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L'AJA. 171

È tempo ora d’andar a vedere il Museo di pittura che è il più bel gioiello dell’Aja.

Appena entrati, ci si trova dinanzi alla più celebre di tutte le bestie dipinte: il toro di Paolo Potter; quell'immortale toro che, come ho detto, ebbe l’onore, nel Museo del Louvre, quando c’era la mania di classificare i quadri in una sorta di gerarchia di celebrità, d’esser posto accanto alla Trasfigurazione di Raffaello, al san Pietro martire del Tiziano e alla Comunione di san Geronimo del Domenichino; quel toro, che l’Inghilterra pagherebbe un milione di lire, e l’Olanda non darebbe per il doppio; quel toro infine, sul quale furono certamente scritte più pagine che non ci abbia dato pennellate il pittore, e su cui si scrive e si disputa ancora, come se invece d’una immagine fosse una creazione vera e viva d’un nuovo animale.

Il soggetto del quadro è semplicissimo: un toro di grandezza naturale, ritto, col muso rivolto verso chi guarda; una vacca accosciata in terra; alcune pecore, un pastore, un paesaggio lontano.

Il merito supremo di questo toro, si dice in una parola: è vivo. L’occhio grave ed attonito, che esprime il sentimento d’una vitalità vigorosa e d’una alterezza selvaggia, è reso con tanta verità, che, a primo aspetto, vien quasi fatto di scansarsi a destra e a sinistra, come si fa in un sentiero in campagna, quando s’incontra uno di quegli animali. Le narici umide e nere, par che fumino e assorbiscano