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208 L'AJA.

esce dal villaggio e ci si trova in faccia alle dune. Il cielo comincia a oscurarsi ed io comincio ad inquietarmi. Domando all’amico dove si va e l’amico mi risponde: — Alla ventura. — C'inoltriamo in mezzo alle dune, per stradicciuole sabbiose e serpeggianti; non si vede più indizio d’abitazione da nessuna parte; si sale, si scende; il vento ci getta la sabbia nel viso, i piedi s’affondano; il paese si fa sempre più arido, accidentato, sinistro. “Ma chi è questo vostro parente,” dico al mio compagno, “dove vive, che cosa fa? Qui c’è sotto qualche diavoleria; non può essere un uomo come un altro; ditemi dove mi conducete.” L’amico non risponde, s’arresta e guarda davanti a sè; guardo io pure e vedo lontano un qualche cosa che somiglia a una casa, sola nel mezzo del deserto, quasi nascosta da un rialto del terreno. Affrettiamo il passo, la casa sparisce e riapparisce come un’ombra. Vi si vedono intorno delle antenne che presentan la forma di patiboli, e il mio amico mi vuol far credere che sono le antenne dei nidi delle cicogne. Arriviamo a un centinaio di passi: vediamo lungo un muro un condotto di legno che par bagnato di sangue; il mio amico mi dà ad intendere che è colorito di rosso. La casa è piccola, circondata da uno stecconato; le porte e le finestre son chiuse. “Non entriamo,” dico io; “siamo ancora in tempo, in quella casa c’è qualche stregoneria, badate a quello che fate, guardate in su: io non ho mai visto un cielo così nero.” L’amico non mi dà retta, s’avanza coraggiosamente, io lo seguo.