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L'AJA. 209

Invece di andar verso la porta, piglia una scorciatoia; ci scoppia alle spalle un feroce latrar di cani, ci mettiamo a correre, attraversiamo una foresta di cespugli, saltiamo un muricciuolo, picchiamo a una porticina. “Siamo ancora in tempo!” esclamo. “È tardi!” mi risponde l’amico. La porta s’apre, non c’è nessuno; saliamo per una scaletta a chiocciola, entriamo in una stanzina.... Oh dolce meraviglia! Il solitario, lo stregone, era un giovanotto allegro e gentile; e la casa diabolica era una villetta piena di comodi, calda, luccicante, sibaritica, una vera palazzina fatata, nella quale il nostro ospite si raccoglieva alcuni mesi dell’anno a fare studi ed esperienze per infertilire le dune. Che gusto era veder quel freddo deserto a traverso una finestrina colle tende frangiate e coi vasi di fiori! Entrammo nel salotto da pranzo e sedemmo intorno a una tavola scintillante di argenteria e di cristalli, sulla quale, in mezzo a una corona di bottiglie blasonate e dorate, fumava un desinare da principi. La neve batteva contro i vetri delle finestre, s’udiva il lamento del mare, e il vento infuriava intorno alla casa, che pareva d’essere in un bastimento nel forte della burrasca. Si propinò all’infertilimento delle dune, ai vincitori di Atchin, alla prosperità delle colonie, alla memoria di Nino Bixio, alle fate.... Eppure un po’ d’inquietudine mi rimaneva ancora. Il nostro ospite, per chiamare il cameriere, toccava un ordigno nascosto; per avvertire il cocchiere che preparasse la carrozza, diceva non so che parole in un buco