Olanda/Delft
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DELFT.
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Andando da Rotterdam a Delft, vidi per la prima volta la campagna olandese.
È tutta una pianura, una successione di praterie verdi e fiorite, percorse da lunghe file di salici e sparse di gruppi di ontani e di pioppi. Qua e là si vedono punte di campanili, ali giranti di mulini a vento, armenti sparpagliati di grandi vacche bianche e nere, qualche pastore; e per vastissimi spazii, solitudine. Non v’è nulla che colpisca l’occhio, nulla che s’alzi, nulla che precipiti. Tratto tratto, in lontananza, passa la vela d’un bastimento, il quale scorrendo sur un canale che non si vede, pare che scorra sull’erba dei prati; e ora sparisce dietro gli alberi, ora riapparisce. La luce pallida dà alla campagna non so che di molle e di malinconico. Una bruma leggerissima fa parere ogni cosa lontana. V’è una sorta di silenzio per l’occhio, una pace di linee e di colori. un riposo di tutte le cose, nel quale sembra che lo sguardo illanguidisca e l’immaginazione si culli.
A poca distanza da Rotterdam si vede la città di Schiedam, circondata da altissimi mulini a vento che le dan l’aspetto d’una città forte coronata di torri; e in lontananza appariscono le torri del villaggio di Vlaardingen, che è una delle principali stazioni della gran pesca dell’aringa.
Da Schiedam a Delft considerai particolarmente i mulini a vento. I mulini olandesi non somiglian punto a quei decrepiti mulini che avevo visti un anno prima nella Mancia, i quali pare che stendano le loro magre braccia per chiedere soccorso al cielo e alla terra. I mulini olandesi sono grandi, forti e pieni di vita; e don Chisciotte, prima di assalirli, ci avrebbe pensato due volte. Alcuni sono in muratura, rotondi od ottagoni come torri medioevali; altri di legno, e presentano la forma d’una casetta confitta sul vertice d’una piramide. I più hanno il tetto coperto di stoppie, un terrazzino di legno che li circonda a mezza altezza, finestre colle tendine bianche, porte colorite di verde, e sulla porta, scritto l’uso a cui servono. Oltre ad assorbire le acque, essi fanno un po’ d’ogni cosa: macinano il grano, pestano i cenci, tritan la calce, frantuman le pietre, segan le legna, spremon le olive, polverizzano il tabacco. Un mulino equivale a un podere, e per fabbricarlo, per provvederlo di grano, di colza, di farina, d’olio, per mantenerlo in attività e metterne in commercio i prodotti, ci vuole una considerevole fortuna. Perciò in molti luoghi la ricchezza dei proprietarii si misura dal numero dei mulini; a mulini si calcolano le eredità; di una ragazza si dice che ha uno, due mulini a vento di dote, o due mulini a vapore, che è anche meglio; e gli speculatori, che ci son da per tutto, chiedono la mano della ragazza per sposare il mulino. Questa miriade di torri alate sparse per il paese, danno alla campagna un aspetto singolare; animano la solitudine; di notte, in mezzo agli alberi, hanno un’apparenza fantastica come d’uccelli favolosi che guardino il cielo; di giorno, da lontano, paiono enormi macchine di fuochi artificiali; girano, s’arrestano, s’affrettano, si rallentano; rompono il silenzio col loro tic tac sordo e monotono; e quando per caso s’incendiano, il che non è raro, specialmente i mulini da grano, formano una rota di fiamme, una pioggia furiosa di farina accesa, un turbinio di nuvoli di foco, un tumulto, uno splendore tremendo e magnifico, che dà l’idea d’una visione infernale.
Nel vagone, benché ci fosse molta gente, non ebbi occasione di dire una parola, e neanco d’udirne. Eran tutti uomini maturi, con visi serii, che si guardavano in silenzio, gettando dei gran nuvoli di fumo a intervalli uguali, come se avessero voluto misurare il tempo col sigaro. Quando s’arrivò a Delft, scesi e salutai: qualcuno mi rispose con un leggero movimento delle labbra.
«Delft,» dice messer Ludovico Guicciardini, «si chiama così dalla fossa, o vuoi dir canale d’acque che dalla Mosa vi conducono, imperocché essi chiamano vulgarmente una fossa Delft. È distante da Rotterdam due leghe: è Terra veramente grande & bellissima in tutte le parti, con buoni & belli edifitij & strade larghe & gioconde. Fu fondata da Gioffredo cognominato il Gobbo, duca di Lotharingia, il quale per circa quattro anni occupò la contea d’Hollanda."
Delft è la città delle disgrazie. Verso la metà del secolo decimosesto un incendio la distrusse quasi interamente; nel 1654 ci scoppiò una polveriera che mandò in aria più di duecento case; e nel 1742, vi seguì un’altra catastrofe della stessa natura. Oltre a questo, ci fu assassinato Guglielmo il Taciturno nell’anno 1584. E per giunta, vi decadde, ne sparì quasi un’industria ch’era la sua gloria e la sua ricchezza: l’industria della maiolica, nella quale gli artisti olandesi avevan cominciato coll’imitare le forme e i disegni delle porcellane chinesi e giapponesi, e poi eran riusciti a far dei lavori ammirabili, che riunivano il carattere asiatico al carattere olandese, e si spandevano per tutta l’Europa settentrionale, ed oggi ancora sono ricercati dagli amatori di quell’arte, quasi altrettanto che i più bei lavori d’Italia.
Ora Delft non è più né città d’industrie, nè città di commercio; e i suoi ventiduemila abitanti vivono in una pace profonda. Ma è una delle città più graziose e più olandesi dell’Olanda. Le strade son larghe, percorse da canali ombreggiati da due file d’alberi, fiancheggiate da casette rosse, pavonazze, rosee, listate di bianco, che sembran contente d’esser pulite; ad ogni crocicchio s’incontrano e si corrispondono due o tre ponti di pietra o di legno colle spallette tinte di bianco; non si vede che qualche barcone immobile che par che gusti la dolcezza dell’ozio; poca gente, le porte chiuse, nessun rumore.
Mi diressi verso la Nuova chiesa guardando qua e là se c’erano i famosi nidi delle cicogne; ma non ne vidi. La tradizione delle cicogne di Delft è però sempre viva, e non c’è viaggiatore che scriva di quella città senza rammentarla. Il Guicciardini la chiama "cosa memorabile e tale che di cosa simile non c’è forse memoria alcuna antica o moderna." Il fatto avvenne al tempo del grande incendio che distrusse quasi tutta la città. V'erano in Delft innumerevoli nidi di cicogne. Bisogna sapere che le cicogne son gli uccelli prediletti dell’Olanda; gli uccelli del buon augurio, come le rondini; che son cercate da per tutto, perchè fanno la guerra ai rospi e ai topi; che i contadini piantano delle pertiche con su un gran disco di legno per attirarle a farvi il nido; e che in alcune città si vedon passeggiar per le strade. A Delft dunque ve n’erano dei nidi innumerevoli. Quando l’incendio scoppiò, che fu il tre di maggio, i cicognini erano già grandicelli; ma non potevano ancora volare. Vedendo avvicinarsi il fuoco, le cicogne padri e madri tentarono di portare in salvo i loro piccini; ma eran già troppo pesanti; e dopo aver fatto ogni sorta di sforzi disperati, i poveri animali stanchi e atterriti ci dovettero rinunziare. Avrebbero potuto salvarsi e abbandonare i piccini alla loro sorte, come fanno per lo più le creature umane in simili casi. Restarono invece nei nidi, strinsero i piccini intorno a sè, vi stesero sopra le ali come per ritardare almeno d’un momento la loro fine, e così aspettarono la morte, e rimasero esanimi in quell’atteggiamento amoroso ed altiero. E chi sa che in quel orribile fuggi fuggi dell’incendio, l’esempio del sacrifizio, del martirio volontario di quelle povere madri, non abbia ridato coraggio a qualche pusillanime che stava per abbandonare chi aveva bisogno di lui!
Nella grande piazza dov’è la nuova chiesa, rividi delle botteghe, che avevo già osservato a Rotterdam, nelle quali tutti gli oggetti che si possono attaccare l’uno all’altro, sono appesi fuor della porta o nell’interno, in modo da formare delle ghirlande, dei festoni, delle tende, di scarpe, per esempio, di pentole, d’innaffiatoi, di ceste, di secchiolini, che spenzolano dal soffitto fino quasi in terra e qualche volta nascondono quasi completamente il fondo della stanza. Le insegne sono come a Rotterdam; una bottiglia di birra appesa a un chiodo, un pennello, una scatola, una scopa, e i soliti testoni colla bocca spalancata.
La nuova chiesa, fondata verso la fine del decimoquarto secolo, è per l’Olanda quello che è l’abbazia di Westminster per l’Inghilterra. È un grande edifizio, cupo di fuori, nudo dentro; una prigione piuttosto che una casa di Dio. Le tombe sono in fondo, dietro il recinto delle panche.
Appena entrato, vidi lo splendido mausoleo di Guglielmo il Taciturno; ma il custode mi arrestò dinanzi alla tomba semplicissima di Ugo Grotius, il prodigium Europæ, come lo chiama l’epitaffio, il grande giureconsulto del secolo XVII; quel Grotius che scriveva versi latini a nove anni, che componeva odi greche a undici, che trattava tesi di filosofia a quattordici, che accompagnava tre anni dopo l’illustre Barneveldt nella sua ambasciata a Parigi, dove Enrico IV, presentandolo alla sua corte, diceva: « Ecco il miracolo dell’Olanda;» quel Grotius che a diciott’anni era illustre come poeta, come teologo, come commentatore, come astronomo e faceva una prosopopea della città d’Ostenda, che il Casaubon traduceva in versi greci e il Malherbe in versi francesi; quel Grotius che appena ventiquattrenne esercitava la carica d’avvocato generale d’Olanda e di Zelanda e scriveva un celebre trattato della Libertà dei mari; che a trenta era consigliere pensionario della città di Rotterdam; poi fautore del Barneveldt, perseguitato, condannato a prigionia perpetua e chiuso nel castello di Loevestein, dove scriveva il trattato del Diritto della pace e della guerra, che fu per lungo tempo il codice di tutti i pubblicisti d’Europa; poi salvato miracolosamente da sua moglie, che si fece portare nella sua prigione dentro un cofano creduto pieno di libri, e rimandò il cofano con lui dentro, rimanendo prigioniera invece sua; poi ospitato da Luigi XIII, nominato ambasciatore in Francia da Cristina di Svezia, e infine tornato trionfante in patria e morto a Rostock carico d’anni e di gloria.
Il mausoleo di Guglielmo il Taciturno è nel mezzo della chiesa. È una sorta di tempietto di marmo nero e bianco, carico d’ornamenti e sostenuto da piccole colonne, in mezzo alle quali s’alzano quattro statue che rappresentano la Libertà, la Prudenza, la Giustizia e la Religione. Sopra il sarcofago è distesa la statua del principe, di marmo bianco, e ai suoi piedi, l’effigie del piccolo cane che gli salvò la vita all’assedio di Malines, svegliandolo coi latrati una notte che dormiva sotto la tenda, mentre due Spagnuoli s’avvicinavano di soppiatto per assassinarlo. Ai piedi di questa statua sorge una bella figura di bronzo, che simboleggia la Vittoria, coll’ali spiegate, e appoggiata sopra le sole dita del piede sinistro; e dalla parte opposta del tempietto, un’altra statua di bronzo, che rappresenta Guglielmo, seduto, rivestito dell’armatura, col capo scoperto e l’elmo ai piedi. Un’iscrizione latina dice che il monumento fu consacrato dagli Stati d’Olanda, «all’eterna memoria di quel Guglielmo di Nassau, che Filippo II, timor d’Europa, temette, non domò, non atterrì; ma spense con frode nefanda.» Accanto a Guglielmo son sepolti i suoi figli, e nella critta sotto la tomba, tutti i principi della sua dinastia.
Davanti a questo monumento, anche il viaggiatore più leggiero e più trascurato si sente come incatenato e costretto a pensare.
È bello rappresentarsi la lotta enorme di cui riposa in quella tomba il vincitore.
Da una parte è Filippo II, dall’altra Guglielmo d’Orange. Filippo II, chiuso nella solitudine sinistra dell’Escuriale, è nel mezzo d’un impero che abbraccia la Spagna, il settentrione e il mezzogiorno d’Italia, il Belgio e l’Olanda; in Africa, Oran, Tunisi, gli arcipelaghi del Capoverde e delle Canarie; in Asia le isole Filippine; in America, le Antille, il Messico, il Perù; è marito della regina d’Inghilterra; è nipote dell’imperatore d’Alemagna, che gli obbedisce quasi come un vassallo; è signore, si può dire, d’Europa, poichè non gli son vicini che popoli infiacchiti dalle discordie politiche e religiose; ha sotto la mano i soldati più agguerriti d’Europa, i più grandi capitani del secolo, l’oro americano, l’industria fiamminga, la scienza italiana, un esercito di delatori sparpagliati in tutte le corti, uomini eletti di tutti i paesi, fanaticamente devoti a lui, strumenti inconsapevoli o convinti dei suoi voleri; è il più astuto, il più misterioso principe del suo tempo; ha per sè tutto quello con cui s’incatena, si corrompe, si spaventa e si strascina il mondo: le armi, la ricchezza, la gloria, il genio, la religione. Ebbene, davanti a quest’uomo formidabile, intorno al quale tutto piega, Guglielmo d’Orange si solleva.
Quest’uomo senza regno e senza esercito è più potente di lui. Come lui, è stato discepolo di Carlo V, e ha imparato l’arte con cui si fondano i troni e l’arte con cui si fanno precipitare. Come lui è astuto e impenetrabile; ma vede più profondamente cogli occhi dell’intelletto nell’avvenire. Possiede, come il suo nemico, la facoltà di leggere nell’anima degli uomini; ma ha sopra di lui la facoltà di guadagnare i cuori. Ha una buona causa da sostenere; ma sa valersi di tutte le arti con cui si sostengono le cattive. Filippo II, che spia e indovina tutti gli uomini, è alla sua volta spiato e indovinato da lui. I disegni del gran re sono scoperti e sventati prima ancora che messi in opera; mani misteriose frugano nelle sue cassette e nelle sue tasche, e rimestano le sue carte segrete; Guglielmo, dall’Olanda, legge nella mente a Filippo, nell’Escuriale; previene, arresta, scompiglia tutte le sue trame; gli scava il terreno sotto i piedi; lo provoca e lo sfugge e gli ritorna perpetuamente dinanzi come un fantasma ch’egli vede e non può afferrare, che afferra e non può distruggere. E infine muore, ma la vittoria rimane a lui morto, e la sconfitta al nemico che sopravvive. L’Olanda riman per poco senza capo, ma la monarchia spagnuola ha avuto un tale tracollo che non si potrà mai più rilevare.
In questa lotta prodigiosa, nella quale la figura del gran Re rimpicciolisce via via fin che dispare dalla scena del mondo, il principe d’Orange grandeggia e si solleva man mano fino ad essere la più gloriosa figura del suo secolo. Il giorno in cui, essendo ostaggio presso il Re di Francia, scopre il disegno di Filippo, di stabilire l’Inquisizione nei Paesi Bassi, quel giorno egli consacra sè stesso alla difesa delle libertà della sua patria e in tutta la vita non vacilla più un momento sulla via che ha intrapresa. I vantaggi della nobiltà dei natali, una fortuna reale, la pace e la vita splendida che amava per natura e per costume, sacrifica tutto alla sua impresa; si riduce povero e proscritto, e nella proscrizione e nella povertà respinge costantemente le offerte di perdoni e di favori che gli vengon fatte da mille parti e per mille vie dal nemico che l’odia e che lo teme. Circondato d’assassini, fatto bersaglio delle calunnie più atroci, accusato persino di vigliaccheria dinanzi al nemico e dell’assassinio d’una sposa che adorava, guardato qualche volta con diffidenza, calunniato, osteggiato dal medesimo popolo ch’egli difende, sopporta tutto in silenzio, con dolcezza. Va diritto alla sua mèta affrontando pericoli infiniti con coraggio tranquillo. Non piega, non adula mai il popolo, non si lascia trascinare dalle passioni del suo paese; è sempre lui che guida, sempre alla testa, il primo; tutto si raggruppa intorno a lui; è la mente, la coscienza e il braccio della rivoluzione; il focolare che irradia e che conserva il calore della vita nella sua patria. Grande per audacia e per prudenza, procede integro in un tempo di spergiuri e di perfidie; riman mite, in mezzo ad uomini violenti; conserva le mani immaculate, mentre tutte le corti d’Europa si macchiano di sangue. Con un esercito raccogliticcio, con alleati deboli od incerti, intralciato dalle discordie interne di luterani e calvinisti, di nobili e di borghesi, di magistrati e di popolo, senza alcun grande capitano, dovendo lottare contro lo spirito municipale delle provincie che s’adombrano della sua autorità e sfuggono sotto la sua mano, egli trionfa in una lotta che sembra superiore alle forze umane; stanca il duca d’Alba, stanca il Requescens, stanca don Giovanni d’Austria, stanca Alessandro Farnese; manda a vuoto le trame dei principi stranieri che vogliono soccorrere il suo paese per assoggettarlo; conquista simpatie e strappa aiuti da ogni parte d’Europa; e compiendo una delle più belle rivoluzioni della storia, fonda uno stato libero a dispetto d’un Impero ch’era lo spavento dell’universo.
Quest’uomo così tremendo e così grande in faccia al mondo, era pure un marito e un padre affettuoso, un amico e un compagno affabile, amante dello brigate allegre, dei conviti; ospite magnifico e gentile. Era colto; sapeva oltre il fiammingo, il francese, il tedesco, lo spagnuolo, l’italiano, il latino; discorreva dottamente di ogni cosa. Benchè soprannominato il Taciturno (più per aver serbato lungo tempo il segreto scoperto alla corte di Francia, che per abitudine che avesse di tacere) era uno degli uomini più eloquenti del suo tempo. Era semplice di maniere, modesto nel vestire, amava e si faceva amare dal popolo; passeggiava per le strade della città, solo, senza cappello; s’intratteneva cogli operai e coi pescatori, che gli offrivano da bere nei loro bicchieri; ascoltava i loro ricorsi, componeva le loro liti, entrava nelle case a ristabilir la concordia nelle famiglie; ed era chiamato da tutti padre Guglielmo. E fu infatti padre, piuttosto che figlio, della sua patria. Il sentimento d’ammirazione e di gratitudine che vive ancora per lui nel cuore degli Olandesi, ha tutta l’intimità e la tenerezza d’un affetto figliale; il suo venerato nome suona ancora su tutte le bocche; la sua grandezza, spoglia d’ogni ornamento e d’ogni velo, è rimasta intera, netta, salda, come l’opera sua.
Vista la tomba, andai a vedere il luogo dove il principe d’Orange fu assassinato. Ma dopo aver ricordato com’egli visse, bisogna ricordare com’egli morì.
Nell’anno 1580, Filippo II aveva pubblicato un editto col quale prometteva una ricompensa di venticinque mila scudi d’oro e un titolo di nobiltà a colui che uccidesse il principe d’Orange. Quest’editto infame, che stimolava a un tempo la cupidigia e il fanatismo, aveva fatto pullulare da ogni parte assassini, che s’aggiravano intorno al principe d’Orange, con falsi nomi e con armi nascoste, spiando l’occasione. Un giovane biscaglino, di nome Jaureguy, cattolico fervente, al quale un frate domenicano aveva promesso la gloria del martirio, fece il primo tentativo. Si preparò col digiuno e colla preghiera, udì la messa, prese la comunione, si coperse di reliquie sacre, penetrò nel palazzo dell’Orange, e accostandosi al principe in atto di porgergli una supplica, gli tirò un colpo di pistola nel capo. La palla gli attraversò la mascella, ma la ferita non fu mortale; il principe d’Orange guarì. L’assassino fu straziato in sull’atto a colpi di spada e d’alabarda; poi squartato sulla piazza pubblica; e le sue membra appese a una delle porte d’Anversa, dove rimasero fin che il duca di Parma essendosi impadronito della città, i Gesuiti le raccolsero e le presentarono come reliquie alla venerazione dei fedeli.
Poco tempo dopo fu sventata un’altra congiura contro la vita del principe. Un gentiluomo francese, un italiano e un vallone, che lo seguivano da qualche tempo col proposito d’ucciderlo, furono scoperti e arrestati. Uno d’essi si uccise in prigione con una coltellata, l’altro fu strangolato in Francia, il terzo riuscì a fuggire, dopo aver confessato che tutti e tre avevano congiurato insieme per ordine espresso del duca di Parma.
In questo frattempo gli agenti di Filippo percorrevano il paese istigando i ribaldi all’assassinio colla promessa di tesori, e i preti e i frati istigavano i fanatici colla promessa dell’aiuto e della ricompensa del cielo. Altri assassini tentarono. Uno spagnuolo, scoperto e arrestato, fu squartato ad Anversa; un ricco negoziante, di nome Hans Jansen, fu ucciso a Flessinga. Parecchi avevano offerto il loro braccio al principe Alessandro Farnese e n’avevano ricevuto incoraggiamenti e denari. Il principe d’Orange, che sapeva tutto questo, nutriva un vago presentimento della sua prossima morte, lo diceva ai suoi famigliari, e rifiutando di prendere qualsiasi misura per assicurare la propria vita, rispondeva a chi gli dava quel consiglio: «È inutile. Dio sa il conto dei miei anni. Egli ne dispone a sua volontà. Se v’è qualche miserabile che non teme la morte, la mia vita è in sua balía, per quanto io mi guardi.»
Otto assassinii, prima di quello che riuscì, furono tentati contro di lui.
Al tempo in cui l’ultimo fu consumato, nell’anno 1584, quattro scellerati, senza sapere l’uno dell’altro, un inglese, uno scozzese, un francese e un lorenese, stavano a Delft, dove si trovava il principe di Orange, aspettando tutti e quattro l’occasione di assassinarlo. Oltre a questi, c’era da qualche tempo un giovane di 27 anni, della Franca Contea, cattolico, che si faceva passare per protestante, di nome Guyon, figlio di Pietro Guyon che era stato giustiziato a Besançon per aver abbracciato il calvinismo. Questo nominato Guyon, il cui vero nome era Baldassarre Gerard, faceva credere d’esser fuggito alle persecuzioni dei cattolici, menava una vita austera, assisteva a tutti gli esercizi del culto evangelico; in poco tempo, si era acquistato la fama di santo. Dicendo d’esser andato a Delft per domandar l’onore d’essere ammesso al servizio del principe d’Orange, ottenne colla raccomandazione d’un ministro protestante d’essergli presentato; gl’ispirò fiducia; e fu da lui destinato ad accompagnare il signor di Scho- newalle, inviato degli Stati d’Olanda alla corte di Francia. Poco tempo dopo tornò a Delft per dare al principe Guglielmo la notizia della morte del duca d’Angiò; e si presentò al convento di Sant’Agata dove il principe soggiornava colla sua corte. Era la seconda domenica di luglio. Guglielmo lo ricevette nella sua camera, stando a letto. Eran soli. Baldassarre Gerard ebbe forse in quel momento la tentazione d’ucciderlo; ma non aveva armi, si contenne, e dissimulando la sua impazienza, rispose tranquillamente a tutte le domande. Guglielmo gli diede una piccola somma di denaro, gli disse di prepararsi a ripartire per Parigi e gli ordinò di tornare il giorno seguente a prender le lettere e il passaporto. Col danaro ricevuto dal principe, il Gerard comprò due pistole da un soldato (il quale s’uccise quando seppe a che uso le sue armi eran servite) e il giorno dopo, il dieci luglio, si ripresentò al convento di Sant’Agata. Il principe Guglielmo, accompagnato da parecchie dame e signori della sua famiglia, scendeva le scale per andare a desinare in una sala a terreno, e dava il braccio alla principessa d’Orange, sua quarta moglie; quella gentile e sventurata Luisa di Coligny, che nella notte di san Bartolommeo aveva visto uccidere ai suoi piedi l’ammiraglio suo padre e il signor di Téligny suo marito. Baldassarre gli andò incontro, lo arrestò e lo pregò di firmare il suo passaporto. Il principe gli disse di ripassare più tardi ed entrò nella sala. Nemmeno un’ombra di sospetto gli era passata per la mente. Ma Luisa di Coligny, resa cauta e sospettosa dalla sventura, s’era turbata. Quell’uomo pallido, avvolto in un lungo mantello, le aveva fatto un’impressione sinistra; le era parso che la sua voce fosse alterata e il suo volto convulso. Durante il desinare, manifestò i suoi sospetti a Guglielmo, e gli domandò chi fosse quell’uomo «che aveva la più cattiva fisonomia ch’essa avesse mai vista.» Il principe sorrise, le disse che era il Guyon, la rassicurò, fu gaio come sempre durante il desinare, e finito che ebbe uscì tranquillamente per risalire alle sue stanze. Il Gerard l’aspettava sotto una vòlta oscura, accanto alla scala, nascosto nell’ombra della porta. Appena vide comparire il principe, s’avanzò, gli fu addosso nel momento che metteva il piede sul secondo scalino, gli sparò una pistola carica di tre palle nel mezzo del petto, e si diede alla fuga. Il principe vacillò e cadde fra le braccia d’uno scudiero; tutti accorsero; egli disse con voce spenta: "Son ferito.... mio Dio, abbi pietà di me e del mio povero popolo!" Era tutto intriso di sangue. Sua sorella Caterina di Schwartzbourg, gli domandò: "Raccomandi la tua anima a Gesù Cristo?" Egli rispose con un filo di voce: "Sì." Fu la ultima sua parola. Lo posero a sedere sopra uno scalino, lo interrogarono: non era più in sè. Lo portarono in una stanza vicina, e spirò.
Il Gerard aveva attraversato le scuderie, era fuggito dal convento e arrivato sul bastione della città di dove contava saltar giù nel fosso e raggiungere a nuoto la riva opposta dove l’aspettava un cavallo sellato. Ma fuggendo, aveva lasciato cadere il cappello e la seconda pistola. Un servitore e un alabardiere del principe, visto quella traccia, si slanciano dietro di lui. Nel punto che sta per spiccare il salto, incespica, i due insecutori sopraggiungono e lo afferrano. "Traditore d’inferno!" gli gridano. Egli risponde con calma: "Non sono un traditore; sono un servitore fedele del mio signore." — "Di qual signore?" gli domandano. "Del mio signore e padrone il Re di Spagna," risponde il Gerard. Sopraggiungono altri alabardieri e paggi del principe e lo trascinano in città pestandolo coi pugni e coll’else delle spade. Credendo, dai discorsi che intende, che il principe non sia morto, lo sciagurato esclama con una tranquillità sinistra: "Sia maledetta la mano che fallì il colpo."
Questa deplorevole sicurtà d’animo non lo abbandonò un momento. Dinanzi al tribunale, nei lunghi interrogatorii, nella cella dove fu gettato carico di ferri, egli si mantenne inalterabilmente calmo. Sopportò i tormenti che accompagnarono il giudizio, senza lasciarsi sfuggire un grido. Fra un tormento e l’altro, mentre gli aguzzini riposavano, parlava tranquillamente, senza ostentazione. Mentre lo straziavano, sollevando di tratto in tratto dal banco della tortura la testa insanguinata, diceva: «Ecce homo.» Fece più volte ringraziare i giudici del nutrimento che gli accordavano e scrisse di suo pugno le sue confessioni. Era nato a Vuillafans, nella contea di Borgogna, aveva studiato leggi presso un procuratore di Dôle, e là aveva manifestato per la prima volta il suo desiderio d’uccidere Guglielmo, configgendo una daga in una porta e dicendo: "Così vorrei piantare un pugnale nel petto del principe d’Orange!" Tre anni dopo, intesa la notizia del bando di Filippo II, era andato, col disegno dell’assassinio, a Lussemburgo, dove l’aveva arrestato la falsa notizia della morte di Guglielmo corsa dopo l’attentato dell’Jaureguy. Poco dopo, saputo che il principe viveva ancora, aveva ripreso il suo disegno, ed era andato a Malines per chieder consigli ai gesuiti, i quali l’avevano incoraggiato promettendogli che, se fosse morto nell’impresa, sarebbe stato assunto alla gloria dei martiri. Allora era andato a Tournai, s’era presentato ad Alessandro Farnese, aveva ricevuto una conferma delle promesse del re Filippo, era stato approvato e incoraggiato dai confidenti del principe e dai ministri di Dio, s’era fortificato colla lettura della Bibbia, coi digiuni, colle preghiere, e così preso da un’esaltazione divina, sognando gli angeli e il paradiso, era partito per Delft e aveva compiuto «il suo dovere di buon cattolico e di suddito fedele.»
Ripetè più volte le sue confessioni ai giudici; non pronunziò una parola di rammarico o di pentimento; si vantò anzi del suo delitto; disse ch’era un nuovo Davide che aveva atterrato un nuovo Golia; dichiarò che se non avesse ancora ucciso il principe d'Orange, sarebbe stato disposto ad ucciderlo; il suo coraggio, la sua calma, il suo disprezzo della vita, la sua profonda convinzione d’aver compiuto una missione santa e di morire glorioso, sgomentò i suoi giudici; fu creduto invaso dal demonio; si fecero delle indagini; fu interrogato egli stesso; ma rispose sempre che non aveva mai avuto relazione che con Dio.
La sentenza gli fu letta il 14 luglio; fu un delitto, come dice uno storico illustre, contro la memoria del grand’uomo che voleva vendicare; una sentenza da far cadere svenuto uno che non avesse la sua sovrumana fortezza.
Fu condannato ad aver la mano chiusa ed arsa in un tubo di ferro infocato; le braccia, le gambe e le coscie dilaniate con tanaglie roventi; il ventre squarciato, strappato il cuore e sbattutogli sul viso; la testa spiccata dal busto e confitta sopra una picca; il corpo fatto in quattro, e ogni parte appesa a una forca sopra una delle porte principali della città.
Udendo l’enumerazione di questi supplizi orrendi, quello sciagurato non impallidì, non fece un segno che significasse terrore, o dolore, o stupore. Aperse il suo vestito, mise a nudo il suo petto, e con voce ferma, fissando gli occhi imperterriti in viso ai suoi giudici, ripetè le sue solite parole: «Ecce homo!»
Che cos’era quest’uomo? Soltanto un fanatico, come molti credettero, o un mostro di scelleratezza, come ritennero altri, o le due cose insieme, aggiuntavi un’ambizione forsennata? Il giorno dopo fu eseguita la sentenza. Gli apparecchi del supplizio furono fatti sotto i suoi occhi: egli li guardò con indifferenza. L’aiutante del carnefice cominciò per spezzare a colpi di martello la pistola, strumento del delitto. Al primo colpo, la testa del martello cadde e ferì nell'orecchio un altro aiutante: il popolo rise, il Gerard rise pure. Quando salì sul patibolo il suo corpo era già orribile a vedersi. Mentre la sua mano crepitava e fumava nel tubo rovente, stette muto; mentre le tanaglie infocate gli laceravano le carni, non gettò un grido; quando il coltello gli penetrò nelle viscere, chinò la testa, e mormorando qualche parola incomprensibile, spirò.
La notizia della morte del principe d’Orange aveva sparso nel paese una costernazione immensa. Il suo corpo fu esposto per un mese sur un letto funebre, intorno al quale il popolo accorse a inginocchiarsi ed a piangere. I suoi funerali furon degni d’un re: v’intervennero gli Stati Generali delle provincie unite, il Consiglio di Stato, gli Stati d’Olanda, i magistrati, i ministri della religione, i principi della casa di Nassau; dodici gentiluomini portavano la bara; quattro gran signori tenevano i cordoni del panno mortuario; seguiva il cavallo del principe, splendidamente bardato, condotto dal suo scudiero; e si vedeva, in mezzo al corteo dei conti e dei baroni, un giovane di diciott’anni, che doveva raccogliere la gloriosa eredità del defunto, umiliare gli eserciti spagnuoli, e costringere la Spagna a chieder tregua, e a riconoscere l’indipendenza delle provincie unite. Quel giovane era Maurizio d’Orange, figlio di Guglielmo, al quale gli Stati d’Olanda, poco tempo dopo la morte del padre, conferirono la dignità di Statoldero, e affidarono poi il comando supremo delle forze di terra e di mare.
E mentre l'Olanda piangeva la morte del principe d’Orange, in tutte le città soggette al re di Spagna il clero cattolico festeggiava l’assassinio e l’assassino; i gesuiti lo esaltavano come un martire; l’Università di Louvain pubblicava la sua apologia; i canonici di Bois-le-Duc cantavano il Te Deum. Qualche anno dopo, la famiglia del Gerard riceveva dal re di Spagna un titolo di nobiltà e le terre del principe d’Orange confiscate nella Borgogna.
La casa dove il principe d’Orange fu assassinato, esiste ancora; è un edificio d’aspetto cupo, con finestre centinate e una stretta porta, che forma parte del chiostro d’una antica chiesa consacrata a sant’Agata, e porta ancora il nome di Prinsenhof benchè serva ora di caserma all’artiglieria. Domandai il permesso d’entrare all’ufficiale di guardia; un caporale, che sapeva un po’ di francese, mi accompagnò; attraversammo un cortile pieno di soldati e arrivammo al luogo memorabile. Vidi la scala che saliva il principe quando fu ferito, l’angolo oscuro dove s’era rimpiattato il Gerard, la porta della sala dove lo sventurato Guglielmo desinò per l’ultima volta, e le traccie delle palle nel muro, in un piccolo spazio imbiancato, con un’iscrizione olandese che rammenta che là morì il padre della patria. tria. Il caporale mi accennò per dove era fuggito l’assassino. Mentre io guardavo intorno con quella curiosità pensierosa che si prova nei luoghi di grandi delitti, salivano e scendevano soldati; si soffermavano a guardarmi e poi scappavano cantando e fischiando; altri mi ronzavano intorno; alcuni ridevano forte nel cortile; e tutta quell’allegria giovanile faceva colla triste solennità delle memorie del luogo, un contrasto vivo e commovente, come una festa di fanciulli nella stanza dov’è morto l’avo di cui hanno cara la memoria.
In faccia alla caserma, v’è la più antica chiesa di Delft, che contiene la tomba di quel famoso ammiraglio Tromp, il veterano della marina olandese, che vide trentadue battaglie di mare, sconfisse nel 1652, alla battaglia detta delle Dune, la flotta inglese, comandata dal Blake, e rientrò in patria con una scopa appesa al grand’albero della nave ammiraglia, per indicare che aveva spazzato gl’inglesi dal mare. V'è la tomba di Pietro Hein, che diventò di semplice pescatore grande ammiraglio e fece quella memorabile retata di bastimenti spagnuoli che portavano nei fianchi più di undici milioni di fiorini. V’è la tomba del Leuwenhoek, il padre della scienza dell’infinitamente piccino, quegli che col vetro indagatore, come dice il Parini, vide a nuoto nell'onda genitale il picciol uomo. La chiesa ha un alto campanile sormontato da quattro torricine coniche, e inclinato come la torre di Pisa, per essergli ceduto sotto il terreno. In una cella di questo campanile fu rinchiuso il Gerard la notte che seguì l’assassinio.
A Rotterdam m’avevan dato una lettera per un cittadino di Delft, colla quale lo pregavano di farmi vedere la sua casa. «Egli desidera» diceva la lettera «di penetrare i misteri d’una vecchia casa olandese: sollevategli per un momento la cortina del santuario.» Non mi fu difficile di trovar la casa, e appena la vidi, dissi tra me: — È il fatto mio!
Era una casetta all’estremità d’una strada che finiva nella campagna, d’un sol piano, rossa, colla facciata a collo, posta quasi sull’orlo d’un canale, e un po’ inclinata innanzi come per specchiarsi nell’acqua, con un bel tiglio davanti che si allargava sulle finestre come un grande ventaglio; e un ponte levatoio in dirittura della porta. V'eran le tendine bianche, la porta verde, i fiori, gli specchietti; era un modellino di casa olandese.
La strada era deserta; prima di picchiare alla porta, stetti un po’ a guardare e a pensare. Quella casa mi faceva capire l’Olanda meglio di tutti i libri che avevo letti. Era insieme l’espressione e la ragione dell’amor della famiglia, dei desiderii modesti, dell’indole indipendente del popolo olandese. Nei nostri paesi non c’è la vera casa; non ci sono che scompartimenti di caserme, abitazioni astratte, che non han nulla di nostro, nelle quali viviamo nascosti, ma non soli, udendo mille rumori di gente estranea, che turba i nostri dolori coll’eco delle sue gioie, o le nostre gioie coll’eco dei suoi dolori. La vera casa è in Olanda, la casa personale, distinta dalle altre, pudica, circospetta, e appunto perchè distinta dalle altre, nemica dei misteri e degl’intrighi; tutta lieta, quando è lieta la famiglia che l’abita, e quando questa è trista, tutta trista. In quelle case, con quei canali e quei ponti levatoi, ogni modesto cittadino sente un po’ della dignità solitaria d’un castellano, o di un comandante di fortezza, di un capitano di bastimento; e vede infatti dalle sue finestre, come da quelle di un bastimento immobile, una pianura uniforme e sconfinata, che gl’ispira gli stessi pensieri e gli stessi sentimenti liberi e gravi che ispira il mare. Gli alberi che circondano la sua casa quasi d’un vestimento di verzura, non ci lasciano penetrare che una luce rotta e discreta; la barca carica di mercanzie scivola mollemente davanti alla sua porta; non ode scalpitio di cavalli, non chiocchi di frusta, non canti, non grida; intorno a lui tutti i movimenti della vita son silenziosi e lenti; tutto spira pace e dolcezza; e il campanile della chiesa vicina gli annunzia l’ora con un’onda d’armonia riposata e costante come i suoi affetti e il suo lavoro.
Picchiai alla porta, mi aprì il padron di casa, gli porsi la lettera, lesse, mi diede uno sguardo scrutatore e mi fece entrare. Segue così quasi sempre. Gli Olandesi, di primo abbordo, son diffidenti. Noi, al primo venuto che ci porta una lettera di raccomandazione, apriamo le braccia come se fosse il nostro più intimo amico; e spesso poi non facciamo per lui il bellissimo nulla. Gli Olandesi, invece, accolgono freddamente, qualche volta anzi in un modo che fa rimaner lì quasi mortificati; ma poi vi prestano mille servigi, colla migliore volontà del mondo, e senz’aver mai l’aria di fare una cortesia.
Il di dentro della casa corrispondeva perfettamente al di fuori: pareva l’interno d’un bastimento. Una scala a chiocciola, di legno, lucente come l’ebano, conduceva alle stanze alte. Sulla scala, dinanzi alle porte, sugli impiantiti, v’erano stuoie e tappeti. Le stanze eran piccine come celle; i mobili nitidissimi; le lastre, le maniglie, i chiodi, le borchie, tutti gli ornamenti di metallo, luccicanti come se fossero usciti allora dalle mani del brunitore; e da ogni parte v’era un ripieno di vasi di porcellana, di tazze, di lumi, di specchi, di quadretti, di stipi, di cantoniere, di ninnoli, di oggettini d’ogni forma e d’ogni uso, meravigliosamente puliti, che attestavano i mille piccoli bisogni che crea l’amore della vita sedentaria, l’attività previdente, la cura continua, il gusto del piccino, il culto dell’ordine, l’economia industriosa dello spazio, il soggiorno, in fine, d’una donna casalinga e tranquilla.
La Dea di quel tempietto, che non parlava o non osava parlare il francese, era nascosta in non so qual penetrale che non mi riuscì d’indovinare.
Scendemmo a veder la cucina: era uno splendore. Quando tornai a casa, ne feci la descrizione, in presenza di mia madre, alla fantesca, che si picca di pulizia, e rimase annichilita. Le pareti erano bianche come la neve intatta; le casseruole riflettevano gli oggetti come specchi; la cappa del cammino era ornata d’una specie di tendinetta di mussolina come il cielo d’un letto, senza la menoma traccia di fumo; il muro, sotto la cappa, era rivestito di lastrine quadrate di maiolica, pulite come se non ci avessero mai acceso il fuoco; gli alari, la paletta, le molle, le asticciuole della catena, parevan d’acciaio brunito. Una signora vestita da ballo avrebbe potuto girar per quella stanza, ficcarsi in tutti gli angoli e toccare ogni cosa, senza contaminare d’un punto nero la sua bianchezza.
In quel mentre la fantesca faceva la pulizia, e il mio ospite la commentava: “Per avere un’idea di cos’è la pulizia da noi,” diceva “bisognerebbe tener dietro per un’ora al lavoro di queste donne. Qui s’insapona, si lava e si spazzola una casa tal e quale come una persona. Non è una pulitura, è una toeletta. Si soffia nella commessura dei mattoni, si fruga negli angoli colle unghie e cogli spilli, si fa una pulizia minuta al segno da stancare la vista non meno delle braccia. È una vera passione nazionale. Queste ragazze, che sono ordinariamente flemmatiche, il giorno stabilito per la pulizia, escono dal loro carattere, diventan frenetiche. Allora noi non siamo più padroni della casa. C'invadono le stanze, ci scacciano, ci spruzzano, mettono ogni cosa sottosopra; per loro è un tripudio; sono come le baccanti della pulizia; si esaltano lavando.”
Gli domandai da che credeva che derivasse questa sorta di mania per cui è famosa l’Olanda. Mi disse le ragioni che mi dissero poi mille altri: l’atmosfera del loro paese che intacca straordinariamente il legno e i metalli; l’umidità, la ristrettezza delle case e la moltiplicità degli oggetti, che favoriscono il sudiciume; la sovrabbondanza dell’acqua che agevola il lavoro; un certo bisogno dell’occhio, a cui la pulizia finisce col parere bellezza; e infine, l’emulazione che spinge tutte le cose all’eccesso. “Ma non è questa” soggiunse “la parte più pulita dell’Olanda: l’eccesso, il delirio della pulizia lo vedrà nelle provincie settentrionali.”
Uscimmo a passeggiare per la città. Non era ancora mezzogiorno: si vedevano serve da tutte le parti, vestite tale e quale come quelle di Rotterdam. Cosa singolare, tutte le donne di servizio, in Olanda, da Rotterdam a Groninga, da Haarlem a Nimega, sono vestite dello stesso colore: un vestito lilla chiaro, tempestato di fioretti, di stelle o di crocine; e per far la pulizia, portan tutte una cuffietta da malate e un paio di enormi zoccoli bianchi. Da principio credetti che formassero tutte insieme una qualche corporazione nazionale che avesse fra i suoi statuti l’uniformità del vestiario. Son per lo più giovanissime, perchè donne attempate non reggerebbero alle fatiche che devon durare, bionde, tonde, con le curve posteriori (osservazione del Diderot) spropositate; pochissime belle, nel senso stretto della parola; ma d’un bianco e d’un roseo meraviglioso, che par che schiattino dalla salute, e ci si debba sentir riavere a premerci la guancia contro la guancia. Le loro forme pienotte e i loro bei colori ricevon poi una grazia particolare dal loro vestire casalingo; sopratutto la mattina che han le maniche rimboccate e il collo scoperto, e lascian vedere dei candori da cherubino. I giovanotti chiamano quella toeletta, con vocabolo olandese, voluttuosa, e a me pare che non abbiano tutti i torti.
A un tratto, mi ricordai d’un appunto preso sul mio quaderno prima di partire per l’Olanda, mi fermai, e feci al mio compagno questa domanda:
“Le serve son anche in Olanda il tormento eterno delle signore?”
Qui mi tocca fare un po’ di parentesi. È noto e arcinoto che le signore non tanto altolocate da non aver che fare direttamente colle loro donne di servizio, le signore, voglio dire, che hanno una donna sola, che fa da cuoca e da cameriera, discorrono, nelle loro visite, per una buona parte del tempo, della loro serva. Son sempre gli stessi discorsi di difetti insopportabili, d’insolenze sopportate, di tu per tu, di ruberie sulla spesa, di sperperi, di menzogne, di pretensioni sfrontate, di congedi e di ricerche e d’altre calamità consimili, che finiscon sempre nel ritornello doloroso: che serve oneste e fidate, come quelle d’una volta che s’affezionavano alle famiglie e invecchiavano nelle case, non ci son più; che bisogna cambiare di continuo; che non c’è più modo di tirare innanzi. È vero? non è vero? è una conseguenza della libertà e dell’eguaglianza delle classi, che ha reso più duro il servire e più esigente chi serve? è un effetto del rilassamento dei costumi e della disciplina pubblica, che si fa sentire anche in cucina? Comunque sia, il fatto è che io pure in casa mia sento battere eternamente quel chiodo, tanto che un giorno, prima di partire per la Spagna, dissi a mia madre: “Guarda, se qualche cosa, a Madrid, potrà consolarmi della lontananza della famiglia, sarà il non sentir più toccare quest’odioso argomento.” Arrivo a Madrid, entro in una Casa de Huespedes, la prima cosa che mi dice la padrona è che ha cambiato tre serve in un mese, che è una disperazione, che non si sa più a che santo voltarsi; e così ogni giorno, per tutto il tempo che stetti là, una lamentazione infinita. Tornai a casa, raccontai la cosa, si rise, e mia madre concludette che quella doveva essere una piaga di tutti i paesi. “No,” io dissi, “nei paesi del Nord non dev’essere così.” — “Vedrai e me ne darai notizie,” mi rispose mia madre. Vado a Parigi, e alla prima signora che conosco, domando: “Le serve sono anche qui come in Italia e in Spagna l’eterno tormento delle signore?” “Ah! mon cher monsieur” mi risponde giungendo le mani e alzando gli occhi al cielo; “ne me parlez pas de ça!” E lì una lunga storia di lotte, di espulsioni, di guai. Scrivo la cosa a mia madre, ed essa mi risponde: “Vedremo Londra.” Vado a Londra, entro in conversazione con una signora inglese a bordo del bastimento che mi conduce ad Anversa, e dopo poche parole, spiegatale prima la ragione della mia curiosità, le faccio la solita domanda. Essa volta la testa da un’altra parte mettendosi una mano sulla fronte e poi risponde spiccicando le parole: “Sono il fla-gel-lum De-i!” Scrivo a casa dandomi per vinto, soggiungendo però che mi resta una buona speranza per l’Olanda, paese quieto, dove le case sono tanto ordinate e pulite, e la vita casalinga così dolce; e mia madre mi risponde che essa pure propende a fare un’eccezione onorevole per l’Olanda. Ma il dubbio rimaneva sempre a lei ed a me, io ero curioso ed essa aspettava le notizie; ecco perchè feci quella domanda al mio cortese Cicerone di Delft. Ora ognuno si può immaginare con che ansietà io stessi aspettando la risposta.
“Signore” mi rispose l’olandese dopo un momento di riflessione, “le risponderò una cosa sola, ed è che in Olanda abbiamo un proverbio, il quale dice che le serve sono le croci della vita.”
Mi cascarono le braccia.
“Prima di tutto,” continuò, “c’è il guaio che, per poco che s’abbia una casa grande, bisogna tenerne due, una per la cucina e una per la pulizia, essendo quasi impossibile, con quella mania che hanno di lavare fin l’aria, che una sola faccia le due cose. Poi son tutte assetate rabbiose di libertà; vogliono star fuori la sera fino alle dieci; avere di tratto in tratto una giornata completamente libera. Poi bisogna tollerare che il loro fidanzato o altro le venga a pigliare in casa; tollerare che ballino per la strada; tollerare che facciano il diavolo nelle feste delle Kermess. Di più, quando si congedano, aspettare che se ne vadano quando piace a loro, e qualche volta si fanno aspettare dei mesi. Oltre a questo, una paga di novanta, di cento fiorini all’anno. Oltre la paga, un tanto per cento su tutti i pagamenti che fa il padrone; mancie, di stretto rigore, da tutti gli amici invitati; regali straordinarii di denaro e di robe; e soprattutto e sempre, pazienza, pazienza, pazienza.”
Ne sapevo abbastanza per parlarne in cattedra con mia madre, e rivolsi la conversazione sopra un argomento meno sconsolante.
Passando per una stradetta appartata, vidi una signora che s’avvicinò a una porta, lesse in un pezzetto di carta che v’era attaccato su, fece un atto di dolore e se n’andò. Dopo un momento, un’altra donna che passava, si fermò, lesse e tirò via. Domandai una spiegazione al mio compagno, il quale mi fece conoscere un uso assai curioso degli Olandesi. Su quel pezzetto di carta v’era scritto che il malato tale dei tali stava peggio. In molte città di Olanda, quando uno s’ammala, la famiglia affigge ogni giorno alla porta il bullettino sanitario, perchè gli amici e i conoscenti non abbian da entrare in casa a domandar notizie. Questa sorta d’annunzi si usano anche in altre occasioni. In certe città si annunzia la nascita d’un bambino appendendo alla porta una palla fasciata di seta rossa e di trina, il cui nome in olandese significa: prova di nascita. Se è una bambina, v’è su un pezzetto di carta bianca; se son gemelli, la trina è doppia; e per alcuni giorni dopo la nascita, si affigge pure un avviso che dice: “Il bimbo e la puerpera stanno bene, hanno passato una buona notte” o il contrario, secondo il caso. Una volta, quando sopra una porta c’era un annunzio di nascita, per nove giorni i creditori della famiglia non potevano picchiare alla porta; ma credo che quest’uso sia caduto, benchè dovesse avere la benefica virtù di promuovere l’accrescimento della popolazione.
In quella breve passeggiata per le strade di Delft, incontrai pure certe figure funebri che avevo già viste a Rotterdam, senza capire se fossero preti magistrati o becchini, perchè il loro vestiario e il loro aspetto avevan un po’ delle tre cose. Portavano un cappello a tre punte, con un gran velo nero che scendeva sui fianchi, un vestito nero a coda di rondine, calzoni corti e neri, calze nere, mantello nero, scarpe con fibbie, cravatta e guanti bianchi; e un foglio listato di nero fra le mani. Il mio compagno mi spiegò che si chiamavano con un vocabolo olandese intraducibile aansprekers, e che il loro ufficio era di portar l’annunzio delle morti ai parenti ed amici dei defunti e di annunziarle per le strade. Il loro vestiario cangia in qualche particolare da paese a paese, e secondo che son cattolici o protestanti. In certe città hanno un enorme cappello alla don Basilio. Son per lo più pulitissimi e qualche volta vestiti e pettinati con una ricercatezza che contrasta irreverentemente col loro carattere d’impiegati della morte o, come li definì un viaggiatore, di lettere mortuarie viventi.
Ne vedemmo uno fermo dinanzi a una casa. Il mio compagno mi fece osservare che le finestre di quella casa aveva le imposte socchiuse, e mi disse che ci doveva esser morto qualcuno. Domandai chi. “Non lo so,” mi rispose “ma a giudicar dalle imposte non dev’essere un parente molto prossimo del padrone di casa.” Quest’argomentazione parendomi un po’ strana, egli mi spiegò che in Olanda, quando muore qualcuno in una famiglia, si chiudono le finestre con uno due o tre dei battenti mobili delle imposte, secondo che il parente è più o meno stretto. Ogni battente dinota un grado di parentela. Per il padre o la madre si chiudon tutti meno uno, per un cugino se ne chiude un solo, per un fratello due; e via discorrendo. Uso, c’è da credere, molto antico, e che dura ancora perchè in quel paese nessun uso si smette per capriccio, e si cangia soltanto quello che importa seriamente di cangiare, e dopo essersi arcipersuasi che si cangia in meglio.
Avrei voluto vedere, a Delft, la casa dov’era la birreria del pittore Steen, e dove egli prese probabilmente quelle sbornie famose, che furono oggetto di tante questioni fra i suoi biografi. Ma il mio ospite mi disse che non ce n’era memoria. Però, a proposito di pittori, mi diede la gradita notizia che io mi trovavo in quella parte dell’Olanda compresa fra Delft, l’Aja, il mare, la città d’Alkmar, il golfo d’Amsterdam e l’antico lago d’Harlem, la quale si potrebbe chiamare propriamente la patria della pittura olandese, e perchè i più grandi pittori vi nacquero, e perchè, presentando degli aspetti singolarmente pittoreschi, l’amarono e la studiarono con predilezione. Ero dunque proprio nel seno dell’Olanda e partendo da Delft mi sarei sprofondato nel suo cuore.
Prima di partire, vidi ancora di sfuggita l’arsenale militare che occupa un grande edifizio, il quale serviva prima di magazzino alla Compagnia delle Indie orientali, e comunica con un’officina d’artiglieria e una gran polveriera posta fuori della città. V'è ancora, a Delft, la grande scuola politecnica degl’ingegneri, la vera scuola di guerra dell’Olanda, dalla quale escono gli ufficiali dell’esercito di difesa contro il mare, e son questi giovani guerrieri delle dighe e delle cateratte, trecento circa, che danno vita alla tranquilla città di Grozio. Mentre mettevo il piede nella barca che mi doveva condurre all’Aja, il mio olandese mi descriveva l’ultima festa quinquennale celebrata a Delft dagli studenti; una di quelle feste particolari dell’Olanda, specie di mascherate storiche, che sono come un riflesso della sua grandezza passata, e servono a mantener viva nel popolo la tradizione dei personaggi e degli avvenimenti illustri d’altri tempi. Una grande cavalcata rappresentava l’entrata in Arnhem nel 1492 di Carlo d’Egmont, duca di Gheldria, conte di Zuften; di quella famiglia d’Egmont, che diede col nobile e sventurato conte Lamoral la prima grande vittima della libertà olandese alla scure del duca d’Alba. Duecento studenti a cavallo, con bardature principesche, con armature, con cotte d’armi dorate e stemmate, agitando alteramente i grandi pennacchi e le grandi spade, formavano il corteggio del duca di Gheldria. Seguivano gli alabardieri, gli arcieri, i lanzichenecchi vestiti delle foggie pompose del decimoquinto secolo; suonavan le bande musicali; la città brillava tutta di lumi; e per le sue strade formicolava una folla immensa accorsa da ogni parte d’Olanda a godere quella splendida visione d’un’età lontana.