le mie osservazioni sul carattere olandese.

Oltre la biblioteca, la stanza da pranzo e le stanze da gioco, v’è un salone per la conversazione e la lettura dei giornali, pieno zeppo di gente dalle quattro della sera fino a mezzanotte. Vi sono artisti, professori, negozianti, deputati, impiegati, ufficiali. La maggior parte ci vanno a bere un [p. 220 modifica]bicchierino di ginepro prima di desinare e ci tornano dopo a pigliare il caffè, e a confortarsi lo stomaco con un altro sorsetto del liquore favorito. Quasi tutti parlano, e pure non si sente che un leggero mormorio, in modo che a occhi chiusi, si direbbe che c’è appena un terzo della gente. Si può fare mille giri per la sala, senza veder fare un gesto concitato, e senza udire una parola un po’ più forte delle altre. A dieci passi di distanza dai crocchi, non ci s’accorge che parlano fuorchè dal movimento delle labbra. Si vedono molti uomini corpulenti, con larghi visi senza baffi, e la barba intorno al collo, che discorrono senza alzar gli occhi dal tavolino, e senza staccar la mano dal bicchiere. Rarissimamente si scopre in mezzo a tutti quei faccioni, una fisonomia viva ed arguta come quella di Erasmo, che pure molti considerano come il vero tipo olandese, e a me pare che non sia.

L’amico che mi aperse le porte del club, mi fece conoscere parecchi soci. La diversità fra il carattere olandese e il nostro si avverte particolarmente nelle presentazioni. Più d’una volta, vedendo la persona a cui ero presentato, fare appena un cenno col capo e poi rimanere muta parecchi minuti, pensai che il mio riverito viso non le fosse andato a genio, e mi sentii nel cuore un eco di cordiale antipatia. Di là a poco, il presentatore se n’andava, lasciandomi a quattr’occhi col mio nemico. — Ora, — pensavo io, — voglio schiattare se gli dico una parola. — Ma il mio vicino, dopo qualche momento di silenzio mi [p. 221 modifica]diceva con la più grande serietà: — «Voglio sperare che oggi, s’ella non ha altri impegni, mi farà l’onore di pranzare con me.» — Io cadevo dalle nuvole. Pranzavamo insieme, e il mio anfitrione popolava freddamente la tavola di bottiglie di vino di Bordeaux, del Reno e di Champagne, e non si separava da me prima d’avermi costretto a dir di sì a un altro invito. Altri, ai quali domandavo ragguagli intorno a varie cose, mi rispondevano appena, quasi per farmi capire ch’ero un importuno, tanto che io dicevo tra me: — Vedete un po’ che scompiacenti! — e il giorno dopo mi davano i ragguagli in iscritto, chiari, ordinati, minuti più di quello che io avessi mai desiderato. Una sera pregai un tale di cercare non so che in uno di quei mari di cifre, che si chiamano: «Indicatori delle strade ferrate d’Europa.» Per qualche momento non mi diede risposta: io rimasi mortificato. Poi prese il libro, inforcò gli occhiali, sfogliettò, lesse, notò, sommò, sottrasse con una pazienza da santo per lo spazio d’una mezz’ora; e quand’ebbe finito, mi porse la risposta scritta e rimise gli occhiali nell’astuccio senza proferire una parola.

Molti di coloro coi quali passavo la serata, solevano andar a casa alle dieci a lavorare, e tornare al club alle undici e mezzo per rimanerci fino a un’ora dopo mezzanotte; e quando avevano detto: — debbo andare, — non c’era caso che cangiassero risoluzione. Finivan di scoccare le dieci, erano già fuori della porta; scoccavano le undici e mezzo, [p. 222 modifica]ricomparivano sulla soglia. Non è da meravigliare, con quella regolarità cronometrica, che trovino il tempo di far tante cose, senza farne nessuna con furia; e che anche coloro i quali non sono dediti agli studi per istituto di vita, abbiano letto delle intere biblioteche. Non v’è libro inglese, tedesco o francese, per poco che sia importante, ch’essi non lo conoscano. La letteratura francese in particolar modo l’hanno sulla punta delle dita. E quel che si dice della letteratura, si può dire, con più ragione della politica. L’Olanda è uno dei paesi d’Europa dove affluisce un maggior numero di giornali stranieri e forse quello in cui si parla maggiormente degli affari degli altri. Il paese è piccolo e tranquillo, delle novità del giorno s’è presto discorso; dopo dieci minuti la conversazione salta di là dal Reno e corre l’Europa. Ricordo che mi faceva specie udir parlare della caduta del ministro Scialoia e d’altre cose nostre quasi come d’un avvenimento di casa.

Una delle mie prime cure fu di scandagliare i sentimenti religiosi della gente; e trovai, con mia meraviglia, un gran disordine. Come scrisse giustamente, non è molto, un dotto olandese, le idee sovversive d’ogni dommatismo religioso hanno acquistato gran campo in quel paese. Sarebbe però errore il credere che in cui vien meno la fede, sottentri l’indifferenza. Quelli che al Pascal parevano creature mostruose, uomini, cioè, che vivono senza darsi alcun pensiero della religione, come ve n’ha infiniti fra noi, là non ci sono. La questione religiosa che qui non [p. 223 modifica]è altro che una questione, là è una battaglia, in cui tutti brandiscono le armi. Tutte le classi della società, uomini e donne, giovani e vecchi si occupano di teologia e tengon dietro alle controversie dei dottori, divorando un prodigioso numero di scritti di polemica religiosa. Questa tendenza del paese si manifesta persino nel Parlamento, dove accade qualche volta che i deputati si combattano con citazioni bibliche, lette in ebraico, tradotte e commentate, e le discussioni degenerino in disquisizioni di teologia. Tutta questa lotta però si agita nelle menti piuttosto che nei cuori; la passione tace; e n’è una prova che l’Olanda, la quale è di tutti i paesi d’Europa quello che ha più sètte religiose, è anche il paese in cui le sètte vivono in migliore accordo, e dove regna la più grande tolleranza. Se ciò non fosse, il partito cattolico non avrebbe fatto tanta strada, come la fece, protetto sulle prime dalla parte liberale, contro l’unica parte intollerante del paese: i Calvinisti ortodossi.

Non conobbi Calvinisti ortodossi, e mi spiace. Non avevo mai prestato fede a quello che si racconta del loro stravagante rigorismo; che vi sian signore, per dirne una, che nascondano con grandi tappeti le gambe dei tavolini, per la ragione che possono richiamare il pensiero dei visitatori a quelle della padrona di casa. Ma è fuor di dubbio che vivono austerissimamente. Molti, per proposito fatto, non mettono mai piede in un teatro nè a un ballo nè in una sala di concerto. Ci son famiglie che la [p. 224 modifica]domenica si contentano di mangiare un po’ di carne fredda perchè la cuoca non abbia da trasgredire il precetto del riposo. In molte case, il padrone legge ogni mattina la Bibbia in presenza della famiglia e dei servitori, e pregano tutti insieme. Del resto questa sètta dei Calvinisti ortodossi, che ha quasi tutti i suoi proseliti nell’aristocrazia e fra i contadini, non esercita grande influenza sul paese, come lo prova il fatto che nel Parlamento è inferiore di numero alla parte cattolica, e non può far nulla senz’essa.

Ho parlato del teatro. All’Aja, come nelle altre città d’Olanda, non ci sono grandi teatri, nè grandi spettacoli. Si rappresentano per lo più opere in musica tedesche, cantate da artisti stranieri, commedie e operette francesi. I concerti sono di gran moda. In questo l’Olanda è fedele alle sue tradizioni, perchè come è noto, e lo scrive anche il Guicciardini, già nel secolo XVI i suoi suonatori erano cercati in tutte le corti della Cristianità. Fu detto pure che gli Olandesi hanno una grande attitudine a cantar cori. E dev’essere grande infatti il piacere che provano a cantare insieme, se è proporzionato all’avversione che hanno di cantar soli, perchè non mi ricordo d’aver mai sentito per le strade di una città olandese, in nessuna parte, a nessuna ora, canterellare un’arietta; se non da monelli che cantavano per dar la baia agli ubriachi: rari anche questi, fuorchè nelle occasioni di feste.

Ho detto delle opere e delle commedie francesi. [p. 225 modifica]All’Aja, non solamente gli spettacoli, ma la vita pubblica è quasi interamente francese. Rotterdam ha l’impronta inglese, Amsterdam l’impronta tedesca, l’Aja l’impronta parigina; così che è giusto il dire che il popolo delle grandi città olandesi riunisce e contempera le qualità e i difetti dei tre grandi popoli vicini. All’Aja, in molte famiglie dell’alta società, si parla sempre il francese; in altre si affettano dei francesismi, come in qualche città dell’Italia settentrionale; l’indirizzo delle lettere si scrive per lo più in francese; v’è infine una parte della società, cosa non rara nei paesi piccoli, che ostenta un certo disprezzo per la lingua, per la letteratura, per l’arte nazionale; e amoreggia una patria adottiva di là dalla Mosa e dal Reno. Le simpatie però son divise. La classe elegante propende più verso la Francia, la dotta verso la Germania, e la mercantile verso l’Inghilterra. Per la Francia scemarono le simpatie dopo la Comune; contro la Germania nacque e fermenta ancora una segreta animosità generata dal timore che le sue mire conquistatrici si volgano sull’Olanda; e temperata dalla comunanza degl’interessi contro il Cattolicismo clericale.

Quando si dice che l’Aja è una città mezza francese, conviene intendere dell’apparenza. In fondo, il carattere olandese predomina. Benchè sia una città ricca, elegante e gaia, non è città di chiassi, nè dissipazioni, nè scandali, nè duelli. La vita v’è più varia e più viva che nelle altre città olandesi; ma punto [p. 226 modifica]meno tranquilla. I duelli che seguono all’Aja si contano sulle cinque dita della mano di dieci in dieci anni, e in quei pochi c’entra per lo più un ufficiale come prima cagione. Nondimeno, per far vedere quanto è potente anche in Olanda questo pregiudizio feroce, come dice il Rousseau, che l’onore stia sulla punta della spada; ricordo una discussione fra parecchi Olandesi, a cui diede luogo una mia domanda. Quando chiesi se l’opinione pubblica in Olanda era ostile al duello, mi risposero tutti a una voce: — ostilissima; — ma quando volli sapere se un giovane della buona società, il quale non accettasse una sfida, sarebbe universalmente lodato, trattato ancora, da tutti, cogli stessi riguardi e collo stesso rispetto di prima, sostenuto, insomma, dall’opinione pubblica in modo da non doversi mai pentire della sua condotta, allora cominciarono le discussioni. Chi mi rispose debolmente di sì, chi risolutamente di no; ma la maggior parte propendevano al no. Dal che mi parve di poter concludere, che se in Olanda seguon pochi duelli, non deriva tanto, com’io credeva, da un disprezzo universale e assoluto del pregiudizio feroce; quanto dalla rarità dei casi in cui due cittadini si lasciano condurre dalla passione, alla necessità di ricorrere alle armi; ciò che dipende dalla natura più che dall’educazione. Anche nelle polemiche pubbliche e nelle discussioni private violentissime, si giunge raramente all’insulto personale; e nelle battaglie del Parlamento, qualche volta accanite, i deputati si dicono delle [p. 227 modifica]impertinenze secche, ma con calma, senza far rumore; impertinenze, sto per dire, che consistono più nella cosa che nella parola, e feriscono senza far strillare.

Nelle conversazioni al club, mi faceva specie, sulle prime, di non udir mai nessuno che parlasse per parlare. Quando uno apriva bocca, era per fare una domanda, o per dare una notizia, o per esporre un’osservazione. Quell'arte di fare d’ogni idea un periodo, d’ogni fatto un racconto, d’ogni bazzecola una quistione, nella quale noi italiani, francesi e spagnuoli siamo maestri, là è affatto sconosciuta. La conversazione non è uno scambio di suoni, ma un commercio di cose, e nessuno fa il menomo sforzo per parer dotto, facondo, arguto. In tutto il tempo che stetti all’Aja non mi ricordo d’aver inteso che una sola arguzia, e fu d’un deputato, il quale parlandomi dell’alleanza degli antichi Batavi coi Romani disse: — Noi siamo sempre stati amici delle autorità costituite. — Eppure la lingua olandese si presta ai calembours; in prova di che ho inteso citare il caso d’una bella signora straniera la quale domandando un guanciale a un giovane barcaiuolo del trekschuit, non pronunziò bene la parola, e disse invece di guanciale, bacio, che in olandese suona quasi lo stesso, e fu appena in tempo a chiarire l'equivoco, chè il barcaiuolo s’era già pulito la bocca col rovescio della mano.

Studiando il carattere olandese, non mi parve che fosse vero quello che avevo letto in più libri, [p. 228 modifica]che gli Olandesi abbian l’abitudine di parlare con fastidiosa prolissità dei loro malanni; che anzi essi deridono per questo difetto i Tedeschi; e che siano egoisti ed avari. A sostegno di questa seconda accusa, qualcuno adduce il fatto poco credibile che durante una battaglia navale cogl’Inglesi, gli ufficiali della flotta d’Olanda siansi recati a bordo dei bastimenti nemici esausti di provvigioni da fuoco, e v’abbiano venduto, a prezzi esorbitanti, polvere e proiettili; dopo di che fu ricominciato a combattere. Contro quest’accusa d’avarizia, sta il fatto della vita agiata, delle case ricche, dei molti denari spesi in libri ed in quadri; e più ancora della beneficenza larghissima, nella quale la società olandese è incontestabilmente prima in Europa. E non è beneficenza officiale, o che in qualunque modo riceva impulso dal Governo; ma spontanea e liberissima, esercitata da società vaste e potenti che fondarono innumerevoli istituti, scuole, premi, biblioteche, riunioni popolari; che aiutano, prevengono il Governo nell’ufficio dell’istruzione pubblica; che stendono le loro ali dalle grandi città fino ai più umili villaggi, abbracciando tutte le sètte religiose, tutte le età, tutte le professioni e tutte le sventure; una beneficenza, insomma, in virtù della quale non rimane in Olanda un povero senza tetto e un braccio senza lavoro. Tutti gli scrittori, che studiarono l’Olanda, convennero nel dire che non c’è forse altro Stato d’Europa, nel quale scenda, proporzionatamente alla popolazione, una maggior copia [p. 229 modifica]di elemosina dalle classi agiate alle classi bisognose.

Non è a dirsi con questo che il popolo olandese non abbia difetti, perchè ne ha, se gli si deve recare a difetto la mancanza di quelle qualità che dovrebbero essere come lo splendore e la gentilezza delle sue virtù. Si potrebbe trovare nella sua fermezza qualcosa di cocciuto, nella sua probità qualcosa di gretto, nella sua freddezza l’assenza di quella spontaneità di sentimento senza la quale pare che non possa esservi affetto, generosità, grandezza d’animo vera. Ma quanto meglio s’impara a conoscerlo, più si esita a pronunziare quei giudizii, e più si sente crescere per esso il sentimento del rispetto e della simpatia. Il Voltaire ha potuto dire, partendo dall’Olanda, quel motto famoso: — Adieu canaux, canards, canaille; — ma quando dovette giudicar l’Olanda sul serio, si ricordò di non aver trovato nella sua città capitale «nè un ozioso, nè un povero, nè un dissipato, nè un insolente» e di aver visto per tutto «il lavoro e la modestia.» Luigi Napoleone proclamava che in nessun popolo d’Europa era innato come nell'olandese il buon senso e il sentimento della giustizia e della ragione; il Descartes gli faceva il più grande elogio che possa fare un filosofo ad un popolo, dicendo che in nessun paese si gode d’una più grande libertà che in mezzo agli Olandesi; Carlo V, la più bella lode che possa dare ad un popolo un Sovrano, dicendo che sono «ottimi sudditi; ma pessimi schiavi.» Un inglese [p. 230 modifica]scrisse che gli Olandesi ispirano una stima che non può giungere fino all’affetto. Forse egli non li stimava abbastanza.

Non nascondo che fra le cagioni della mia simpatia v’è quella d’aver trovato che l’Italia è assai più conosciuta in Olanda ch’io non osassi sperare. Non solamente la rivoluzione d’Italia vi ebbe un eco favorevole, com’è di ragione che accadesse presso un popolo indipendente, libero e ostile al Papato; ma gli uomini e gli avvenimenti italiani degli ultimi tempi, non vi son meno conosciuti che quei di Francia e di Germania. Le principali gazzette, che hanno un corrispondente fra noi, ragguagliano minutamente il paese intorno alle cose nostre. Si vedono in molti luoghi ritratti dei nostri più illustri concittadini. Nè è minore della conoscenza politica la letteraria. Lasciando stare che la lingua italiana si cantava nelle Corti degli antichi conti d’Olanda, che nel bel secolo della letteratura olandese era in grande onore presso i letterati, e che parecchi dei più illustri poeti di quel tempo scrissero lettere e versi italiani o imitarono la nostra poesia pastorale; la lingua italiana si studia ancora da molti oggigiorno, e non è raro il trovare chi la parla, e men raro ancora il veder libri nostri sul tavolino delle signore. La Divina Commedia, che venne in voga particolarmente dopo il 1830, ha due traduzioni, tutt’e due in terzine rimate, una delle quali è opera d’un Hacke van Mijnden, che [p. 231 modifica]consacrò a Dante tutta la vita. La Gerusalemme Liberata ha una traduzione in ottave d’un pastore protestante Ten Kate, e n’ebbe un’altra inedita e perduta, di Maria Tesseeschave, la grande poetessa del secolo XVII e amica intima del primo poeta olandese, Vondel, dal quale fu consigliata e aiutata a tradurre. Del Pastor fido vi sono almeno cinque traduzioni di autori diversi; parecchie dell’Aminta; e facendo un salto, almeno quattro delle Mie Prigioni, e una bellissima dei Promessi Sposi; romanzo che pochi Olandesi non lessero o nella propria lingua, o nella francese o nella nostra. E per citare ancora una cosa che ci riguarda, v’è un poema intitolato Firenze, scritto per l’ultimo centenario di Dante, da uno dei più eletti poeti olandesi dei nostri giorni.


Qui cade a proposito di dir qualcosa della letteratura olandese.

L’Olanda presenta una singolare sproporzione tra la forza espansiva della sua vita politica, scientifica, commerciale, e quella della sua vita letteraria. Mentre sotto tutte le altre forme l’opera degli Olandesi traboccò fuori dei confini del paese, sotto la forma letteraria, rimase circoscritta in quei confini. Con una letteratura fecondissima, il che rende il fatto più strano, l’Olanda non ha prodotto, come pur fecero altri piccoli paesi, un sol libro che sia divenuto europeo; quando non si voglia porre fra le opere letterarie quelle dello Spinoza, il [p. 232 modifica]solo grande filosofo della sua patria; o considerare come letteratura olandese le dimenticate opere latine di Erasmo di Rotterdam. Eppure se v’è un paese a cui la natura e gli avvenimenti abbiano offerto soggetti atti ad ispirare agl’ingegni qualcuna di quelle opere poetiche che colpiscono l’immaginazione di tutti i popoli, quel paese è l’Olanda. Le meravigliose trasformazioni del suolo, le inondazioni immense, le favolose spedizioni marittime, dovevano generare una poesia originale e potente anche se spogliata delle sue forme native. Perchè ciò non avvenne? Si possono addurre come ragioni l’indole dell’ingegno olandese, che mirando in ogni cosa all’utile, volle troppo spesso piegare anche la letteratura a uno scopo pratico; una tendenza opposta a questa, e forse derivata da questa, a sorvolare troppo al di sopra della natura umana, per non rasentare la terra coi più; una certa naturale circospezione d’ingegno, che diede alla ragione una soverchia prevalenza sulla fantasia; l’amore innato dell’esatto e del finito, che produsse una prolissità in cui si stemprarono le grandi idee; lo spirito di sètta religiosa, il quale vincolò in un cerchio angusto ingegni che eran nati a spaziare sur un vasto orizzonte. Ma nè queste nè altre ragioni fanno sì che non rechi meraviglia il non esserci in tutta la letteratura olandese uno scrittore il quale rappresenti degnamente al cospetto del mondo la grandezza della sua patria; un nome da porre in mezzo a quelli del Rembrandt e dello Spinoza.

[p. 233 modifica]Sarebbe un peccato, però, il non tratteggiare almeno le tre principali figure di questa letteratura, due del secolo decimosettimo e una del decimonono, tre poeti originali e differentissimi fra loro, che compendiano in sè tutta la poesia olandese: — il Vondel — il Catz - il Bilderdijk.


Il Vondel è il più grande poeta dell’Olanda. Nacque nel 1587 a Colonia, dove s’era rifugiato suo padre, cappellaio, fuggito da Anversa per sottrarsi alle persecuzioni degli Spagnuoli. Ancora bambino, il futuro poeta ritornò in patria sopra un carretto, insieme con suo padre e sua madre, che lo seguivano a piedi pregando e recitando versetti della Bibbia. Fece i suoi primi studi in Amsterdam. A quindici anni godeva già d’una bella fama di poeta; ma le sue opere illustri non datano che dal 1620. Fino all’età di trent’anni, non sapeva che la propria lingua; imparò più tardi il francese e il latino e si diede con ardore agli studi classici; a cinquant’anni si dedicò al greco. La sua prima tragedia (poichè fu principalmente poeta tragico) intitolata La distruzione di Gerusalemme, non ebbe molta fortuna. La seconda, intitolata Palamede, nella quale era adombrata la storia pietosa e terribile di Olden Barneveld vittima di Maurizio d’Orange, gli attirò un processo criminale; per cui fuggì e rimase nascosto fin che uscì la sentenza inaspettatamente mite che lo condannava a trecento fiorini di [p. 234 modifica]multa. Nel 1627 fece un viaggio in Danimarca e in Svezia, dove fu accolto con onore da Gustavo Adolfo. Undici anni dopo inaugurò il teatro d’Amsterdam con un dramma d’argomento nazionale Gilberto d’Amstel, che si rappresenta ancora una volta all’anno in omaggio alla sua memoria. Gli ultimi anni della sua vita furono infelicissimi. Le dissipazioni di suo figlio avendolo ridotto in strettezze, il povero vecchio stanco dagli studi e affranto dai dolori, fu ridotto a mendicare un meschino impiego nel Monte di Pietà. Pochi anni prima di morire abbracciò la fede cattolica, e acceso da una nuova ispirazione scrisse la tragedia Le Vergini, e un poema, che è una delle migliori sue opere, intitolato i Misteri dell’altare. Morì vecchissimo e fu seppellito in una chiesa d’Amsterdam, dove un secolo dopo gli fu eretto un monumento. Oltre le tragedie, scrisse canti guerreschi alla patria, agli illustri marinai olandesi, al principe Federico Enrico. Ma la sua principal gloria è il teatro. Ammiratore della tragedia greca, conservò nelle sue l’unità, i cori, il soprannaturale, sostituendo al destino la Provvidenza, agli Dei vendicatori e propizi, i demoni e gli angeli, i buoni e i cattivi geni del Cristianesimo. Quasi tutti i soggetti tolse dalla Bibbia. Il suo capolavoro è la tragedia Lucifero, rappresentata due volte, malgrado le quasi insuperabili difficoltà della rappresentazione, nel teatro d’Amsterdam, e poi fatta interdire dal clero protestan e; tragedia che ha per soggetto la [p. 235 modifica]ribellione di Lucifero, e personaggi i buoni e i cattivi angeli. Come in questa, nelle altre, vi son descrizioni fantastiche piene d’immagini splendide, squarci di eloquenza potente, bei cori, pensiero vigoroso, frase solenne, verso ricco e sonante, e qua e là barlumi e lampi di genio. Per contro, un misticismo qualche volta oscuro e freddo; il disaccordo dell’idea cristiana colla forma pagana; il lirico che soverchia il drammatico; il buon gusto sovente offeso; e più di tutto, un pensare e un sentire, che per mirare al sublime, elevandosi troppo alto dalla terra, sfugge all’intelletto ed al cuore umano. Malgrado ciò, la precedenza istorica, l’originalità, il patriottismo ardente, la vita travagliata e nobile, fecero il Vondel grande e venerato nella sua patria, che lo considera come la più eminente personificazione del genio nazionale, e lo mette con amoroso ardimento accanto ai primi poeti delle altre letterature.


Il Vondel è la più grande, Jacob Catz è la più schietta personificazione del genio olandese; e non è solo il più popolare dei poeti del suo popolo, ma tale è la di lui popolarità, che si può affermare non esservi in nessun altro paese, non escluso il Cervantes in Spagna e il Manzoni in Italia, uno scrittore più generalmente noto e più costantemente letto di lui; e si può aggiungere, che non v’è forse un altro poeta al mondo, la cui popolarità sia più necessariamente ristretta nei confini della propria [p. 236 modifica]patria. Jacob Catz nacque nel 1577, di famiglia patrizia, a Brouwershaven, città della Zelanda. Studiò legge, divenne pensionario di Middlebourg, andò ambasciatore in Inghilterra, fu gran pensionario di Olanda, ed esercitando con zelo e rettitudine esemplare quest’alti uffici coltivò amorosamente la poesia. La sera, dopo aver trattato degli affari dello Stato coi deputati delle provincie, si raccoglieva in casa a far versi. A settantacinque anni, chiese di essere esonerato dalle cariche, e quando lo Statoldero gli annunziò con parole onorevoli che la sua domanda era stata esaudita, egli cadde in ginocchio al cospetto dell’Assemblea degli Stati e ringraziò Iddio che l’avea sempre protetto nel corso della sua lunga e faticosa vita politica. Pochi giorni dopo si raccolse in una sua villa, dove godette una vecchiezza tranquilla e onorata, studiando e poetando fino al 1660, anno in cui morì, più che ottuagenario, pianto da tutta Olanda. Le sue poesie formano parecchi grossi volumi. Sono favole, madrigali, racconti, misti di storia e di mitologia, sparsi di descrizioni, di citazioni, di sentenze, di precetti; pieni di bontà, d’onestà e di dolcezza, e scritti con semplicità ingenua e delicata arguzia. Il suo volume è il libro della saggezza nazionale, la seconda Bibbia del popolo olandese, un manuale che insegna a vivere onesti ed in pace. Egli dà consigli a tutti; al ragazzo come al vecchio, al mercante come al principe, alla padrona di casa come alla serva, al ricco come al mendico. Insegna a spendere, a risparmiare, a far le [p. 237 modifica]faccende di casa, a governar la famiglia, ad educare i figliuoli. È nello stesso tempo amico, padre, direttore spirituale, maestro, economo, medico, avvocato. Ama la natura modesta, i giardini, i prati, adora sua moglie, lavora, è soddisfatto di sè e degli uomini, e vuole che tutti sian contenti come lui. Le sue poesie si trovano in tutte le case olandesi, accanto alla Bibbia. Non c’è capanna di contadino nella quale il capo della famiglia non ne legga qualche verso ogni sera. Nei giorni di dubbio e di tristezza tutti cercano e trovano un conforto nel loro vecchio poeta. Egli è l’amico intimo del focolare, il compagno assiduo dell’infermo; il suo è il primo libro sul quale si avvicinano i volti dei fidanzati; i suoi versi sono i primi che legge il bambino e gli ultimi che pronunzia il nonno. Nessun poeta fu più amato di lui. Ogni olandese sorride a udir rammentare quel nome, e non v’è straniero che sia stato in Olanda, il quale non lo pronunzi con un sentimento di simpatia e di rispetto.


Il terzo, Bilderdijk, nato nel 1756, morto nel 1831, fu uno dei più meravigliosi intelletti che siano mai apparsi nel mondo. Poeta, storico, filologo, critico, astronomo, chimico, medico, teologo, antiquario, giureconsulto, disegnatore, incisore, uomo inquieto, vagabondo, capriccioso, violento, la sua vita non fu che un’investigazione, una trasformazione, una battaglia perpetua del suo vastissimo ingegno. Giovanetto, e già poeta famoso, lascia la poesia, si getta nella [p. 238 modifica]politica, emigra collo Statoldero in Inghilterra e fa il maestro a Londra per vivere. Stanco dell’Inghilterra, va in Germania; seccato del romanticismo tedesco, torna in Olanda, dove Luigi Napoleone lo colma di favori. Ma Luigi lascia il trono, Napoleone il Grande toglie al Bilderdijk la pensione, ed egli è ridotto nella miseria. Domanda una cattedra all’Università di Leida, glie la rifiutano. Infine ottiene dal Governo un piccolo sussidio e continua a studiare, a scrivere, a combattere fino all’ultimo giorno della vita. Le sue opere si compongono di più di trenta volumi di scienza, di arte, di letteratura. Trattò tutti i generi e riuscì in tutti, fuor che nel drammatico. Allargò la critica storica, scrivendo una delle più belle storie nazionali che possegga il suo paese. Fece un poema, Il mondo primitivo, composizione grandiosa ed oscura, ammiratissima in Olanda. Trattò ogni maniera di quistioni mescolando paradossi stranissimi e verità luminose. Rialzò infine la letteratura nazionale ch’era caduta ai suoi tempi e lasciò una falange di discepoli eletti che seguirono le sue traccie in politica, in arte, in filosofia. Vi fu per lui in Olanda, più che entusiasmo, fanatismo; e non si può mettere in dubbio ch’ei sia stato, dopo Vondel, il più grande poeta del suo paese. Ma gli fece danno la passione religiosa, l’odio cieco contro le nuove idee, la poesia fatta strumento di sètta, la teologia intromessa in ogni cosa; per il che non s’elevò in quella regione serena e libera fuor della quale il genio non consegue vittorie durevoli e grido universale.

[p. 239 modifica]Intorno a questi tre poeti, che hanno in sè i tre vizi principali della letteratura olandese: di perdersi nelle nuvole, o di volare terra terra, o d’impigliarsi nella rete del misticismo, si raggruppano altri infiniti poeti epici, comici, satirici, lirici, i più del secolo decimosettimo, pochissimi del decimottavo; molti dei quali godono d’una grande fama in Olanda; ma di cui nessuno esce abbastanza di schiera, da richiamare l’attenzione dello straniero che passa.


Meritano piuttosto un rapido sguardo i tempi presenti.

Che la critica, spogliando la storia olandese del velo di poesia di cui l’aveva vestita il patriottismo degli scrittori, l’abbia condotta sulla via più larga e più feconda della giustizia; che gli studi filologici siano in altissimo onore e che quasi tutte le scienze abbiano in Olanda dei cultori di fama europea, è cosa che nessun studioso, in Italia, ignora, e che agli altri basta accennare.

Della letteratura propriamente detta, il genere più fiorente è il Romanzo. L’Olanda ha avuto il suo romanziere nazionale, il suo Walter Scott, in Van Lennep, morto pochi anni sono; scrittore di romanzi storici che furono accolti con entusiasmo da tutte le classi della società; pittore efficacissimo di costumi, dotto, arguto, maestro di descrizioni e dialogista ammirabile; ma che sovente è prolisso, si serve di vecchi artifici, adopera scioglimenti forzati e non nasconde sempre abbastanza sè medesimo.

[p. 240 modifica]L’ultimo suo romanzo, intitolato Le avventure di Nicoletta Zevenster, nel quale, rappresentando magistralmente la società olandese del principio di questo secolo, ebbe l’inaudito ardimento di descrivere una casa innominabile dell’Aja, mise sossopra l’Olanda intera, fu commentato, discusso, vilipeso, levato a cielo; e la battaglia dura ancora. Altri romanzi storici, scrissero uno Schimmel, emulo degno del Van Lennep; e una signora Rosboon Toussaint, scrittrice coltissima, ricca di studi virili e d’ingegno profondo. Malgrado questo, il romanzo storico, anche in Olanda, si può considerar come morto. Miglior fortuna hanno il romanzo di costumi e la novella, nei quali primeggiano un Beets, ministro protestante e poeta, autore d’un libro celebre intitolato la Camera oscura, un Koetsveld, e alcuni giovani di bell’ingegno, a cui contende di levarsi in alto il demonio persecutore della letteratura del giorno: la fretta.

L’Olanda ha ancora un genere di romanzo suo proprio, che si potrebbe chiamare romanzo indiano, il quale ritrae i costumi e la vita dei popoli delle colonie; e di questo genere ne uscirono negli ultimi anni parecchi, che furono accolti con molto plauso nel paese, e tradotti in varie lingue; fra gli altri, il Bel mondo di Batavia, del professore Ten Brink, giovane, dotto e brillante scrittore, del quale vorrei poter parlare diffusamente per attestargli in qualche modo la mia gratitudine e la mia ammirazione. Ma a proposito di romanzi indiani, è bello il notare [p. 241 modifica]come in Olanda si veda e si senta a ogni passo qualcosa che rammenta le sue colonie; come un raggio del sole delle Indie penetri a traverso la sua bruma e colori la sua vita. Oltre i bastimenti che portano un soffio di quei paesi nei porti delle sue città, oltre gli uccelli, i fiori, i mille oggetti, che come suoni sparsi d’una musica lontana, fanno balenare alla mente l’immagine d’un’altra natura e d’un’altra razza; non è raro incontrare nelle città d’Olanda, in mezzo ai mille visi bianchi, faccie abbronzate dal sole, di gente nata o vissuta per molti anni nelle colonie; negozianti che parlano con vivacità insolita delle donne brune, dei banani, dei boschi di palme, e dei laghi ombreggiati dalle liane; giovani arditi che si rischiarono in mezzo ai selvaggi dell’isola di Borneo e di Sumatra; scienziati, letterati, ufficiali che parlano degli adoratori dei pesci, degli ambasciatori che portan le teste dei vinti appesi alla cintura, dei combattimenti dei tori e delle tigri, delle furie dei bevitori d’oppio, delle moltitudini battezzate colle pompe; di mille cose strane e mirabili, che fanno un effetto singolare dette da quella gente fredda in quel paese tranquillissimo.

La poesia dopo aver perduto il Da Costa, discepolo del Bilderdijk, poeta religioso ed entusiasta, e il Genestet, poeta satirico, morto giovanissimo, non ha più che pochi campioni della generazione passata, i quali tacciono, o cantano con voce affievolita. In peggiori condizioni è il teatro. Gli artisti olandesi [p. 242 modifica]incolti e declamatori, non recitano per lo più che drammi o commedie tedesche o francesi, male tradotte, che l’alta società non va a sentire. Scrittori olandesi di molto ingegno, come l’Hofdijk, lo Schimmel, lo stesso Van Lennep, scrissero commedie per molti lati pregevoli; ma che non piacquero abbastanza per rimaner vive sulle scene. La tragedia non è in migliori condizioni della commedia o del dramma.

Da quanto ho detto, parrebbe che in Olanda non ci dovess’essere un grande movimento letterario; e c’è invece grandissimo. È incredibile la quantità di libri che si pubblicano ed è meravigliosa l’avidità con cui sono letti. Ogni città, ogni sètta religiosa, ogni consorteria ha la sua rivista o la sua gazzetta. Oltre a questo, una colluvie di libri stranieri; i romanzi inglesi, in mano di tutti; opere francesi di otto, dieci, venti volumi, tradotti nella lingua nazionale, cosa mirabile in un paese dove tutte le persone colte le possono leggere nell’originale, e che prova quanto vi sia l’uso, non solo di leggere, ma di comprare, nonostante che i libri siano assai più cari in Olanda che in altri paesi. Ma è appunto questa sovrabbondanza di pubblicazioni e questa furia di leggere che nuoce alla letteratura. Gli scrittori, per soddisfare l’impaziente curiosità del pubblico, tiran via, e la mania delle letture straniere soffoca e corrompe il genio nazionale. Malgrado ciò, la letteratura olandese ha ancora un grande titolo alla benemerenza della patria: è caduta, ma [p. 243 modifica]non s'è pervertita; ha conservato la sua innocenza e la sua freschezza; quello che le manca di fantasia, d’originalità, di splendore, è compensato dalla saggezza, dal rispetto severo del buon costume e del buon gusto, dalla sua amorosa sollecitudine per le classi povere, dall’opera efficacissima colla quale promuove la beneficenza e l’educazione civile. Altre letterature sono grandi piante vestite di fiori odorosi; la letteratura olandese è un piccolo albero carico di frutti.


La mattina che partii dall’Aja, la seconda volta che vi fui, alcuni dei miei più cari amici m’accompagnarono alla stazione della strada ferrata. Il tempo era piovoso. Quando fummo nella sala dei viaggiatori, pochi momenti prima che partisse il treno, ringraziai i miei buoni ospiti delle gentili accoglienze che m’avevan fatte, e poichè sapevo che forse non li avrei mai più riveduti, non potei a meno di esprimere la mia gratitudine con parole affettuose e melanconiche, ch’essi ascoltarono in silenzio. Uno solo m’interruppe per raccomandarmi che mi guardassi dall’umidità. “Venga qualcuno di loro in Italia,” io continuai; “non foss’altro che per darmi l’occasione di mostrargli la mia riconoscenza. Mi facciano questa promessa perchè io possa partire col cuore un po’ consolato. Non parto se qualcuno non mi dice che verrà in Italia.” Si guardarono in viso, e uno rispose a fior di labbra: “Forse.” Un altro mi diede il consiglio di non far mai cambiare l’oro francese [p. 244 modifica]nelle botteghe. In quel momento suonò il campanello della partenza. “Dunque addio,” dissi colla voce un po’ commossa, stringendo le mani a tutti “a rivederci; non dimenticherò mai i bei giorni passati all’Aja, riterrò sempre i loro nomi come la più cara memoria del mio viaggio, si ricordino qualche volta di me.” — “Addio,” risposero tutti collo stesso tuono di voce, come se ci fossimo dovuti rivedere il giorno dopo. Salii nel vagone col cuore stretto, m’affacciai al finestrino nel punto che partiva il treno, e li vidi tutti là immobili, muti, col viso impassibile, cogli occhi fissi nei miei. Feci un ultimo saluto, a cui risposero con un leggero cenno del capo, e disparvero ai miei occhi per sempre. Ogni volta che penso a loro, li rivedo, come se li avessi lasciati poc’anzi, in quello stesso atteggiamento, con quei volti gravi e quegli occhi fissi, e l’affetto che sento per essi ha qualche cosa di austero e di triste, come il cielo sotto cui li vidi per l’ultima volta.