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L'AJA. 203

appunta nel seno del suo superbo nemico. Le palafitte e i massi erano sferzati, morsi, schiaffeggiati da ogni parte, sorvolati da ondate sdegnose, sputacchiati da una pioggia vaporosa che li nascondeva come un nuvolo di polvere; ravvolti da ringorghi contorti come serpenti furiosi; percossi, anche i lontani dalla lotta, da spruzzi inaspettati e lunghissimi, come avanguardie impazienti di quell’esercito infinito; e intanto l’acqua saliva e si avanzava costringendo gli operai più lontani a indietreggiare a mano a mano.

Sulla diga più lunga, non molto lontano dalla spiaggia, si stava piantando delle palafitte. Alcuni operai sollevavano a gran fatica, per mezzo d’un apparecchio a carrucole, dei blocchi di granito; e altri, a dieci, a quindici insieme, rimovevano vecchie travi per far posto alle nuove. Era bello a vedersi il contrasto tra la furia delle onde che flagellavano i fianchi della diga, e la calma impassibile di quegli uomini che pareva quasi un’espressione di disprezzo per il mare. Mi passò per la mente che dicessero in cuor loro, come il marinaio dell’orca dei Comprachicos nel romanzo di Vittor Hugo: “Muggi, vecchio!” Un vento, che agghiacciava le carni, faceva ondeggiare sul viso di quei bravi olandesi i loro lunghi riccioli biondi, e gettava tratto tratto ai loro piedi e sui loro vestiti degli spruzzi di schiuma: sciocche provocazioni, alle quali non rispondevano neanche collo sguardo.

Vidi piantare nel mezzo della diga una palafitta,